Lettera 76 (Seconda Serie)

Carissimi,

immaginate un paese di montagna, le cui case sono interamente in legno… scoppia un incendio, vengono chiamati i Vigili del Fuoco che arrivano… con i lanciafiamme!!

L’assurdità di questa storia ci spinge, di fronte al bombardamento di notizie tragiche, a non girare la testa per cercare rifugio in oasi inesistenti, ma a impegnarci a guardare l’orizzonte nella sua complessità e a vedere, realizzare, comunicare speranza, non con le parole, ma soprattutto “con uno stile di vita eloquente”, siamo chiamati ad impegnarci “a lottare per far interagire le diversità” imparando a condividere le nostre fragilità.

Ciò che avete appena letto è un invito a leggere con grande attenzione i due articoli che seguono:

  • Sabino Chialà, priore di Bose: “Vivere il Vangelo nella forma monastica oggi”
  • Cardinale P. Pizzaballa: ” Lettera a tutta la Diocesi” del 24-10-2023

La poesia che trovate alla fine è una perla che ci ha mandato Vincenzo Zambello, prete a Verona.

Siamo molto contenti quando riceviamo i vostri commenti, ognuno contribuisca per la sua parte. Grazie a tutti voi.

 

Il coraggio della pace

Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei latini   24 ottobre 2023.

 

(…) La coscienza e il dovere morale m’impongono di affermare con chiarezza che quanto è avvenuto il 7 ottobre scorso nel Sud di Israele non è in alcun modo ammissibile e non possiamo non condannarlo. Non ci sono ragioni per un’atrocità del genere. Sì, abbiamo il dovere di affermarlo e denunciarlo. Il ricorso alla violenza non è compatibile col Vangelo, e non conduce alla pace. La vita di ogni persona umana ha una dignità uguale davanti a Dio, che ci ha creati tutti a sua immagine.

La stessa coscienza, tuttavia, con un grande peso sul cuore, mi porta oggi ad affermare con altrettanta chiarezza che questo nuovo ciclo di violenza ha portato a Gaza oltre cinquemila morti, tra cui molte donne e bambini, decine di migliaia di feriti, quartieri rasi al suolo, mancanza di medicinali, acqua, e beni di prima necessità per oltre due milioni di persone. Sono tragedie che non sono comprensibili e che abbiamo il dovere di denunciare e condannare senza riserve. I continui pesanti bombardamenti che da giorni martellano Gaza causeranno solo morte e distruzione e non faranno altro che aumentare odio e rancore, non risolveranno alcun problema, ma anzi ne creeranno dei nuovi. È tempo di fermare questa guerra, questa violenza insensata.

 

Porre fine all’occupazione

È solo ponendo fine a decenni di occupazione, e alle sue tragiche conseguenze, e dando una chiara e sicura prospettiva nazionale al popolo palestinese che si potrà avviare un serio processo di pace. Se non si risolverà questo problema alla sua radice, non ci sarà mai la stabilità che tutti auspichiamo. La tragedia di questi giorni deve condurci tutti, religiosi, politici, società civile, comunità internazionale, a un impegno in questo senso più serio di quanto fatto fino a ora. Solo così si potranno evitare altre tragedie come quella che stiamo vivendo ora. Lo dobbiamo alle tante, troppe vittime di questi giorni, e di tutti questi anni. Non abbiamo il diritto di lasciare ad altri questo compito.

Ma non posso vivere questo tempo estremamente doloroso, senza rivolgere lo sguardo verso l’Alto, senza guardare a Cristo, senza che la fede illumini il mio, il nostro sguardo su quanto stiamo vivendo, senza rivolgere a Dio il nostro pensiero. Abbiamo bisogno di una Parola che ci accompagni, ci consoli e ci incoraggi. Ne abbiamo bisogno come l’aria che respiriamo.

«Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). Ci troviamo alla vigilia della passione di Gesù. Egli rivolge queste parole ai suoi discepoli, che di lì a poco saranno sballottati come in una tempesta di fronte alla sua morte. Saranno presi dal panico, si disperderanno e fuggiranno, come pecore senza pastore.

Ma questa ultima parola di Gesù è un incoraggiamento. Non dice che vincerà, ma che ha già vinto. Anche nel dramma che verrà, i discepoli potranno avere pace. Non si tratta di una pace irenica campata in aria, né di rassegnazione al fatto che il mondo è malvagio e che non possiamo fare nulla per cambiarlo. Ma di avere la certezza che proprio dentro tutta questa malvagità, Gesù ha vinto. Nonostante il male che devasta il mondo, Gesù ha conseguito una vittoria, ha stabilito una nuova realtà, un nuovo ordine, che dopo la risurrezione sarà assunto dai discepoli rinati nello Spirito.

 

Il coraggio dell’amore e della pace

È sulla croce che Gesù ha vinto. Non con le armi, non con il potere politico, non con grandi mezzi, né imponendosi. La pace di cui parla non ha nulla a che fare con la vittoria sull’altro. Ha vinto il mondo, amandolo. È vero che sulla croce inizia una nuova realtà e un nuovo ordine, quello di chi dona la vita per amore. E con la risurrezione e con il dono dello Spirito, quella realtà e quell’ordine appartengono ai suoi discepoli. A noi. La risposta di Dio alla domanda sul perché della sofferenza del giusto, non è una spiegazione, ma una Presenza. È Cristo sulla croce.

È su questo che si gioca la nostra fede oggi. Gesù in quel versetto parla giustamente di coraggio. Una pace così, un amore così, richiedono un grande coraggio.

Avere il coraggio dell’amore e della pace qui, oggi, significa non permettere che odio, vendetta, rabbia e dolore occupino tutto lo spazio del nostro cuore, dei nostri discorsi, del nostro pensare. Significa impegnarsi personalmente per la giustizia, essere capaci di affermare e denunciare la verità dolorosa delle ingiustizie e del male che ci circonda, senza però che questo inquini le nostre relazioni. Significa impegnarsi, essere convinti che valga ancora la pena di fare tutto il possibile per la pace, la giustizia, l’uguaglianza e la riconciliazione. Il nostro parlare non deve essere pieno di morte e porte chiuse. Al contrario, le nostre parole devono essere creative, dare vita, creare prospettive, aprire orizzonti.

Ci vuole coraggio per essere capaci di chiedere giustizia senza spargere odio. Ci vuole coraggio per domandare misericordia, rifiutare l’oppressione, promuovere uguaglianza senza pretendere l’uniformità, mantenendosi liberi. Ci vuole coraggio oggi, anche nella nostra diocesi e nelle nostre comunità, per mantenere l’unità, sentirsi uniti l’uno all’altro, pur nelle diversità delle nostre opinioni, delle nostre sensibilità e visioni.

Io voglio, noi vogliamo essere parte di questo nuovo ordine inaugurato da Cristo. Vogliamo chiedere a Dio quel coraggio. Vogliamo essere vittoriosi sul mondo, assumendo su di noi quella stessa Croce, che è anche nostra, fatta di dolore e di amore, di verità e di paura, di ingiustizia e di dono, di grido e di perdono.

Prego per tutti noi, e in particolare per la piccola comunità di Gaza, che più di tutte sta soffrendo. In particolare, il nostro pensiero va ai 18 fratelli e sorelle periti recentemente, e alle loro famiglie, che conosciamo personalmente. Il loro dolore è grande, eppure, ogni giorno di più mi rendo conto che loro sono in pace. Spaventati, scossi, sconvolti, ma con la pace nel cuore. Siamo tutti con loro, nella preghiera e nella solidarietà concreta, ringraziandoli della loro bella testimonianza.

Preghiamo infine per tutte le vittime innocenti. La sofferenza degli innocenti davanti a Dio ha un valore prezioso e redentivo, perché si unisce alla sofferenza redentrice di Cristo. Che la loro sofferenza avvicini sempre di più la pace! (…)

 

Vivere il Vangelo nella forma monastica oggi

Sabino Chialà, priore di Bose     Ostuni 15-10-2023

 

Al termine di una serie di esortazioni alla tenerezza, alla bontà, all’umiltà, alla mansuetudine, alla magnanimità, alla sopportazione reciproca, al perdono e alla carità, Paolo aggiunge e conclude: “E diventate eucaristici!” (Col 3,15). Un’espressione carica di significato! Paolo non chiede semplicemente di “rendere grazie”, ma di “diventare persone che rendono grazie”, persone che assumono il “rendimento di grazie” come habitus, come disposizione interiore con cui affrontare la vita, le situazioni che si presentano.

Rendere grazie per cosa? Ci sono dei giorni in cui è difficile trovare qualcosa per cui rendere grazie. Sia che guardiamo al piccolo mondo delle nostre relazioni, sia che alziamo lo sguardo verso ciò che accade un po’ più in là, a questo nostro mondo. Le nostre personali inadeguatezze e le disumanità che continuano ad essere perpetrate in quei “sistemi di male” di cui siamo anche noi artefici, o almeno fruitori inconsapevoli, sono tali che ci sembra vi sia poco per cui rendere grazie. Difficile a volte essere capaci di questo sguardo. Ma è ben per questo che Paolo esorta a “diventare” … Si tratta di un’ascesi.

“Diventate eucaristici!”; diventate capaci di “gratitudine”, e così sarete anche capaci di diventare anche beneficiari e ministri della “Grazia” … Così vivrete di gratitudine e saprete anche irradiarla intorno a voi.

Accogliendo l’invito di Paolo, cari amici, eccoci qui in questo giorno. A venticinque anni dall’inizio di questa fraternità. Venticinque anni non sono grande cosa, anzi… E all’inizio ci siamo anche chiesti se fosse il caso di segnarli come stiamo facendo. Ma poi, per una serie di circostanze, ci siamo convinti che era il caso di farlo (anche per darci una scusa per essere qui, quasi tutti i fratelli passati per Ostuni, a rivedere voi, cari amici).

Non siamo qui per festeggiare! Tanto meno per gloriarci di una realizzazione nostra (anche se questa fraternità è costata fatica, ad alcuni fratelli in modo particolare, che sono qui oggi). Vorremmo invece non perdere un’occasione per esercitarci a mettere in pratica l’invito di Paolo: rendere grazie, per quello che il Signore ha fatto per noi in questi venticinque anni; per rendergli grazie della sua fedeltà, che è passata anche attraverso la nostra pochezza e le nostre contraddizioni.

Una fedeltà che è stato l’ingrediente determinante nell’edificazione di questa fraternità, cui tanti, ciascuno in modo diverso, hanno cooperato. Una fedeltà che non ci ha risparmiato prove e sofferenze. Momenti difficili, che ci hanno vagliato, che ci hanno fatto vacillare, ma che non ci hanno impedito di essere qui ancora… E proprio in questo momento vorrei fare mie le parole che Giovanni Crisostomo ripete nelle sue lettere alla diaconessa Olimpia, mentre si trova relegato in esilio dall’imperatore: “Gloria a Dio per ogni cosa”. Ogni cosa… di cui solo Dio conosce il senso e lo custodisce per noi, anche e soprattutto quando noi non siamo capaci di comprenderlo. (…)

Due domande: Cos’è il monachesimo? Cosa può dire all’uomo e alla donna di oggi?

La prima è una domanda dalla risposta semplice e complessa allo stesso tempo. E io non voglio tediarvi con un trattato sul significato della vita monastica. Direi in breve, riassumendo quello che la grande tradizione e il concilio vaticano II ci ricorda, che essa ha origine nel battesimo, che si sostanzia nella sequela dell’unico Maestro, Gesù Cristo, e del suo Vangelo; dunque è innanzitutto e fondamentalmente una via cristiana, di sequela del Signore. E tale cerca di rimanere. Una via che si esprime in una forma particolare che si dispiega lungo quelli che possiamo considerare due binomi in tensione: preghiera e lavoro, solitudine e comunione. Tutto qui…

La via monastica non è altro che questo: cercare il Signore e lasciarsi cercare da lui, in quelli che sono i luoghi che quotidianamente ritmano il nostro tempo: preghiamo e lavoriamo; nella solitudine e nella comunione. Tutto qui!

Il monachesimo non ha uno scopo particolare. Non ha una “utilità” chiaramente individuabile. E ogni volta che noi monaci, presi da una certa ansia da prestazione o desiderio di apparire “ragionevoli” e “spendibili”, abbiamo cercato di trovarne una, abbiamo in qualche modo tradito qualcosa di importante della nostra identità.

A volte si dice che i monaci sono gli “specialisti della preghiera”, come i religiosi di vita attiva sono dediti alla carità o alla predicazione. Credo che sia un’approssimazione indebita… e forse anche un tradimento.

Al cuore dell’identità monastica vi è una certa gratuità, oserei dire una “inutilità” e dunque “inspiegabilità”, a volte difficile da sostenere, soprattutto per noi monaci. Siamo infatti noi i primi a riempirci di tante cose che ci diano da vivere… Non nel senso materiale (questo è doveroso), ma nel senso che ci forniscano una ragione per vivere (ricordo del servo passato in comunità a Bose).

Alla radice della sua esistenza, il monaco riconosce l’inspiegabilità, e dunque la gratuità assoluta, della sua vocazione. La sua vita non riceve senso da ciò che fa, ma si dispiega a partire da ciò che cerca di essere, nella libertà di sapersi alla sequela del Cristo, ovunque egli vada, senza pianificazioni e senza condizioni. Tutto il resto è solo strumentale… Per questo noi monaci avvertiamo un certo disagio quando ci viene chiesto: “Perché hai intrapreso questa via?”. Lo sappiamo, altrimenti non saremmo qui, ma ci è difficile spiegare…

Posta questa premessa, vorrei ora solo evocare quattro tratti di quello che mi sembra essere al cuore del nostro vissuto o almeno del nostro desiderio. Li evoco semplicemente… perché preziose per noi monaci, e forse anche per questo nostro mondo. Quattro tratti che potrebbero offrire una risposta alla seconda domanda posta all’inizio di questa riflessione: Cosa può dire il monachesimo all’uomo e alla donna di oggi?

 

1.    L’attenzione alle piccole cose

Il primo tratto è una naturale conseguenza di quanto appena detto. La non “spendibilità” immediata del monachesimo, quella sua gratuità originaria, lo costituisce come una contestazione della logica utilitaristica che domina i nostri sistemi, per cui le cose e le persone valgono a partire da ciò cui servono, da quello che possono produrre o da quello che consumano. Una logica che informa e condiziona non solo i nostri sistemi economici. A volte investe anche l’ambito religioso, la fede (dimensione retributiva).

Noi non valiamo quello che produciamo. Il nostro essere non è limitabile a quello che appare e produce. Nessuno può essere ridotto alla sua utilità monetizzabile. Eppure quanto i nostri sistemi seguono queste logiche? E anche il nostro modo di pensare… e di vivere le nostre relazioni?

Chiediamoci: “Siamo ancora capaci di vedere le persone (e anche le cose) nel loro essere profondo di ogni uomo e donna, e di ogni cosa? Abbiamo uno sguardo davvero contemplativo?”. Perché questo significa, innanzitutto, quella parola che spesso accostiamo a “monachesimo”: contemplativi.

Non contemplativi perché con la testa per aria! Ma contemplativi perché e se… capaci di vedere oltre e dentro. Soprattutto oltre e dentro il quotidiano, che non è mai eccezionale e lo è sempre, se lo sappiamo vedere e soprattutto vivere.

I monaci più che esperti di effetti speciali, di esperienze spirituali sovrannaturali, sono (o dovrebbero essere) esperti nell’assaporare il quotidiano, di scavare il senso del quotidiano. Vedere tutto nel frammento.

Guardiamo i nostri giorni: sono un alternarsi di preghiera e lavoro, di vita solitaria e di momenti di comunione. Il più delle volte non accade nulla di eccezionale. Eppure il monaco trova senso in quella semplice e ripetitiva alternanza. E questo lo aiuta ad affinare gli occhi e soprattutto il cuore. A vedere che è lì la porta d’ingresso… verso un oltre che è dentro non fuori dalle piccole cose.

Per questo il monaco è (o dovrebbe essere) anche un po’ poeta. Se poeta è chi sa vedere la grandezza di quello che sembra banale, e soprattutto viverne. E così opera quella unificazione del tempo e dello spazio che è al cuore del suo stesso nome (monakos), per cui non avverte più un tempo sacro e uno profano, né uno spazio sacro e uno profano. (…)

È questa la prima lotta del monaco, essendo la sua più tenace tentazione quella della fuga dal quotidiano: anziché scavare (che sarebbe il nostro mestiere), vorremmo sorvolare e sognare altri lidi (la tentazione dell’altrove).

 

2.    Dare speranza con la vita

Un secondo tratto, un secondo possibile dono è: dare speranza con la vita. Aprire al senso del presente e del piccolo non è volto ad accontentarsi e rimpicciolirsi, ma a guardare oltre e ad aprire a ciò che non c’è ancora. Per questo – ed è il secondo tratto che vorrei evocare – il monaco dovrebbe essere anche esperto di speranza e di attesa. Speranza per sé e per gli altri…

Uno dei rischi che da sempre il monachesimo ha corso è stato quello di essere un messaggio anti-umano. Questo è accaduto ogni volta che la solitudine si è ridotta a isolamento, il celibato a sterilità… anziché essere orientati a una comunione più profonda con l’universo intero.

Ma i monaci (ma direi i cristiani in genere) sono innanzitutto chiamati a mantenere viva e a trasmettere speranza. E dunque a incoraggiare a vivere, a dare speranza, ad aprire orizzonti. Isacco il Siro ha una bellissima pagina in cui dice:

È bene che il solitario sia tutto intorno a sé, per chi lo guarda, una visione di incoraggiamento. Cosicché per le sue molte bellezze, che come i raggi del sole risplendono tutt’intorno a lui, anche gli avversari della verità, senza volerlo, confessino che i cristiani hanno una speranza affidabile (I,11,1).

Dovrebbe far venir voglia di vivere. A volte la facciamo passare… Deve mostrare che egli è animato e sorretto da una speranza affidabile. Quella speranza di cui parla 1Pt 3,15: “Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”.

Una speranza che emerge non dalle parole, ma da uno stile di vita eloquente: la prima parola che diciamo (la prima predica!) è il modo in cui viviamo. Uno stile di vita che sia improntato all’autenticità (come tensione). Uno stile che trasmetta un bene vissuto e dunque che invita.

La speranza però non è un moto naturale. La si coltiva… E il monaco ha un luogo particolare in cui la attinge: la Parola del Signore, sulla quale medita quotidianamente. È lì che fonda la sua speranza per un futuro possibile al di là di tutto e attraverso tutto, come dice il salmista, nella sua preghiera a Dio: “Ricordati della parola data al tuo servo, ne ho fatto la mia speranza” (Sal 119,49). Di qui l’importanza della lectio divina: altro tratto distintivo della vita monastica.

È lì che rinnova ogni giorno la sua speranza. Quella che, in un altro passo del medesimo salmo, l’orante chiede che non sia delusa. Mi riferisco a quel versetto che cantiamo nella nostra professione: “Accoglimi (o: sostienimi) secondo la tua parola, e avrò la vita; e non deludermi nella mia speranza” (Sal 119,116).

C’è un’attesa fiduciosa, uno sguardo rivolto in avanti, che il salmista affida e ricorda a Dio, perché non lo deluda. Ma quell’attesa ha un fondamento: “la tua parola”. La speranza è conseguente ad una parola ricevuta, ad una promessa cui il monaco ha creduto e che custodisce.

Una speranza in cui vi è il ritorno del Signore, di cui il celibato è segno secondo la più antica tradizione. Celibato che non è condizione per una maggiore libertà, o cose simili… Nella chiesa antica, il celibato era visto come un segno dell’attesa del ritorno del Signore. Attesa che non fugge alla responsabilità verso il presente (non si chiede di deresponsabilizzarsi) ma annuncia che quanto è sotto i nostri occhi non è tutto, che c’è dell’altro.

Questo sguardo di attesa ci aiuta a ricordare che siamo di passaggio, che tutto va amato ma al passaggio… Una dimensione particolarmente importante anche perché alleggerisce il peso invadente dei nostri progetti e delle nostre letture… Ci ricorda che nulla è definitivo di quanto viviamo, neppure le tensioni…

La dimensione dell’attesa conferisce alla vita un dinamismo interiore, e quindi esteriore, che gli impedisce di ristagnare. E dunque vivere il presente in un altro modo.

Un testo particolarmente eloquente in proposito ce lo offre Paolo (1Cor 7,29-31) che però lo applica a tutti i cristiani:

Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto breve. D’ora in poi coloro che hanno moglie siano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero; coloro che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne abusassero; perché passa la scena di questo mondo.

Quel “passa la scena di questo mondo”, non dev’essere letto come un’espressione di disprezzo delle realtà terrene o, come spesso è avvenuto, uno slogan da fine del mondo. Vuole invece renderci consapevoli che tutto passa; e perciò va amato al passaggio, come un qualcosa che non possediamo, che è sfuggevole (pensate se ci ricordassimo di questo nel vivere le nostre relazioni! Quanto le vivremmo più intensamente!). Che “tutto ci è dato solo in prestito!”.

 

3.    Lottare per una comunione nella diversità

Un altro tratto con cui noi monaci “lottiamo” per cercare di viverla perché profondamente legata alla nostra esistenza quotidiana è l’esperienza della diversità, o meglio: la comunione tra diversi. Dico “lottiamo”, perché di questo si tratta. E non di rado ne usciamo perdenti. Appartiene al secondo binomio: solitudine e comunione.

Anche di questo il monachesimo potrebbe oggi essere segno, in un mondo sempre più minacciato da particolarismi che si trasformano facilmente in razzismi portatori di conflitti che sembrano insanabili. Un mondo lacerato… che erge le differenze a giustificazione dei muri! Ma noi sappiamo che si tratta di una miserabile copertura. Perché l’unica vera origine delle nostre divisioni è il nostro narcisismo… che è poi lo scudo con il quale tentiamo, maldestramente, di proteggerci da ciò che più ci fa paura: la nostra morte. Diciamo di non poter vivere insieme perché “troppo diversi”, come se con i “simili” fosse più facile!

No! Essere diversi non è di per sé un impedimento a vivere insieme, a condividere un cammino. Noi monaci lo sperimentiamo, vivendo insieme senza esserci scelti. E quando accade che ci dividiamo, contraddicendo uno dei tratti costitutivi della nostra vocazione, non è perché ci scopriamo “diversi”, ma è solo perché lasciamo prevalere sulla comunione la paura della nostra morte! La paura di vedere chiaramente che siamo finiti, piccoli e bisognosi degli altri.

 

4.    Accogliere la propria fragilità

C’è infine un ultimo tratto che vorrei almeno evocare. Insolito forse, ma vero. Un tratto che potrebbe essere anch’esso un dono, per chi lo vive e per coloro con cui abbiamo il coraggio di condividerlo: l’esperienza della nostra fragilità.

Purtroppo spesso noi monaci ci presentiamo (ci crediamo) o veniamo presentati e creduti dei forti. Sappiamo di non esserlo. Ma sappiamo anche rimuovere questa consapevolezza, celarla. Leggiamo in un detto dei padri del deserto:

Un anziano disse: “Non è per virtù che io vivo in solitudine, ma per debolezza. Forti, infatti, sono quelli che vivono in mezzo agli uomini” (Alf, Matoes 13).

Non eroi ma esseri umani… esperti della propria fragilità, non per accidente ma per grazia, perché è lì che ci è dato di incontrare il nostro Dio e i nostri fratelli e sorelle; di fare esperienza di una vera comunione. Non i doni, ma le fragilità condivise, edificano la comunione.

Il nostro Dio… che si è fatto “debole”, come leggiamo nella lettera agli Ebrei, dove si dice che Gesù “si è rivestito di debolezza” (Eb 5,2). E Paolo, nella seconda lettera ai Corinti, dice che “fu crocifisso per la sua debolezza” (2Cor 13,4). La debolezza è il modo di comunicarsi di Dio a noi e, di conseguenza, anche il luogo in cui lo incontriamo e ne facciamo esperienza.

Non solo Dio “si prende cura del debole e del povero” (cf. Sal 72,13), ma ha scelto la via della povertà per sé (per rivelarsi) e per i suoi (perché possano farne esperienza). Dice ancora Paolo, in uno dei suoi passi più noti: “Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere ciò che è forte; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che non è, Dio lo ha scelto per ridurre a nulla ciò che è, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio” (1Cor 1,27-29). Dio ha scelto la debolezza, come via di rivelazione… Forte di questa scoperta, Paolo dirà, dopo un aspro combattimento: “Mi compiaccio delle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti, quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,10).

Leggiamo ancora in un apoftegma, quasi a commento di Paolo:

Abba Mosè disse: “Sopporta l’ignominia e l’afflizione nel nome di Gesù, con umiltà e cuore contrito, e disvela davanti a lui la tua debolezza; e lui diventerà la tua forza” (Sir Bu I,228).

Ma la debolezza è anche l’unico luogo in cui possiamo incontrarci in verità tra esseri umani. Non sono le nostre presunte doti, i nostri doni, a farci incontrare, a edificare una vera comunione. Ma il coraggio di mettere in comune le nostre umanità ferite. Il nostro bisogno…

Ma una fragilità riconosciuta, nominata e accolta! Come raccomanda abba Poimen in un altro detto dei padri del deserto:

Un fratello interrogò abba Poimen e gli disse: “Come può un uomo rimanere in pace con suo fratello che abita con lui?”. Poimen gli disse: “Se un uomo sopporta la propria debolezza, può abitare anche con le fiere e non solo con un uomo” (Eti Coll 14,2).

Sopportare… cioè: riconoscere e portare la propria debolezza, senza farla pagare agli altri. Perché ogni volta che fuggiamo, misconoscendo la nostra debolezza, compromettiamo la comunione.

 

5.    In conclusione

Quattro tratti:

  • attenzione alle piccole cose
  • dare speranza con la vita
  • lottare per una comunione nella diversità
  • accogliere la propria fragilità

Ancora grazie a voi tutti che avete voluto vivere con noi questo momento. Un momento che non noi, ma solo la fedeltà di Dio ci ha donato. A noi chiede solo di esserne consapevole e di “diventare” sempre un po’ più capaci di rendere grazie.

 

Il cammino e l’arte della nonviolenza

Don Vincenzo Zambello

Quando qualcuno ti aggredisce:

ascolta, abbassa la testa

solo per un momento

e poi alzala ancora

e per sempre

abbozzando un sorriso sul volto

bagnato da preziose lacrime calde

senza difesa, disarmato:

lascia finire il suo grido

la sua critica, la sua accusa,

fino alla fine a sorprendere l’altro

per il tuo silenzio;

poi, umiliato,

amalo senza fretta

come chi ha nel suo cuore

una risposta, una parola di dialogo

di possibile intesa,

con uno sguardo che dice tutto:

parla che ancora ti ascolto

C’è dell’altro…?

È il momento del Passaggio:

dalla rabbia alla non vendetta,

dal disprezzo alla compassione,

inizio del difficile cammino

dell’accoglienza, del perdomo

ritmato da tante domande e suppliche

di riconciliazione, di Pace, di nonvilolenza.

Amen

 

 

 

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