Lettera 5 (Prima Serie)

Agli amici

Cari amici, come abbiamo cercato di chiarire fin dall’inizio, la Chiesa locale ha rappresentato per noi una scelta di fondo e, nello stesso tempo, un preciso metodo di lavoro. Per questo abbiamo circoscritto la nostra ricerca alla Chiesa di Roma, evitando qualsivoglia divagazione o discorso più generale che potesse sminuire la scelta iniziale. Tuttavia abbiamo spesso avvertito l’esigenza di alcune analisi più ampie che contribuissero a meglio spiegare la stessa realtà ecclesiale locale, ripromettendoci di cogliere una qualche occasione favorevole per poterlo fare.

Ora viene opportunamente incontro ai nostri propositi l’iniziativa di un gruppo di amici di Fontanella di Sotto il Monte, in provincia di Bergamo. Essi, in modo assai semplice ed immediato, hanno voluto aprire un dialogo con tutte le persone disposte a raccogliere l’invito. Già con la denominazione di “Lettere ’69” si é subito caratterizzata l’iniziativa nel suo valore di scambio di esperienze non già di occasione per presentare una linea di pensiero o di azione di un gruppo di persone.

Ed é proprio in forma epistolare che il colloquio é stato avviato, con una lettera di Raniero La Valle che cerca di fare il bilancio della stagione ecclesiale che viviamo e di individuare scelte e valori che possano spingere innanzi un reale processo di maturazione nella chiesa.

Abbiamo riflettuto sulle parole dell’amico La Valle, apprezzando vivamente l’intenzione di stabilire una “comunicazione di esperienza, di atteggiamenti spirituali, di documenti”. Anche noi, attraverso le pagine de “La Tenda” ci siamo impegnati nella medesima direzione, pur con l’attenzione tutta rivolta alla nostra Chiesa locale.

Abbiamo perciò voluto offrire agli amici, fra le varie occasioni di ripensamento, proprio questa di “Lettere ’69”, così chiara nelle premesse e nei propositi, oltreché viva e stimolante.

Questa é la ragione per cui vi facciamo giungere, insieme a “La Tenda”, le prime pagine di “`Lettere ’69” di ottobre, rammaricandoci di non poter inviare, per esigenze connesse alla spedizione, l’intero numero. Crediamo così di contribuire alla riflessione sulla presente condizione della Chiesa e sulle scelte che si impongono a ciascun membro del popolo di Dio.

Informiamo coloro che vorranno stabilire un contatto più diretto che la corrispondenza dovrà essere indirizzata a:“Lettere ’69”, 24039 Fontanella di Sotto il Monte (Bergamo). La pubblicazione viene gratuitamente inviata a tutti coloro che ne faranno richiesta.

Informiamo ancora che gli amici di “Lettere ’69”, nell’intento di creare anche un’occasione di contatto personale, hanno pensato ad alcuni incontri in diverse città italiane, fra cui uno da tenersi a Roma sabato 20 dicembre p.v. Di esso daremo più precise informazioni nel numero di dicembre.

Augurando a tutti voi una proficua riflessione su quanto ci siamo permessi di sottoporvi, vi salutiamo fraternamente

il gruppo “La Tenda”

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Riflessioni Sul Clero Romano

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Nel numero tre de “La Tenda” abbiamo cercato di presentare lo stato del clero diocesano di Roma fino all’anno 1930. Intorno a questa data si accentra il sommovimento demografico ed urbanistico della città. Si osservi la seguente

TABELLA 8 POPOLAZIONE DELLA DIOCESI DI ROMA DAL 1900 AL 1967

(Annuario della Diocesi di Roma, 1968, pag. 756)

Decadi Abitanti anno indicato Aumento decennale Aumento medio annuale

1900 435.215

1910 512.336 +77.121 +7.712

1920 662.451 +150.115 +15.011

1930 945.621 +283.170 +28.317

1940 1.310.677 +365.056 +36.505

1950 1.693.398 +382.721 +38.272

1960 2.048.847 +35.544

1967 2.630.535 +581.688 +83.098

Dal 1900 Roma aumenta di 7.000 abitanti l’anno. É l’incremento naturale. Dal 1910 l’aumento annuo si raddoppia. Dal 1920 si triplica (15.000), dal 1930 si quadruplica (28.000).

Dal 1930 al 1960 l’aumento annuo viene indicato intorno ai 30-35.000 abitanti. In realtà i nuovi cittadini (e parrocchiani) sono ben più numerosi perché non tutti gli immigrati possono iscriversi come residenti; lo potranno dopo il 1960 e di colpo in questi anni la media indicherà 80.000! Ma molti erano già a Roma da tempo.

Nel 1931 (anno dal quale riprendiamo le nostre note), deceduto il cardinal Pompili, vicario dal 1913, Pio XI nomina vicario il Cardinal Marchetti; terrà il suo posto 20 anni. Consideriamo per ora il suo primo decennio di azione (1931-1940). Il Cardinal Marchetti é uomo di carattere deciso, persino duro, ed affronta con decisione quei problemi della diocesi che gli si presentano più urgenti.

Ne avremo un programma organico e linee di azione predeterminate. Egli pensa di dover far fronte alla richiesta di servizio religioso di una città che nel 1930 é più del doppio rispetto al 1900, sarà più del triplo nel 1940, e più del quadruplo nel 1950 (rispettivamente 400.000, 900.000, 1.300.000 e 1.700.000 abitanti). Bisognerà aprire nuove chiese e disporre di molto clero. I criteri ai quali si atterrà per far fronte a quelle necessità saranno: primo: uso razionale del clero disponibile; secondo: pianificazione della costruzione degli edifici di culto. Due problemi quindi: personale e impianti. Del secondo aspetto, impianti, ci occupiamo a parte, fin da questo numero de “La Tenda”, seguendo le vicende dello strumento appositamente creato: la “Pontificia opera per la preservazione della fede”. Del primo aspetto, clero e sua utilizzazione, continuiamo a trattare in queste note.

Il clero che raggiunge il 1930 lo abbiamo presentato nel numero 3 de “La Tenda”. Il Card. Marchetti non agisce direttamente su di esso, forse ritenendolo inutilizzabile per un lavoro “moderno”. Agisce invece sul nuovo clero che esce dai seminari. Vengono ostacolate le vocazioni alla curia e alla diplomazia in favore della parrocchia.

La parrocchia viene rivalutata agli occhi degli aspiranti al sacerdozio; si guarda sempre più a modelli come il Curato d’Ars, il Santo parroco Pio X ecc. Chiusi così, per la maggior parte del clero diocesano, i due canali di fuga (curia e diplomazia), si é nella possibilità di far fronte alle crescenti richieste di personale. Questa misura va seriamente valutata; anzitutto, fuori dal nostro precipuo argomento, diciamo che essa é collegata alla italianizzazione della curia. Ci si potrebbe chiedere quanto questo fenomeno, spesso presentato come scelta ispirata alla universalità della chiesa, sia invece in relazione immediata con la indisponibilità di clero romano. Quanto alla diocesi, la misura adottata sa di facile rimedio: é puramente l’organismo che sotto lo sforzo comincia ad intaccare i suoi grassi non ricevendo più nutrimento sufficiente. É l’esercito che allargandosi il fronte, mette in prima fila le riserve; e poi?

Al poi si pensa, é vero. Si faranno nelle chiese le giornate per le vocazioni; l’“Opera per le vocazioni ecclesiastiche” (OVE) inviterà per 30 anni a “preghiere, sacrifici, offerte” per sostenere il seminario; ma la domanda vera: “perché il rapporto sacerdoti/fedeli é cresciuto? cosa non funziona nella comunità che dopo due millenni non esprime più i suoi preti?”, questa domanda non verrà mai posta.

Ancora una volta non attribuiamo a colpa di questo tempo una modalità di pensiero che con benevolenza può attribuirsi alla lucidità teologica di tempi successivi ed a possibilità di ricerca socio-religiosa che non erano nel patrimonio di Roma e dell’Italia. Limitiamoci ancora a descrivere il periodo in se stesso. Canalizzazione del clero verso la parrocchia, abbiamo detto. E secondo, soprattutto, profonde modificazioni nella vita della parrocchia e del clero, imposte per via amministrativa in funzione del lavoro.

Si stabiliscono le parrocchie di dieci quindicimila abitanti che diventano la regola. Si provoca così una centralizzazione dei servizi religiosi di quartiere (per quel che riguarda gli impianti vedi l’articolo a parte). Perché risponda alla nuova “pastorale” di quartiere si impongono nella vita del clero romano modificazioni profonde che non hanno uguale in città pur alle prese con gli stessi problemi (p.e. Milano, Napoli). In sostanza il prete é concepito come addetto al servizio della parrocchia e di quanti si rivolgono ad essa: é l’uomo-culto. Il clero viene alloggiato nell’edificio parrocchiale perché possa essere disponibile 24 ore su 24 e con evidenti semplificazioni logistiche che permetteranno anche di trascurare per lungo tempo i problemi finanziari personali dei sacerdoti. Viene imposta una forma di vita “comunitaria” che lega tra loro e all’edificio i sacerdoti della parrocchia. Le possibilità di una vita personale, di una “privacy” diremmo oggi, decadono; un reale rapporto con la città e le sue esperienze culturali si fa difficile e viene esplicitamente ostacolato,proibito. Sotto forma di divieti si rinnovano antiche impossibili consuetudini: i preti sono invitati ad essere in casa quando fa buio, é vietato l’accesso ai pubblici spettacoli, ai luoghi di normale incontro come bar, ristoranti, persino alle manifestazioni d’arte.

Da parte sua il lavoro nelle parrocchie si impoverisce sempre più: diventa ripetizione continua di azioni sacramentali (sempre, anche causa il latino, sprovviste di catechesi sacramentale e pre-sacramentale), lavoro di archivio (l’ufficio parrocchiale), assistenza ai ragazzi.

É obbligatoria infatti l’Azione Cattolica; un po’ perché organizzazione di massa che può pesare in un confronto con l’autorità civile, ma anche tentativo di animare una vita comunitaria più profonda nell’anonimato, che é ormai regola, della grande massa parrocchiale. Nasce la figura della parrocchia a cerchi concentrici: clero, azione cattolica, parrocchiani: un fantasma che non ha ancora cessato di ingombrare la mente di chi pensa, in Italia, alla struttura del popolo di Dio. Ma torniamo a noi.

L’Azione Cattolica, accanto a veri valori di apostolato e di formazione laicale, si carica di aspetti dopolavoristici. Il peso di questa nuova attività parrocchiale viene fatto ricadere sul nuovo clero. I preti giovani vedono nell’Azione Cattolica rapporti umani reali e captano, ancora inconsciamente, i valori della piccola comunità, il cui fondo teologico emergerà fra 30 anni. Il clero anziano, come abbiamo detto, non assume in proprio alcun nuovo peso, ma lo trasferisce con tranquilla coscienza sul clero più giovane:“Il parroco compia il suo dovere per se vel per alium, da sé o tramite un altro” dice il codice. Il codice esprime infatti il sistema medievale del vassallaggio. Garantite alcune servitù o funzioni spesso del tutto formali, il parroco può liberamente non agire ed anzi disporre liberamente dei suoi sottoposti.

La figura dei preti sottoposti al parroco viene esaurita dal codice con l’incredibile canone 476 (vedi in appendice dell’articolo).

Così il parroco può trasferire su altri le richieste della autorità che turbano il principio della sua indipendenza. Del resto, come suppone anche il Vescovo che preferisce non infierire, questo clero non é pronto all’incontro con il popolo sulle basi embrionalmente dialogiche che l’Azione Cattolica richiede. La generazione antica si riduce lentamente ai compiti di burocratica amministrazione del complesso edilizio parrocchiale e delle funzioni religiose che in esso si svolgono. Solo luogo d’incontro é l’ufficio parrocchiale nel quale il parroco si intrattiene con i visitatori.

Il clero ordinato dopo il ’30, che raggiungerà la carica di parroco dopo il ’40, accetta il suo nuovo modo di vivere il sacerdozio nelle comunità di Azione Cattolica con entusiasmo; tenta i primi inserimenti liturgici dei laici, la formazione individuale tramite nuove pedagogie e metodologie, assiste quotidianamente la vita dei gruppi, sopporta anche l’aumento del lavoro parrocchiale conseguente l’aumento dei parrocchiani.

Questo tipo di vita che si realizza nella struttura umana delineata poco sopra, impegna totalmente e consuma fortemente. I preti di questa seconda generazione giungeranno alla guida della parrocchia già indeboliti sul piano psico-fisico, assai poveri intellettualmente (quanti “approfondimenti teologici” sui .. testi dell’Azione Cattolica). Per di più affronteranno la guida della parrocchia in un tempo che inciderà su di loro altrettanto pesantemente: il tempo della guerra e del dopoguerra (1940-50). Questi preti, sempre destinati alle parrocchie delle periferie perché giovani, affronteranno situazioni gravi che non hanno alternativa: fame, reduci, disoccupazione, quindi: colonie estive, raccomandazioni, cucine economiche; e poi elezioni del ’46 e del ’48, ultimo balzo in avanti dell’Azione Cattolica, ma si tratta di situazioni provvisorie, destinate prima o poi a sparire, e che soprattutto si presentano in contesti politici, religiosi, teologici assolutamente anormali ed equivoci.

Mancava anche l’intuizione di base di una comunità organica con distinzione di compiti tra clero e laici.

Per questa seconda generazione un doppio periodo di superaffaticamento, e al termine (1950) un’altra classe di parroci é fuori gioco: esauriti dal lavoro giovanile in parrocchie già burocratizzate e dalla parrocchia del dopoguerra, carichi di meriti, certo, ma inadatti anch’essi al nuovo mondo che preme, persino più poveri di qualità umane rispetto al clero anziano a causa di condizioni di formazione, di vita e di lavoro più disumanizzate. La generazione dei parroci quarantenni nel 1950 é ridotta anch’essa ad amministrare parrocchie che deperiscono; non sa rendersi conto di come tanto lavoro sia stato frustrato, né può proporre alla generazione che segue altro che una vita generosamente spesa in un mondo che non riesce a comprendere come possa essere così rapidamente scomparso.

Presentando questa seconda età abbiamo superato il periodo 1930-40, primo decennio del Card. Marchetti, ed abbiamo affrontato il suo secondo decennio di guida della diocesi, 1940-50, primo decennio di Pio XII. Ovviamente il Cardinale non fa che proseguire nella sua prospettiva iniziale e nel settore “clero”, diversamente da quanto gli avviene nel settore “impianti”, può agire effettivamente nella sua linea. Anzi il suo procedimento di utilizzazione del clero é ormai recepito nella diocesi. Ne esce una terza generazione educata con l’occhio ad un modulo parrocchiale già esistente. Preti nel 1940-50 poi parroci nel 1950-60, anni ormai ruggenti; la crisi dell’Azione Cattolica, ad esempio, é piena, a livello dirigenziale, fin dal 1950; ma la personalità del clero é in grave ristagno.

Non diciamo di più sul decennio 40-50 che non vede sostanziali mutamenti e che preannuncia fenomeni a livello di chiesa universale dei quali parleremo più oltre.

Nel 1951, in situazione già gravemente compromessa per l’anzianità e l’isolamento di Pio XII, il Card. Micara succede al Card. Marchetti. Inizia un decennio tristissimo; la città muta a ritmo sempre più accelerato, ma la diocesi é assolutamente immobile. Cominciano a scarseggiare i preti, ma solo si ripetono da parte dell’Opera delle vocazioni Ecclesiastiche gli inviti alla preghiera.

Si moltiplica la cessione di parrocchie ai religiosi, fenomeno che farà di Roma un caso unico (ancora un motivo di unicità della nostra situazione di chiesa locale): per tre quinti le parrocchie di Roma sono affidate agli ordini e alle congregazioni religiose (cfr. tabella 3 su “La Tenda” n. 1, pag. 10). A Milano, per esempio, neppure una. Inizia la ricerca di clero di altre diocesi per far fronte alle necessità più pressanti; Roma diventa luogo di Missione. Si erigono parrocchie in cui si legge un decreto di nomina del parroco e due viceparroci che non esistono; Roma avrà 15 viceparroci cinesi, e un numero imprecisato di spagnoli, maltesi, indiani, ecc. Nasce così una classe di sacerdoti non legati alla diocesi (cfr. nota alla tabella 4 su “La Tenda” n. 2, pag. 8). Questi preti non vengono inseriti nell’organico del clero romano (neppure dopo una tassativa legge di Giovanni XXIII) e restano ancor più scoperti degli stessi viceparroci, con l’oggettiva minaccia di un rinvio alla diocesi di origine (problema umanamente gravissimo ancor oggi).

Iniziano i primi sintomi di difficoltà nella convivenza della parrocchia ed iniziano i trasferimenti da parrocchia a parrocchia a ritmo accelerato. Ci si preoccupa di garantire l’ordine esterno nelle parrocchie e l’uniformità della vita del clero. Il concetto di collegio presbiterale non esiste. In fondo il decennio del Card. Micara non può forse neppure essere riconosciuto per un suo tratto distintivo particolare, che non sia una più ostinata ripartizione di moduli ormai in piena crisi.

Un altro ordine di provvedimenti viene ad aggiungere difficoltà a difficoltà; inizia un movimento liturgico che, favorendo la ricezione dei sacramenti, aggrava il già pesante ritmo di vita del clero e funzionalizza sempre più l’azione sacerdotale. I provvedimenti più incisivi sono (raggruppando quelli di molti anni): nuova legge del digiuno: si potrà ricevere la comunione in qualunque ora del giorno; Messa della sera; permesso di ripetere la celebrazione della Messa anche nei giorni feriali a richiesta; precetto festivo del sabato sera; obbligo di predicare in ogni Messa festiva; corso di prima Comunione da Ottobre a Maggio. Evidentemente nulla é da eccepire su queste decisioni; hanno solo il torto di non essere prese nella cornice di una nuova “politica” ristrutturatrice della comunità. Chi ne paga le spese? Un clero sempre meno numeroso, sempre più immobilizzato nella parrocchia, sempre meno libero. Nessuno si preoccupa di lui? No, qualcosa si fa; delle misure sono di questi anni: viene accorciato il breviario e si inizia un timido riconoscimento di salario minimo …

Con cosciente tristezza abbiamo brevemente ricordato per quali vie convergenti più generazioni di clero romano si siano sovrapposte per formare quella quasi compatta schiera di parroci romani che pesantemente realizza la stasi di pensiero e di azione, di pastorale e di liturgia della nostra diocesi. É così chiuso e superato il decennio degli anni ’50. Chi direbbe, a Roma, che dal 1958 é papa Giovanni XXIII? Nel 1960 il vicegerente Traglia (in carica dal tempo del Card. Marchetti) affianca il troppo anziano ed estraneo Micara. Giovanni XXIII gli affida il Sinodo della chiesa locale di Roma. É un fatto di dimensioni oggettivamente colossali: nasce una nuova prassi, la chiesa locale viene riunita per decidere da sé. Ma nello stesso 1960 commissioni di notabili riunite nel più grande segreto pubblicano 755 articoli che sono monumento funebre e chiusura di tutta la storia passata. Anche il papa ne é deluso. Non resta che sperare nel concilio.

Salus ex gentibus: la salvezza verrà dai barbari.

Appendice: Codice di Diritto Canonico, dal canone 476:

1) Se il parroco a causa della moltitudine dei fedeli o per altre cause non può,

a giudizio del vescovo, da solo aver cura conveniente della parrocchia, gli si

assegnino uno o più vicari (=viceparroci) ai quali sia assegnato un congruo

compenso.

5) Il vicario cooperatore deve abitare nella parrocchia … anzi il Vescovo curi

prudentemente a che abiti nello stesso edificio della chiesa parrocchiale.

7) Il vicario é soggetto al parroco che lo istruisce paternamente e lo dirige nella cura delle anime, vigila su di lui e annualmente riferisce di lui al Vescovo.

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L’Opera Per La Preservazione Della Fede In Roma

Avendo espresso alcune riflessioni iniziali (cfr. “La Tenda” n. 2 pag. 2, “nuove chiese a Roma”) sul problema degli edifici di culto nella nostra diocesi, riteniamo opportuno fornire una sommaria conoscenza dell’ufficio diocesano che ha presieduto alla costruzione di nuove chiese.

Nel 1930, imponendosi in Roma un enorme e pianificato (si fa per dire) sviluppo demografico ed edilizio, la diocesi deve affrontare il problema degli impianti parrocchiali.

Ai responsabili appare subito chiaro come i modesti uffici diocesani siano incapaci con il loro organico a far fronte alla situazione. L’affare viene sollevato a livello “Vaticano” anche e soprattutto perché si devono affrontare rapporti da un punto di forza il più alto possibile.

Il papa costituisce quindi un’apposita “opera pontificia per la preservazione della fede e la costruzione di nuove chiese a Roma”. É un ufficio non situato strutturalmente nell’organico del Vicariato anche se generalmente affidato alla stessa persona del Card. Vicario. É un ufficio più snello, con amministrazione propria e con fondi forniti direttamente dal Vaticano.

Provvede alla “costruzione di nuove chiese in Roma” e al reperimento di aree con tutti i relativi problemi di rapporto con le autorità civili e i poteri finanziari. L’opera mantiene poi la gestione non di tutti i complessi costruiti, ma solo delle chiese, cappelle, luoghi provvisori di culto che non si sostengono autonomamente, specialmente quindi nella estrema periferia e nelle borgate, dove si pensa che la mancanza di strutture ecclesiastiche all’inizio dei nuovi insediamenti possa provocare la scristianizzazione ( é ciò che si intende con l’altra parte della sigla (“preservazione della fede in Roma”).

Per comodità dei lettori diamo la seguente tabella cronologica:

Anno Papa Card. Vicario Segretario Opera

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1930 Pio XI (dal 1922) Marchetti (1931) Ercole

1939 Pio XII

1951 Micara Spallanzani

1958 Giovanni XXII

1960 Traglia (Provica)

1963 Paolo VI

1964 Federici

1968 Dell’Acqua

La tabella permette di individuare diversi periodi di gestione abbastanza ben

identificabili:

Pio XI -Marchetti -Ercole (anni ’30)

Pio XII -Marchetti Ercole (anni ’40)

Pio XII -Micara -Spallanzani (anni ’50)

periodo intermedio, Giovanni XXIII -Traglia (1958-63)

Paolo VI -Dell’Acqua -Federici (anni ’63 ..)

Diamo breve ragione dei criteri che l’Opera ha seguito durante i suoi periodi.

Nel 1930, anno di inizio dell’Opera, i problemi che si affrontano sono: 1) chiese per i nuovi quartieri urbani (seguendo la direzione ovest-sud-est-nord) Prati -Cavalleggeri -Monteverde -Trastevere -Testaccio – Appio Latino -S. Lorenzo -Nomentano -Africano – Salario; grosso modo la prima Roma fuori le mura aureliane. 2) impianti a conduzione centralizzata nelle prime borgate che nascono nella lontana periferia. 3) reprerimento di aree in vista di insediamenti di popolazione.

Primo periodo (anni ’30): Pio XI -Marchetti -Ercole sono persone di grandi capacità organizzative; dal Vaticano, per conto del papa, segue personalmente l’Opera Mons. Montini. Ne nasce un piano generale ben congegnato: 1) per le parrocchie dei quartieri si attua un programma di costruzioni funzionali alla impostazione pastorale delineata in altro articolo. Il complesso parrocchiale comprende Chiesa, un edificio con sale per associazioni a piano terra, un piccolo cortile, casa del clero al primo piano, campo da gioco, cinema. Modello unico con qualche variazione architettonica: queste parrocchie si assomigliano tutte. Stanziamento fisso. Con questi criteri nasce una cinta di parrocchie nei quartieri borghesi tutt’intorno al centro storico di Roma. Qualche esempio, ancora da ovest verso sud: S. Lucia a piazzale Clodio, S. Maria delle Grazie a via Candia, S. Pio V alla Madonna del Riposo, Trasfigurazione e Donna Olimpia a Monteverde, Santi Patroni a Trastevere. Poi, saltando il Tevere e la zona archeologica, Natività a P. Tuscolo, S. Giovanni B. De Rossi all’Appio, e ancora, saltando Casilino e Prenestino non ancora sviluppati, dopo la Nomentana: S. Emerenziana, S. Saturnino al Salario, e i Sacri Cuori di Gesù e Maria a Monte Antenne a chiudere il cerchio. Fa da cornice l’unica chiesa costruita con maggior dispendio, Gran Madre di Dio a Ponte Milvio, in ricordo del concilio di Efeso (433/1933). 2) nella più lontana periferia sorgono dove parrocchie simili a quelle indicate, se la consistenza dell’abitato lo permette, dove cappelle o chiese che restano sotto la gestione dell’Opera, con varietà di soluzioni intermedie per la presenza più o meno consistente di congregazioni religiose che possono sostenere il culto. 3) in terzo luogo l’opera si assicura terreni edificabili anche con lungimiranza. Gli ordini religiosi che stabiliscono case a Roma, ricevono il nullaosta solo dopo un esame accurato della zona abitata; e si evitano nuovi insediamenti nei quartieri “bene” (anche se la densità dei religiosi sarà sempre maggiore in tali quartieri). Si pensa insomma al futuro.

Le chiese urbane di questo periodo sono, come si diceva, uniformi, con poche variazioni architettoniche, grossi parallelepipedi adatti alle folle domenicali di quartiere di 10/15000 “anime”, costruite in buona economia. Sociologicamente parlando, faranno il loro lavoro per 25 anni, fino al tempo dei cristiani a quattro ruote. Ai capi del 1930 non si poteva chiedere di immaginare il dopo 1955. Su questo periodo, vista come sempre nella sua ottica, il giudizio é largamente positivo.

Poco da dire sul periodo degli anni ’40, ovviamente sotto il segno della guerra. Quando nel 1945 il Card. Marchetti vorrà riprendere la sua azione é ormai anziano ed immobilizzato dal male. Pio XII é anch’egli in difficoltà. Comincia ad usare dei collaboratori che non controlla. A Roma la lotta sulle aree fabbricabili é già lotta fra giganti. Sull’Opera della preservazione della fede cadono interferenze pesanti. La diocesi non può intervenire perché l’Opera é pontificia; in Vaticano Mons. Montini torna nell’ombra, sopraffatto da interessi potenti che premono sulla localizzazione, la progettazione e la costruzione delle chiese. I legami tra classe politica, proprietà fondiaria e imprenditori edili sono già in questo tempo la trama della vita di Roma.

Prendono consistenza slogans come “la dignità di Roma vuole un certo livello nelle costruzioni sacre”, di indubbia origine imprenditoriale. La conseguenza é che si fanno chiese che costano centinaia di milioni (per esempio S. Eugenio in un quartiere che non richiede tanto, e S. Leone; anche con finanziamenti speciali fuori del bilancio dell’Opera) e vengono aperte parrocchie in negozi d’affitto. Per i religiosi poi, alcuni casi di autentica povertà di strutture fanno ancora più risaltare negativamente la tendenza al fasto e all’opulenza che caratterizza tutta una serie di opere da essi realizzate. Il Card. Marchetti é impotente al crollo dei criteri da lui inaugurati. Non gli resta che dissentire apertamente. Il papa non riceve più il suo vicario; la frattura fra questi e il papa che avalla inconsciamente ciò che avviene é completa.

Quando nel 1951 si dovrà trovare il successore di Marchetti, dal Vaticano ci si assicurerà con Micara, un Cardinale anziano e mai impegnato in compiti pastorali. L’amministrazione Pio XII -Micara -Spallanzani segna anche in questo campo il periodo più triste della storia recente. Nessuna resistenza, o almeno con nessun risultato visibile, alle forze economiche della capitale. Se i nodi non vengono al pettine lo si deve alla previdenza della amministrazione precedente che aveva provveduto di chiese e cappelle zone ancora disabitate.

Nel 1958 Giovanni XXIII trova una situazione gravissima. Una diocesi che non provvede alle sue chiese, un ufficio creato appositamente e reso impotente, realtà ormai compromesse: i quartieri già costruiti con chiese inadatte o mal dislocate. E non diciamo una parola sulla opinione pubblica che si é maturata intorno alla politica edilizia della diocesi. La realtà é grave, il giudizio popolare é severo, e il papa non ha uomini sui quali contare per rinnovare. Egli non cambia gli uomini della diocesi, anzi rispetta il tessuto umano che trova costituito. Eppure sblocca la situazione con un unico provvedimento: interrompe i finanziamenti. Questa misura é poliedrica: essa é innanzitutto un atto di non collaborazione con un sistema che non può essere accettato. Ma la situazione della diocesi, se si considera solo il problema dell’approvvigionamento degli impianti, peggiora, e il papa lo sa.

Raniero La Valle direbbe in tal caso che quella chiusura é stata un atto di fede. Ma é anche vero che a questo punto c’é gente che lascia la preda e lentamente si allontana. Ed é vero che la diocesi viene scossa e richiamata alle sue responsabilità. É vero infine che per la prima volta dal costituirsi del regno pontificio, la costruzione delle chiese di Roma viene attribuita, come ovunque, alla comunità diocesana anziché alle casse vaticane.

Ancora una volta la mano di Giovanni XXIII ha agito con fermezza e le implicazioni del suo comportamento appariranno solo lentamente. Del resto egli non ha risolto il problema dell’edilizia diocesana, prescindendo dall’incalcolabile valore di una avviata liberazione di forme e persone parassite. Ha però costretto la diocesi ad avventurarsi su nuove forme di autoresponsabilità comunitaria.

Nel 1963 Paolo VI erediterà quindi una situazione sempre drammatica ma, dopo il salasso giovanneo, passibile di una più corretta impostazione. Non immemore del primo periodo dell’Opera egli tenta una riorganizzazione di essa su basi più moderne e su questa fase attuale torneremo espressamente.

Come avete potuto notare, questa volta abbiamo impegnato quasi tutto lo spazio in un lavoro di indagine storica. Abbiamo così voluto rendere possibile una migliore consapevolezza della realtà della chiesa di Roma, nel suo evolversi negli ultimi decenni. Solo così infatti coloro che vogliono dare un contributo alla crescita di tale realtà, possono agire non attivisticamente, sperando di utilizzare meglio le proprie forze e di valutare giustamente difficoltà ed ostacoli. Ci auguriamo che ciò risulti chiaro a tutti e che nessuno possa scorgere nella nostra indagine un atteggiamento di compiacimento critico nei riguardi di un passato di cui ci vogliamo anzi assumere la responsabilità, sentendoci perciò ancor più impegnati a costruire il futuro.