Lettera 4 (Prima Serie)

 

Non Si Puoi Rimanere Soli

cari amici,

dalle baracche dell’acquedotto Felice si è levata una voce di nostri fratelli che sentiamo il dovere di raccogliere. Questo è stato già fatto, nei giorni scorsi, con mezzi ben più imponenti dei nostri, dai più importanti canali di informazione nazionali ed esteri, ma non lo abbiamo ritenuto un motivo valido per tacere, perché non ci è sembrata sufficiente la pura e semplice informazione cui essi spesso si limitano. Poteva sembrare, d’altra parte, che il tema proposto dai ragazzi della scuola delle baracche non si inserisse nell’economia del nostro lavoro, teso essenzialmente a stimolare un discorso intra‑ecclesiale più autentico e partecipato. Ma anche questa possibile pregiudiziale abbiamo facilmente superato, perché ci è parso chiaro che fosse coinvolto nel discorso, e non poteva non esserlo, il nostro essere chiesa nella concreta realtà di Roma, fatta tutt’oggi anche di vita nelle baracche. Così abbiamo sentito verso i ragazzi della ‘725, il dovere di un esame di coscienza e di una risposta, proprio in quanto gruppo per il dialogo nella chiesa locale di Roma.

Di fronte ad una lettera come quella di cui ci occupiamo vari atteggiamenti sono possibili, laddove si voglia evitare di prenderla sul serio e di andare sino in fondo. Ci si può, per esempio, fare furbi e trovare tanti motivi di responsabilità altrui e tante giustificazioni per se, così da continuare a vivere con tranquilla incoscienza nell’abulia e nell’assenteismo. Ci si può anche trasformare in severi critici, nel cercare motivi di contraddizione, unilateralità, affermazioni gratuite ed esotismi di linguaggio, in modo da ergere un solido muro di pregiudizi ad ogni possibilità di trasmissione di un qualche messaggio. Si può essere tentati di minimizzare o di compatire, di ridicolizzare o di condannare, di fare della sociologia facile o di solidarizzare a parole, di pronunziare dei gratuiti mea culpa o di sorridere con degnazione. Ci sarà magari già capitato di verificare reazioni di questo genere, in qualche scambio di idee sull’argomento.

Il nostro atteggiamento è fatto, invece, di rispettoso ascolto di quanto ci si vuol dire e di attenzione a non sovrapporre delle nostre interpretazioni che possano turbare una serena lettura della lettera.

L’aver scelto questa dimensione della disponibilità ci ha permesso di cogliere il grido, insieme accorato e pieno di speranza, che si leva da tutta la lettera contro l’isolamento dell’uomo di oggi. Abbiamo così potuto toccare con mano il risultato della nostra vita sterilizzata nei confronti dei problemi che potrebbero turbarla e metterla in crisi. Spesso non abbiamo occhi per vedere se non quello che abbiamo scelto di vedere. Ci diciamo cristiani, pretendiamo essere chiesa, e poi mortifichiamo questa realtà entro i bastioni di un individualismo esasperato, le cui sortite sanno troppo spesso di tentativi per preservare la nostra igiene mentale. I ragazzi delle baracche, invece, ci spingono a “lottare per uscire da questo inferno, uscirne tutti insieme e per sempre uniti a coloro che soffrono”. Loro parlano dell’inferno del ghetto, ma ben più lo è il nostro stato di assenteismo che è causa di quel ghetto. E’ l’inferno della assenza di comunione, che, in certi momenti, fa sentire all’uomo di oggi tutto il vuoto di un’esistenza vanificata.

Possiamo recuperare ancora questo straordinario valore che, solo, può salvarci dal nulla? Pensiamo di si, se sapremo cogliere il messaggio di Cristo in tutta la sua pienezza e lo caleremo nella nostra vita. Contro la tentazione corrente ad ubriacare la nostra solitudine in un’orgia consumistica sta la forza di Cristo, che ci prende per mano e ci aiuta a riscoprire la nostra dignità di uomini. Potremo così combattere i tanti pregiudizi che ci bersagliano e trovare nel prossimo non già delle categorie da ignorare o da combattere ma dei fratelli cui essere vicini. Per far ciò dovremo esaminarci attentamente, rifiutando tutte le occasioni che, spesso con sottile insinuazione, ci vengono proposte per dividerci ed isolarci. Occasioni che sono comuni a tutti noi, compresi i ragazzi delle baracche, quando affermano, tout court, che avvocati e professori sono “le persone più contrarie alla classe operaia” e che “anche le parrocchie fanno il giuoco dei ricchi”, sottoponendo così i fratelli a odiose distinzioni ed impedendosi di vedere in essi persone legate ad una comune prospettiva di salvezza e perciò bisognose piuttosto di aiuto che di condanna. Con Cristo accanto avremo il coraggio di rifiutare le soluzioni facili, i verbalismi inutili e la violenza inconcludente, per trovare nella “forza della ragione” e nel primato della buona volontà la via per un impegno autentico. Del resto, il continuo richiamo, nella lettera, alla necessità di fare politica, il ripetuto sottolineare che “la politica deve essere fatta dal popolo”, che “bisogna lavorare tutti assieme”, che “la politica è l’unico mezzo umano per liberarci” non presuppone la riscoperta di un impegno a comunicare ed a dialogare? Fare politica, nel senso auspicato dai ragazzi della scuola 725, richiede in primo luogo una ferma volontà di combattere le forze che ci spingono a chiuderci in noi stessi e ad isolarci, così da ripopolare il nostro orizzonte vuoto, di tanti fratelli. Solo se abbiamo i nostri fratelli nella mente e nel cuore avremo la volontà ed il coraggio di affrontare i loro problemi in modo nuovo.

Per parte nostra, il proposito che abbiamo formulato fin dal primo numero de ‘La Tenda’, e che vogliamo sempre meglio portare avanti, sta nel farci veicolo di dialogo, cogliendo tutte le possibili occasioni per restituire alla chiesa di Roma una profonda consapevolezza della sua irrinunciabile realtà di popolo di Dio in cammino. L’aver intravisto nella lettera, nella sua vera portata, la realtà delle baracche ci aiuterà a concretizzare d’ora in poi il nostro impegno anche in questa direzione.

Desideriamo infine dare il testo integrale della lettera, perché tutti coloro che leggono queste pagine possano prendere diretta conoscenza del suo contenuto.

il gruppo ‘La Tenda’

Tornando Sull’Elezione Del Vescovo

Nel primo numero de ‘La Tenda’ presentammo il problema della scelta del Vescovo di Roma alla luce della storia. L’argomento ha suscitato un certo interesse, ed anche un po’ di sorpresa tra i nostri amici. Sulla scorta dei loro interventi lo riprendiamo.

1. Il primo movimento è stato, dicevamo, di una qualche sorpresa, nel vedere noi impegnati senza tanti preamboli in problemi delicati ed elevati, come la nomina del papa e dei vescovi. Abbiamo riflettuto: ci sembra di dover proseguire. A nostro parere i problemi della chiesa non sono mai troppo elevati per lei stessa, o, meglio ancora, mai tanto elevati da non poter essere trattati da tutti in spirito di preghiera e di umiltà, o da dover essere rimessi alla totale discrezione di iniziati e specialisti. Anzi riteniamo, in una col Concilio, che il contributo dei battezzati sia assolutamente necessario alla identificazione di stati d’animo, di esigenze reali e prospettive di sviluppo. E crediamo che al Vescovo‑Presbiterio competa, nel concetto di autorità-servizio, di portare ogni attenzione alla voce della comunità, assecondandola ogni volta che non appaia assolutamente estranea allo spirito del Signore.

2. Nel merito della posizione da noi presa (designazione del Vescovo dalla comunità), qualche perplessità nasce quando ci si rende conto del totale cambio di prospettiva che essa comporta. Ma sempre ci rafforza la prassi delle comunità primitive (vedi gli Atti, e qualche manuale di storia della Chiesa), nonché il tornare ai concetti di comunità organica, chiesa locale, carismi, concetti tutti riaffermati dal Concilio Vaticano II, ma da esso né sviluppati né confrontati, pro bono pacis, con la situazione attuale. Saranno rassicuranti, per i più timorosi, il principio di papa Celestino I, 428, “nessun Vescovo sia nominato a fedeli che non lo desiderano” (“nullus invitis detur episcopus”; che quei fedeli neppure conoscessero il futuro Vescovo il buon Papa non sembra immaginarlo possibile) o le parole di papa Leone Magno: “chi deve guidare tutti sia scelto da tutti” (“qui profuturus est omnibus ab omnibus eligatur”). A questo punto a chi l’onere della prova? chi è l’innovatore? Del resto la pubblicistica teologica è su questa via da molti anni. Lo stesso Concilio si è messo sulle sue orme, evidentemente non incerte. La ricerca storica, biblica, liturgica, sociologica presenta reperti indubbi nel valore e nella concordanza. Ma alla pazientissima teologia, al Concilio breve nelle sue formulazioni ma non indeciso han fatto riscontro l’impermeabilità della struttura e la tranquilla acquiescenza del popolo di Dio. A quest’ultima desideriamo sottrarci senza più attendere.

3. La più recente pubblicistica sul nostro argomento ha seguito una pista diversa dalla nostra in fase di progettazione per l’avvenire. D’accordo tutti per il superamento della prassi abituale: il Papa, cioè, eletto da un collegio di cardinali eletti dal Papa. Ma come operare questo superamento? Tramite l’espressione della volontà della Chiesa locale, secondo noi; tramite l’attribuzione del potere elettivo ai capi delle conferenze episcopali nazionali (o ipotesi assimilabili), secondo gli altri.

Un amico, sinceramente e radicalmente, ci esprime l’opinione che la nostra posizione sia inadatta ad una situazione ecclesiale come quella odierna.

Il tempo post-apostolico, così georgico, non è il nostro: oggi abbiamo una Chiesa a dimensioni mondiali che sfugge alla comprensione delle piccole comunità di base. Anche la scelta del Vescovo, particolarmente a Roma, deve essere segnata dalla presenza caratterizzante della dimensione universale. I problemi cioè sono ormai reali solo a livello universale non esistono problemi di piccola comunità che possano sperarsi convenientemente rivolti al di fuori delle soluzioni previamente ottenute a livelli superiori.

Provincialismo, insomma, il nostro. Questo rilievo colpisce in radice tutta la metodologia de ‘La Tenda’ che si propone di cercare soluzione ai problemi della chiesa sulla scala a misura umana della comunità di base. Eppure noi, dopo aver accolto questi rilievi per quanto hanno di vero, perché davvero siamo in un mondo sempre più ‘relazionato’, continuiamo a pensare che il rapporto con le comunità di base meriti la prima attenzione. Quel che va compreso, lo ripetiamo, è il concetto di Chiesa locale come ente organico completo anche se in relazione con altri simili; una realtà vivente che, pur comunicando nella conoscenza e nella carità, pur accettando il richiamo dell’esperienza altrui e il dovere dell’unità, affronta però i problemi nel taglio che si pone oggettivamente, a portata di mano vorremmo dire, con quel giudizio che dà (e richiede) una situazione vissuta e che le generalizzazioni rendono spesso intellettuali e in fondo non reali.

Se da questa riflessione più generale torniamo al problema sul quale stiano scrivendo, l’elezione del Vescovo, ci pare che la nostra argomentazione si faccia persino più facile. Cosa ci viene richiesto? Di non pensare solo a Roma? Ma è ben quello che si otterrebbe con un Vescovo eletto anche a Roma sulla misura della Chiesa locale! Sarebbe certo un Papa estraneo a certi ideali poliglotti, un Vescovo anche per necessità più aperto al pluralismo, più disposto alla collegialità. E guarda un po’, il provincialismo di questa prospettiva sarebbe nei suoi risultati ben più comunitario ed universalista di quanto si otterrebbe con le elezioni tra vertici altrimenti proposte.

4. E se la difficoltà è solo quella di vedere un Papa per la Chiesa universale eletto da un presbiterio, quello romano molto mariginale alla comunità umana dell’anno 2000, noi diremo che non ci interessa tanto che il Papa sia assolutamente il Vescovo di Roma. A noi interessa un Vescovo nostro per la nostra comunità. Che sia anche il Papa ciò ha relativa importanza: i Vescovi potranno trasferire ad altra sede o ad altra persona la funzione di garante ultimo della comunione universale. Se sia il caso di farlo si dovrebbe vedere a parte.

5. Una riflessione ci è stata espressa circa un ridimensionamento della curia nell’ambito della nostra prospettiva.

Indubbiamente oggi (e non sarebbe altrimenti se il Papa fosse un frutto dell’elezione di tutto il mondo) ci avviamo verso una supercuria internazionale dinanzi alla quale quella che improvvisamente affrontò il Vaticano II figura come una tranquilla azienda artigiana. Nascono ogni giorno commissioni e sottocommissioni, congregazioni e segretariati, centri di coordinamento, uffici studi, amministrativi, per la carità, per il dialogo. L’asfissia delle comunità di base sarà completa quando calerà su di esse questa poderosa burocrazia universale.

Sulla nostra linea c’è invece (aderentemente alla tensione di base della Chiesa attuale che è tutta in questo senso) un ridimensionamento degli uffici centrali. Dovremo esemplificare a lungo. Lasciamo a voi la gioia dello scoprire quali funzioni ecclesiali risorgerebbero con le opportune modifiche alle competenze degli organismi di curia, p. e. sulla liturgia, sui religiosi, sulla scelta dei Vescovi. E già i Vescovi resistono alla diplomazia vaticana, le ‘charitas’ nazionali scavalcano le opere centrali di assistenza, rapporti bilaterali si sostituiscono alle opere missionarie.

Tante competenze della curia sono reali solo sulla carta o in qualche esplosione momentanea: nel controllo teologico ci si limita a perseguire persone isolate o isolabili, nella liturgia si codifica spesso il fatto compiuto. Difendere questa importazione (o addirittura avviarsi a potenziarla sia pure con propositi più di flessibilità) è andare contro la realtà.

6. Noi quindi pensiamo così: una Chiesa locale romana più concentrata sui suoi problemi, che lasciasse alle chiese locali molte e molte delle cose che del resto non riesce più a controllare, tesa a consolidare con il suo buon esempio rapporti di carità tra le chiese sorelle, con le tradizionali forme di comunicazione (encicliche inviate e ricevute, vedi il caso veramente formidabile dell’Humanae vitae + risposte), con riunioni periodiche di comunione, anche su scala ridotta, con eventuali concili nei momenti cruciali nei quali essere l’ultimo coagulante dell’unità, sarebbe in fondo la miglior cosa per tutti. E non disprezziamo le possibilità della nostra comunità locale di reggere questo quotidiano confronto. Dal sangue dei martiri, dalla loro purissima testimonianza nei tre secoli delle catacombe, dalla presenza in Roma di tanti grandissimi santi di tutti gli altri secoli, con le loro intuizioni ed istituzioni, col loro tentativo di farsi presenti nel contesto umano della nostra comunità, si sono depositati nella nostra città e nei cristiani di Roma dei valori che ci farebbero ancora assai ricchi nel dialogo quotidiano con le Chiese sorelle. Ma neppure di queste ricchezze dobbiamo vantarci. Se veramente ci sono ancora le sentiamo come il nostro debito dinanzi agli altri e non un titolo per un riconoscimento di poteri intrasferibili.

Nuovo Rettore All’Ateneo Lateranense

Il Papa ha nominato monsignor Pietro Pavan rettore dell’Ateneo lateranense, in sostituzione di monsignor Antonio Piolanti alla scadenza triennale.

Il collegio dei professori ha espresso, secondo l’uso, tre nomi (Piolanti, teologia; Maccarrone, diritto canonico; Pavan, sociologia) ed il Papa ha scelto il terzo indicato.

L’Ateneo lateranense rappresentava il più organico appoggio teologico alle posizioni conservatrici della Curia prima, durante e dopo il Concilio. Con la nomina di Mons. Pavan può dirsi che, progressivamente, tacerà una delle voci più aggressive nei confronti delle nuove ricerche teologiche.

La violenza delle posizioni del Laterano recava persino impaccio col suo radicalismo, come avvenne al tempo dell’attacco frontale al Pontificio Istituto Biblico e con le campagne teologiche durante il Concilio. Il Papa stesso in un pubblico incontro con i docenti parlò di moderazione e di rispetto pur nella libertà di scelta teologica.

Alla scuola del Laterano si forma gran parte del clero romano. Il cambiamento al vertice può forse preludere ad una maggiore apertura nella educazione del nostro clero.

All’Ateneo lateranense pensiamo di dovere qualcosa di più di questa breve, seppure importante, notizia, e appena possibile ne parleremo diffusamente.

Due Preti Lasciano Roma

La Congregazione salesiana ha trasferito due suoi sacerdoti dall’Ateneo salesiano di Roma alla Scuola di Parigi. Si tratta dei padri Lutte, psicologo, e Girardi, studioso di marxismo. Si tratta di due studiosi di fama internazionale i quali a Roma avevano allacciato rapporti anche in ambienti solitamente diffidenti. Due preti quindi che erano innestati nella comunità romana al livello della loro competenza e delle esigenze della città.

Il trasferimento è avvenuto per via amministrativa senza che venissero comunicati agli interessati o alla diocesi i motivi.

Uno dei due sacerdoti ha chiesto di conoscerli, esprimendo il desiderio di “essere trattato almeno come un delinquente”.

Due sacerdoti noti partono e lo si sa: molti altri meno noti vengono allontanati, e nessuno sa. La comunità diocesana viene privata di preti di assoluto valore e a lei congeniali senza poter conoscere, giudicare, scegliere. La comunità non viene interpellata, non si ascolta né si forma un’opinione pubblica, non si rispettano legami pastorali nati spesso dopo molte difficoltà.

Il padre Girardi era membro della commissione per i rapporti con i non credenti. Difficile pensare che l’allontanamento da Roma sia stato possibile prescindendo da un benestare della Curia.

AUGURI Il Cardinal Vicario Dell’Acqua è in cura presso la clinica della Università Cattolica. Gli giungano i più fraterni auguri di pronta guarigione dal gruppo de “La Tenda”.