Lettera 47 (Seconda Serie)

 

LETTERA INTRODUTTIVA

Cari amici ed amiche, questa lettera, come le due precedenti, ha come filo conduttore la partecipazione del popolo di Dio alla riflessione teologica e alle scelte della Chiesa. In modo particolare nei primi tre contributi abbiamo voluto concentrarci sulla partecipazione dei laici alla liturgia eucaristica.

Nel primo riportiamo una lettera che abbiamo inviato a tutte le parrocchie romane nel tentativo di riaprire il dialogo; ad essa avevamo allegato il n. 45 della nostra pubblicazione, tutto dedicato al rapporto comunione-comunicazione nelle comunità cristiane che potete trovare sul sito www.gruppolatenda.org .

Il secondo e il terzo articolo sono la presentazione alla comunità eucaristica di un grande dolore e di una gioia condivisa, entrambi vissuti nella fede, ringraziando il Padre per i suoi doni.

Continuiamo infatti a cercare la strada per ridare vita alla liturgia eucaristica; tale liturgia ruota intorno alle parole della consacrazione, tutto ruota intorno a quel perno, ma intorno a quel perno c’è tutta la storia, passata, presente e futura dell’umanità, la storia dell’amore di Dio per ogni creatura.

Guardiamo attentamente: dove emerge ciò che lo Spirito compie in quel popolo che si riunisce? dove emerge la fatica e la ricchezza di una settimana di lavoro, di affetti, di resistenze e di crolli? dove il nostro impegno a portare a pienezza ciò che manca alla passione di Cristo?

Quando e dove i preti vengono formati al compito di riconoscere l’opera dello Spirito nelle singole persone e all’impegno di far interagire tali doni?

Solo se quel perno centrale è collegato ai vari raggi, le varie situazioni della vita, diventa ruota e quindi capace di muovere, di percorrere il cammino dell’esistenza.

Le nostre liturgie eucaristiche ruotano attorno alla morte e risurrezione di Cristo, che è avvenuta una volta sola e che noi ripresentiamo, ma insieme dobbiamo presentare ciò che lo Spirito sta realizzando nelle nostre vite oggi e nella liturgia a cui partecipiamo è bene che ci sia l’intreccio di tali doni, delle fragilità, delle paure e delle gioie…

La liturgia eucaristica è il luogo di partenza della nostra settimana in famiglia, nel mondo del lavoro, in mezzo all’umanità intera… e tutto questo deve tornare ad arricchire la successiva liturgia domenicale. “ Se oseremo andare nelle periferie, là lo troveremo: lui sarà già lì. Gesù ci precede nel cuore di quel fratello” (Papa Francesco: Gaudete ed exultate, 135)

Il quarto e il quinto contributo sono riflessioni che a noi sono parse molto significative sul ruolo delle chiese locali e sulla formazione dei preti, argomenti da sempre al centro dell’attenzione del Gruppo de “La Tenda”.

Infine riproponiamo la lettera aperta di Ghislain Lafont a Papa Francesco di cui nello scorso numero avevamo omesso la parte finale che troviamo particolarmente significativa.

Come al solito aspettiamo dai nostri amici una partecipazione attiva: un commento, una critica, un contributo su questi temi.

 

Lettera alle comunità cristiane di Roma riunite intorno alla Liturgia Eucaristica della Domenica

Cari fratelli nella fede,

siamo un gruppo di laici che da anni si incontra per riflettere su ciò che di più prezioso la vita offre pubblicando una lettera periodica: “La Tenda”.

Il nostro sguardo è in particolare con gli ultimi, gli ultimi per ragioni sociali, culturali, di salute…

Vi scriviamo per mettere in comune il desiderio di una comunità cristiana:

– capace di far emergere l’enorme potenziale esistente nelle singole persone;

– capace di far intrecciare e concretizzare i diversi doni;

– che permetta alle singole persone maturate da questo confronto e dialogo, di vivere nel mondo capaci di far interagire ciò che di più importante già esiste.

Siamo ben felici di introdurre un numero de “La Tenda” con alcune parole del nostro vescovo, papa Francesco:

– dalla “Lettera al popolo di Dio”  20 agosto 2018:

“È impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.”

– dalla Costituzione Apostolica sul Sinodo dei Vescovi del 18 09 2018:

Così il Vescovo è contemporaneamente maestro e discepolo. Egli è maestro quando, dotato di una speciale assistenza dello Spirito Santo, annuncia ai fedeli la Parola di verità in nome di Cristo capo e pastore. Ma egli è anche discepolo quando, sapendo che lo Spirito è elargito a ogni battezzato, si pone in ascolto della voce di Cristo che parla attraverso l’intero Popolo di Dio, rendendolo «infallibile in credendo». Infatti, «la totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il Popolo, quando “dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici”, mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale». Il Vescovo, per questo, è insieme chiamato a «camminare davanti, indicando il cammino, indicando la via; camminare in mezzo, per rafforzare [il Popolo di Dio] nell’unità; camminare dietro, sia perché nessuno rimanga indietro, ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade. Un Vescovo che vive in mezzo ai suoi fedeli ha le orecchie aperte per ascoltare “ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2, 7) e la “voce delle pecore”, anche attraverso quegli organismi diocesani che hanno il compito di consigliare il Vescovo, promuovendo un dialogo leale e costruttivo»”.

N.B. Saremo contenti di ascoltare il vostro contributo, di persona o per iscritto.

Se volete ricevere “La Tenda” per email o cartacea scriveteci a: gruppolatenda@gmail.com

il nostro sito www.gruppolatenda.org

 

Un Abbraccio in umile spirito di fratellanza.

 

Celebrazione di saluto ad Elisabetta

di Anna Maria Polverari

Concedi o Padre, che con animo colmo di gratitudine io possa pronunciare le stesse parole di Simeone, quando nel Tempio, prendendo fra le sue braccia il Figlio tuo disse, benedicendoti “Nunc dimittis servum tuum Domine”… Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua Parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, Luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele.

Elisabetta, mia amata creatura! Che periodo intenso e prezioso è stato quello del lungo dolore della malattia da te sofferta. Per più di dieci anni, infatti, il Padre nostro ti ha resa custode privilegiata di una Energia misteriosa, sacra, travolgendoti in un’avventura che, a volte, sembrava sproporzionata alle tue stesse forze, ma che non è mai riuscita a spegnere la tua gioiosa voglia di vivere, né a fiaccare la determinazione con cui sapevi dimostrare a chi ti stava accanto, di come è proprio nella Sofferenza che sia possibile sperimentare ad oltranza la Speranza e di quanto debba essere risoluta l’obbedienza alla volontà del Padre. Ed è in virtù di questa ferma convinzione che tu hai sempre creduto che, finché le forze te lo avessero consentito, avresti dovuto portare a compimento il tuo pur breve compito di creatura amata da Dio, sempre in pienezza di Spirito e con una positività che emanava continuamente Luce attorno al tuo agire – : Compito di creatura amata da Dio, compito di figlia, di sorella, di moglie e di madre, compito di amica, compito di donna.

Nessuno ti ha mai vista piegata dalle prove di fronte alle quali venivi messa ogni volta, eppure nessuno più di me è stata testimone, in questi lunghi anni, di quanto non ti sia stata risparmiata alcuna sofferenza. Non ricordo ormai più quante visite invadenti e umilianti, quante chemio, quante infusioni velenose, quanti buchi nelle vene, quante medicine il tuo corpo abbia dovuto sopportare; eppure hai saputo vivere un tale calvario, imponendoti di nasconderlo a tutti, dietro uno sguardo sempre ottimista e positivo, e dietro un sorriso sempre luminoso, quello che non hai smesso di regalare ai nostri cuori preoccupati e smarriti, quello che ancora resta indelebile nei nostri occhi riconoscenti.

Per una misteriosa coincidenza, come avveniva quattordici anni fa per il tuo babbo, anche per te la tua grande pena ebbe inizio con il primo giorno di una Quaresima. Fu allora, quella del 2008, che i medici ti diagnosticarono con chiarezza la difficile realtà con la quale avresti dovuto convivere per tanti anni, e forse con la prospettiva che potesse durare tutta la vita, per poter tenere sotto controllo il male. Ma fu proprio da quella ricorrenza che diventò più forte che mai la mia convinzione che il Padre nostro ti avesse scelta come creatura così prediletta e così amata, al punto di concederti di concelebrare con Lui, per Lui, e in Lui la sua stessa Liturgia della Sofferenza pasquale, abitandoti, senza mai abbandonarti, un corpo e un cuore che pur amavano follemente vivere ed erano assetati di nostalgia del suo Amore infinito.

Ai miei occhi di madre, la tua fragile, ma grande forza sembrava impreparata e impotente ad affrontare il male che ti travolgeva, ti consumava, ti rubava lentamente alla vita; ma, ogni volta, e nei momenti più difficili, mi era concessa dal Signore la Grazia di saper leggere in te una forza incrollabile, inspiegabile e che ti alimentava incessantemente dentro: era la forza salvifica del Cristo sofferente che ti sosteneva ad oltranza per renderti capace di saper e voler discernere il culto del miracolo del suo Amore, della sua Bontà, della sua Consolazione, della sua Pazienza, del suo Perdono; della bellezza delle cose sante che in te, hai sempre amato coltivare, il culto dell’Amicizia, dell’impegno serio nello studio prima e coscienzioso dopo, nel lavoro; il culto della condivisione solidale con tutti i “piccoli e i poveri” che incontravi e che, come te, sapevi sperimentassero tutta la fatica del vivere e tutta la fragilità della condizione umana.

E con docile obbedienza, umilmente, accettavi la Sua volontà anche quando intuisti che avresti perduto la tua ultima battaglia. Eppure il Padre continuava a rivestirti dei suoi “talenti” trascinandoti nell’infinita tenerezza del suo immenso Amore, e lasciando che continuasse a germogliare in te la sua Luce, pur quando attraversavi le “tue notti più profonde”.

Una volta, mentre condividevamo una lettera di Don T. Bello, fermasti la tua attenzione su una frase che di lui ti aveva colpito e mi dicesti che ti sarebbe piaciuto farla tua e, da allora, amavi ripetere: “La mia vita non è stata una folata di vento, ma è stata una seminaggione”, perché sentivi che Dio ti aveva creata come un seme vigoroso, e per questo non hai mai smesso di mettere radici profonde e solide in un terreno fertile, concimato abbondantemente e incessantemente dalla Sua infinita Bontà. Ed eri per me, per tutti, una fioritura continua, come la Primavera, sforzandoti di risollevarti ad ogni caduta più propositiva di prima, cercando di vivere con entusiasmo anche il più piccolo frammento di gioia che Lui ti permetteva e ti concedeva ancora di sperimentare.

Tu hai saputo combattere la tua “buona battaglia”, sostenuta sempre da una Fede coerente, incrollabile che accompagnava ogni tuo respiro.

Poi da ultimo è arrivato inaspettato, non previsto il buio della tua mente, quello che, inesorabilmente, e forse provvidenzialmente, si è insinuato in te come un male che a volte sembrava essere ancor più violento e devastante del tumore stesso; un buio che ha cominciato lentamente a spegnere, una ad una, tutte le luci che ti avevano illuminato l’esistenza e sei partita per un viaggio tutto tuo, precipitando in un’angoscia e in uno smarrimento che diventarono pane quotidiano di tutti i tuoi giorni e che ti inabissavano in un baratro senza fondo. Fu allora che, come una bimba indifesa, sperduta regredisti in un groviglio di angosciose paure e cominciasti a chiedere silenziosamente aiuto per poter vincere la paura devastante delle tue “notti interminabili”. E, piano piano, diventasti Silenzio Implorante, Invocazione Muta: diventasti VOCE, si VOCE, perché imparavi a sostituire le tue parole e i tuoi pensieri sconnessi col CANTO, un canto vivente, melodioso, dolcissimo rivolto a quel Dio buono e grande che cominciava a prepararti e ad aprirti la strada che, con gli Angeli, ti avrebbero sollevata e portata nella Sua festa in Cielo. Chi degli amici e amiche non ricorda con quale entusiasmo ed insistenza chiedevi di partecipare alle prove del coro in Chiesa o a scuola, quando la tua VOCE si faceva preghiera all’universo, e come il tuo canto diventava l’unica modalità con cui potevi comunicarci il tuo grande messaggio d’amore che si chiama VITA?

Ed era allora che, mano nella mano, nello smarrimento più profondo del tuo tormento ripetevamo insieme le parole di San Paolo “Chi ci separerà dall’Amore di Cristo? Forse la tribolazione, forse l’angoscia, forse la morte?” E ripetevamo con ferma convinzione: “Niente ci separerà dal suo Amore, perché noi, in tutte queste cose, siamo stati più che vincitori, per virtù di Colui che ci ha amato”. Perché noi abbiamo creduto che la Morte non è l’ultima parola, che la Morte non è un fallimento, che con la Morte niente di ciò che Dio ci ha concesso di vivere insieme in questo soffio di vita, niente andrà perduto.

Il nostro esistere continuerà in Lui, per Lui e con Lui e questo ci consentirà di pronunciare i nostri nomi familiari sorridendo, di gioire delle piccole, grandi cose che tanto ci piacevano quando stavamo insieme, senza la minima ombra di tristezza. E anche se lontani dalla nostra vista continueremo ad essere nei nostri pensieri, sicuri che, ogni volta che lo chiederemo e lo desidereremo, il Padre ci consentirà di ritrovarci nella Comunione dei Santi, di tutti coloro che ci hanno preceduto nella grande tribolazione, perché a noi è stato dato di credere che tutti parteciperemo della Risurrezione finale, e che vedremo un Cielo nuovo e una terra nuova, dove non ci sarà più affanno, né lutto, né lamento perché le cose di prima saranno passate e ogni lacrima verrà definitivamente tersa dai nostri occhi.

Questa è stata e continuerà ad essere la FEDE in cui noi abbiamo creduto.

A rivederci creatura mia, mia piccola miciola, figlia di un Dio appassionato e attento.

Noi siamo certi che ci sarà consentito di poter vedere il punto di arrivo di tutta l’Evoluzione, ne saremo partecipi nella e con la gioia senza fine, proprio in virtù di questo atto definitivo che è la MORTE, e oggi la tua Morte, Elisabetta mia!!

“Noi ti lodiamo e ti benediciamo, Cristo perché con la tua Santa Croce hai redento il mondo. Amen”

La tua mamma

 

Contributo all’omelia per i nostri 50 anni di matrimonio

di Gianfranco e Maria Solinas

Come sentiamo questi 50 anni di cammino assieme? Come l’avventura di due poveri cristiani (per ridire al plurale il titolo di un bel libro di Ignazio Silone).

Un’avventura in cui si sono incontrate e innamorate due persone generate e accompagnate  da indimenticabili genitori e cresciute in famiglie in cui ci si è voluti  bene.

Un’avventura che entrambi, superati faticosamente gli ostacoli della solitudine e della timidezza, abbiamo provato a vivere cercando di camminare assieme a tante altre persone incontrate,  educandoci con loro a sperimentare, nella vita quotidiana, una società più fraterna e accogliente, aperta alla diversità, con meno ingiustizie e abbattendo tanti muri.

Di qui la sperimentazione di una famiglia non solo biologica, di lavori che avessero una valenza educativa (per Gianfranco nel sindacato, per Maria nella scuola e, ancor più, in  famiglia), di un reddito sobrio, del coinvolgimento in una intensa vita associativa, nel sociale, nella Chiesa, per un po’ anche in politica.

Gli anni romani, nel clima del Concilio e del ’68, hanno segnato la fase generativa della nostra famiglia, con la nascita dei figli; l’inteso lavoro formativo nella sede confederale della Cisl; l’accoglienza in casa di altre persone; il servizio pastorale; la partecipazione alla vita di quartiere; l’avvio, assieme al prete-operaio Nicolino Barra e ad un gruppo di laici, del foglio “la tenda”, con l’intento di contribuire, a Roma,  a rivitalizzare il dialogo nella vita ecclesiale e sociale della città, in una chiesa ancora  pre – conciliare; l’appassionato coinvolgimento nel cammino di spiritualità coniugale delle Équipes Notre Dame, che abbiamo poi diffuso in Puglia, nella Murgia sud-orientale e nel barese e in Calabria, a Cosenza.

Il lavoro nel sindacato ci ha portato in Puglia, nel momento dell’apertura della Scuola sindacale del Mezzogiorno, a Taranto. E in Puglia siamo rimasti scegliendo di vivere, assieme a  bambini e ragazzi diversamente generati, nella bella Murgia dei trulli, tra Martina Franca e Locorotondo.

Viviamo anni non facili in cui, nella parte occidentale del mondo, le conquiste consumistiche da difendere ad ogni costo sembrano contare assai di più dell’accoglienza fraterna di coloro che vivono nella miseria, nel terrore della guerra, nello sconvolgimento ambientale e che provengono dai tanti sud del pianeta.

Noi due, dopo esserci messi in gioco, per cinquant’anni, nel compito di farci accoglienti, siamo qui a riaffermare, assieme a tutti voi, nella comune piccolezza, che ciò che conta veramente sono i legami, le relazioni di vicinanza, l’amore fraterno che non ha confini e barriere, come Gesù di Nazareth ci ha insegnato a costo della vita.

Siamo qui a ridirci che c’è un pane da condividere, che le case non sono fatte per barricarvisi dentro ma per far posto ad altri, che tutti coloro che sono affogati nel Mare Mediterraneo non possono farci dormire sonni tranquilli, che il lavoro non può trasformarsi in una condizione di brutale schiavitù.

Giacomo, nella sua lettera che abbiamo ascoltato ricorda ai cristiani che “Dio ha scelto quelli che agli occhi del mondo sono poveri, per farli diventare ricchi nella fede e dar loro quel regno che egli ha promesso agli uomini che lo amano”.

Nell’invito che vi abbiamo rivolto abbiamo detto che ciò che ci ha più aiutato, nel farci vicini a famiglie ferite dall’esclusione sociale, è stato lo scoprire di essere vulnerabili ed esposti al rischio, proprio come loro, e questo ci ha dato il senso del limite ed ha posto le basi per una fraternità autentica.  L’abbiamo compreso accompagnando l’agire di ogni giorno con la riflessione, negli incontri della rete “bambini, ragazzi e famiglie al sud”, della rete delle famiglie accoglienti di questo territorio e in quella dell’Equipe Notre Dame.

Consapevoli della nostra fragilità e inadeguatezza, facciamo affidamento sulla misericordia del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e lo ringraziamo per tutti i doni ricevuti in questo tempo lungo del matrimonio.

Meditando il Vangelo di Marco, col cuore pieno di speranza, chiediamo per noi e per tutti voi che le nostre orecchie si aprano  e che la nostra lingua si sciolga, affinché il cuore di pietra sia trasformato in un cuore accogliente.

Ricordando le parole profetiche di Papa Giovanni XXIII, rinnoviamo in questo momento, assieme ai nostri figli e nipoti, a tutti voi, la scelta di operare affinché la pace sia una casa, la casa di tutti, in cui ci sia posto davvero per tutti.

 

IL RESPIRO CORTO DELLE CHIESE LOCALI

            di Marcello Neri

Credo sia facile percepire una certa fatica, all’interno delle Chiese locali, nell’approfittare degli spazi sempre più ampi che papa Francesco viene preparando loro passo dopo passo. E non penso qui a quelle diocesi in cui vescovi e fedeli non si sentono sintonici con le linee che lui va tracciando per un nuovo immaginario della fede e delle comunità cristiane. Anzi, penso proprio a quelle Chiese locali che sentono e vivono tutto ciò come una benedizione da lungo attesa.

Come se le possibilità improvvisamente apertesi davanti a noi ci avessero lasciato senza fiato, quasi impauriti di non poter delegare più le responsabilità della fede, oppure di poterci trincerare dietro la scusa di un apparato ecclesiastico che rema compatto in direzioni opposte.

 

Il timoniere e la ciurma

Certo, possiamo continuare a reclamare lentezze, resistenze, e finanche manovre che ostacolano il rinnovamento evangelico della Chiesa cattolica nel tempo di Francesco. Eppure, se siamo onesti fino in fondo, non possiamo non riconoscere che tutto ciò non legittima né dà ragione della nostra inerzia, della fatica – sul piano delle Chiese locali – a dare forma e ad abitare le aperture di orizzonte che Francesco ha consegnato alle nostre mani e ai nostri cuori.

È un po’ come se un bravo timoniere si ritrovasse senza ciurma, difficile poi portare la  nave verso qualsiasi agognato porto. Non che si sia ammutinata, ma è come se, attirata dalle abilità del timoniere nell’accompagnarla in mari perigliosi verso mete da lungo attese, su quella nave non fosse proprio mai salita. Forse per timore, forse per eccesso di incanto.

Ed eccola lì, la nostra ciurma, paralizzata a guardare la nave dei desideri costretta a veleggiare nel porticciolo di casa, anziché salpare per mari aperti verso destinazioni ignote a cui il Signore la invia sapendo, che pur con tutta la sua fragilità, il viaggio porterà il debito frutto.

 

L’imitazione mal riuscita

È la sensazione che mi accompagna da quando la diocesi di Amburgo ci ha inviato il pieghevole in cui si illustrano le linee guida per l’introduzione, a partire da quest’anno, dell’accompagnamento (spirituale e pastorale) dei nostri ragazzi che studiano teologia per andare poi a insegnare nelle scuole (elementari e medie). Non serve scendere nel merito dettagliato della cosa, cerco solo di fissare la sensazione da cui non riesco a liberarmi da quando l’ho letto.

Detta in una battuta: la retorica cerca di imitare l’ispirazione ariosa di Francesco; la pratica approda a un immaginario ecclesiale lontanissimo da essa. Ossia, il desiderio sincero è quello di ritradurre in loco la realtà di Chiesa che egli vuole inculcare nei nostri cuori, ma alla fine pressiamo il tutto in un corsetto che non ha nulla a che fare con essa. E, si badi bene, lo facciamo noi che di Francesco siamo convinti estimatori, mica quelli che si oppongono in tutti i modi al suo corso.

Anzi, non è solo questione di corsetto, di strutture, ma di una sorta di  habitus che non riusciamo a dismettere in nessun modo. Ovunque mimiamo Francesco, ma non ci riesce proprio di viverlo. Rischiando di fare del suo passaggio tra noi come delle perle gettate ai porci di evangelica memoria.

Senza quasi rendercene conto, ma non per questo meno responsabili.

 

Le nostre immaturità

Certo, non eravamo preparati a tutto questo, anche se lo attendevamo spasmodicamente. Ci ha colto di sorpresa, ma poi non ci siamo attrezzati a dovere. Come se in tutti noi abitasse una figura del vivere cattolico che ci sembra molto più sicura e affidabile dello stile cristiano proposto da Francesco – quello che desidereremmo per noi e per i nostri cuccioli, con le sue armoniche evangeliche, il calore esigente della misericordia, l’assunzione delle responsabilità della fede là dove essa vive e non là dove essa è un «negozio» e merce di scambio in giochi di potere.

Non ci riesce proprio di incorporare questo stile, e neanche di riconoscerlo nei luoghi dove esso è già in esercizio (dentro e fuori le comunità cristiane). Anche noi paralizzati come la ciurma  convocata dal buon timoniere.

Come se Francesco avesse messo in risalto una fragilità e immaturità della fede, esattamente fra coloro che si sentono essere dei suoi. Da parte nostra, continuare a tesserne gli elogi, a difenderlo a spada tratta davanti a ogni dissenso, a citarlo in continuazione e a metterlo in tutte le salse pastorali possibili immaginabili non serve a niente.

 

Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato…

Con semplicità e rispetto ha messo a nudo una nostra debolezza, una non adeguatezza culturale e spirituale della nostra fede. Se c’è una ragione per essergli grati, tra noi che ci sentiamo di far parte dei suoi, è proprio per questo.

Non aspettiamoci che faccia il padre spirituale di ciascuno di noi, anche se la cosa gli riesce benino devo dire, con la sua abilità sapienziale di dire parole a tutti che sentiamo essere rivolte proprio a noi, proprio a me. Dono di una parola contemporanea meticolosamente coltivata nelle pagine antiche del Vangelo.

Francesco ha gettato la palla dalla nostra parte del campo, adesso sta a noi organizzarci a dovere e imparare a giocare con sagacia e senza rancore la partita. E a giocare in un campo vuoto, senza nessuno che ci sfida, nessun bambino si è mai divertito davvero.

 

CLERICALISMO?

            di Ghislain Lafont

(Pubblicato il 27 agosto 2018 nel blog: Des moines et des hommes in Munera. Rivista europea di cultura)

La questione dei preti pedofili ha assunto una rilevanza mondiale. Papa Francesco ha riconosciuto tanto le colpe commesse quanto la carenza di reazioni forti da parte dei vescovi, che hanno facilitato l’estensione di questa piaga, e la necessità di venire in aiuto seriamente alle vittime, di guarire il danno che esse hanno subìto. Senza considerare la domanda forse più importante, poiché riguarda il futuro: come evitare i casi di recidiva. E non bisogna dimenticare la misericordia, che papa Francesco ha messo in esergo di tutto il suo ministero apostolico.

Nella sua ultima lettera indirizzata a tutti i cattolici, papa Francesco ha messo in guardia contro il “clericalismo”, che sarebbe alla radice dei mali che denuncia, una sorta di corruzione della vocazione sacerdotale che si è lasciata distogliere dal suo senso apostolico ed evangelico, e attirare verso ciò che il papa chiama altrove la “mondanità”, alla quale faceva allusione già nell’omelia che rivolgeva ai cardinali nell’Eucaristia all’indomani della sua elezione nel 2013.

Vorrei riflettere ancora su tale questione del clericalismo, della mondanità. Fratel Michael Davide, nel suo recente libro Preti senza battesimo?, [1] lo ha detto con forza: dietro questi episodi disastrosi, c’è una questione più profonda, essenziale: che cos’è in definitiva il sacerdozio presbiterale?

Per rispondere alla questione, penso che sia ora di prenderne davvero sul serio un’altra, che mi sono permesso di formulare già da tempo, ma che attende tuttora una risposta: in certi ambienti ecclesiali, ci si domanda se non sarebbe opportuno ordinare dei viri probati, traduciamo “degli uomini che hanno passato delle prove”. D’altronde è ciò che si fa quando si tratta di chiamare un cristiano al diaconato. Ecco allora la questione: possiamo considerare come viri probati dei giovani che, appunto, non hanno ancora vissuto delle prove: né quella di una vita coniugale seria, né quella di una vita professionale solida, né quella di impegni nella città sul piano politico, sociale, associativo? Per dirla altrimenti, essi vengono ordinati soltanto sulla base di una formazione ricevuta in seminario, che si vuole oggi (ma solo oggi) attenta alle dimensioni umane della personalità. Ma una “formazione” non fa un uomo “formato”: è soltanto il tempo che permetterà di sapere se l’uomo è davvero formato. Ci sono eccellenti percorsi formativi che, per ragioni diverse, hanno fallito e questo o quell’uomo non corrisponde in definitiva alle speranze legate alla qualità della formazione. Perché dovrebbe essere diverso per il presbiterato? Non sarebbe meglio ritardare l’ordinazione fino al momento in cui il vir (non più lo juvenis) si sia rivelato probatus? Altrimenti, che cosa succede? In molti casi, per fortuna, si hanno dei buoni preti; non è necessario descriverli qui: ciascuno di noi ne conosce molti. Ma ci sono anche casi meno felici, che rientrano in ciò che papa Francesco chiama il “clericalismo”, che può conoscere delle derive più o meno forti, queste ultime per fortuna rare. Ho avuto in passato l’opportunità di insegnare in due università romane, e mi sono accorto che, in alcuni casi, il “clericalismo” era già presente e si manifestava negli uomini: meno legati ai loro studi, meno desiderosi di santità… molto semplicemente, forse, perché il loro avvenire era assicurato: a meno di colpe gravi o di contro-indicazioni evidenti, sarebbero diventati preti, avrebbero avuto la loro parrocchia, i loro compensi… dunque una sicurezza di base. Le donne, al contrario, non avevano un avvenire in qualche missione della Chiesa se non manifestavano un buon livello, e dunque era loro necessario “mettersi alla prova” (mulieres probatae!). – Tutte queste considerazioni mi fanno pensare che è tempo oggi per la Chiesa di prendere letteralmente ciò che la Lettera a Tito dice del candidato all’episcopé.[2]

L’onestà mi costringe anche a dire che la Santa Sede mi sembra in parte responsabile di questa deriva, poiché essa non ha mai favorito una riforma in profondità di quanto viene chiamato il “sacerdozio cattolico”. Il Concilio aveva, non senza difficoltà, posto alcune basi in questo senso. Alcuni teologi del post-Concilio, in vari paesi, sono entrati in quest’apertura ed hanno pian piano delineato una figura di prete coerente con le altre grandi intuizioni del Vaticano II sulla Chiesa in se stessa e nella sua missione di evangelizzazione. Un’immensa bibliografia potrebbe essere qui stabilita. Ma le prese di posizione ufficiali non hanno dato seguito a questa linea. Nel capitolo dedicato a Presbyterorum Ordinis e Optatam totius del volume L’Eglise catholique a-t-elle donné sa chance au Concile Vatican II ?, Gilles Routhier conclude così la sua ricostruzione di quanto è avvenuto: “La riflessione [condotta sotto i papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI] insiste sempre più sull’identità del prete e sulla sua spiritualità. Inoltre il presbiterato risulta concepito come uno stato di vita più che come un ministero. Tramite slittamenti successivi, si torna a considerare il presbiterato, che si designa sempre più a partire dalla categoria sacerdotale, come uno stato di perfezione. In quasi cinquant’anni, la prospettiva messa in opera dal Vaticano II è stata praticamente rovesciata”.[3]

Che cos’è dunque che induceva a vedere il presbiterato come uno stato di vita? Forse due elementi che sembravano richiedere la più alta santità: la gerarchia e il potere sacro, entrambi orientati anzi tutto non verso la Chiesa, ma verso le celebrazioni sacramentali. L’idea gerarchica, nel suo significato più alto, risale allo pseudo-Dionigi, questo teologo mistico che ha tentato di pensare il Mistero cristiano con l’aiuto delle categorie elaborate nella Teologia platonica scritta dal genio della scuola di Atene, Proclo: dalla pienezza indicibile dell’Uno innominabile, al di sopra di tutto, emanano per gradi le intelligenze che, a loro volta, sono all’origine del grado inferiore ad esse, e sono animate da un desiderio di ritorno verso la Sorgente che le supera. Questa figura riguarda al tempo stesso la gerarchia dei Nomi divini e, sul piano cristiano, l’ordine delle gerarchie dei cori angelici e, nella Chiesa, delle diverse persone. Il vescovo è sulla terra l’emanazione più pura della santità, di cui il testo descrive l’attività simbolica e l’afflato contemplativo. In Occidente, dopo il Concilio di Trento, questa visione gerarchica ha caratterizzato maggiormente il prete.

Il potere sacro: è ciò che permette a chi appartiene all’ordine gerarchico di compiere atti propriamente divini – quelli che, nei sacramenti, fanno ciò che nessuna creatura può fare: operare la conversione eucaristica del pane nel Corpo, del vino nel Sangue di Cristo (Eucaristia), far entrare un uomo nel Corpo di Cristo, con il Battesimo e la Penitenza. Qui, lo strumento che permette di pensare tale Mistero, non è più la Teologia platonica, ma la Metafisica di Aristotele.

Ora, entrambe queste componenti dell’interpretazione del presbiterato sembrano conferire una dignità alla misura della loro trascendenza, e costituiscono al tempo stesso un’esigenza immensa di santità sacerdotale – cosa che può spiegare, del resto, la reticenza opposta in altri tempi da numerosi santi al ricevere l’Ordine, giudicato completamente al di là delle loro capacità.

Mi pare che questa mentalità generale della santità del prete ha governato le prese di posizioni del magistero cattolico, anche dopo il Concilio. È su questa base immutata (in cui il celibato trova il suo posto, legato alla catharsis greca) che si sono innestate un certo numero di considerazioni più moderne di ordine psicologico e intellettuale. Ma in definitiva, l’idea del prete resta estremamente elevata. Troppo elevata? Ci si rende conto di ciò leggendo la Ratio fondamentalis Institutionis sacerdotalis, recentemente pubblicata dalla Santa Sede con il titolo: “Il dono della vocazione sacerdotale”. È difficile immaginare una vocazione cristiana che sia superiore a quella tratteggiata in questo testo. La domanda che può sorgere è allora: a quale realtà di prete corrisponde questo ammirevole programma?[4]

Da qui deriva la doppia questione che mi pongo: se è vero che il platonismo articolato di Proclo e la metafisica di Aristotele hanno fornito un tempo gli strumenti per la costruzione teologica del sacramento dell’Ordine, quali sarebbero gli strumenti da utilizzare oggi che – senza rinnegare questo passato e assumendolo per quanto è possibile – permetterebbero di  costruirlo altrimenti? Se, d’altra parte, è vero che la concezione soggiacente al “dono della vocazione sacerdotale” è da un lato molto alta e, dall’altro, inadatta forse alla congiuntura culturale di oggi, non si rischia forse ogni sorta di devianze? Quando il seminarista uscirà dal suo seminario, molto (troppo?) consapevole della situazione trascendente della sua vocazione, e che si troverà a confrontarsi da una parte con la realtà di questo mondo difficile e, dall’altra, con la propria fragilità umana, non rischierà di vacillare e di non saper troppo come gestire la propria esistenza? La grazia di Dio e l’aiuto degli uomini permettono certo alla maggior parte di “combattere la buona battaglia”. Ma non bisognerebbe riflettere più seriamente sui fallimenti? Non soltanto la pedofilia, ma l’abbandono relativamente frequente del “sacerdozio” nel giro di qualche anno o, fatto meno grave e più frequente, l’autoritarismo dei preti e la loro maniera rigida di comportarsi con gli altri, o di gestire le questioni di denaro? Non è questo esattamente il clericalismo che condanna papa Francesco? Questo non sarebbe dovuto al fatto che la formazione, così come è messa in opera, finisce per rivelare l’impasse in cui in realtà ha messo i giovani? La vera questione è: che cos’è un “prete”? E non penso di essere presuntuoso, suggerendo di andare a cercare la risposta nei teologi che hanno lavorato su questo dopo il Concilio e le cui aperture, tanto misurate quanto belle, non hanno ancora scalfito la sicurezza dell’istituzione.

Nel 1971 c’è stato un sinodo sui preti. E se nel 2021 potesse essercene un altro, partendo dall’idea di viri probati? È la richiesta che volentieri indirizzerei umilmente a papa Francesco.

(traduzione di Emanuele Bordello)

 

LETTERA APERTA A PAPA FRANCESCO SU UNA QUESTIONE IMPORTANTE

           di Ghislain Lafont

Caro papa Francesco,

mi permetta di scriverle per un suggerimento, che andrebbe nella direzione di favorire, così mi sembra, la sua preoccupazione di guidare la nostra Chiesa su vie sempre più evangeliche. Si tratterebbe di destinare il Palazzo monumentale, attualmente occupato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, all’accoglienza dei poveri, delle famiglie di migranti e di altri senzatetto.

Data la posizione un po’ decentrata di questo edificio rispetto alla Città del Vaticano, penso che potrebbe essere facilmente isolato dagli altri edifici, visto che l’ingresso è reso possibile dal portale che si affaccia sull’attuale piazza del Sant’Uffizio, da dove si può raggiungere facilmente la città. Inoltre, come lei sa, l’edificio ospita già una mensa popolare all’angolo della piazza, tenuta, credo, dalle suore di Madre Teresa. Se lei prendesse una simile decisione, credo che l’ammirazione che susciterebbe nel mondo spingerebbe ricche fondazioni filantropiche a finanziare volentieri il lavoro di trasformazione del Palazzo in un edificio residenziale.

Mi sembra che questa nuova destinazione d’uso sarebbe un grande segno dell’orientamento evangelico della Chiesa cattolica: una parte della sua sede centrale diventerebbe, come lei dice, un “ospedale da campo” e una tale immagine susciterebbe emulazione in altre chiese, dapprima all’interno della Chiesa Cattolica e poi nelle altre.

Perché questo Palazzo piuttosto che un altro? Perché credo che, come ripeteva spesso un ottimo conoscitore di architettura religiosa recentemente scomparso, il padre Frederic Debuyst, ci sia in ogni spazio un genius loci: uno spirito del luogo. Ancor prima che ci si entri, si respira un’atmosfera, che i secoli hanno come iscritta nei muri, e questa condiziona più o meno profondamente lo stile, il modo, dei quali il lavoro che si svolgerà al suo interno sarà inconsapevolmente impregnato.

Come sa, caro papa Francesco, è soltanto dai tempi di Paolo VI che il dicastero ospitato in questo palazzo è chiamato “Congregazione per la dottrina della fede”. Prima si chiamava “Sant’Uffizio dell’Inquisizione romana”. Si parlava anche di “Supremo Tribunale dell’Inquisizione”. Era lì per fermare gli errori prima che diventassero eresie e per giudicare i fautori di queste deviazioni: l’aspetto dottrinale era unito a un aspetto legale con una sfumatura di giurisdizione penale. La Congregazione era, per destinazione, anti-protestante, anti-moderna, anti-ebraica, anti-religioni, anti-novità: in una parola “anti” qualsiasi cosa che potesse far deviare la Chiesa da una “verità” considerata come consolidata una volta per tutte e contro la quale i devianti erano facilmente sospettati di malafede e di orgoglio.

Senza dubbio la mentalità è un po’ cambiata, ma forse non così in profondità. Perché dietro di essa vi è una lunga tradizione filosofica di ispirazione neoplatonica sulla natura, il luogo e i detentori della Verità, come anche una tradizione (cristiana?) sull’uomo come più cattivo che buono, macchiato dal peccato originale e bisognoso di essere ricondotto, anche con la coercizione, alla verità della fede (non oso dire: del Vangelo), dato che l’inferno è più popolato del paradiso e occorre salvare le anime.

Ora, un’analisi imparziale dei testi recenti o delle decisioni della Congregazione indubbiamente dimostrerebbe che il genius loci del Palazzo talvolta è purtroppo ancora al lavoro, anche se in forme diverse rispetto al passato.

Credo, caro Papa Francesco, che la soppressione di questa Congregazione rappresenterebbe anche un richiamo alle chiese particolari e alle conferenze episcopali: innanzitutto ad ascoltare davvero tutti i cristiani di queste chiese, al fine di cogliere il loro senso della fede sul tema in questione, e quindi a sentirsi sinodalmente responsabili della carità, della speranza e della fede che vivono in queste comunità, senza scaricare tutto, più o meno consapevolmente, in caso di difficoltà, sul nunzio apostolico o su una congregazione romana.

L’unanimità senza residui non fa parte di un programma umano di deliberazioni: si trova solo nei regimi totalitari dominati da personalità tiranniche. Al contrario, arrivare a una maggioranza qualificata è un successo umano che ha un valore, e adeguarcisi è un atto di saggezza e umiltà. Tanto più che una verità così raggiunta lascia intatto il dovere dell’interpretazione e del discernimento. Se un accordo necessario risultasse davvero impossibile, un inviato del papa (“legato papale”, si diceva una volta) potrebbe giungere per tentare una mediazione.

Credo dunque che oggi non ci sia più bisogno di un dicastero specializzato, tanto più che la Santa Sede dispone di istituzioni dotate di uno spirito aperto, che non intendono definire nulla ma sono alla ricerca di una verità utile: il Pontificio Consiglio per la Cultura, la Commissione Teologica Internazionale, le Pontificie Accademie… Sarebbe anche un’occasione per dare nuovo valore e forza alle facoltà teologiche che in passato erano normalmente consultate e ora lo sono appena. Al contrario, il mondo e la Chiesa hanno bisogno che, anche all’interno dello Stato simbolico del Vaticano, ci sia un luogo in cui i poveri siano accolti con rispetto ed efficacia e in cui siano ascoltati e compresi.

Un giorno, molto tempo fa, a frère Roger, il fondatore di Taizé, che gli chiedeva di pubblicare un testo fortemente profetico sull’ecumenismo, il cardinale Ottaviani umilmente rispose: “Il Papa è il Padre, il Sant’Uffizio è la polizia (sic). Non si può chiedere un messaggio profetico al Sant’Uffizio, bensì al papa”.[5]

Bene, caro papa Francesco, visto che è possibile chiedere al papa un gesto profetico, glielo chiedo filialmente: le domando di trasformare l’ufficio di polizia in uno spazio di accoglienza per i poveri.

Prego per lei, come spesso chiede, il ché mi consente di scriverle con la pace del cuore. Mi perdoni se questo intervento le sembrerà inopportuno. Le assicuro la mia gratitudine per tutto ciò che fa e che ci aiuta a vivere.

 

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[1] Purtroppo l’editore francese non ha mantenuto il titolo provocatore ma fondato dell’originale italiano. Ho recensito la traduzione francese nelle Collectanea OCR, in corso di pubblicazione.

[2] Ho abbozzato qualche riflessione su questo punto nel mio ultimo libro Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco, EDB, Bologna 2017, p. 83-91

[3] Cahiers de la Revue théologique de Louvain n° 41, Leuven, Peeters 2016, 157-158.

[4] Mi ricordo qui di quanto mi diceva tanto tempo fa il compianto Philippe Delhaye, professore all’Università di Lovanio: “Nel Medioevo, si sono fatti di tutti i preti dei religiosi, e di tutti i religiosi dei preti”. Il Concilio avrebbe potuto far evolvere tutto questo.

[5] Sabine Laplane, Frère Roger, de Taizé, Paris, 2015,  p. 185