Lettera 48 (Seconda Serie)

Lettera introduttiva

Cari amici ed amiche, questa foto trasmette la speranza e insieme il timore che sono sul volto e nel cuore di tanti nostri fratelli che arrivano sulle nostre coste o che scendono dai pullman o dai camion e che in qualsiasi modo cercano, qui in Europa la salvezza dalla guerra, dall’oppressione, dalla discriminazione, una nuova possibilità di vita o semplicemente una vita migliore per sé e per la propria famiglia.

Nell’affrontare il tema delle migrazioni e nel riflettere su quale è il nostro compito in questo momento così difficile vogliamo partire da loro. Non  conosciamo quasi mai il loro nome, né di chi arriva né delle migliaia che sono morti nell’attraversare il Mediterraneo; usiamo nomi collettivi: migranti o peggio clandestini. Possiamo però facilmente capire quanto dolore, quanto coraggio, quanta speranza è racchiusa nelle loro storie. Basta solo osservarne il volto con amore e umana partecipazione.

Piccoli flash illuminano a volte la notte dell’indifferenza, un bambino disteso sulla sabbia per cui oramai possiamo solo piangere, un altro che porta cucita e protetta dall’acqua una pagella che pensa possa essere un valido passaporto, ma che non è riuscita a salvarlo, una donna o un ragazzo che raccontano il loro calvario nelle prigioni libiche.

Ma presto torna il buio e anche all’orrore piano piano ci si abitua, anzi forse cominciamo a pensare che in fondo è colpa loro: non li conoscono i pericoli? e che partono a fare che qui non abbiamo lavoro neanche per noi? non possiamo accogliere tutti… e via dicendo.

Eppure :

– dobbiamo capire che le cause profonde di questo migrare sono nell’economia predatoria che da troppo tempo toglie risorse e speranze e crea guerra ed oppressione, nel nostro modello di sviluppo che per crescere ha bisogno di trasformare milioni di persone in consumatori-produttori a basso reddito;

– dobbiamo pensare “…che nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra…..” come scrive la poetessa  keniota Warsan Shire.

Noi non ci rassegniamo all’orrore e vogliamo insieme confrontarci come uomini e donne, come cittadini, come cristiani.

Per questo vi invitiamo a un incontro :

Migranti e migrazioni: cause, opportunità, speranze”

a Roma,  il 18 maggio 2019, dalle 9,00 alle 16.30 presso

“Il Polo ex fienile” , Largo F. Mengaroni 29 (Tor Bella Monaca)

(in ultima pagina le indicazioni per arrivare)

 interverranno:

– Giorgio Marcello ricercatore presso l’università della Calabria

– don Gianni de Robertis direttore della fondazione “Migrantes”

– ascolteremo poi le testimonianze di alcuni migranti

(Il pranzo condiviso sarà offerto dal gruppo de “La Tenda”)

Le ragioni di chi parte

di Maguelone Girardot Direttrice di Radio Al-Salam (Iraq settentrionale)

La giovane francese Maguelone Girardot dirige a Erbil (Kurdistan iracheno) l’unica radio indipendente della regione, che trasmette in curdo e in arabo; nel passato ha svolto un servizio di volontariato con i migranti a Parigi, a Calais e in Bulgaria e con i rifugiati siriani in Libano e presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) in Marocco. Riflettendo sulle sue esperienze racconta le complesse traiettorie di alcuni di questi migranti e rifugiati e pone alcune domande scomode.

L’accoglienza e l’integrazione dei migranti e dei rifugiati, siano essi africani o orientali, sono al centro del dibattito pubblico in Europa così come nei Paesi di transito. Chi sono questi uomini e queste donne che vengono da un altro Paese? Perché si sono messi in viaggio? Il diritto internazionale considera rifugiato una persona che, «nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato» (Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati). Lo sfollato interno è invece un’altra figura e identifica chi, fuggito da una minaccia tangibile, è rimasto nel suo Paese e sotto la protezione, almeno teorica, del suo Governo. La nozione di “migrante” si riferisce infine a chiunque abbia lasciato la propria regione d’origine per ragioni personali, economiche, ecologiche, ecc.

La Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati, approvata il 28 luglio 1951 nella città svizzera da una conferenza speciale dell’ONU, delinea le caratteristiche dello status di rifugiato e le forme di protezione legale e di assistenza sociale che il rifugiato dovrebbe ricevere dagli Stati aderenti. Sor­ta per proteggere i rifugiati europei all’indo­mani della Seconda guerra mondiale, nel 1967 un Protocollo ne ha esteso l’azione a tutte le persone costrette a un esilio forza­to. Attualmente vi aderiscono 146 nazioni.

Cfr <www.unhcr.org/3b66c2aa10>.

Le Nazioni Unite annoverano 244 milioni di migranti, pari al 3,3% della popolazione mondiale (dati OIM – International Organization for Migration 2018). Circa 65,6 milioni di persone sono sfollate, di cui 22,5 milioni hanno lo status di rifugiati. Questo fenomeno globale riguarda principalmente i cosiddetti Paesi “in via di sviluppo”: più della metà dei rifugiati nel mondo proviene da Siria, Sud Sudan e Afghanistan (dati UNHCR – Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati 2018). In genere, si stabiliscono nelle regioni limitrofe per motivi materiali e amministrativi: ad esempio, il 30% dei rifugiati e degli sfollati interni vive nell’Africa subsahariana e il 26% nell’Africa settentrionale e nel Medio Oriente.

Durante i miei soggiorni all’estero, l’ospitalità e la disponibilità a dare la loro testimonianza da parte dei miei interlocutori hanno reso possibili incontri e scambi fuori dall’ordinario. La condivisione di esperienze e la crescita di una bella complicità sono state favorite dalla vicinanza di età e da un certo gusto per l’avventura e la scoperta di nuovi Paesi. Immersa nella loro vita quotidiana, ho avuto una piccola percezione di ciò che vivono i candidati all’emigrazione e gli esuli nei Paesi di partenza o di transito. Citando una frase di Louis Massignon, studioso dell’islam e teologo (1883-1962), «Per comprendere l’altro, non bisogna conquistarlo ma divenire suo ospite» (1963) e dunque io ero l’ospite della loro tenda e del loro cuore, e così ho cercato di capirli. In un momento in cui si discute dell’accoglienza degli esuli, desidero condividere le mie osservazioni e le poche riflessioni che ne ho tratto. Questa testimonianza cerca di dare un’idea del perché gli esuli hanno lasciato casa e di quanto gli costa farlo.

Le molteplici ragioni dell’esilio

La decisione di partire è dovuta a desideri e necessità diversi, anche a livello individuale. In conformità alla Convenzione di Ginevra, si distinguono comunemente i rifugiati politici, minacciati di morte, e i migranti economici, che cercano condizioni di vita migliori. In realtà ho sempre osservato un misto di motivazioni politiche ed economiche, associate al desiderio umano di scoprire il mondo. È il caso di Brice, un giovane camerunese che ho incontrato in Marocco. Bello, colto e molto socievole, è l’ultimo di un’agiata famiglia di Yaoundé, in parte emigrata in Francia. Si sentiva messo alle strette in un Paese dove «il pesce grosso mangia quello piccolo» e si è ripromesso di andare in Europa, anche senza alcun sostegno familiare. Con lo zaino sulle spalle, si è unito ai convogli che attraversano il Sahara a piedi o in autobus. Nonostante il caldo, la mancanza di visti e le minacce del racket, ha raggiunto Tangeri, in Marocco, nel 2014. Il viaggio è stato per lui un’iniziazione, un’occasione per mettersi alla prova. E Brice è stato brillante in tutte le occasioni, che si trattasse di giocare a palla con i bambini marocchini, di correre sulla spiaggia di Tangeri o di mescolarsi con ballerini di jazz alle feste alla moda. Tuttavia, il suo profilo corrisponde esattamente al migrante economico cui è rifiutato l’ingresso in Europa.

Della stessa età e altrettanto brillante, Suleiman ha lasciato sotto le bombe la sua Siria per andare nel vicino Libano, con i fratellini e le valigie in mano. Figlio di un veterinario di Al-Qusayr, vicino a Homs, studiava giurisprudenza alla facoltà di Aleppo prima dello scoppio del conflitto. Nulla del suo mondo prospero e spensierato lo aveva preparato a fuggire frettolosamente, né a sopravvivere in Libano in condizioni di povertà e umiliazione. Consapevole che né lui né la sua famiglia avrebbero mai ottenuto un permesso di soggiorno in quel Paese, pensava che ripartire fosse la sola soluzione durevole. Un profilo più ambiguo è quello di Sandra, giovane e bellissima irachena che appartiene alla comunità yazida. Presenti in Iraq, Siria e Turchia, gli yazidi sono un gruppo endogamo, che pratica una religione monoteistica poco conosciuta, incentrata sul culto del Dio Creatore. Le ripetute discriminazioni e il genocidio della sua comunità da parte dello Stato islamico erano ragioni sufficienti per fuggire dall’Iraq. Al contempo, Sandra aveva un buon lavoro nel suo Paese, condizioni di vita dignitose e un marito amorevole. Durante il nostro dialogo, mi sono resa conto che voleva mettere quanti più chilometri possibili tra la pressione della famiglia di suo marito e lei. Ognuno a suo modo, questi candidati a partire mescolavano ragioni legate alla sicurezza e motivi personali, la grande storia e l’itinerario individuale.

L’OFPRA (Office français de protection des réfugiés et des apatrides) è l’ente che riconosce lo statuto di rifugiati ai richiedenti asilo in Francia.

 

A mio parere, è molto difficile separare i rifugiati politici dagli immigrati economici, poiché nessuno parte per un solo motivo. La distinzione – di cui sono stata un’osservatrice esterna in Francia e interna con l’UNHCR in Marocco – è necessariamente artificiale e contiene un certo grado di arbitrarietà. Bisogna poi sapere che crea un rapporto perverso tra l’esule e l’operatore umanitario: il primo cerca di raccontarsi a partire da ciò che ha capito sui criteri di ammissibilità, il secondo cerca di smascherarne le menzogne. Non è certamente onorevole, ai nostri occhi di occidentali, ingannare le istituzioni del Paese di cui si chiede la protezione. Ma, come ho capito a Calais, crescere in Eritrea o in Sudan insegna a non fidarsi dello Stato e delle uniformi; sono di aiuto solo l’intraprendenza e la capacità di comprendere le regole, qualunque esse siano. Mi rammarico per questo rapporto di forze, pur comprendendo perfettamente che le leggi e le procedure di selezione siano state stabilite sulla base di un’analisi globale, in vista di una coerenza generale. Ma ho troppo in comune con questi esuli in cerca di avventura e di autorealizzazione per giudicare le loro scelte e tattiche. Temo inoltre che la situazione peggiorerà nei prossimi anni e che l’UNHCR, l’OFPRA e analoghe realtà occidentali debbano far fronte a una crescente sfiducia. L’aumento delle disuguaglianze economiche globali, il cambiamento climatico e la mobilità delle informazioni e delle immagini incoraggeranno sempre più persone a lasciare il loro Paese senza essere in fuga da una guerra. Se non si adatta la politica europea di accoglienza, temo che il divario tra i criteri europei e la situazione reale nei Paesi di partenza crescerà.

Sopravvivere e andare oltre alla sopravvivenza

Grazie a molti itinerari personali, mi sono resa conto della precarietà degli esuli e della diversità delle forme di migrazione. Molti Paesi ospitanti, come il Libano e l’Iran, fanno i conti con gravi difficoltà interne. Un afflusso massiccio ha l’effetto di aumentare il prezzo dei beni di consumo di base e di abbassare i salari. Gli esuli, infatti, hanno bisogno di tutto e sono pronti a vendere la loro forza lavoro a prezzi irrisori. Essi soffrono inoltre di un declassamento sociale e di pregiudizi nella società di accoglienza. Come europea, sono rimasta ingenuamente sorpresa per il razzismo dei marocchini nei confronti di chi viene dall’Africa subsahariana o dei libanesi verso i siriani. Mi sono resa conto che la paura dell’altro non è monopolio dell’uomo bianco. Gli esuli vivono in un’insicurezza materiale e psicologica permanente. Spendono tutti i risparmi accumulati negli anni per comprare un terreno o finanziare un matrimonio e s’indebitano in vista del futuro. In queste occasioni si mette in mostra l’ingegno umano, nel suo splendore e nella sua miseria. Sono ancora nauseata a causa delle reti di prostituzione delle ragazze e dalle bande di trafficanti presenti lungo le rotte migratorie dell’Africa occidentale. In Libano, lo sfruttamento della forza lavoro o del fascino dei giovani siriani mi ha lasciato senza parole sul cinismo di alcune buone famiglie. Badr, un iracheno ventenne della città di Ramadi, che è stata bastione di al-Qaida e dello Stato islamico, ha vivacizzato il mio soggiorno a Erbil con le sue imprevedibili avventure. Badr fuma, beve e fa festa, passa da missioni di consulenza a iniziative professionali, senza apparente coerenza. Ferito dalla critica di un europeo, mi ha detto quanto sia difficile pensare a lungo termine quando si ha una vita di caos e incertezza: «Mi dicono che la mia vita è disordinata? Davvero! Mi sono trasferito quindici volte negli ultimi tre anni. Mi svegliavo la mattina e guardavo i miei genitori fare le valigie. Questo significava che lo Stato islamico si era avvicinato al nostro quartiere e che dovevamo partire nel giro di poche ore».

In effetti, l’acquisto di una casa, la creazione di una famiglia o qualsiasi altra tappa della vita sembra irreale, preclusa dallo sradicamento. A livello collettivo, poi, le idee di spazio pubblico comune e di protezione dell’ambiente hanno pochissima risonanza: nei campi e nelle baracche in Iraq e in Libano, sono rimasta sconvolta dal consumo di tabacco e dall’assenza totale di una gestione dei rifiuti. Dobbiamo non solo immaginare, ma vedere e soprattutto sentire gli odori di un campo per rendercene conto. Oussama, un camerunese che ha vissuto cinque anni nelle foreste marocchine al confine con la Spagna in Africa, dove si trovano le enclaves di Ceuta e Melilla, portava nel corpo e nella testa le stimmate della sua lotta per la sopravvivenza. Sottile e con lo sguardo perso, mi ha raccontato in modo evasivo le sue condizioni di vita, il consumo di alcol e il denaro ottenuto facendo da passeur. Sarà molto difficile per lui reintegrarsi in una società normale. La precarietà non si riduce alla fame, ma è sinonimo di un’immensa solitudine e della sensazione di non poter contare su nessuno. In Libano, in Marocco, ma anche sotto i ponti della Senna, dove le tende colorate si susseguono, tutti gli esuli mi hanno detto di «non avere amici». Mi ha sorpreso sentirlo da persone la cui cultura è così calda e amichevole. Senza dubbio era ingenuo sperare che la tradizionale solidarietà del Paese di partenza sopravvivesse alla brutalità dell’esilio.

Per coloro che hanno le risorse intellettuali, l’obiettivo è di sfuggire a questa situazione. Alcune persone lo fanno con una vitalità che mi desta ammirazione, come nel caso di Brice. Rendendosi conto che stava ristagnando nei sobborghi di Tangeri, il camerunense ha fatto una serie di piccoli lavori a Casablanca, per poi avviare una propria attività. Due mesi dopo il suo trasloco, il migrante sconvolto è diventato un giovane posato, con biglietti da visita e polo eleganti. In sei mesi è riuscito a finanziare il suo passaggio in Francia e ha ritrovato sua madre. Dal Libano, Suleiman ha saputo presentare la sua situazione presso le autorità francesi, ottenendo che la sua famiglia fosse temporaneamente insediata in Francia. Visto dall’Università di Pau, dove lui e suo fratello imparano il francese, il ritorno in Siria è una lontana prospettiva. Come minimo, hanno la certezza di vivere dignitosamente nei prossimi anni e di seguire una formazione riconosciuta. In Iraq, poche famiglie in esilio mi accolgono senza esprimere il desiderio di emigrare. Anche quando riescono ad affittare una casa in città piuttosto che ammucchiarsi nei campi, mi mostrano la loro casa di fortuna con imbarazzo, assicurandomi che la loro situazione è temporanea e che stanno facendo i piani più vari per uscirne.

Comprendo questi atteggiamenti di negazione o di ricerca di un futuro migliore, anche quando si tratta di un sogno inaccessibile. Quando il futuro è buio, chi può restare lucido senza ignorare o cercare una via d’uscita? «Anche se non è sicuro, potrebbe comunque essere buono…».

L’incertezza come compagna di viaggio

Alla fine, ho capito quanto il morale di questi esuli o candidati all’esilio sia minato dall’incapacità di controllare il loro futuro. È noto che un bambino ha bisogno di evolversi in un ambiente in cui respira la fiducia e di costruirsi punti di riferimento e abitudini. Trovandosi improvvisamente in una situazione di fragilità, l’esule sente un accresciuto bisogno di essere rassicurato e sostenuto, ma il suo futuro dipende da fattori che in larga misura non controlla.

Ciò è evidente per i rifugiati di guerra, a tal punto i conflitti che devastano la Siria, l’Afghanistan o la Repubblica centrafricana sopravanzano i loro abitanti. Impotenti nei confronti delle élite politiche, dell’esercito e dei miliziani, vedono la loro storia personale diventare ostaggio di una storia regionale o nazionale turbolenta. Il loro sradicamento è ancora più difficile da vivere perché non hanno nulla a che fare con esso. Ho trovato questo senso di impotenza tra le persone di comunità associate agli aggressori, come i sunniti nell’Iraq settentrionale. Molti arabi sunniti, entrati volontariamente nello Stato islamico o costretti a farlo, ne sono numericamente le principali vittime. Molti attualmente vivono nei campi intorno a Mosul a causa della mancanza di infrastrutture e servizi nelle loro zone d’origine o della paura di rappresaglie. Pur avendo un percorso meno spettacolare, anche il migrante economico o ecologico può attribuire la sua situazione a sfide che lo sopravanzano. Quale agricoltore senegalese o brasiliano controlla i prezzi reportage mondiali delle materie prime o il prosciugamento della sua terra? In diverse occasioni ho sentito che i miei giovani interlocutori africani o arabi invidiavano il mio passaporto francese. Infatti, se io fossi nata in Iraq e loro in Francia, avremmo avuto una vita molto diversa.

Questa impotenza è accentuata dal fatto che gli esuli hanno pochissime possibilità di migliorare la loro situazione. Sono a contatto con organismi complessi, dai criteri di funzionamento opachi. Di fronte a funzionari delle Nazioni Unite o di Organizzazioni non governative che non parlano la loro lingua e seguono procedure sconosciute, i beneficiari chiedono una protezione giuridica, un aiuto alimentare, il reinsediamento in un Paese terzo che è loro concesso o rifiutato… senza sapere sempre per quale ragione. Se anch’io ho vissuto esperienze di affidamento in occasione di concorsi o della presentazione di una domanda per un alloggio per studenti, la mia situazione era molto diversa perché i criteri di decisione erano pubblici e avevo fiducia nell’istituzione. Nel vivo delle loro situazioni, gli esuli mi hanno ripetutamente gridato la loro incomprensione e il loro sentimento di abbandono. In Marocco, per sei mesi ho spiegato agli africani subsahariani e ai siriani che le Nazioni Unite concedevano il loro aiuto in base alla “vulnerabilità” dei beneficiari. Era naturale per noi favorire le donne, i bambini, gli anziani, ma anche i malati e i membri di minoranze. I miei interlocutori, i cui codici culturali favorivano il rispetto per l’anzianità e la notorietà, non ne erano sempre convinti.

La conseguenza di questa situazione è la diffidenza nei confronti di élite ritenute incapaci, corrotte ed egoiste, che talvolta mettono Stati dispotici e organizzazioni umanitarie gli uni contro le altre. Le persone sole, sradicate e talvolta ferite fanno fatica a ricostruirsi e a dare loro fiducia. Avendo coordinato iracheni e siriani nel mio lavoro, penso che le loro esperienze di vita ne spieghino la suscettibilità e il bisogno di riconoscimento, oltre alla loro adesione alle più eccentriche teorie della cospirazione per l’incapacità delle istituzioni a fondare la propria legittimità. Gli Stati dell’Iraq e della Siria non riescono ad arginare la violenza, quando non ne sono all’origine, ma sono particolarmente efficaci nel monopolizzare le risorse dei loro territori. Non avendo i mezzi per distinguere l’informazione dalla propaganda, la popolazione si allontana dalle questioni pubbliche. Dobbiamo tenere conto di queste caratteristiche quando fermiamo e riceviamo gli esuli. Quanti arrivano in Europa hanno dato prova di una notevole tenacia e ingegnosità, ma al contempo la violenza fisica e simbolica subita li segnerà per tutta la vita e si coglierà nel loro comportamento amichevole e professionale.

Non si entra in relazione con gli ex bambini soldato come con un gruppo di giovani europei in vacanza, anche se si tratta sempre di adolescenti di 17 anni.

Finché ci saranno le frontiere…

Un giorno noi tutti potremmo essere costretti a chiedere asilo politico: la storia ci ricorda che non si tratta di una vicenda lontana per gli europei. Mia nonna era una sfollata interna quando nel 1940 attraversò in bicicletta la Francia per sfuggire all’invasione nazista. Il Comitato internazionale della Croce Rossa, creato nel 1863 dallo svizzero Henri Dunant, aveva inizialmente l’obiettivo di curare i feriti nei conflitti che devastano l’Europa occidentale. Svolse un ruolo importante durante la Prima guerra mondiale, ristabilendo i legami tra le famiglie separate dai combattimenti. Nel 1950, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) fu concepito come un organismo a sostegno degli europei con un mandato triennale. Lo status di rifugiato politico è stato concesso per la prima volta collettivamente nel 1956 a 200mila ungheresi fuggiti dalla repressione della Primavera di Budapest. Consapevoli del pericolo persistente, le Nazioni Unite hanno poi riconosciuto la necessità di favorire l’integrazione dei rifugiati in Austria o il loro reinsediamento in un Paese terzo.

Non è mai con la gioia nel cuore che gli esuli lasciano i loro cari e la terra in cui sono nati. Queste esperienze presso i migranti e i rifugiati nel Mediterraneo e in Iraq mi hanno convinta della necessità di fornire un quadro stabile a coloro che cercano rifugio in Europa. Per rispetto del valore della vita stessa, dobbiamo una certa attenzione a coloro che hanno attraversato mari e continenti in condizioni a volte drammatiche, con la speranza di vivere meglio altrove. Ritengo inoltre che sia nostra responsabilità, in quanto potenze industriali e militari, riflettere sul nostro ruolo nelle cause all’origine delle partenze.

In Marocco, in Libano o in Iraq sono stata accolta dalla gente del posto come una di loro e ho stretto legami di rara sincerità, anche grazie alla mia giovane età. Ogni volta osservavo che gli abitanti accoglievano una popolazione diversa da loro per origine geografica, stile di vita e talvolta religione. Migranti e rifugiati non avevano scelto il loro luogo di esilio e la popolazione ospitante non era stata consultata prima di accoglierli. Essa si era rassegnata, perché respingere queste persone in fuga le avrebbe condannate a morte sicura nel deserto algerino o nel caos siriano. Per riprendere la frase di Massignon citata all’inizio, sono stata davvero la loro ospite e così ho avuto una percezione molto speciale della loro situazione. Superare le differenze di lingua, cultura e religione è un’esperienza destabilizzante, che a volte mi ha messo in situazioni frustranti o difficili. È comprensibile che l’apertura delle frontiere e l’arrivo massiccio di persone straniere, di nuovi prodotti e di altre idee siano fonte di preoccupazione e di rifiuto. Ciò spiega in parte le rigidità xenofobe che si registrano in Europa o le dichiarazioni antioccidentali nel mondo arabo o in Africa. Le frontiere ci proteggono fisicamente e simbolicamente e sono forse lo strumento più noto per amministrare il luogo dove viviamo. Tuttavia, alla luce della mia esperienza, mi batto perché esse consentano anche il riconoscimento e l’incontro dello straniero. Non temiamo di accogliere l’altro o di fare affidamento su di lui. Ne saremo arricchiti. E prima o poi, lo straniero saremo noi. Come ha detto lo scrittore pakistano Mohsin Hamid, «Maybe we are all prospective migrants.  The lines of national borders on maps are artificial constructs, as unnatural to us they are to birds flying overhead. Our first impulse is to ignore them» (Forse siamo tutti migranti potenziali. Le linee delle frontiere sulle mappe sono costruzioni artificiali, innaturali per noi come lo sono per gli uccelli che volano sulle nostre teste. Il nostro primo impulso è di ignorarle).

Prima gli ultimi, sempre e comunque

di Michele Meschi tratto da: Adista Segni Nuovi n° 29 del 04/08/2018

Strepitano e minimizzano sul problema umanitario. A scanso di equivoci: non si tratta di un’emergenza politica, bensì di dramma sociale.

Attribuire alla violenza verbale (e non solo) una motivazione legata al presunto disagio è imperdonabile errore di valutazione e di prospettiva. In primis, poiché il «popolo» italiano e, più in generale, quello europeo hanno attraversato ferite ben più profonde delle attuali: in termini economici, di occupazione, di stabilità e addirittura di sopravvivenza. Se fu intollerabile l’accondiscendenza ai regimi del secolo scorso, partoriti dal ventre malato del malcontento e dell’umiliazione, oggi – senza timore di laudatio temporis acti – appare indecoroso appellarsi al disagio di massa e risultano pertanto irricevibili le giustificazioni come: «la gente è stanca», «i governi precedenti hanno portato a tutto questo», «lasciamo spazio al cambiamento». I nostri nonni furono fatti prigionieri in Africa o morirono in Russia, in ogni caso non diedero segno di sé per decenni e spesso lo fecero con l’etichetta del «disperso»; conobbero Auschwitz e la guerra civile; da traditi, uccisi, annientati seppero ricostruire una società più giusta, vivibile e produttiva, alle cui basi posero l’imperativo del «mai più».

Tutto sommato sono un medico che vive nelle comodità, non uno degli eroi che ogni giorno salvano chi è sbarcato in condizioni di fortuna. Non posso fare altro che esprimere la mia vicinanza, allenare il mio pensiero alla solidarietà.

La professione che svolgo, una delle tante possibili, mi dà il privilegio di un esclusivo punto di osservazione: quello della sofferenza e del timore per la propria salute. E vi assicuro che si tratta di un palcoscenico che comporta, oltre al costante impegno fisico e intellettuale, anche la continua necessità di introspezione nella valutazione e nel giudizio.

Accanto a situazioni di indicibile fragilità: di anziani soli, abbandonati a condizioni igienico- abitative e affettive disumane; di dolore cieco, per la malattia di un giovane o per un destino che spesso sembra accanirsi con sadismo nelle vicende familiari; di dolente poesia, per gli esempi insperati di amore e di dedizione che possono comparire, come angeli salvifici, nel tessuto di storie orrorose; ebbene, accanto a tutto ciò sono sempre più frequenti, impreviste, scioccanti, le scene di feroce isteria da parte di un’utenza del tutto disabituata alle regole della convivenza civile e dell’educazione. Le grida scomposte del «tutto, subito e gratis», quasi sempre accompagnate dalla rivendicazione violenta di chi sostiene di pagare le tasse e accusa lo Stato di privilegiare i nullafacenti disperati che sbarcano dai gommoni, sono all’ordine del giorno in ogni Pronto Soccorso e in ogni reparto. Persino nelle regioni, come la mia, dove il sistema sanitario funziona, per efficienza, efficacia e corretta tempistica, spesso come in nessuna altra parte al mondo, grazie a decenni di buona politica e di buona amministrazione.

Non voglio esser tacciato di faziosità o di partigianeria – non sono mai stato iscritto ad alcun partito, né voglio afferire ad alcuno schieramento –, né di semplificazione o caratterizzazione. Però, concedo il limite della mia esperienza personale, è spesso nei cosiddetti stranieri che ritrovi l’immagine dell’Italia della ricostruzione, di un’epoca di cui stenti a riconoscere le tracce. Negli occhi, diversi e lontani, di chi ti avvicina col timore di non saper esprimersi con la dizione corretta. Di chi conserva il pudore del proprio disagio e della propria esclusione, conscio spesso di essere oggetto di discriminazione e di odio mediaticamente programmato. Di chi, al termine della prestazione sanitaria offerta, ritorna con tutta la famiglia, la moglie col vestito più colorato e una schiera di bambini, per dimostrarti la sua riconoscenza. Di chi ti parla solo con grandi sorrisi, congiungendo il palmo delle mani, sgranando gli occhi arrossati in un bagno di sudore.

«Prima gli italiani» è la bestemmia più empia che si possa levare al cielo, e per un operatore sanitario soprattutto. È storia relativamente recente l’invito di un precedente esecutivo (ma, chissà perché, secondo alcuni, in Italia hanno governato i comunisti ininterrottamente per settant’anni) a denunciare i clandestini che ricorressero alle strutture di cura. La mia regione, allora, fu una delle poche a ricordarsi dell’imperativo etico del medico e sostanzialmente ad invitare, con tanto di cartelli esposti, all’obiezione di coscienza. Tutti noi esponemmo la targhetta «io non denuncio, curo» e, grazie a Dio, l’infame direttiva abortì sul nascere.

«Prima gli italiani», sia ben chiaro a tutte le famiglie perbene che vanno a messa la domenica, che elargiscono beneficienza, che difendono i valori tradizionali, è una bestemmia ancor peggiore per chi (io non ho mai voluto essere tra quelli) si dichiari pubblicamente cristiano.

La divinità cui fece riferimento il Cristo nella sua predicazione è, per propria natura, l’«eternamente altro», non nel noto senso di inconoscibilità di una dimensione suprema, ma in quello, paradossale, del conoscibilissimo prossimo. Tanto più quando quest’ultimo è diverso, difficile, problematico, sconosciuto. Non si è realmente in grado di comprendere il cristianesimo, se non si accetta la radicale discontinuità evangelica rispetto alle tradizionali visioni teologico-religiose della storia umana.

Il Dio di Gesù è il paràkletos, da cui l’intraducibile italiano «paraclito», ovverosia «colui, ciò che accorre in soccorso»; che non attende iniziative ma si affretta, per natura, alla propria azione salvifica. C’è un solo modo per non vederlo, non riconoscerlo e non assaporarne l’infinita potenza creativa: seppellirlo nel sistema di regole di una società e della religione, imparare a memoria un catechismo di comandamenti e di distinguo liturgico-legislativi. Farne una bandiera da sventolare ai comizi elettorali.

Una vignetta che gira sui social descrive una parrocchia con l’insegna: «vietato l’ingresso a chi non fa peccato». È proprio così: se il peccato non è l’infrazione di una regola, ma l’imboccare un sentiero sbagliato come l’etimo del termine greco insegna, Dio ha senso solo come colui che scende dall’empireo fasullo delle proiezioni umane per farsi il pellegrino, il migrante che prende per mano e riconduce alla pienezza della vita.

Dio non attende pentimenti, sensi di colpa, conversioni da parte dell’essenza della sua creazione. È, egli stesso, anticipatore di un perdono illimitato, che insegna agli uomini la gratuità dell’amore e del dono. È dunque per imitazione, per riconoscenza, per volontà di perpetuare la salvezza che il bene finisce col diffondersi. Mai per adesione a un programma di valori. Mai per introspezione sull’altare dell’egocentrismo.

«Facciamo» Dio, dunque, costruiamolo ogni giorno nelle nostre abitazioni, nella nostra vita quotidiana, nel semplice atteggiamento di accoglienza e di apertura, anche solo mentale, a tutto ciò che è inusuale e straniero.

Ribadisco: i numeri danno torto ai diffusori di odio, a chi usa la paura per il proprio consenso e per distogliere la pubblica attenzione dall’incapacità (o impossibilità oggettiva) di risolvere i problemi della gente. Non c’è nessuna emergenza migratoria nel nostro Paese, ma c’è un’emergenza dei cristi migranti. Tutti noi – sarebbe ipocrita negarlo – percepiamo spesso la microcriminalità nelle nostre città, ma quest’ultima, pur odiosa e pericolosa, è in diminuzione e non in aumento. Ed è un problema che va ben oltre la presenza degli extracomunitari: che spesso può contemplare quest’ultima, certo, ma che non si esaurisce con essa.

È tempo che siano i laici ad esortare le Conferenze dei vescovi ad una presa di posizione, in nome del vero messaggio del vangelo. È tempo per tutti di abbassare i toni, di smetterla di giocare a chi la spara più grossa nel politicamente scorretto, così tanto di moda da non suscitare più vergogna o imbarazzo. È tempo che la politica comprenda che cavalcare la pancia degli elettori ha condotto, storicamente, alle tragedie più innominabili dell’umanità. Che il populismo è solo sciatteria intellettuale e archetipo di ogni nazionalismo omicida.

È tempo di tornare ad essere seri, di riprendere ad essere uomini e donne degni di questo nome. «Prima gli ultimi»: sempre e comunque.

Cari insegnanti, ripensiamo il nostro ruolo per costruire il dialogo

Lettera aperta di Franco Lorenzoni, maestro elementare, per una scuola che contribuisca alla costruzione di una società aperta

Care colleghe e colleghi insegnanti,

come tanti, mi domando in questi mesi cosa sia possibile fare per arginare la crescente intolleranza verso chi emigra nel nostro Paese. Il clima sociale sta mutando a una velocità impressionante. La mentalità intollerante e razzista sta crescendo intorno a noi: è un dato di fatto. Come educatore, non posso accettare che una ragazza di Milano che ha il padre africano confessi a sua madre di aver paura a uscire di casa. Credo che, per contrastare il veleno del razzismo, noi insegnanti siamo chiamati a ripensare il nostro ruolo. Abbiamo responsabilità ineludibili riguardo alla difficile costruzione di una società aperta. A scuola ci troviamo in una situazione delicata, ma in qualche modo privilegiata. La scuola italiana è abitata da spinte divergenti. Da un lato è il luogo pubblico di maggiore accoglienza e integrazione dei figli degli immigrati (e, prima in Europa, da 40 anni accoglie alunni portatori di disabilità), dall’altro tollera ancora al suo interno situazioni in cui vengono messe in atto piccole e grandi discriminazioni inaccettabili.

Ogni giorno, dai nidi alle superiori, lavoriamo in classi multietniche che rendono necessario il nostro ruolo di mediatori attenti e di costruttori di una cultura della convivenza, per essere all’altezza dei compiti che ci affida la Costituzione, quando invita a “rimuovere gli ostacoli” che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Non è facile. Da trent’anni nel nostro Paese si insulta e si denigra la cultura. Si tagliano fondi alle biblioteche, alla ricerca, alla scienza e alla preservazione dell’arte e del paesaggio. Le conseguenze le paghiamo ogni giorno. Il ruolo di chi insegna è sottovalutato e spesso vilipeso. Ma, paradossalmente, proprio in questa situazione di estrema difficoltà, possiamo ritrovare le ragioni e il senso del nostro operare, che deve nutrirsi di una visione di ampio respiro e andare necessariamente oltre i muri della scuola.

Le scuole sono luoghi in cui sperimentiamo la complessa arte della convivenza

In tante e tanti, in classe, sperimentiamo ogni giorno la costruzione di frammenti significativi di quella complessa arte della convivenza di cui abbiamo assolutamente bisogno. Gli esiti sono contraddittori e disuguali, non sempre ne abbiamo la consapevolezza necessaria. Per questo dobbiamo moltiplicare le occasioni per incontrarci, cooperare, studiare e progettare una scuola all’altezza dei compiti dell’oggi. Dobbiamo far conoscere in tutti i modi possibili il lavoro e l’impegno di bambini e ragazzi che, insieme ai loro insegnanti, soprattutto in territori difficili, danno vita a rari e preziosi presidi di democrazia. Luoghi di costruzione culturale capaci di non separare l’apprendimento dell’italiano, lo studio di matematica, scienze, storia, lingue, arti e movimento, dallo sviluppo di una capacità di ascolto tra diversi, dalla pratica del dialogo e dell’argomentare rigoroso, per dare spazio al confronto tra idee diverse.

Per fare tutto ciò c’è bisogno di un tempo lungo e disteso. Dobbiamo compiere scelte radicali, diminuendo la quantità di contenuti e aumentando i momenti di ricerca e di approfondimento, verificando e dando peso ai dati, prendendoci cura delle parole che usiamo: l’opposto di ciò che prevalentemente si fa oggi nella società e nei media. La geografia che oggi abita le nostre classi ci offre una possibilità inedita di riflettere e ricercare intorno allo stato della condizione umana nel pianeta che abitiamo, per comprendere meglio ciò che si muove nel mondo. Dobbiamo assumerci la responsabilità di dare un ampio respiro culturale a ciò che sperimentiamo nelle scuole. Dobbiamo coordinare i nostri sforzi perché le tante piccole scoperte che andiamo facendo possano crescere, diffondersi e, soprattutto, dare coraggio a chi subisce le pressioni di una società sempre più chiusa.

Per un’alfabetizzazione alla compresenza nel nome di Erodoto

Nonostante guerre, scontri e invasioni, il mar Mediterraneo è stato culla di ricche civiltà perché era facilmente navigabile e da sempre ha favorito ogni genere di scambi. Non c’è crescita culturale senza un continuo attraversamento di confini. Erodoto, il primo storico, era figlio di una greca e di un persano. Figlio di due popoli in guerra tra loro. E’ dal suo sangue misto che è nato uno degli ambiti di ricerca più ricchi di futuro, perché capace di far tesoro delle memorie più diverse.

Le classi, oggi, possono essere il luogo di questa mescolanza feconda. “Diversità è bellezza” è uno slogan che rischia di essere retorico. Va riconosciuto francamente che diversità è anche fatica, percorso lungo di avvicinamento da affrontare con determinazione e lungimiranza. A partire dalle scuole siamo chiamati oggi a dimostrare che l’inevitabile società multietnica e multiculturale in cui viviamo e sempre più vivremo, può essere più ricca, stimolante e aperta al futuro, dunque più vivibile e sicura, di una società chiusa in se stessa, impaurita e rancorosa.

Il ruolo degli insegnanti è centrale perché oggi l’educazione e la sperimentazione sociale vengono prima della politica, largamente screditata, specie tra i più giovani. E’ una sfida a cui non possiamo sottrarci che può coagulare nuove energie e ravvivare entusiasmi, aiutandoci a ridare senso e respiro al nostro mestiere. Solo la costruzione di una società multietnica capace di ascolto reciproco ci può aprire al futuro

Ripartiamo dalla Dichiarazione universale dei diritti umani: una proposta concreta per l’anno scolastico che inizia

Ci sono voluti 68 milioni di morti, di cui 43 milioni di vittime civili, perché 192 stati del nostro pianeta arrivassero, al termine della seconda guerra mondiale, a sottoscrivere una dichiarazione universale in cui si afferma solennemente che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. In quella dichiarazione, votata esattamente 70 anni fa, il 10 dicembre del 1948, nell’articolo 7 si afferma che “Tutti sono eguali dinanzi alla legge, tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione, come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione”.

Di fronte ai continui incitamenti alla discriminazione, ad alzare steccati e costruire muri, non bastano denunce ed appelli, pur necessari. Dobbiamo rendere sempre più le nostre scuole luoghi di costruzione culturale consapevole e cosciente, capaci di testimoniare che è possibile, utile ed efficace non escludere nessuno.

Il Movimento di Cooperazione Educativa ha promosso il tavolo di lavoro “Bambini, migranti, umanità”, a cui hanno già aderito oltre 30 associazioni, che si è riunito al prima volta il 3 settembre. Concretamente, si tratta di raccogliere e coordinare più forze ed energie possibili. Invitiamo singoli insegnati, colleghi di classe o di scuola, interi collegi di docenti perché promuovano o aderiscano a iniziative molteplici, da inventare e sviluppare insieme nell’intero anno scolastico a partire dall’autunno, per costruire, intorno all’anniversario del10 dicembre, momenti pubblici e corali capaci di ricordare, rilanciare e festeggiare i 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani, dentro e fuori le scuole.

Studiare in modo partecipe e approfondito questo fondamentale testo collettivo, così come tornare alle parole della nostra Costituzione, ci può aiutare a ragionare in positivo, costruendo dal basso la capacità di avere uno sguardo attento e critico verso ciò che accade intorno a noi, offrendo a bambine e bambini, a ragazze e ragazzi strumenti per intendere le dinamiche lunghe della storia, senza restare intrappolati nelle angustie del presente.

Tre date possono scandire momenti di ricerca dentro le scuole e momenti pubblici in cui confrontarci:

il 3 ottobre, giornata che il Parlamento italiano, con voto unanime, ha dedicato alla Memoria delle vittime dell’emigrazione;

il 20 novembre, anniversario della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza;

il 10 dicembre, in cui ricordiamo i 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani.

 

Per entrare in contatto con noi, potete consultare il sito del MCE http://www.mce-fimem.it/fimem/  dove scambieremo idee e pubblicheremo informazioni sulle iniziative. Il coordinamento che ha dato vita lo scorso anno alle iniziative a favore dello Ius soli e dello Ius culturae mette a disposizione la pagina del gruppo “Insegnanti per la cittadinanza” su Facebook,

https://www.facebook.com/groups/1195386007234353/about/

Ci scrivono….

suor Chiara patrizia e Angela Bettazzi

 

Carissimi

vi ringrazio dell’ultimo numero de La tenda che ho trovato particolarmente interessante soprattutto il capitolo 5 sul “Clericalismo”.

Penso sempre di più che sia urgente approfondire anche teologicamente e non solo pastoralmente quello che diciamo nei nostri catechismi – sacramento dell’Ordine – Credo che la riforma della Chiesa debba partire da qui … farci la domanda radicale: è un sacramento? Se sì, cos’è un sacramento?

Penso che nel vostro gruppo ci siano persone preparate per approfondire e fare questo servizio alla chiesa…

Suor Chiara Patrizia (ex abadessa del monastero di Santa Chiara ad Urbino)

 

In merito all’articolo “Il respiro corto delle chiese locali” di Marcello Neri. di Angela Bettazzi

L’articolo “Il respiro corto delle chiese locali” di Marcello Neri, che può essere condivisibile per alcuni aspetti, mi ha fatto pensare ad un modo di affrontare i problemi che non mi fa andare avanti, mi fa restare ancorata a vecchi schemi:  “… tra noi che ci sentiamo di far parte dei Suoi”, “… ha gettato la palla dalla nostra parte del campo”

Per questo la sua lettura mi ha fatto venire in cuore il desiderio di una terza via dove non ci sono “noi” e “gli altri”, “questa” e “l’altra parte del campo”, che hanno il sapore di un cattolicesimo militante.

Inoltre mi chiedo se questo modo di pensare, o meglio, di pensarci da una o da un’altra parte del campo, può renderci capaci di essere lì dove ci viene chiesto di essere, cioè al di là del recinto, magari in un punto dove non ci aspettavamo.

Scrive Simone Weil in “Attesa di Dio”: «Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è cattolico. Di conseguenza, anche la Chiesa. Ma ai miei occhi, il cristianesimo è cattolico di diritto e non di fatto. Tante cose ne sono fuori, tante cose che io amo e che non voglio abbandonare, tante cose che Dio ama, che altrimenti sarebbero prive di esistenza» (p. 48). «Ma tutto è talmente concatenato che il cristianesimo non può essere veramente incarnato se non è cattolico nel senso che ho appena definito» (p. 49). «Poiché sento così intensamente e dolorosamente questa urgenza, tradirei la verità, cioè quell’aspetto della verità che io scorgo, se abbandonassi la posizione in cui mi trovo sin dalla nascita, cioè il punto di intersezione tra il cristianesimo e tutto ciò che è al di fuori di esso» (p. 49).

Ecco il posizionarmi in uno spazio “altro”, al confine, piuttosto che all’interno di campi contrapposti, mi dà l’idea di un respiro più ampio.

Vi proponiamo due libri

H.E.W.O., Un’esperienza di liberazione  da un sogno condiviso nasce la fraternità Editore Effatà

È il racconto di 50 anni di storia di migliaia di malati di lebbra, AIDS, TBC in Etiopia ed Eritrea, della loro riabilitazione non solo fisica, ma di lavoro, di studio, di affetti, di vita sociale e politica.

Carlo e Franca raccontano la loro storia con grande freschezza e semplicità, in una fraternità realmente aperta a tutti: musulmani, ortodossi, non credenti… un Vangelo vissuto, che non crea steccati, ma feconda ogni tipo di terreno.

Il testo è accompagnato da numerose foto che permettono di vedere e comprendere meglio ciò che viene descritto. In un tempo in cui tutto sembra perdere di forza e di luce, il testo ci aiuta a vivere con grande speranza e intelligenza dilatando i nostri orizzonti, in una realtà che continua ancora oggi.

È un libretto che getta una luce nuova sull’Africa e gli africani e sul nostro potenziale.

Potete chiedere il testo anche a noi, tutto il ricavato andrà alle due comunità dell’H.E.W.O.

(Lorenzo tel. 06 200 90 85)

 

Giampiero Forcesi, Il Vaticano II a Bologna. La riforma conciliare nella città di Lercaro e Dossetti

Alcune notizie sull’autore: Forcesi ha frequentato il Borghetto di Prato Rotondo con don Lutte, quando era studente di filosofia; poi per condividere la realtà di vita e lavoro di quelle famiglie, ha lavorato per 10 anni come operaio in cantiere, quindi ha ripreso gli studi e a 36 anni ha concluso una lunga ricerca durata due anni sul Vaticano II, Lercaro e Dossetti. Quella che era stata una accurata, intelligente e preziosa tesi di laurea, è stata negli anni ripresa da molti studiosi e persone coinvolte in quelle storie. Forcesi ha ricevuto premi e gli sono stati richiesti contributi, interventi… recentemente il gruppo di Bologna ha deciso di pubblicare questo testo. Non solo descrive l’intreccio prezioso di tante persone, ne chiarisce le varie componenti, aiuta a porsi interrogativi importanti, permette di cogliere la fatica e la necessità di uscire dall’unicità dell’ambiente clericale e offre la grande ricchezza del confronto sincero con le varie componenti della società. Il suo ricostruire senza scremare, aiuta ad affrontare il nostro presente con maggiore lucidità e pazienza.

Per chi non vuole sobbarcarsi alle 550 pagine, scritte comunque in un linguaggio molto chiaro e coinvolgente, possono forse essere utili le introduzioni ai vari capitoli. È un testo utile non solo per chi ha vissuto quel tempo, ma per tutti coloro che hanno a cuore un coinvolgimento di ampio respiro nella realtà attuale.