Lettera 46 (Seconda Serie)

Lettera introduttiva

Cari amici ed amiche, questa lettera ha come filo conduttore la partecipazione del popolo di Dio alla riflessione teologica e alle scelte della Chiesa.

Il discorso dell’Imam Mohamed Nour Dachan ai funerali di stato delle vittime del crollo del ponte a Genova ci aiuta a capire come i confini etnici e religiosi possono essere superati dal ponte di una comune umanità e in questo caso di una comune fede in Dio.

Ma è la lettera del papa Francesco, lettera scritta a seguito della drammatica presa di coscienza della diffusione della pedofilia nel clero cileno e delle decisioni drastiche che ne sono seguite, che ci parla esplicitamente di questa partecipazione costitutiva. Dice il nostro vescovo, papa Francesco:

“Invito tutti gli organismi diocesani, di qualsiasi area, a cercare in modo consapevole e lucido degli spazi di comunione e partecipazione, perché l’unzione del popolo di Dio possa trovare le concrete mediazioni nelle quali manifestarsi.

Queste parole ci risultano particolarmente familiari: quanto sono vicine al programma di comunione-comunicazione che da molti decenni è alla base del nostro lavoro! Ascoltarle ora sulla bocca del nostro pastore, in un momento così difficile del suo pontificato e della Chiesa tutta, ci riempie di rinnovata speranza.

Ma papa Francesco è ancora più chiaro nell’autocritica della gerarchia:

Il santo popolo fedele di Dio è unto con la grazia dello Spirito Santo; pertanto quando si tratta di riflettere, pensare, valutare, discernere dobbiamo essere molto attenti a questa unzione. Ogni volta che come Chiesa, come pastori, come consacrati abbiamo dimenticato questa certezza, abbiamo perso il sentiero. Ogni volta che cerchiamo di soppiantare, tacitare, annichilire, ignorare o ridurre a piccole élite il popolo di Dio nella sua totalità e nelle differenze, costruiamo comunità, piani pastorali, accentuazioni teologiche, spiritualità, strutture senza radici, senza storia, senza volto, senza memoria, senza corpo, in breve senza vita. Sradicarci dalla vita del popolo di Dio ci precipita alla desolazione e alla perversione della natura ecclesiale.”

A questi due testi fa seguito,  quasi come una  risposta alle parole del papa, la lettera di Ghislain Lafont. Padre Lafont la chiama un suggerimento dato fraternamente: la chiusura della Congregazione per la dottrina della fede, l’ex Sant’Uffizio dell’Inquisizione Romana, e la destinazione del grande edificio che la ospita all’accoglienza di poveri ed immigrati. Una scelta che avrebbe una valenza culturale e ideale che supererebbe di molto il solo cambio di uso di un palazzo e potrebbe diventare d’esempio per moltissime strutture religiose ed anche civili.

L’ultimo articolo di questa lettera è costituito dagli interventi tenuti  nell’ambito di un convegno svoltosi in Sila a Quaresima di Lorica (CS), dall’8 all’11 agosto, sul tema “Coscienza di popolo per accogliere il mondo”. Al Gruppo “La Tenda” era stato chiesto di presentare il cammino fatto rispetto al tema “Come aiutarsi tra fratelli a far crescere, a educare le coscienze?”. La storia del gruppo e le attività ancora in essere costituiscono un’altra possibile risposta alle parole di Francesco.

Lettera di papa Francesco al popolo di Dio che è in Cile

6 giugno 2018

[…] Con gioia e speranza ho ricevuto la notizia che vi sono state molte comunità, villaggi e cappelle in cui il popolo di Dio si è messo in preghiera, in particolare nei giorni in cui si svolgeva l’incontro con i vescovi: il popolo di Dio in ginocchio che implora il dono dello Spirito Santo per trovare luce nella Chiesa «ferita a causa del proprio peccato, colmata di misericordia dal suo Signore, e convertita in profetica per vocazione»[1]. Sappiamo che la preghiera non è mai vana e che «nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto»[2].

Fare appello a voi, chiedervi di pregare non è stato un espediente pratico né un semplice gesto di buona volontà. Al contrario, ho voluto inquadrare le cose nel loro contesto preciso e prezioso e porre il problema dove esso deve stare: la condizione del popolo di Dio è «la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come nel suo tempio»[3]. Il santo popolo fedele di Dio è unto con la grazia dello Spirito Santo; pertanto quando si tratta di riflettere, pensare, valutare, discernere dobbiamo essere molto attenti a questa unzione. Ogni volta che come Chiesa, come pastori, come consacrati abbiamo dimenticato questa certezza, abbiamo perso il sentiero. Ogni volta che cerchiamo di soppiantare, tacitare, annichilire, ignorare o ridurre a piccole élite il popolo di Dio nella sua totalità e nelle differenze, costruiamo comunità, piani pastorali, accentuazioni teologiche, spiritualità, strutture senza radici, senza storia, senza volto, senza memoria, senza corpo, in breve senza vita. Sradicarci dalla vita del popolo di Dio ci precipita alla desolazione e alla perversione della natura ecclesiale; la lotta contro una cultura dell’abuso richiede di rinnovare questa certezza.

Come ho detto ai giovani a Maipú, voglio dire a ciascuno di voi in modo speciale: «Ed è questo di cui noi, la Santa Madre Chiesa, oggi ha bisogno da parte vostra: che ci interpelliate. E poi, preparatevi per la risposta; ma noi abbiamo bisogno che ci interpelliate, la Chiesa ha bisogno che voi diventiate maggiorenni, spiritualmente maggiorenni, e abbiate il coraggio di dirci: “Questo mi piace; questa strada mi sembra sia quella da fare; questo non va bene, questo non è un ponte ma è un muro”, e così via. Diteci quello che sentite, quello che pensate»[4]. È questo che può coinvolgere tutti noi in una Chiesa con un clima sinodale che sa mettere Gesù al centro.

Nel popolo di Dio non ci sono cristiani di prima, seconda o terza categoria. La loro partecipazione attiva non è una questione di concessioni di buona volontà, ma è costitutiva della natura ecclesiale. È impossibile immaginare il futuro senza questa unzione che opera in ognuno di voi, che certamente richiede ed esige forme rinnovate di partecipazione. Esorto tutti i cristiani a non avere paura di essere i protagonisti della trasformazione richiesta oggi, e di dare impulso e promuovere delle alternative creative nella ricerca quotidiana di una Chiesa che ogni giorno vuole mettere al centro quello che è più importante. Invito tutti gli organismi diocesani, di qualsiasi area, a cercare in modo consapevole e lucido degli spazi di comunione e partecipazione, perché l’unzione del popolo di Dio possa trovare le concrete mediazioni nelle quali manifestarsi.

Il rinnovamento nella gerarchia ecclesiale di per sé solo non genera la trasformazione a cui lo Spirito Santo ci spinge. Siamo tenuti a promuovere contestualmente una trasformazione ecclesiale che ci coinvolga tutti.

Una Chiesa profetica, e quindi piena di speranza, richiede a tutti un misticismo dagli occhi aperti, che ponga domande e che non sia addormentato.  Non lasciatevi derubare dell’unzione dello Spirito. […]

Lungi dal lasciarsi rinchiudere in schemi, modalità, strutture fisse o caduche, lungi dal rassegnarsi o dall’«abbassare la guardia» di fronte agli eventi, lo Spirito si muove continuamente per ampliare gli orizzonti ristretti, per far sognare chi ha perso la speranza, per fare giustizia nella verità e nella carità, per purificazione dal peccato e dalla corruzione, invitandoci sempre alla necessaria conversione. Senza questo sguardo di fede tutto ciò che possiamo dire e fare cadrebbe nel nulla. Questa certezza è essenziale per guardare al presente senza evasività ma con audacia, con coraggio e insieme con saggezza, con tenacia ma senza violenza, con passione ma senza fanatismo, con perseveranza ma senza ansia, in modo da cambiare tutto ciò che oggi minaccia l’integrità e la dignità di ogni persona; poiché le soluzioni necessarie esigono di affrontare i problemi senza rimanervi imprigionati o, peggio ancora, replicare gli stessi meccanismi che vogliamo eliminare.  La sfida oggi è di guardare avanti, assumere e attraversare il conflitto, per poterlo risolvere e trasformare in un anello di collegamento per un nuovo processo. […]

Diciamolo chiaro, ogni realtà che attenti alla libertà e all’integrità delle persone è anti-evangelica; bisogna pertanto generare processi di fede, nei quali s’impari a capire quando è necessario dubitare e quando no. «In realtà la dottrina, o meglio la nostra comprensione ed espressione di essa, “non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi”, e “le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione»[5].

Invito tutti i centri di formazione religiosa, le facoltà teologiche, gli istituti superiori, i seminari, le case di formazione e di spiritualità a promuovere una riflessione teologica capace di essere all’altezza del presente, di formare una fede matura, adulta e che assuma l’humus vitale del popolo di Dio con le sue questioni e domande. E così di promuovere comunità capaci di lottare contro situazioni di violenza, comunità in cui lo scambio, la discussione, il confronto siano benvenuti[6]. […]

Nella mia esperienza di pastore ho imparato a scoprire che la pastorale popolare è uno dei pochi luoghi in cui il popolo di Dio è libero dall’influenza di quel clericalismo che cerca sempre di controllare e frenare l’unzione di Dio sul suo popolo. Apprendere dalla pietà popolare significa imparare a intavolare un nuovo tipo di relazione, di ascolto e di spiritualità che esige molto rispetto e non si presta a letture veloci e semplicistiche, poiché la pietà popolare «manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere».

Essere «Chiesa in uscita» vuol dire anche farsi aiutare e lasciarsi interpellare. Non dimentichiamo che «il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8). […]

[1]  Francesco, Incontro con i sacerdoti, i religiosi, i consacrati e i seminaristi, Cattedrale di Santiago del Cile, 16.1.2018

[2] Francesco, esort. apost. Evangelii gaudium

[3] Concilio Ecumenico Vaticano II, cost. dogm. Lumen gentium sulla Chiesa, n. 9

[4] Francesco, Incontro con i giovani, Santuario nazionale di Maipú, 17.1.2018

[5] Francesco, Gaudete et exsultate, n. 44

[6] È essenziale effettuare il necessario rinnovamento nei centri di formazione promossi dalla recente costituzione apostolica Veritatis gaudium. Ad esempio, sottolineo che «esigenza prioritaria oggi all’ordine del giorno, infatti, è che tutto il popolo di Dio si prepari a intraprendere “con spirito” una nuova tappa dell’evangelizzazione. Ciò richiede “un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma”. E in tale processo è chiamato a giocare un ruolo strategico un adeguato rinnovamento del sistema degli studi ecclesiastici. Essi, infatti, non sono solo chiamati a offrire luoghi e percorsi di formazione qualificata dei presbiteri, delle persone di vita consacrata e dei laici impegnati, ma costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo e che si nutre dei doni della sapienza e della scienza di cui lo Spirito Santo arricchisce in varie forme tutto il popolo di Dio: dal sensus fidei fidelium al magistero dei pastori, dal carisma dei profeti a quello dei dottori e dei teologi» (Francesco, Veritatis gaudium, n. 3)

Lettera aperta a Papa Francesco su una questione importante

di Ghislain Lafont   (tratta da Munera: rivista europea di cultura)

Caro papa Francesco,

mi permetta di scriverle per un suggerimento, che andrebbe nella direzione di favorire, così mi sembra, la sua preoccupazione di guidare la nostra Chiesa su vie sempre più evangeliche. Si tratterebbe di destinare il Palazzo monumentale, attualmente occupato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, all’accoglienza dei poveri, delle famiglie di migranti e di altri senzatetto.

Data la posizione un po’ decentrata di questo edificio rispetto alla Città del Vaticano, penso che potrebbe essere facilmente isolato dagli altri edifici, visto che l’ingresso è reso possibile dal portale che si affaccia sull’attuale piazza del Sant’Uffizio, da dove si può raggiungere facilmente la città. Inoltre, come lei sa, l’edificio ospita già una mensa popolare all’angolo della piazza, tenuta, credo, dalle suore di Madre Teresa. Se lei prendesse una simile decisione, credo che l’ammirazione che susciterebbe nel mondo spingerebbe ricche fondazioni filantropiche a finanziare volentieri il lavoro di trasformazione del Palazzo in un edificio residenziale.

Mi sembra che questa nuova destinazione d’uso sarebbe un grande segno dell’orientamento evangelico della Chiesa cattolica: una parte della sua sede centrale diventerebbe, come lei dice, un “ospedale da campo” e una tale immagine susciterebbe emulazione in altre chiese, dapprima all’interno della Chiesa Cattolica e poi nelle altre.

Perché questo Palazzo piuttosto che un altro? Perché credo che, come ripeteva spesso un ottimo conoscitore di architettura religiosa recentemente scomparso, il padre Frederic Debuyst, ci sia in ogni spazio un genius loci: uno spirito del luogo. Ancor prima che ci si entri, si respira un’atmosfera, che i secoli hanno come iscritta nei muri, e questa condiziona più o meno profondamente lo stile, il modo, dei quali il lavoro che si svolgerà al suo interno sarà inconsapevolmente impregnato.

Come sa, caro papa Francesco, è soltanto dai tempi di Paolo VI che il dicastero ospitato in questo palazzo è chiamato “Congregazione per la dottrina della fede”. Prima si chiamava “Sant’Uffizio dell’Inquisizione romana”. Si parlava anche di “Supremo Tribunale dell’Inquisizione”. Era lì per fermare gli errori prima che diventassero eresie e per giudicare i fautori di queste deviazioni: l’aspetto dottrinale era unito a un aspetto legale con una sfumatura di giurisdizione penale. La Congregazione era, per destinazione, anti-protestante, anti-moderna, anti-ebraica, anti-religioni, anti-novità: in una parola “anti” qualsiasi cosa che potesse far deviare la Chiesa da una “verità” considerata come consolidata una volta per tutte e contro la quale i devianti erano facilmente sospettati di malafede e di orgoglio.

Senza dubbio la mentalità è un po’ cambiata, ma forse non così in profondità. Perché dietro di essa vi è una lunga tradizione filosofica di ispirazione neoplatonica sulla natura, il luogo e i detentori della Verità, come anche una tradizione (cristiana?) sull’uomo come più cattivo che buono, macchiato dal peccato originale e bisognoso di essere ricondotto, anche con la coercizione, alla verità della fede (non oso dire: del Vangelo), dato che l’inferno è più popolato del paradiso e occorre salvare le anime.

Ora, un’analisi imparziale dei testi recenti o delle decisioni della Congregazione indubbiamente dimostrerebbe che il genius loci del Palazzo talvolta è purtroppo ancora al lavoro, anche se in forme diverse rispetto al passato.

Credo, caro Papa Francesco, che la soppressione di questa Congregazione rappresenterebbe anche un richiamo alle chiese particolari e alle conferenze episcopali: innanzitutto ad ascoltare davvero tutti i cristiani di queste chiese, al fine di cogliere il loro senso della fede sul tema in questione, e quindi a sentirsi sinodalmente responsabili della carità, della speranza e della fede che vivono in queste comunità, senza scaricare tutto, più o meno consapevolmente, in caso di difficoltà, sul nunzio apostolico o su una congregazione romana.

L’unanimità senza residui non fa parte di un programma umano di deliberazioni: si trova solo nei regimi totalitari dominati da personalità tiranniche. Al contrario, arrivare a una maggioranza qualificata è un successo umano che ha un valore, e adeguarcisi è un atto di saggezza e umiltà. Tanto più che una verità così raggiunta lascia intatto il dovere dell’interpretazione e del discernimento. Se un accordo necessario risultasse davvero impossibile, un inviato del papa (“legato papale”, si diceva una volta) potrebbe giungere per tentare una mediazione.

Credo dunque che oggi non ci sia più bisogno di un dicastero specializzato, tanto più che la Santa Sede dispone di istituzioni dotate di uno spirito aperto, che non intendono definire nulla ma sono alla ricerca di una verità utile: il Pontificio Consiglio per la Cultura, la Commissione Teologica Internazionale, le Pontificie Accademie… Sarebbe anche un’occasione per dare nuovo valore e forza alle facoltà teologiche che in passato erano normalmente consultate e ora lo sono appena. Al contrario, il mondo e la Chiesa hanno bisogno che, anche all’interno dello Stato simbolico del Vaticano, ci sia un luogo in cui i poveri siano accolti con rispetto ed efficacia e in cui siano ascoltati e compresi.

Un giorno, molto tempo fa, a frère Roger, il fondatore di Taizé, che gli chiedeva di pubblicare un testo fortemente profetico sull’ecumenismo, il cardinale Ottaviani umilmente rispose: “Il Papa è il Padre, il Sant’Uffizio è la polizia (sic). Non si può chiedere un messaggio profetico al Sant’Uffizio, bensì al papa”.

COME AIUTARSI TRA FRATELLI A FAR CRESCERE, A EDUCARE LE COSCIENZE?

1.”Nicolino Barra (1935-2000)” di Lorenzo D’Amico

Nicola era figlio di una donna di Cava de’ Tirreni  e di un brasiliano. La sua vita è stata profondamente segnata dal Concilio Vaticano II (1962-1965), dal  Sessantotto, dal mondo dei preti operai…

Un contributo fondamentale alla sua formazione lo hanno dato i “padri del deserto” (Egitto… Palestina, Siria) nel loro equilibrio tra preghiera e lavoro manuale. Per dare un’idea su questi monaci vi presento il dialogo tra un anziano monaco che viveva nel deserto e due giovani filosofi di città che lo vanno a trovare. “Come mai, con tutto il tuo sapere, vivi lontano dalla città e ci lasci soli con i nostri affanni?”. L’anziano risponde chiedendo un favore: “Potete riempirmi l’anfora alla fonte qui vicina?”. Quando tornano, l’anziano chiede loro: “Guardate il fondo dell’anfora”. I due rispondono: “L’acqua è agitata e non si vede il fondo”. Dopo poco tempo, l’anziano ripete la richiesta e i due: “C’è ancora un po’ di movimento e il fondo non si vede bene”. Passa ancora altro tempo e l’anziano fa la stessa richiesta. I due filosofi rispondono: “Ora l’acqua è ferma e si può vedere il fondo”. “Ecco”, risponde l’anziano.

“Come aiutarsi tra fratelli a far crescere, a educare le coscienze?”. Questi uomini e donne che vivono nel deserto e rispondono alle domande di chi li va a trovare sono come la pioggia che non dona alle varie piante il frutto maturo, ma accettano di essere una goccia d’acqua che permette ad ogni pianta di far crescere il proprio frutto. Impariamo da loro a non parlare troppo presto né per biasimare, né per rassicurare.

Nicola era prete operaio e prima di diventare fabbro cominciò a lavorare come facchino a giornata. Un giorno lui e un altro operaio dovevano caricarsi sulle spalle delle balle di ferro (di 70-80 Kg), salire lungo una palanca e arrivare al camion in cui scaricarle. Dopo alcune ore erano molto stanchi e il compagno si rivolse a Nicola, dicendo: “Nico’, se rinasco mi faccio prete”.

Un’altra realtà che segnò profondamente Nicola è stata la vita al Borghetto Prenestino. Viveva in una casetta in mezzo a mille altre, ognuna costruita in una notte. Il Borghetto era più simile ad un campo profughi che ad un paese…  Ma proprio il vivere una prossimità così grande, spalla a spalla, permetteva di cogliere, di far emergere e di lasciarsi segnare dalle vite dei vicini.

Nicola ogni giorno aveva un tempo di silenzio, di solitudine, di studio, di meditazione della Bibbia, dei fatti accaduti… e per tutto era capace di rendere grazie a Dio.

2.  “La Tenda: la storia, le ragioni e le priorità” di Gianfranco Solinas

Il ciclostilato “La Tenda” nasce, nella primavera del 1969, all’indomani  dello straordinario evento dal Concilio Vaticano II.

La proposta iniziale venne rivolta da Nicolino Barra, prete operaio romano,  ad un gruppetto di laici: persone con storie, culture e competenze diverse, appartenenti ad alcune comunità parrocchiali presso le quali egli aveva prestato, negli anni,  il suo servizio pastorale. A Maria ed a me, sposati da pochi mesi, venne proposto di curare la segreteria del gruppo, presso la nostra abitazione.

L’intento fu quello di facilitare il dialogo, rifuggendo da approcci di tipo contestativo, in una Chiesa, come quella romana, assai clericale e resistente alla novità del Concilio, condividendo con tante persone e gruppi esperienze, riflessioni, letture rigorose della realtà ecclesiale e del contesto sociale, economico politico ed amministrativo della città, contribuendo a promuovere una “autentica e sostanziale comunione ecclesiale a tutti i livelli ” (editoriale n. 26).

Si scelse, per il ciclostilato, il nome biblico “la Tenda”, riportando nella prima pagina di ogni numero un brano del primo Libro delle Cronache (17, 4-6) e un versetto dell’Apocalisse (21, 22).

Come il biblista Tommaso Federici  mise in luce ( testo nel n. 17) la tenda, nella Bibbia,  è associata all’Esodo e alla peregrinazione del Popolo di Israele nel deserto, luogo di vita precaria, provvisoria, esposta a molti rischi e, assieme, luogo in cui la vita umana, stando a tu per tu con Dio, prende slancio per entrare in una dimensione piena. La pienezza definitiva di tale significato la si ritrova nell’incarnazione del Signore, l’Emmanuele/Dio con noi, che viene a porre la sua Tenda in mezzo alle tende degli uomini, prendendo  definitiva dimora tra di essi.

La scelta del gruppo fu appunto quella di mantenere l’iniziativa come un cammino itinerante, in  spirito di provvisorietà, col ricorso a mezzi poveri, in un clima di fraternità, nel distacco da una visione statica della realtà.

Don Nicola ci educò a rifuggire da analisi teoriche fatte a tavolino, puntando piuttosto ad elaborare una teologia che parte dai fatti, rifuggendo da affermazioni di principio, tenendo sempre conto della complessità delle situazioni, collocandosi sempre in mezzo al popolo di Dio e cercando di risvegliarne lo spirito critico, attraverso un dialogo costruttivo.

Noi giovani, alla scuola di d. Nicola, prendemmo gradualmente coscienza:

  • che la Chiesa non può essere una struttura piramidale,
  • che è il popolo di Dio che la costituisce,
  • che vescovi e preti non sono altro che dei battezzati chiamati ad esercitarvi dei compiti ministeriali,
  • che il papa è il Vescovo della Chiesa locale di Roma e, solo in quanto tale, presiede la comunione tra le Chiese locali sparse nei cinque continenti.

Nella lettura rigorosa di quegli anni dovemmo prendere atto che, anche dopo il Concilio, l’apparato della curia romana metteva in ombra a più riprese, il ruolo comunionale del papa, finendo per ostacolare il cammino delle Chiese locali, specie quelle più vive del sud del mondo, ponendo così ostacoli all’azione dello Spirito.

Questi i temi centrali della ricerca e del confronto:

  • l’elezione del Vescovo di Roma e le modalità di esercizio della funzione episcopale in tale diocesi,
  • lo stato di crisi del clero romano,
  • il ripristino del diaconato permanente,
  • la presenza di religiosi, associazioni e movimenti nella complessa realtà ecclesiale romana (si veda per tutti la lettura approfondita del caso della rimozione dell’abate benedettino Giovanni Franzoni dalla Basilica di S. Paolo),
  • la celebrazione dei sacramenti in un contesto di profondi cambiamenti,
  • la rivendicata centralità del testo biblico nella catechesi.

Nella lettura del cammino pastorale di alcune parrocchie si cercò di cogliere come esse vivessero lo spirito del Concilio, che posto avesse la Parola di Dio,  quale rapporto ci fosse tra l’eucaristia e la vita quotidiana di coloro che vi partecipavano, quale spazio fosse riservato ai laici a fronte di un clericalismo risorgente.

Coerentemente, sulle pagine de “la Tenda” viene affermata continuamente l’esigenza  di una incarnazione più coraggiosa dei cristiani nella vita quotidiana della città, specie in un tempo di straordinari mutamenti come quelli avvenuti nel secondo dopoguerra. Lo stesso coinvolgimento dei lettori de “la Tenda” nella riflessione e nel confronto delle esperienze sarà insistentemente sollecitato, anche attraverso il dibattito sviluppato negli incontri pubblici periodicamente organizzati.

Proprio per queste ragioni, sarà costante l’interesse rivolto alla vita economico – sociale della città.  Un’analisi particolarmente approfondita è incentrata, fin dall’inizio, sul sottosviluppo urbano, legato al fenomeno migratorio e derivato da  un processo di urbanizzazione distorto, duramente pagato dai ceti poveri, con pesanti responsabilità della classe politica e imprenditoriale e di alcune congregazioni religiose coinvolte nella speculazione edilizia. Si ritrovano, inoltre, analisi e riflessioni accurate sulla scuola e sulle classi differenziali, sulla condizione della classe operaia, degli immigrati, dei disabili, degli studenti universitari fuori sede, degli anziani, dei tossicodipendenti, sull’esercizio di alcune professioni.

Per fare qualche esempio, già nei primi numeri del ciclostilato si presentano i dati di una indagine condotta sulla situazione scolastica del Borghetto Prenestino da parte di un comitato di  cittadini impegnato a promuovere migliori condizioni di vita nella zona.  Ne esce fuori un quadro desolante caratterizzato da  un’elevata percentuale di ritardi scolastici nelle scuole elementari e medie, da una totale inadeguatezza del servizio scolastico offerto, con sovraffollamento nelle classi, assenza di asili nido, di scuole materne  e doposcuola, tassi elevati di evasione scolastica e di lavoro minorile.

Il significato di questo lavoro di documentazione e di riflessione è da cercarsi nella volontà di offrire un continuo stimolo alla formazione di una coscienza politica diffusa, chiamando le istituzioni pubbliche alle loro responsabilità e richiamando i cittadini all’impegno a costruire movimenti di partecipazione di base e di cooperazione nel basso.

Per me, come per gli altri membri del gruppo, “la Tenda” ha rappresentato un luogo di educazione alla fede adulta, di maturazione del senso comunionale della Chiesa, di formazione di una coscienza politica popolare. Continuo a farne parte, in questa seconda fase del suo cammino[1], pur vivendo lontano da Roma.  Non saprei farne a meno, specie in un tempo, come questo, caratterizzato da enormi trasformazioni che sfidano la coscienza dei cristiani.

 

3. “I convegni de La Tenda” e “I gruppi del Vangelo” di Chiara Flamini

I convegni de La Tenda

A partire dal 2007 il gruppo La Tenda ha organizzato una serie di convegni in cui si sono approfonditi temi riguardanti la Chiesa (da I poveri e la Chiesa a Edificare la Chiesa dell’amore a Fede cristiana e gestione del sacro), l’etica (E’ possibile una morale condivisa?), la vita personale e sociale (Dialoghi sulla sofferenza e la morte, Economia e lavoro: difendere la giustizia, creare opportunità per i giovani), la “cattedra dei poveri” (Rom, Sinti e dintorni, Scuola tra poveri)[2].

Il metodo seguito nell’organizzazione dei convegni è quello che ha sempre caratterizzato La Tenda: approfondimento del tema attraverso un relatore, testimonianze di vita vissuta e dibattito. Negli anni in cui il gruppo si è riunito, si è fatta molta attenzione a non separare la vita da un’analisi il più possibile approfondita dei vari temi, per evitare la deriva intellettualistica, ma soprattutto perché crediamo che la vita e, in particolare quella condivisa con i più poveri, educhi le coscienze. Le diverse voci che si ascoltano durante il dibattito permettono un’apertura a 360° sul tema e, nello stesso tempo, un coinvolgimento attivo di chi partecipa al convegno. Infine il pranzo comunitario, un pranzo semplice ma sempre molto buono, preparato gratuitamente da alcune persone di Torre Angela, e la richiesta ai relatori di partecipare al convegno senza ricevere soldi, neanche per le eventuali spese del viaggio, sono espressioni di una gratuità e una reciprocità che attivano cammini di fraternità… almeno così speriamo…

I gruppi del Vangelo 

Faccio parte di due gruppi del Vangelo che si riuniscono a Torre Angela ogni 15 giorni. In realtà, nel passato, ho fatto parte anche di un gruppo del Vangelo in un paese dell’entroterra cubano e in un quartiere della periferia di Milano.

La struttura dell’incontro è la seguente: dopo la preghiera allo Spirito, una persona del gruppo, a turno, introduce un salmo che verrà pregato insieme, lasciando poi uno spazio perché ciascuno possa leggere ad alta voce il versetto che lo ha colpito; a questo punto si legge un brano della Bibbia e ciascuno liberamente rilegge il versetto che lo ha colpito; si rilegge di nuovo il brano biblico e ogni persona espone ciò che il brano dice alla sua vita; infine chi vuole esprime con una preghiera la risposta alla Parola che ha ricevuto; si termina con la preghiera del Padre Nostro, tenendosi per mano. Sia i salmi che il libro della Bibbia scelto vengono letti di seguito, incontro dopo incontro.

Negli ultimi due anni abbiamo sperimentato che tenere aperto il salmo durante la lettura del brano biblico ci aiuta ad illuminarlo e questo ha permesso a persone meno vicine alla preghiera dei salmi di coglierne il senso profondo.

Il metodo è quello dell’espressione libera: ciascuno dice ciò che la Parola suscita in lui senza che ci sia qualcuno che risponda, metta in discussione, dia consigli…. Questo ascolto rispettoso dell’altro permette cammini straordinari e bellissimi. Una discussione, un entrare a gamba tesa nel luogo sacro dell’altro, una domanda sono d’intralcio: non si ascolta la Parola per trovare delle verità, ma per cercare una luce che illumini la nostra vita e che ci indichi il cammino. In più l’ascolto rispettoso crea forti legami di fraternità che riverberano nell’aiuto incondizionato, gratuito e reciproco nella vita di ogni giorno.

L’ascolto della Parola e della parola dei fratelli ci educa nel senso letterale del termine: e-ducere, tirare fuori. Ciò che sperimentiamo è una crescita personale e fraterna molto importanti. Questo è il frutto del coinvolgimento attivo di ciascuno: ogni persona è chiamata a introdurre un salmo, a esprimere cosa dice la Parola letta alla sua vita, a pregare, spesso facendo uscire il grido del cuore. Nessuno di noi è l’educatore dell’altro, ma siamo tutti discepoli, piccoli di fronte ad una Parola che ci supera, ci precede. Il fatto che non ci sia un ausilio scritto o la presenza di un prete favorisce l’espressione di un pensiero proprio, personale, strettamente legato alla vita. Quando a Torre Angela i gruppi del Vangelo (erano decine di gruppi) leggevano il brano scelto con un commento del parroco, le persone si rifacevano molto a tale commento ed era molto difficile che esprimessero un pensiero proprio, cosa che limitava molto il coinvolgimento vitale di ciascuno. E, quando nei gruppi c’è qualcuno troppo imbevuto delle formule o dei pensieri reiterati, ascoltati a messa, spesso non più aderenti alla realtà della vita delle persone, risulta difficile far interagire la vita concreta in tutte le sue espressioni con la Parola. Al contrario la presenza di persone che non frequentano la messa, che leggono per la prima volta quel libro o quel brano dona al gruppo una lettura fresca e meravigliata della Parola che risulta viva e tagliente, forte  e consolante. Mi è capitato anche di sentire dissensi rispetto ad una parola di Gesù… e proprio questo fa parte del cammino -vero- lento e faticoso di adesione a Lui.

Certamente la lettura della Bibbia in una borgata ci salva da un approccio intellettuale che impedirebbe alla vita di interagire veramente con la Parola.

Nei gruppi del Vangelo avviene qualcosa che la struttura di molte parrocchie e di molte messe impedisce: la comunione-comunicazione tra le persone e un dialogo profondo tra Parola e vita. Il potere esercitato da molti preti, quando non c’è un gruppo di laici coscienti della propria dignità, spesso imbriglia il pensiero, non lo libera. Esiste un potere, legato alla consacrazione, alla remissione dei peccati, al celibato, al genere maschile e allo studio, che viene esercitato (e purtroppo anche accordato da molti laici) con il risultato di addormentare e non educare le coscienze. E mi chiedo: come è possibile un cammino comunitario se non c’è comunicazione e se in questa comunicazione non sono presenti tutte le voci? Quando vengono ridotte al silenzio le voci dei laici (magari perché sono i preti che devono decidere), quelle dei poveri (perché “non hanno studiato”, “non sanno parlare”), quelle delle donne perché non appartengono all’ordine sacro e, ancor peggio, “Gesù non le ha scelte per il sacerdozio”… è possibile un cammino comunitario?

Ecco, nei gruppi del Vangelo si ritrova la possibilità di questo cammino… che speriamo poco a poco possa iniziare in tante comunità parrocchiali…

4.”Lectio divina. Preghiera dei fedeli. Il triduo pasquale. Assemblee” di Franco Battista

La nostra parrocchia a Torre Angela, è molto grande: sicuramente più di 70 80 mila anime e di conseguenza è divisa in quattro chiese di zona di cui una è chiesa parrocchiale. Parlerò della zona in cui vivo, S. Maria Maddalena, ma le altre zone non sono molto diverse.

Potrei dire che da sempre nella nostra chiesa di zona un gruppo aperto si ritrova settimanalmente per condividere l’esperienza della lectio divina: evidentemente sono tutte persone che sentono la necessità di prepararsi alle letture della domenica successiva.

Il gruppo è aperto a tutti ed il numero può variare di volta in volta da pochi partecipanti a 15 o 20 persone; spesso è autonomo, ma può capitare che vi partecipi anche il presbitero.

Il metodo è simile a quello spiegato Chiara per i gruppi del Vangelo, anzi anni addietro la lectio si faceva nelle case a turno da più gruppi, proprio come i gruppi del Vangelo:  silenzio, lettura del salmo e dei brani, meditazione personale e condivisione.

Personalmente, pur partecipando a questo gruppo da molti anni, sento ogni volta l’importanza ineludibile di quello che il Signore nel silenzio mi suggerisce; e poi, ancora ogni volta, ascoltando gli interventi degli altri, mi rendo conto di quanto poco, pur nella sua ricchezza, è quello che io ho scoperto rispetto a ciò che hanno scoperto gli altri. Questo vale per tutti e ci sprona all’attenzione reciproca. Seguono le esposizioni di tutti; si mettono in comune anche i dubbi e le incertezze di ciascuno, si condividono i pensieri.

Poi viene affidata la preparazione dell’introduzione ad un singolo che la domenica farà l’introduzione. Immancabilmente, davanti a questo compito, la persona prescelta riconosce una responsabilità che vorrebbe evitare, ma, vissuta con spirito di servizio, la svolge col massimo impegno, affinché la celebrazione venga così arricchita del vissuto personale dei partecipanti alla lectio, ed acquisti una familiarità con la vita quotidiana che fa sentire la messa più vicina al popolo di Dio.

La preghiera dei fedeli – La nostra chiesa di zona è piccola (può contenere al massimo 150 persone) e, pur restando ciascuno al proprio posto, la voce può raggiungere facilmente tutti gli altri. Questo stimola i laici e, al momento della preghiera dei fedeli, qualcuno dei partecipanti alla lectio, più facilmente di altri, perché ispirato dalle letture, fa la propria preghiera. Ma anche gli altri laici fanno delle preghiere che riguardano sia la vita quotidiana, sia i grandi temi sociali.

Spesso, le preghiere si rifanno a situazioni di vita concreta, mostrando nei contenuti l’attenzione posta nell’ascolto della Parola e, certamente, sono rivelatrici del modo in cui la persona desidera offrire nei fatti se stessa al disegno del Signore.

Il Triduo Pasquale – Nel tempo si sono alternati dei preti che ci hanno fatto vivere il Triduo Pasquale nelle singole zone e quindi con una partecipazione ed una profondità così intensi da rimanere indelebili nella memoria della comunità; altri preti invece, avendo voluto unificare tutto nella zona centrale, ci hanno fatto vivere questi momenti in maniera quasi ordinaria.

La ricchezza dei primi è stata caratterizzata dalla capacità di coinvolgere una notevole quantità di persone, sono stati capaci di far sentire ciascuno di noi profondamente dentro l’evento e quello che sto per narrare ne chiarisce meglio il senso.

La lavanda dei piedi del giovedì Santo abitualmente viene fatta dal prete celebrante. Da noi ci sono state per più anni persone che si proponevano in coppia per la lavanda dei piedi. Un laico lavava i piedi ad un altro laico. Non c’era obbligo, ma spesso avveniva che la persona che lavava i piedi all’altra, mentre era in ginocchio, ne motivasse il gesto con parole udibili dall’assemblea:- il riconoscimento di un’ingiustizia commessa, – una avvenuta mancanza di rispetto, – una colpa in cui ci si riconosceva.

Avveniva, e i più lo potevano vedere, che le mani di chi stava lavando i piedi, si stringessero intorno a questi ultimi o che la fronte di chi lavava si poggiasse eloquente sul ginocchio dell’altro. Questo momento assumeva una forza ed un valore indicibili e coinvolgeva profondamente l’intera assemblea.

L’altare della reposizione, il Venerdì della Passione, l’ora nona, il Sabato Santo, momenti tutti irrinunciabili, e se vissuti in modo intenso, coinvolgenti, sconvolgenti ed edificanti.

La preparazione della veglia di Pasqua – come detto all’inizio, la preparazione coinvolgeva una notevole quantità di persone, una per ogni lettura, una per ogni salmo. Iniziava con la lectio molto, molto, partecipata. Si distribuivano i compiti. Poi a casa, le persone da sole o in coppia con il coniuge elaboravano i singoli momenti della celebrazione, con introduzioni, una per ogni lettura, preghiere e simboli da portare all’altare.

Poi, ancora un incontro tutti insieme, affinché la liturgia si arricchisse armonicamente di tutti gli interventi.

Alla celebrazione della messa della notte partecipavano anche molte persone non appartenenti alla nostra comunità perché la voce era giunta loro dalle persone coinvolte nella preparazione, o poteva essere stata diffusa perfino al mercato o nei negozi del quartiere.

La ricchezza curata della liturgia; le molte preghiere spontanee fatte dai partecipanti che non risentivano della lunghezza della celebrazione e prendevano un tempo non scarso; i canti  pieni di vigore e di gioia. Tutto era fervore, e bisognerebbe aver potuto vedere all’uscita della chiesa gli occhi delle persone ed il calore mostrato verso i fratelli per poter capire con quanta pienezza era stata vissuta la veglia… Quando si vogliono unificare le zone scompare il coinvolgimento.

In ultimo le assemblee, che non erano, o non sono ripetizioni del consiglio pastorale. Le assemblee, pur svolte in modi diversi a seconda del prete del momento, mirano sempre al medesimo fine. Assemblee mensili nelle quali, dopo la lettura di un brano del Vangelo, – quest’anno della Evangelii gaudium – , anche 40 o 50 persone riunite in un salone – con la condivisione del pranzo o meno – si sono interrogate sul brano letto, sulle problematiche del quartiere, delle persone, della vita comunitaria e sociale, ponendosi con umiltà, con proposte sempre tendenti al bene comune.

Una particolarità. Dopo un periodo di sospensione delle assemblee, – perché il prete di turno non le approvava -, alla ripresa, alcune persone talvolta riproponevano vecchie dissonanze, che nel tempo però erano state risolte. Occorreva dunque, durante l’incontro, nuovo lavoro per minimizzarle, per placare le persone e poi superarle di nuovo.

Ma alle assemblee successive, se ripetute in tempi ravvicinati, iniziava a prevalere l’armonia di una comunità che cammina insieme.

Un aspetto significativo di vita. – Alcune decine di persone della nostra parrocchia fino all’anno scorso hanno fatto servizio di volontariato presso un ospedale relativamente vicino. Poi, quando ci è stato impedito di continuare dalla dirigenza dell’ospedale, molti si sono spostati presso altri ospedali fuori zona ed anche in un hospice, a distanze maggiori, anche a più di un’ora di andata con l’auto propria, con gli autobus, con la metropolitana, pur di non rinunciare alla presenza / accoglienza ai malati.

Molti dei fatti narrati sono recenti, altri sono compresi in un arco temporale di cinque o più decenni. E dal momento della prima formazione comunitaria, dove le persone coinvolte erano e sono originarie di più regioni italiane – oggi di più nazioni del mondo -, abbiamo trovato preti che hanno accolto e promosso queste scelte ed altri che erano invece indifferenti o ostili, ma la costanza, o forse la caparbietà delle persone della comunità, ha fatto sì che queste esperienze, talvolta accantonate, siano state fatte riscoprire e, reintrodotte, continuino ancora oggi.

Un nostro ex parroco vicino alla pensione ci aveva definiti: “una spina nel suo fianco”. Recentemente, ritornando sull’argomento ha confessato:- “Eppure questa è la più bella comunità che ho guidato”.

5.”Liturgia domenicale e vita quotidiana” di Lorenzo D’Amico

Rispetto alla domanda iniziale: “Come aiutarsi tra fratelli a far crescere, a educare le coscienze?”, credo che un contributo decisivo ci venga dalla liturgia domenicale, quando questa è segnata dalla vita quotidiana.

Proviamo a tornare in Rwanda, un paese a maggioranza cristiana: in 100 giorni  sono state uccise 800 ̇000 persone. Perché è stato possibile? Dov’era la loro fede cristiana? Anche qui in Italia la nostra fede non rischia di ridurre il Natale al bambinello, la Pasqua ad una palma, un funerale ad un po’ di incenso? La liturgia domenicale , oltre alla ripresentazione della vittoria, da parte di Cristo, sulla morte, per l’umanità intera, non dovrebbe essere anche il luogo in cui far emergere ciò che di unico i singoli hanno ricevuto in dono e farlo interagire? La liturgia domenicale non deve essere il luogo della discussione, ma certamente il luogo del ritorno comunionale.  Il Signore non ha creato il mondo e poi ci aspetta alla sua fine: lo Spirito del Signore continua a donare ai singoli e all’umanità tutta: vita, forza, misericordia… Sta a noi far emergere questo potenziale. Nella comunità cristiana dobbiamo aiutarci a riprendere in mano il nostro pensare e il nostro agire. E’ necessario un buon equilibrio tra il fare e l’interrogarsi sul senso del nostro fare, incontrare…

Di fronte alle difficoltà più gravi della vita è importante chiederci: cosa ci aiuta a far riemergere la Speranza? Riflettere e far emergere il positivo ricevuto e vissuto, senza dimenticare l’esempio del serpente che, per togliersi la vecchia pelle, deve passare tra due sassi stretti stretti.

Può esserci utile ogni tanto riflettere su alcuni grandi cambiamenti a cui abbiamo assistito:

  • la chiusura, nel 1979, dei manicomi e il tornare a vedere nel malato psichiatrico il suo centro, che non è la malattia, ma la persona nella sua interezza;
  • dal 1800 a.C., con la legge del taglione nel codice di Hammurabi fino al processo di Norimberga c’è stata una continuità… ma con il processo di Riconciliazione in Sudafrica ha iniziato una nuova epoca… e anche gli incontri tra ex brigatisti e vittime del terrorismo italiano hanno aperto un nuovo modo di pensare la giustizia;
  • nella Chiesa cattolica non si parla più dei “perfidi deicidi”, ma dei nostri “fratelli maggiori”;
  • siamo passati dal Catechismo di Pio X a ricevere tra le mani la Bibbia…

 

Cosa ci viene chiesto?

  • Umiltà, umiltà, umiltà… e coscienza dei doni ricevuti.
  • Non discussioni astratte, ma ciò che contribuisce alla liberazione di tutti, in particolare dei più poveri.

Vi proponiamo alcuni interrogativi che possono aiutarci:

  • Qual è il cambiamento più significativo di questo nostro tempo?
  • Che cosa di positivo già vediamo e viviamo?
  • Quale contributo ci sembra necessario per ridare Speranza alla comunità?
  • Cosa ci aiuta a risvegliare le coscienze?
  • In quale direzione andare e agire?

[1] Alla prima serie de La Tenda (1969-1986), è seguita una seconda a partire dal 2007

[2] Gli atti dei convegni si trovano nel sito www.gruppolatenda.org