Lettera 73 (Seconda Serie)

I parte “Quali priorità per la nostra Chiesa e quali priorità per la nostra società?”.

Introduzione

Care amiche e cari amici,

come avevamo annunciato il 23 settembre si è svolto a Torre Angela l’incontro che aveva per titolo: “Quali priorità per la nostra Chiesa e quali priorità per la nostra società?”, è stato un incontro molto partecipato e molto interessante, ne diamo conto cominciando da questo numero a pubblicare relazioni ed interventi. Come al solito aspettiamo sia da chi è intervenuto, sia da chi non c’era le vostre reazioni e i vostri commenti, sarebbe bello se a queste domande provassimo a rispondere in tanti.

 

Riflessione introduttiva al convegno.

Gianfranco Solinas

Maria ed io siamo cresciuti nel cammino di fede negli anni fervidi del Concilio Vaticano II. La costituzione Dei Verbum, la Riforma liturgica e la ritrovata centralità del popolo di Dio, incoraggiarono in tanti di noi il sogno di una chiesa in cui i ministeri ordinati si ricollocassero nello spazio loro assegnato dalla tradizione autentica, senza continuare a ingombrare la partecipazione viva dei fedeli.

Lo spirito del Concilio lo ritrovammo nel legame crescente tra l’Evangelo e la vita quotidiana, nelle Messe domenicali e nelle assemblee periodiche della parrocchia della Trasfigurazione, a Monteverde, nei primi anni ‘70.

La consapevolezza dei nodi cruciali della vita della Chiesa locale di Roma e delle grandi contraddizioni dello sviluppo urbano del dopoguerra crebbe poi partecipando, dal 1969, al lavoro redazionale del ciclostilato “La Tenda”, promosso da don Nicolino Barra, prete romano, assieme ad un gruppo di laici.

Questo cammino ha spinto me verso il lavoro professionale nella formazione sindacale ed ha incoraggiato l’apertura della nostra famiglia all’accoglienza di bambini, ragazzi e adulti che vivevano condizioni di fragilità, a Roma e, successivamente, in Puglia.

Riflettendo sulle priorità odierne della vita ecclesiale, in questa fase storica di enormi cambiamenti, leggo nella celebrazione domenicale dell’Eucaristia il segno più forte di un cammino inceppato.

La riscoperta del significato autentico dell’Eucaristia rappresenta, perciò, una delle priorità di questo convegno.

Ci sono un po’ ovunque persone, famiglie e gruppi ecclesiali che vanno comprendendo che l’Eucaristia può ritrovare la sua pienezza di significato laddove coloro che vi partecipano siano messi in condizione di fare una reale esperienza di comunione, portando il loro vissuto quotidiano a confronto con la Parola di Dio, con modalità praticabili (che verranno esplicitate da coloro che interverranno successivamente). Come mai tutto ciò non interroga le parrocchie?

Se dimentichiamo di essere membra vive del Corpo di Cristo rischiamo di rassegnarci ad una fruizione individualistica di quel Pane spezzato che, in realtà, esige una sequela illuminata da un discernimento comunitario.

Questi giorni ho letto, sull’ultimo numero di Civiltà Cattolica, un articolo del gesuita De Silva Gonzales sul discernimento spirituale e sulla 14° catechesi del mercoledì di Papa Francesco ad esso dedicato, tra il 31 agosto 2022 e il 4 gennaio 2023. Il Papa sottolinea con forza che è lo Spirito Santo che ci accompagna in questo cammino che siamo chiamati a portare avanti in modo permanente. Dio vuole che il nostro discernimento abbia come oggetto ciò che è bene per ciascuno di noi nel “qui’ ed ora” e non tanto il bene o il massimo bene possibile.

Il Vescovo di Roma si sofferma, infine, sugli aiuti al discernimento. Il processo decisionale include l’ascolto umile della Parola di Dio e della comunità dei credenti, anche se poi non si sofferma su quest’ultima indicazione.

Mi chiedo, dunque, se la celebrazione eucaristica domenicale non possa diventare il momento culminante del sostegno comunitario al discernimento personale di ciascuno di noi.

Ritengo che i fedeli laici che oggi frequentano la Messa domenicale si debbano seriamente interrogare sull’opportunità di una sua inderogabile riforma. Potrebbero intanto chiedersi come mai tanti adulti e giovani non vadano più a Messa e si ritrovino soli nella loro ricerca di fede, nella tumultuosa vita quotidiana di questi anni.

È ancora presto per raccogliere i frutti dell’impulso ad una sinodalità universale che il Vescovo di Roma sta dando alla Chiesa ed al mondo intero. Le resistenze, infatti, sono tuttora forti, e presenti non solo in una parte della gerarchia ecclesiastica.

Auguriamoci che il cammino sinodale vada progressivamente oltre un confronto legato al fare quotidiano delle parrocchie e che diventi la strada maestra per una vita ecclesiale più comunionale e fraterna.

 

Camminare insieme, confrontandosi, condividendo, pensando, esprimendosi…

Chiara Flamini

I discepoli e gli apostoli che camminavano con Gesù per le strade della Galilea, della Giudea, della Samaria… si ponevano domande su ciò che andavano osservando, vivendo, sperimentando… Ponevano domande a Gesù e Gesù poneva domande a loro… Il gruppo evolveva nella consapevolezza di cosa fosse il Regno che Gesù intravedeva vicino e intendeva costruire e porre come orizzonte (v. Beatitudini).

Non era un gruppo che solo ascoltava e obbediva. E non era un gruppo avulso dalla realtà, dalla società e cultura in mezzo a cui stava, ma ne era forgiato e con istanze culturali e sociali si confrontava insieme a Gesù.

Gesù costruiva le sue parabole sulla vita quotidiana dei contadini, dei pescatori: la vita quotidiana gli rivelava qualcosa che si trova più in profondità. Le istanze o le provocazioni poste dalle autorità religiose rispetto alla pratica religiosa, alle relazioni con gli invasori romani, alle relazioni familiari, alle regole sociali trovano risposte di Gesù: in Gesù la fede nel Padre, la preghiera si confrontano con le realtà della vita delle persone che incontra. E di tutto questo sono partecipi le persone che lo seguono. Anche con loro Gesù si confronta. Spesso le domande che Gesù fa ai discepoli le interpretiamo come domande retoriche, che hanno già una risposta… Forse in alcuni casi Gesù vuole ascoltare, confrontarsi. Come quando gli apostoli, inviati a predicare, tornano, raccontano ciò che hanno visto, ciò che è successo e si confrontano con Gesù sull’interpretazione dei fatti. O quando Gesù incontra la cananea, l’ascolta e cambia direzione.

Insomma, attorno a Gesù c’era un gruppo in cammino, in dialogo con lui.

E dopo la morte di Gesù gli apostoli e i membri della Chiesa nascente si confrontano sulle situazioni nuove in cui si vengono a trovare. Un esempio per tutti è quello delle istanze poste dai battezzati non ebrei: il problema della circoncisione e quello della consumazione di cibi proibiti si risolvono con un confronto, a volte anche acceso… Ma c’è una ricerca comunitaria…

Spesso nelle nostre comunità non c’è il luogo per questo dialogo e per questo confronto: la relazione tra le nostre vite e la Parola, tra le nostre vite e l’eucaristia si giocano a livello individuale e in silenzio; il discernimento comunitario e il conseguente cammino deciso insieme non si dà.

Eppure nelle nostre vite ci confrontiamo con situazioni, personali, familiari, lavorative, che richiedono forza, decisioni non facili… Ci confrontiamo con realtà dure come la malattia, la solitudine, l’esclusione, il razzismo, la povertà … Rispetto ad esse siamo chiamati a fare continuamente delle scelte, percorrere delle strade, correggere il nostro cammino… E spesso ci troviamo da soli.

Nella nostra comunità si verificano situazioni sulle quali confrontarsi, situazioni da approfondire, situazioni che richiedono decisioni… Eppure spesso si procede per inerzia: si è sempre fatto così. Oppure si delegano discernimento e decisioni al parroco. Oppure si lascia andare tutto, rassegnati all’assottigliamento delle nostre comunità. Che ci possiamo fare?

Ma quale ricchezza enorme emergerebbe se ci fossero i luoghi della condivisione, della comunicazione, del confronto in cui lo Spirito possa soffiare attraverso le tante voci interne ed esterne alla comunità cristiana e dare impulsi a chi, in solitaria, cerca di costruire il Regno nel proprio ambito di vita?

Quali consolazioni e incoraggiamenti ci sarebbero se condividessimo la vita nostra e delle persone che ci segnano e che lottano per i più poveri, per la giustizia, per la pace?

Quali gioie ed entusiasmo ci attraverserebbero se ci aiutassimo a scorgere i semi del Regno sparsi qua e là nel mondo, nella città, nel quartiere?

Quante, poche o tante non importa, persone potrebbero trovare riparo, sostegno, consolazione, coraggio in una comunità che cammina alla luce del Vangelo, che è aperta all’ascolto di esperienze diverse, che è capace di interrogarsi di fronte a istanze che la Chiesa fa fatica ad integrare nelle proprie riflessioni?

Tutto questo sarebbe possibile in celebrazioni eucaristiche partecipate, in cui siano presenti le voci dei laici attraverso una piccola condivisione sulla Parola letta, le preghiere dei fedeli, fatte dai fedeli e non lette su un foglietto, i canti scelti e condivisi, un offertorio che esprima ciò che poniamo di noi sull’altare…

Sarebbe possibile se ci fossero assemblee periodiche in cui la comunità si confronta, alla luce del Vangelo, sulle domande che la vita personale, familiare, comunitaria, la realtà di quartiere, cittadina, mondiale ci pongono.

Sarebbe possibile in piccoli gruppi che leggano il Vangelo insieme e condividano le luci che esso dà alla propria vita…

Sarebbe possibile nelle tante modalità che lo Spirito potrebbe suggerire ad una comunità in ascolto…

Non sto parlando di sogni, sto parlando di esperienze vissute qui a Torre Angela e che in piccoli gruppi ancora continuiamo, resistendo a vivere, anni fa, questa gioia, questo incoraggiamento, queste consolazioni le viviamo il giovedì sera in un piccolo gruppo che legge le letture della domenica a fatica perché siamo un piccolo gruppo che resiste in una comunità che evita di partecipare, come si vede anche dalle assenze di oggi. Ma queste esperienze io le ho vissute anche a Milano, a Puerta de Golpe (Cuba), a San Leone a Boccea, all’Idroscalo ad Ostia, ci son realtà in cui queste cose sono possibili.

“Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave in quei giorni effonderò il mio spirito” (Gioele 3, 1-2).

E Gesù ha effuso e continua ad effondere il suo Spirito…

Perché non ascoltarlo, aprirgli le porte, anziché silenziarlo?

 

Cosa ci insegna la lotta dei lavoratori di Mondo Convenienza.

 Michele Del Campo Direttore Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro Diocesi di Prato

A Prato e dintorni, ma possiamo dire in Toscana e in Italia, il fenomeno della precarietà del lavoro, il non rispetto dei diritti contrattuali, il non rispetto della giusta paga, del giusto riposo, della dignità umana va diffondendosi silenziosamente; si presenta come un fiume carsico che ogni tanto riaffiora venendo alla luce della cronaca quando le condizioni di lavoro diventano insopportabili, in particolare per coloro che pur di diventare cittadini attraverso il lavoro si sottopongono a condizioni spesso non degne di una società civile e fraterna.

Dopo i casi denunciati di mancato rispetto contrattuale e di condizioni di lavoro non proprio legali che si sono manifestati nella Tintoria Fada, nella Digi Accessori (Ruentex, Gruccia Creation), nel Panificio Toscano …, oggi si aggiunge anche Mondo Convenienza. Qui, dai lavoratori degli appalti dei servizi affidati dalla ditta madre (madrigna), Mondo Convenienza, vengono denunciati condizioni di lavoro proibitive: orari lunghissimi, turni di lavoro di 12 ore per 6 giorni alla settimana, straordinari non pagati, paghe non regolari.

Il lavoro a Prato è stato sempre un elemento integratore della società e, soprattutto, di coloro che venivano da fuori. (dagli anni ‘50 ad oggi circa il 70% della popolazione presente). Chi arrivava a Prato trovava subito lavoro e piano piano si integrava e progrediva socialmente. Il dialogo sociale e lo scambio di esperienze nel profondo rispetto del lavoro come valore fondante della comunità ha sempre caratterizzato la società pratese.

Come è possibile che oggi tutto questo non è più possibile? È saltata l’etica del lavoro e ha preso piede l’etica del profitto individuale che diventa appropriazione del lavoro altrui e alcune volte anche della persona complessivamente. È saltato il dialogo comunitario, quel patto non scritto che a chi lavora va garantito il giusto riconoscimento. È saltato quel dialogo comunitario che ha permesso a utti di progredire socialmente, senza dimenticarsi le origini: è saltata la memoria del passato che innova il presente. Quello che preoccupa di più è che questa situazione prende anche imprenditori che nel loro passato hanno vissuto il loro essere lavoratori dipendenti, dove anche su loro gravavano situazioni simili a quelle che oggi loro stessi determinano, senza nessuna memoria delle loro sofferenze da cui si son dovuti liberare e per cui richiedevano una legislazione più giusta. La dimenticanza è giustificata con lo slogan “ma io mi sono fatto da solo”, dimenticando che è stato il contesto comunitario a permettere il lora progresso e dichiarando così che la solitudine produce dei mostri, produce chiusure verso l’altro. Hanno dimenticato la loro origine, la loro radice, la loro ricerca di un lavoro dignitoso che permette di poter rientrare a casa, la sera, a testa alta e raccontare la propria giornata lavorativa ai propri familiari.

Ma c’è qualcos’altro, non è solo una semplice volontà di una persona. È un problema che, oggi, rischia di diventare strutturale. Il sistema capitalistico e del libero mercato sta creando le condizioni perché tutto si precarizzi, tutto diventa incertezza, insicurezza in modo tale che esso possa continuare a vivere producendo grandi disuguaglianze, base fondamentale per la propria sopravvivenza.

È strano, dopo tutto quello che abbiamo imparato dalla storia passata per addomesticare il capitalismo e renderlo più mite e meno aggressivo, che nel 2023 la precarietà è diventata un fenomeno inquietante e complesso nello stesso tempo. La frantumazione del mercato del lavoro è ampia, si dipana dal lavoro nero spesso nelle mani della malavita, al lavoro a tempo determinato che coinvolge soprattutto i giovani, passando attraverso le partite IVA fasulle, le collaborazioni continuate all’infinito, i part time forzati specie nei confronti delle donne, gli apprendistati reiterati a piene mani, i tirocini gratuiti, ridotti a volontariato, il mancato rispetto del contratto anche nelle forme di lavoro più tutelate, quale quello a tempo indeterminato. Ai giovani non so se stiamo negando il futuro, di certo stiamo dicendo loro che la vita non può che essere precaria, senza dignità. Ci ha preoccupato molto ascoltare in una serie di incontri di orientamento fatti con i giovani 17-20 anni (circa 200) che alla domanda “Come vedi la tua vita tra dieci anni” affermavano: “Io mi vedo sotto un ponte, o comunque non ho proprio idea di cosa potrà essere il mio futuro”.

La precarietà, oggi, tocca anche chi già lavora perché cresce l’insoddisfazione nel lavoro e le aziende, per competere (o non in grado di competere) scaricano le loro disfunzioni e la loro improduttività solo e soltanto sul costo del lavoro e sulle condizioni di lavoro rendendo i lavoratori più fragili e ricattabili per farli sottostare a regole non negoziate. Il lavoratore non viene considerato una risorsa per l’azienda, ma un vincolo alle proprie strategie. Inoltre, oggi, man mano che ci si inoltrerà nella transizione ecologica e digitale e mentre l’Intelligenza Artificiale comincerà ad insidiare e stravolgere l’organizzazione del lavoro, si scoprirà che l’obsolescenza di vecchi lavori verrà accelerata. Ci saranno sicuramente nuove professionalità che emergeranno, ma non ci si preoccuperà di chi diventa “obsoleto” per il sistema produttivo, considerandolo solo una persona da ricattare o da emarginare.

Per ciascuna delle questioni accennate, c’è bisogno di individuare soluzioni operative e risorse adeguate. Sbaglia chi ritiene che si possa disporre con facilità di una cassetta degli attrezzi che vada oltre gli slogan da manifestazione. Se si vuole fare sul serio, bisogna mettere intorno al tavolo tutti i protagonisti istituzionali, economici, sindacali, che con l’aiuto dei centri di ricerca universitari, privati, associazioni di terzo settore… potranno delineare indirizzi e proposte praticabili, adeguate alla ricomposizione del mondo del lavoro. È questo l’obiettivo che deve fare da faro alle forze che tutelano il lavoro e a chi ha a cuore il lavoro e la sua etica.

Il male, la nostra voglia di accumulare pensando solo a noi stessi giustificati dalla frase “altrimenti chiudo battenti”, sembra essere l’unica prospettiva presente nella nostra vita, distruggendo il bene che precedentemente si era costruito dando dignità sociale a chi non ne aveva o ne aveva poco. È come se il male si fosse nutrito del bene precedentemente raggiunto. È rinato in forme nuove. Noi, però vediamo un invito a trovare altre forme di bene per fermare il male che si radica nella società odierna. Non bisogna arrendersi dicendo: “si è fatto sempre così”. In questo modo si avalla la struttura stessa del male ostacolando la crescita del bene che va oltre il male stesso. Noi non siamo chiamati a “fare come si è sempre fatto”; dobbiamo pensare a cose nuove che possono sorgere e che possiamo contribuire a far sorgere.

Come Pastorale sociale e del lavoro della diocesi pratese, abbiamo pensato di dare il nostro contributo richiamando i protagonisti della regolazione del lavoro e di coloro che oggi approfittano della debolezza del lavoratore su alcune linee guida che ci vengono dal Libro Sacro (con la scelta di alcuni versetti che si adattano alla problematica che stiamo affrontando, senza nessun intento catechetico o prescrittivo e tanto meno di applicazione letteralistica, visto che la Bibbia – interpretata alla lettera – spesso può portate a conclusioni opposte rispetto allo spirito del testo) e che possono orientare l’azione di ogni attore

1 Ispirare la nostra azione ad un’etica del lavoro. In questi tempi di difficoltà e di disperazione, ci sono persone che, pur di non perdere il posto e sperando in tempi migliori, accettano di lavorare senza stipendio, in modo precario, in condizioni non umane. Ispirare la nostra azione a un’etica del lavoro significa rispettare chi lo compie a partire dal giusto compenso, come ci ricorda la Bibbia.

Guai a chi costruisce la casa senza giustizia e il piano di sopra senza equità, che fa lavorare il suo prossimo per nulla, senza dargli la paga (Geremia 22:13). Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. (Giacomo 5, 4).

2 Il lavoro sia giusto ed equo. È ancora la Bibbia che ci ricorda: Non opprimerai il tuo prossimo, né lo spoglierai di ciò che è suo; il salario del bracciante al tuo servizio non resti la notte presso di te fino al mattino dopo. (Levitico 19:13). Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nel tuo paese, nelle tue città; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e vi volge il desiderio (Deuteronomio 24, 14-15a)

Oltre a essere giusto ed equo, il compenso del lavoro deve essere tempestivo per non creare differenze tra lavori e lavoratori. Bisogna permettere a tutti di fare la spesa, di non preoccuparsi di arrivare a domani o a fine mese. Non si può assistere inermi a pagamenti decurtati, a pagamenti formalmente contrattuali e in realtà dimezzati da caporali, da imprenditori incapaci che fanno profitti ingiusti sull’illegalità. Non pagare per mesi un operaio significa, di fatto, pagarlo molto meno del pattuito. Il discorso, però, vale anche per il lavoro dei professionisti, degli artigiani, delle aziende in genere che lavorano per conto terzi soprattutto quando il committente è un ente pubblico. E, a maggior ragione, vale per il pagamento degli ammortizzatori sociali da parte di soggetti pubblici: è inaccettabile che chi è in cassa integrazione (quindi già in una situazione di debolezza e incertezza) debba attendere molti mesi prima di vedersi erogare quanto gli spetta.

Prendere tempo sul pagamento del salario comporta due cose, ambedue inique: la privazione della libertà di sussistenza all’operaio e l’arricchimento indebito dei datori di lavoro disonesti, conseguito per mezzo di quel denaro conservato più a lungo, magari in banca o senza pagare le imposte.

3 L’impresa non può essere un luogo di dannazione. L’impresa sia un luogo di ristoro, dove

attraverso il lavoro si costruisce un ambiente comunitario, dove ci si prende cura l’uno dell’altro e si partecipa alla realizzazione complessiva della comunità aziendale e territoriale. Se si sta bene in un luogo di lavoro si sta bene anche all’esterno. Se c’è rispetto del contratto c’è maggiore responsabilità sociale di tutti coloro che lavorano a vario titolo.

 4 Il sindacato non può stare a guardare. Il sindacato, soprattutto quello confederale, faccia i conti con la società liquida cercando di produrre più certezze per i lavoratori, per i giovani, per le donne, per le famiglie. Continui a svolgere un ruolo di “corpo intermedio” tra società ed istituzioni, interpretando con ampiezza di vedute e di comportamenti i mutamenti qualitativi e quantitativi della realtà del lavoro, con l’obiettivo di ricomporre ciò che tecnologia, organizzazione e globalizzazione e scelte datoriali tendono a scomporre. Non badi a rafforzare solo il suo consenso per crescere in autorevolezza. Promuova la partecipazione dei lavoratori alle scelte sindacali, alimentate da valori e obiettivi unificanti, che non si possono esprimere una tantum, con fiammate ribellistiche attorno a parole d’ordine spesso populistiche, ma con un costante coinvolgimento delle persone, guidandole su un saldo sentiero democratico.

Cosa possiamo fare, come credenti, per aiutare il rispetto della dignità del lavoro?

Innanzitutto ascoltare la voce di chi sta subendo ingiustizie per attivare processi di riparazione all’ingiustizia prodotta; non girare la testa dall’altra parte o trovare delle giustificazioni come quella che dice “non è compito nostro”. Informarci, ascoltare le ragioni delle parti e favorire processi di incontro tra gli attori del lavoro (sindacati, imprenditori, lavoratori e istituzioni) è questo un cammino da proporre a tutti noi. Siamo chiamati ad aiutare i processi di ripristino della giustizia attraverso azioni individuali e collettive che costringano a cercare soluzioni che possano aiutare tutti.

Inoltre, possiamo agire direttamente come consumatori e diventare consum-attori. Come consumatori, possiamo esercitare il nostro spirito critico, di discernimento e comportarci come un soggetto che, anche se esterno alle relazioni di lavoro, entra in gioca con la propria capacità di orientare i propri consumi verso aziende che rispettano i diritti umani e la dignità del lavoro. È quello che il prof. Becchetti chiama “votare col portafoglio” e che un tempo avremmo chiamato boicottaggio delle merci. Ci ricorda Francuccio Gesualdi che “Quando acquistiamo un determinato prodotto stiamo approvando tutto quello che è stato fatto per produrlo. Se capiamo questo, ci rendiamo conto del potere che abbiamo in mano”.

È un impegno che ci costerà fatica, ma che aiuterà coloro che soffrono le discriminazioni e l’ingiustizia sul lavoro e aiuterà a capire che un mondo più giusto è possibile. E alla fine quando nel nostro cammino verso la giustizia ci sentiremo stanchi sappiamo di poter contare su un consolatore che ci dice: Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. (Matteo 11, 28-29)

 

Per la nostra società le priorità sono l’apertura ai poveri e la partecipazione democratica.

Luigi Mochi Sismondi

Una delle domande che in questo incontro abbiamo voluto porci è: quale priorità per la nostra società?  Rispondo subito con la tesi di questo breve contributo: le priorità per me sono: l’apertura ai poveri e agli impoveriti, italiani o migranti che siano e la. partecipazione democratica al processo decisionale.

Mi pare infatti che la vera discriminante di questo momento sociale sia la scelta tra l’apertura e la chiusura, o, in altri termini tra egoismo e accoglienza e ancora tra individualismo e partecipazione. Delle tante questioni all’ordine del giorno in questi tempi ne nominerò solo due:

  • La richiesta di un’autonomia regionale differenziata
  • Il trattamento dei migranti e dei richiedenti asilo

Vedremo come la strada che sta prendendo questo governo, che però purtroppo rappresenta una buona parte della pubblica opinione, è quella dell’egoismo e della chiusura programmata verso ogni diversità ed ogni povertà.

  1. Le regioni che oggi chiedono l’autonomia rispetto a settori importanti delle politiche pubbliche, come la scuola, le infrastrutture, l’energia, l’ambiente vorrebbero che la maggior parte del gettito fiscale sia lasciato nelle stesse regioni che lo producono. In questo modo, quelle più sviluppate economicamente si ritroverebbero a poter gestire più risorse di quelle che lo Stato attualmente impiega nei rispettivi territori. Questo è il motivo per cui il progetto di autonomia differenziata è stato autorevolmente definito come la “secessione dei ricchi”. La realizzazione di questo progetto potrebbe avere esiti disastrosi sul piano della coesione sociale. Come è noto, le disuguaglianze nel nostro Paese hanno una natura anche territoriale. Esse si determinano principalmente lungo l’asse nord-sud, dando luogo al fenomeno del divario civile, per cui il contenuto effettivo dei diritti sociali di cittadinanza cambia a seconda dei luoghi. Il progetto di autonomia differenziata rende ancora più opachi il presente e il futuro del paese. Ai cittadini andrebbero infatti assicurate uguali opportunità di accesso ai beni di cittadinanza, a prescindere dal luogo di residenza e dal grado di sviluppo produttivo locale. Il divario è già particolarmente evidente rispetto alla sanità, e anche all’istruzione, ai servizi sociali e alla questione ambientale, ovvero rispetto agli ambiti da cui dipende la qualità e l’estensione dello sviluppo umano autentico. Si tratta proprio di quegli ambiti in ordine ai quali le regioni vogliono fare da sole, chiedendo più poteri e risorse.
  2. Le forze politiche che ora sono al governo, quando erano all’opposizione, hanno fatto della lotta all’immigrazione “illegale” il centro della loro propaganda. Di fronte alla “scoperta” che, davanti ad un evento così grande e globale, non esistono soluzioni semplici, ecco che continuano a parlare e a tentare di agire a suon di slogans: blocco navale, detenzione fino a 18 mesi espulsioni e rimpatri. Sono progetti probabilmente e fortunatamente irrealizzabili, ma rimarcano un preciso intento politico quello di alimentare odio e paura. Di contro, molto spesso, la gente comune di Lampedusa e di tanti altri luoghi si mostra pietosa ed accogliente.

Questi sono programmi frutto di un unico atteggiamento di egoismo dei ricchi e di chiusura verso i poveri e gli impoveriti. Ci sarebbe un antidoto a questo veleno: il rispetto della Costituzione e l’applicazione delle sue indicazioni ideali, ma parlano della necessità della sua revisione e i termini con cui si vuole fare certo non ci lasciano tranquilli, tutti tesi ad aumentare i poteri dell’esecutivo o del “presidente” e a svilire ancor di più la rappresentanza democratica, come già si è fatto con la demagogica ed antidemocratica diminuzione del numero dei parlamentari.

Ma a questi programmi politici si affianca l’altro problema fondamentale, la mancanza di partecipazione democratica.

Libertà è partecipazione si diceva, ed è proprio questa la dimensione che ora ci manca, mi piacerebbe  poter addebitare ad un complotto, ad un grande vecchio, la colpa di averci chiuso ognuno nella propria storia personale, con le sue gioie e i suoi drammi e anche la sua lotta per andare avanti, ma tutto ristretto solo nell’ambito familiare, ma non è così, o almeno non è solo colpa del “potere”, siamo stati anche tutti noi a dimenticarci di quel che diceva don Milani “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”. I social media ci danno l’illusione di partecipare ma di fatto rischiano di rinchiuderci sempre di più nelle mura di casa.

La frase di don Milani lancia un messaggio esplicito di impegno politico. Significa che, se una questione è discussa e vissuta solo in un ambito privato, essa non può avere risultati efficaci per tutti. Viceversa, se è discussa e decisa in un organismo democratico decisionale essa esercita una maggiore forza di risoluzione politica. Ma sono proprio questi organismi partecipativi e decisionali che piano piano hanno perso forza e significato, vedi ad esempio gli organi collegiali delle scuole o gli stessi comitati di quartiere, le consulte popolari ecc. Si è interrotta ogni possibilità di partecipazione alle decisioni della vita collettiva. Proprio in un tempo in cui l’informazione straborda e sarebbe facile la comunicazione tra le persone e la condivisione di idee e decisioni, sempre di più queste sono in mano ai pochi a cui affidiamo la vita pubblica che agiscono senza consultarci e spesso per fini personali o di partito.

Il grave problema che oggi dobbiamo affrontare è costituito quindi dalla crisi di partecipazione democratica e dall’assenza di sovranità popolare. Ogni istituto politico-decisionale è riservato ad élites assai ristrette, detentrici esclusive della ricchezza economica e del potere politico. Ogni organo di democrazia rappresentativa è, di fatto, esautorato.

È proprio questa, oggi, la principale emergenza politica e sociale: la crisi o l’assenza di democrazia reale, di una politica partecipativa estesa alla gente comune specie delle classi subalterne.

Ma quella della chiusura in un privato personale è una strada già segnata o possiamo provare a fare qualcosa? Ci appelliamo spesso alla necessità di educare i bambini e i ragazzi all’apertura, alla generosità e alla partecipazione, e questo è utile e necessario, ma, come molti di noi sanno, questo almeno fino alla scuola dell’obbligo già avviene, la gran parte degli insegnanti cerca di abituare alla collaborazione, al rispetto per la diversità, all’aiuto al più debole, alla partecipazione alla vita collettiva. Cosa manca dunque dov’è che il processo si interrompe?

In questi ultimi decenni sono venute a mancare quelle agenzie di formazione che erano, per i più giovani la parrocchia con i gruppi della cresima e del dopo cresima o i gruppi scouts, e poi, entrati nel mondo del lavoro i sindacati, e ancora i partiti, i comitati di quartiere, le associazioni culturali e di volontariato. Credo che sia da qui che dobbiamo ripartire, dimenticarci dell’ambizione del successo per riscoprire la gioia di lavorare per il bene comune, di cui noi essendo costruttori siamo insieme fruitori.

Ripeto dunque, le due necessità che rispondono alla domanda iniziale: quale priorità per la nostra società?  l’apertura ai poveri e agli impoveriti, italiani o migranti che siano, e la partecipazione democratica ai processi decisionali.

 

 

 

 

 

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