Lettera 45 (Seconda Serie)

Lettera introduttiva

Cari amici ed amiche, come introduzione a questa lettera de La Tenda, con molta gioia vi riproponiamo queste parole che il nostro vescovo, papa Francesco, ha proposto alla chiesa di Roma il 14 maggio 2018:

“Cari fratelli e sorelle,

 È un bene che questa situazione ci abbia stancato, è una grazia di Dio questa stanchezza: ci fa desiderare di uscire.

Come avrete capito, vi sto invitando a intraprendere un’altra tappa del cammino della Chiesa di Roma: in un certo senso un nuovo esodo, una nuova partenza, che rinnovi la nostra identità di popolo di Dio, senza rimpianti per ciò che dovremo lasciare.

Occorrerà, come dicevo, ascoltare il grido del popolo, come Mosè fu esortato a fare: sapendo così interpretare, alla luce della Parola di Dio, i fenomeni sociali e culturali nei quali siete immersi. Cioè imparando a discernere dove Lui è già presente, in forme molto ordinarie di santità e di comunione con Lui: incontrando e accompagnandovi sempre più con gente che già sta vivendo il Vangelo e l’amicizia con il Signore.

 Gente che magari non fa catechismo, eppure ha saputo dare un senso di fede e di speranza alle esperienze elementari della vita; che ha già fatto diventare significato della sua esistenza il Signore, e proprio dentro quei problemi, quegli ambienti e quelle situazioni dalle quali la nostra pastorale ordinaria resta normalmente lontana.

E se la guida di una comunità cristiana è compito specifico del ministro ordinato, cioè del parroco, la cura pastorale è incardinata nel battesimo, fiorisce dalla fraternità e non è compito solo del parroco o dei sacerdoti, ma di tutti i battezzati. Questa cura diffusa e moltiplicata delle relazioni potrà innervare anche a Roma una rivoluzione della tenerezza, che sarà arricchita dalle sensibilità, dagli sguardi, delle storie di molti.

Tenendo questo come un primo compito pastorale, potremo essere lo strumento attraverso il quale sia sperimenteremo l’azione dello Spirito Santo tra di noi (cfr Rm 5,5), sia vedremo vite cambiare (cfr At 4,32-35). Come attraverso l’umanità di Mosè Dio intervenne per Israele, così l’umanità risanata e riconciliata dei cristiani può essere lo strumento (quasi il sacramento) di questa azione del Signore che vuole liberare il suo popolo da tutto ciò che lo fa non-popolo, con il suo carico di ingiustizia e di peccato che genera morte.

Ma bisogna guardare a questo popolo e non a noi stessi, lasciarci interpellare e scomodare. Questo produrrà certamente qualcosa di nuovo, di inedito e di voluto dal Signore.

Vi invito a leggere così anche alcune delle difficoltà e delle malattie che avete riscontrato nelle vostre comunità: come realtà che forse non sono più buone da mangiare, non possono più essere offerte per la fame di qualcuno. Il che non significa affatto che non possiamo produrre più niente, ma che dobbiamo innestare virgulti nuovi: innesti che daranno frutti nuovi. Coraggio e avanti. Il tempo è nostro. Avanti.”

(l’intero testo, veramente prezioso, lo trovate a questo link: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2018/may/documents/papa-francesco_20180514_incontro-diocesi-diroma.html#DISCORSO_DEL_SANTO_PADRE_FRANCESCO_)

 

DIALOGO NELLA CHIESA ROMANA: QUALE COMUNIONE-COMUNICAZIONE NELLE COMUNITÀ CRISTIANE?

di Lorenzo D’Amico

 

Queste pagine nascono come tentativo di approfondire una discussione avvenuta in una comunità Cristiana a Torre Angela – Roma.

I laici di una delle 4 zone di cui è formata la parrocchia, un tempo guidata da 4 co-parroci, chiedono al parroco di riportare nelle zone il triduo pasquale (dove si era svolto per più di 40 anni) per permettere ai laici di partecipare attivamente e non solo di assistere al triduo; il parroco rispondeva che la messa non ha bisogno della partecipazione attiva dei laici, tanto che il prete può celebrare anche da solo senza presenza del popolo; c’era chi gli faceva osservare che il prete può celebrare da solo nel caso di “giusta e ragionevole causa”: malattia, trovandosi in un paese senza altri cristiani…, ma che a parte queste eccezioni la messa prevede la partecipazione del popolo come co-protagonista al sacrificio di Cristo.

La discussione ci spinge a riflettere, per tentare di approfondire quale comunione-comunicazione deve avvenire nella mensa eucaristica.

 

QUALI TEMI HANNO BISOGNO DI UN CONFRONTO COMUNITARIO?

Ogni comunità conosce le sue priorità, per noi, una borgata alla periferia di Roma con la presenza di oltre 70 etnie, mi pare fondamentale confrontarci sul tema delle migrazioni con i migranti: quale accoglienza, quale interazione? Inoltre in un tempo in cui ogni persona è subissata da 10000 messaggi telefonici: come riattivare il potenziale esistente in ciascuno, in un confronto che permetta a tutti di contribuire alla costruzione del futuro?

Il fine vita. Come educare i nostri figli. Le malattie psichiche. Il lavoro. La necessità di riportare la grazia e la lode al centro della nostra fede. Scoprire, ascoltare e conoscere nella vita quotidiana l’opera di Dio…  Gli esempi sono puramente indicativi.

 

QUAL È IL LUOGO COMUNITARIO DEL CONFRONTO?

Il popolo di Dio non può essere ridotto a “soprammobile”, la liturgia domenicale è il luogo in cui converge ciò che di più prezioso o più difficile c’è nella vita, illuminato dalla luce della ripresentazione della passione, morte e risurrezione di Cristo.

 

QUALE COMUNIONE-COMUNICAZIONE?

Si tratta di trasformare la messa in un dibattito?

No! Ma non possiamo pensare che il luogo della riflessione e dello scambio di una comunità si possa ridurre a scambi di messaggi: “mi piace”, “troppo buono”, “cuoricini” sui cellulari. La messa deve essere il luogo dove confluisce la vita della comunità e dell’umanità intera, il luogo in cui deve essere presente anche la ricerca dei singoli cristiani, il  tutto illuminato dalla parola e dall’esempio del Cristo, e proprio l’impegno a questa nuova complessità richiama la necessità del perdono reciproco e della pace, dona un nuovo senso alla comunione.

C’è una ricerca che deve avvenire nella vita sociale e politica, ma c’è una ricerca che deve avvenire nella comunità cristiana ed è alla base della comunicazione-comunione.

La ricerca deve essere oltre che personale anche comunitaria, perché possano esserci scelte personali e comunitarie. Quando Papa Francesco chiede un contributo su “la famiglia” in vista del sinodo, o sull’elezione del vicario di Roma… non chiede forse di riattivare la comunione?

Per tutti coloro che credono nello Spirito del Signore, non c’è una delega perché lui faccia tutto da solo, ma la speranza che uomini e donne di buona volontà, coscienti della propria fragilità, dopo essersi messi in ascolto della propria e altrui profondità, insieme a quello Spirito riprendano a camminare nei sentieri della vita.

Attualmente quale ritorno c’è nella messa domenicale di tutto ciò che il Signore fa maturare nel profondo del singolo e nel dialogo comunitario?

Com’è possibile pensare ad un’evangelizzazione se non si ripensa in profondità alla comunità cristiana.

Che cosa si va a raccontare?

Noi crediamo che Cristo ha vissuto trasmettendo e riattivando vita, ha attraversato la morte ed è risorto ed ha dischiuso la vita all’umanità tutta, “anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere a Dio”, ma c’è un’azione dello Spirito che continua ad operare nella vita delle donne e degli uomini, illumina nuovi orizzonti, “farete cose più grandi di quelle che avete visto”, “lo Spirito della verità vi guiderà a tutta la verità” e noi tutti siamo chiamati a contribuire oggi a quest’opera di liberazione.

“Lo Spirito Santo porta a maturazione giorno dopo giorno atteggiamenti nuovi (e ne conferma di antichi)… Parlare di comunione ecclesiale trascurando di prendere in considerazione quel che il popolo cristiano secerne quotidianamente, è ridursi al formalismo” (La Tenda n° 68,10).

Allo stato attuale c’è da chiedersi se siamo: una aggregazione o una comunione? Ci sono molte comunicazioni, ma c’è comunione?

 

PRETI, VESCOVI, DIACONI, LAICI… e la COMUNIONE

Molti seminaristi sono stati educati ad un “sapere” da accogliere e trasmettere, che li fa sentire parte del magistero… e poco educati a far emergere la ricchezza dei singoli e farli dialogare nella comunità. Quando la comunità si trova riunita per affrontare un tema, il prete o il vescovo o il diacono hanno il compito di introdurre brevemente l’argomento e intervenire per la conclusione, è bene che non si sentano chiamati a rispondere ad ogni intervento, per facilitare la crescita delle singole coscienze.

È bene una volta l’anno (e potrebbe essere a Pentecoste) una revisione dello stato della comunione, i nodi concreti venuti al pettine.

I preti “entrano nell’ordine sacro (= elenco delle persone che servono la comunione) mettendo a disposizione il profondo della coscienza e delle proprie capacità psichiche e spirituali” (69,5).

Ecco allora che intorno al tavolo della Santa Cena questo scambio-comunione, che può essere avvenuto anche prima, è illuminato dalla Parola, acquista forza nei segni della pace e diventa comunione con la vita di Cristo e dei fratelli… e da qui possiamo attendere i frutti dentro la comunità e fuori nella vita quotidiana.

“Si possono fare piccoli passi? Pochi passi? Non fa niente: ma vanno fatti solo in quella direzione.

E poi difendere quel poco che nasce” (69,12 ).

 

UNA NUOVA LINFA

Forse adesso, dopo tante parole è un po’ più chiaro perché occorre impegnarsi per facilitare la partecipazione attiva dell’eucaristia domenicale, perché in una comunità in cui ci sono 100-200 persone è ancora possibile una comunione-comunicazione e i vari momenti: liturgia della parola, offertorio, ripresentazione del corpo e del sangue di Cristo, scambio della pace, comunione… acquistino la loro forza e incisività nella vita quotidiana ed anche dalla vita quotidiana possiamo comunitariamente ricavare una nuova linfa.

 

Chiunque voglia approfondire il tema trattato consigliamo www.gruppolatenda.org  La Tenda n° 68 e 69, da cui ho attinto a piene mani.

Lorenzo

COMMENTO AL TESTO DI LORENZO

di Ghislain Lafont

 

In commento al testo di Lorenzo, vorrei soltanto richiamare dei dati indiscutibili, rimessi in luce dal Vaticano II.

  1. Il sacrificio di Cristo, offerto una volte per tutte, e la Risurrezione del medesimo il terzo giorno, porta a compimento il disegno creatore e salvatore di Dio. Basta totalmente e non bisogna ripeterlo ! Una volta tanto dice la Lettera agli Ebrei !
  2. Bisogna invece che noi cristiani nel tempo nostro siamo messi in contatto col Mistero compiuto. L’Eucaristia è stata appunto per questo :permettere la memoria. L’Eucaristia ci rende presente, a noi che siamo nel tempo, questo Mistero compiuto e rende presente al sacrificio di Cristo il nostro « sacrificio spirituale », fatto delle cose quotidiane e della carità con la quale sono fatte. In termini « spirituali », l’Eucaristia è il momento dell’effusione dello Spirito sulla comunità e della presentazione a Dio della carità spirituale vissuta nella comunità.
  3. Segue a questo che la comunità è insieme il celebrante dell’Eucaristia e il beneficiario di essa. Questo è il suo « sacerdozio spirituale », detto anche « regale ». Se il sacerdote ministeriale ha dei privilegi, è per presiedere alla comunità celebrante, non per sostituirla. È « ordinato » ad essa [fin a un passato recentissimo, non era lecito al sacerdote di celebrare senza assistenza. Ad. es. Charles de Foucauld è rimasto parecchi mesi senza celebrare perché nessun cristiano c’era per rappresentare la Chiesa. Dopo di che, riceve un indulto speciale]. In tutti gli aspetti del suo ministero, il sacerdote ministeriale è collegato come ministro (= servitore) al sacerdote regale. Chi è più importante, il re o il ministro ?

Questo detto, non mi sento capace di dare un parere sulla questione di celebrare il Triduum sanctum in zona o in centro, ne sull’opportunità e il come del raccontare durante la celebrazione il vissuto teologale della comunità, ne sulle forme che possono rivestire la partecipazione concreta della comunità alla celebrazione eucaristica. Tutte queste cose dipendono delle comunità concrete, del loro vissuto ecc. La sola cosa che posso dire è che questo vissuto teologale della comunità fa parte essenziale della  liturgia e deve dunque essere reso presente.

  1. E possibile che, per un lungo tempo, a causa del potere sacramentale del prete di « fare la transustanziazione », la natura vera dell’eucaristia è rimasta ricoperta, oscurata.

 

DIBATTITO PER IL DIALOGO NELLA CHIESA ROMANA

 

Gianfranco e Maria – Nel 1969, incoraggiati da d. Nicola, abbiamo sentito, assieme ad altri, la responsabilità e l’urgenza di fare la nostra parte per una rivitalizzazione del dialogo nella Chiesa locale di Roma, attraverso la pubblicazione del foglio “La Tenda”.

Sia quando abitavamo a Roma, sia quando, ci siamo trasferiti, assieme ai figli, a Martina Franca, in Puglia, ci siamo trovati a fare la nostra parte in varie esperienze di cittadinanza attiva, di lavoro pastorale, di solidarietà sociale. In particolare, d’intesa con i figli, abbiamo aperto la nostra casa all’accoglienza, con varie esperienze di affidamento familiare e con un’adozione, operando assieme alla Comunità dei pp. Somaschi, ad altre famiglie, alla rete “Bambini, ragazzi e famiglie al sud”.

Oltre a ricercare sempre, assieme ai nostri compagni di strada, di sviluppare un’azione riflessiva, abbiamo costantemente cercato di portare a comunione, nella realtà ecclesiale di appartenenza, la nostra vita quotidiana, in ascolto dell’Evangelo e del grido dei poveri.

Grazie anche al loro accompagnamento, si è fatta sempre più viva in noi l’esigenza che il popolo cristiano potesse assumere fino in fondo le sue responsabilità di soggetto adulto nella Chiesa e nella società civile e che i ministeri presbiterale ed episcopale divenissero una risorsa comunionale, anziché un ostacolo al cammino condiviso!

Allo stesso tempo ci sentiamo lontani dallo status clericalizzato e tuttofare che viene proposto ai battezzati che si rendono disponibili alla collaborazione pastorale.

L’esercizio di una sana critica non ci ha finora impedito di continuare a dare la nostra disponibilità per qualche compito pastorale, in parrocchia. Siamo sempre più convinti che, nella Chiesa italiana, sia giunto il momento di allargare il respiro del dialogo e della proposta, affinché si affermi una modalità sinodale di cammino che veda il contributo di tutte le espressioni del popolo cristiano.

La stagione di grandi speranze che si è aperta grazie a Papa Francesco ha bisogno in questo momento che i cristiani, uomini e donne,  si mettano più coraggiosamente in gioco e che diano un contributo corale e creativo, nella fedeltà al Vangelo ed alla tradizione autentica, per il superamento di una Chiesa tuttora fortemente clericalizzata.

Abbiamo la speranza  che noi stessi riusciamo a dare il nostro piccolo, ma necessario, contributo.

 

Lorenzo – Ora più che mai è necessario riflettere e non solo fare, una riflessione che non inchiodi intorno a parole e discussioni interminabili, ma capace – innanzitutto – di cogliere ciò che lo Spirito sta già operando in noi e in questa nostra comunità e facilitare la comunione di tali doni.

Quali urgenze? –

– La scelta e la formazione dei seminaristi;

– Non  schiacciare sotto analisi prive di speranza. Quando ci si muove in mezzo alla nebbia fitta, occorre mostrare la difficoltà della ricerca, con un dibattito leale, che colga ed esprima la validità e poi anche il limite del parere altrui e proprio.

– Non limitarsi a riflettere con chi ha piantato la tenda dentro le sacrestie, ma soprattutto con coloro che, pur vivendo in profondità il loro cristianesimo, non hanno servizi all’interno della comunità cristiana, ma ad extra.

– Tornare alla centralità del Vangelo e della Bibbia con piccoli gruppi (5-10 persone) che si riuniscono nelle case guidati da un laico (donna o uomo) in cui si torna a pregare… La confluenza di tali gruppi nella messa domenicale aiuterà a rinnovare la partecipazione. Proprio chi partecipa a tali gruppi diviene a sua volta evangelizzatore.

– Una messa domenicale in cui i laici partecipano attivamente, una concelebrazione dell’intera comunità in cui il prete contribuisce:

  • a far emergere i vari ministeri,
  • che la preghiera dei fedeli sia dei fedeli,
  • evidenziare le varie responsabilità maturate,
  • che sia anche la celebrazione dei vari doni che il Signore continua ad elargire,
  • ad evitare il pericolo di perseguire un pensiero unico, faccia crescere la comunione tra i fratelli e con l’umanità intera.

– Una Chiesa capace non solo di tamponare le emergenze della povertà ma che contribuisca a rimuovere le cause che dilatano sempre più il numero dei poveri.

– Cogliere la complessità e la ricchezza di questo nostro tempo particolarmente prezioso, faticoso ma prezioso; quindi saper riaccendere la speranza.

– Saper rimanere con gli ultimi.

 

Francesco – Innanzi tutto è necessaria una profonda riforma della formazione dei preti. L’amore di Dio e del prossimo è il criterio che deve presiedere ad una revisione evangelica dei seminari. In materia di carità è “docente” chi più profondamente vive l’amore di Dio e del prossimo. Sarebbe opportuno perciò che tutti i gruppi di laici che in diverse forme condividono  questa esigenza esercitino con varie iniziative un’azione costante perché la questione sia messa all’ordine del giorno della Chiesa. Le resistenze sono tenaci , ma la speranza è più forte!

 

Franco – Il mio cammino di Fede da cristiano adulto è iniziato, quando mio figlio Daniele si preparava alla prima comunione. Mi proposero di fare un ritiro spirituale di 3 giorni; per non dispiacere a lui accettai. Così mi trovai in una località isolata, insieme ad una ventina di papà come me ed a sei o sette animatori/moderatori laici e ad un solo un prete che neanche prendeva parte agli incontri. Mi colpì il fatto che questi laici parlavano molto dei fatti concreti della vita quotidiana, che non si parlasse di precetti religiosi, e che nessuno cercava di colpevolizzare noi papà. Da quel giorno ho iniziato a frequentare regolarmente la Chiesa.

Ritornati a Roma ci chiesero di formare un gruppo di lettura del Vangelo. Aderii scoprendo la bellezza di poter io stesso interpretare quello che la Parola mi suscitava.

Ogni persona che ha partecipato seriamente a questi incontri ha subito un radicale cambiamento nel modo di vivere.

La lavanda dei piedi del giovedì Santo, abitualmente viene fatta dal prete celebrante. Da noi c’è stato un periodo nel quale le persone si proponevano, talvolta in coppia, per la lavanda dei piedi. Un laico lavava i piedi ad un altro laico. Non c’era obbligo, ma spesso avveniva che la persona che lavava i piedi all’altra ne motivasse il gesto con parole percepibili dall’Assemblea: il riconoscimento di un’ingiustizia commessa, una mancanza di rispetto, una colpa in cui ci si riconosceva.

Avveniva, e molti potevano vedere, che le mani di chi stava lavando i piedi, si stringessero intorno a questi ultimi o che la fronte si poggiasse sul ginocchio dell’altro. Questo momento assumeva una forza ed un valore indicibili, coinvolgendo profondamente l’intera Assemblea. In questa parrocchia, nell’ultimo decennio, abbiamo avuto la rotazione di una decina di preti. Ognuno di essi non ha mai dato peso alle iniziative del predecessore, o al precedente vissuto comunitario, ricominciando tutto da capo, con profonda desolazione e sconforto dei laici fedeli.

 

Maurizio – Se dovessi suggerire qualcosa, innanzi tutto non saprei a quale chiesa rivolgermi: quella popolare parrocchiale, quella dei Movimenti (Neocatecumenali, Opus Dei, Sant’Egidio, Comunione e Liberazione, …) quella degli ordini religiosi (Francescani, Salesiani, Gesuiti, Serviti, …) che si combattono a colpi di vescovati o cardinalati, quella delle Curie.

Ho cercato di documentarmi sulla dimensione manageriale del lavoro di “Vescovo vicario”.

I numeri sono preoccupanti e temo che non avranno mai tempo da dedicare alla mia parrocchia.

Il Vescovo Vicario è stretto tra numerose forze che richiedono la sua dedizione e la sua energia:

Segreteria di Stato, che deve valutare l’immagine che il mondo esterno riceve dalla gestione della Diocesi.

Uffici del Vicariato, con circa 800 (?) dipendenti da gestire ed amministrare, una azienda non trascurabile.

Risorse economiche della Diocesi

Linee pastorali della Diocesi. Uffici centrali di formazione e pianificazione.

Seminari per la formazione di nuovo clero.

Parrocchie assegnate a ordini religiosi (persone 5.259).

Parrocchie assegnate a clero di altre diocesi (persone 2.894).

Parrocchie attribuite a movimenti religiosi, anche se con clero romano.

Parrocchie ordinarie con clero romano (persone 1.245). In tutto, le parrocchie romane

circa 336.

Diocesi suburbicarie (7).

Parrocchie in Diocesi suburbicarie (292).

Basiliche, rettorie.

Ordini religiosi femminili (persone 3.157).

Non mancano certamente le persone che hanno qualcosa da chiedere, né quelli che scelgono di litigare tra di loro.

 

Chiara – Scrivo da un angolo di visuale assolutamente parziale, ma forse, come dirò, privilegiato: quello di una donna (che nella Chiesa non può prendere decisioni), di una certa generazione (per la quale la parità uomo-donna è scontata anche se a livello sociale non completamente attuata), che ad un certo punto della sua vita ha rifiutato di credere in un Dio, presentato da una Chiesa ancora preconciliare, quella del suo paesino, giudice, vendicativo, punitivo, un Dio onnipotente da temere… Un angolo di visuale privilegiato perché forse vicino a chi, della mia generazione, si avvicina alla celebrazione della messa da estraneo, magari perché sente il dovere di far fare la prima comunione ai suoi figli.

Da questo angolo di visuale mi pare che una delle cose più urgenti, nella Chiesa italiana, sia ripensare la celebrazione della messa, a partire dal fatto che è una comunità presieduta dal prete che la celebra. E se è la comunità che la celebra e non il prete, che ci sia o no la comunità, questo deve potersi esprimere nella messa.

Ne do qualche esempio. Una comunità di fratelli e sorelle che celebrano la messa, ascoltando la Parola e spezzando il Pane, ricordando la cena del Signore così come ci è stata trasmessa dai Vangeli, si disporrebbe in cerchio e non dando gli uni le spalle agli altri.

Se è una comunità che celebra, il canto sarebbe il canto di tutti e non del coro: sono i fratelli e le sorelle che cantano insieme la lode, la preghiera…

Se è la comunità che celebra, una comunità concreta di fratelli e sorelle che vivono in un certo tempo e in un contesto sociale, in una comunità umana più larga, le preghiere (quelle dei “fedeli” per intenderci) sarebbero le preghiere della comunità, non del foglietto, preghiere che salgono dal vissuto di ciascuno, vissuto che si sviluppa in una trama di relazioni, nell’esperienza di lavoro e impegno civile.

Porgo uno spunto di riflessione senza approfondirlo: perché questo avvenga deve esistere una comunità in cui ci sia comunicazione e condivisione al suo interno.

Dunque se un quarantenne, estraneo alla fede e al cammino della comunità, si trovasse a partecipare ad una messa così, sentirebbe l’espressione di una fede viva e vitale e non quella di un rito imbalsamato, di difficile comprensione, almeno in alcune sue parti, e lontano dalla vita, con preghiere (quelle dei “fedeli”) così generiche, impersonali e distanti dalla congiuntura storica e sociale, mondiale, ecclesiale…

E se, addirittura, nella messa esprimessimo di più, ancora meglio, la nostra fede nel Dio di Gesù, un Dio misericordioso, amante degli uomini, pieno di un amore discreto, rispettoso, paziente e sovrabbondante, un Dio che si è manifestato in Gesù servo, piccolo, povero (Mt 25)?

Se lasciassimo da parte oggetti d’oro, paramenti che mettono distanze e di cui non recepiamo più il valore simbolico, altari e preti lontani fisicamente dalla comunità… se invece, per esempio, ci prendessimo il tempo perché il segno della pace sia un gesto vero di rappacificazione con il tal fratello o la tal sorella con cui si è rotto qualcosa nella relazione? Se invece di nominare il Padre onnipotente e grandissimo, quindi lontano, lo chiamassimo per esempio Padre pieno di amore?

Se smettessimo di perpetuare riti di espiazione, anche per chi è morto, come se Dio ci chiedesse sacrifici, a volte anche a pagamento, per esercitare la sua misericordia che invece è del tutto gratuita e sovrabbondante?

Il quarantenne o la quarantenne in questione, che trovasse nella celebrazione della messa questo nostro Dio che Gesù ci ha mostrato e fatto conoscere, forse, -forse-, se ne innamorerebbe, forse lascerebbe tante occupazioni per cercarlo e farsi trovare, come è successo a me, alcuni anni fa, grazie ad una piccola e semplice comunità monastica, in un paesino sperduto del Piemonte.

 

Gianfranco – Quanto al tema della riforma della chiesa, mi sembra che la questione della riforma dei ministeri ordinati sia ormai esplosiva e non rinviabile.

Rileggendo la Lettera n. 16 de La Tenda (dicembre 1970 – gennaio 1971), sul tema “C’erano una volta i seminari” mi colpiscono, tra le altre, queste parole: “Qui siamo al nocciolo della questione: il discorso è che non si può diventare preti in seminario, perché non si ha la possibilità di mettere a confronto, di far maturare, di valutare e vagliare  il proprio carisma con gli altri; poiché il seminario non può mai essere una Chiesa, non troviamo in esso il popolo di Dio… Il prete può diventare tale solo in una Chiesa: non solo, ma può nascere e maturare veramente soltanto da una Chiesa. Altrimenti è in crisi la sua identificazione, perché si trova ad essere prete senza una sua Chiesa, senza l’esperienza di un ritmo di fede vissuto nella sua comunità, che lo giudica a un certo punto maturo, capace di presiedere, di pascere …. Vivere in una Chiesa, maturare lì il proprio carisma: ciò è ben diverso dall’andare due giorni in parrocchia “a fare quel che si può”.

Assai interessante risulta anche la rilettura della Lettera n. 82 de La Tenda (febbraio 1977) su: Il clero a Roma oggi. Cito una sola frase: “Vorremmo nel presente paragrafo sviluppare ulteriormente l’ipotesi nel senso seguente: il ritorno alla normalità è per il clero ben più che un’alternativa tra le altre, essa è un’alternativa senza alternative. È addirittura un minimum sotto il quale non c’è possibilità di acconciare una figura soddisfacente di presbitero. Affermiamo cioè che l’esclusione della famiglia, del lavoro e del normale inserimento civile dalla vita dei pastori … renderà la categoria – perché a questo punto si tratta ormai proprio di una categoria, di uno status – a) estremamente ridotta sul piano numerico, b) radicalmente incapace di esercitare oggi la funzione pastorale”.

Ghislain Lafont, colloca il presbiterato in una prospettiva nuova. Nell’incontro del 29 aprile 2017 su “Fede cristiana e gestione del sacro”, nella relazione introduttiva, spiegava che il prete è “un banditore della carità, dello scambio interiore dei gruppi cristiani e un servitore dell’apertura di tutti i cristiani a tutti gli uomini”. In fase conclusiva poi, collocava con saggia prudenza la questione dell’ordinazione di uomini coniugati e con figli in una prospettiva diversa da decisioni centralistiche. Auspicava, infatti, che un singolo vescovo possa comunicare al papa l’esistenza di condizioni adatte all’ordinazione di alcuni uomini coniugati nella sua diocesi, sperimentando in tal modo cose nuove.

 

DIBATTITO SUL FINE VITA

 

Francesco – La Chiesa Cattolica parla di primato della coscienza, di necessità di crescita, maturazione della propria coscienza, ma è sul dettato della sua coscienza attuale che ogni persona deve fare le sue scelte. Per cui, se un essere umano,affetto da un male incurabile e dolorosissimo sente in sé che non ne può più e che deve mettere fine a questo stato inumano, chi potrà negargli il diritto di metter fine al suo calvario?

 

Maurizio – Occorre operare una distinzione: se la persona è o non è in grado di decidere. Una seconda distinzione: le sofferenze a cui si sottopone una persona, se permettono o no una durata di vita considerevole (es. l’amputazione di una gamba può permettere di vivere una lunga vita ma se amputiamo una gamba ad una persona per prolungargli la vita di 15 giorni non ha senso).

(es.: mia nonna a 83 anni ha avuto una grave emorragia anale ed è entrata in coma, un parente propose di portarla in ospedale e operarla, mio padre e i suoi fratelli invece decisero di lasciarla a casa e di accompagnarla alla morte. Anche Wojtyla ad un certo punto ha detto: “Basta, lasciatemi tornare al Padre”).

Diamo alla persona che vuole, le risorse per vivere ma se non vuole, lasciamola andare.

 

Luigi – Farei una distinzione tra la malattia e la grande anzianità. Quando la malattia e il dolore fisico si protraggono per anni, chi può decidere se quei dolori sono ancora sopportabili? Invece nel caso di una grande anzianità, in assenza di una malattia dolorosa e debilitante, sarebbe pericoloso pensare e decidere di chiudere la partita perché gli anni vissuti sono tanti. C’è il pericolo di considerare la validità di una vita solo quando si è forti, attivi,  produttivi, e questa è una tendenza sempre più diffusa.

 

Micaela – Occorre impegnarsi a cogliere la qualità della vita di ogni persona, al di là dell’apparenza e dell’efficienza.

Molte volte la preziosità di una vita, si coglie quando ha termine la fase produttiva.

Nella malattia psichica può capitare che la persona si senta vuota, priva di senso e se nel picco negativo della sofferenza ci fosse la possibilità del suicidio assistito, ci sarebbe un’ecatombe.

Il caso Blue – Weit.

 

Francesco – Per fortuna, fuori della Chiesa, si sviluppano delle riflessioni che poi si ripercuotono dentro la Chiesa e la costringono ad uscire fuori dalla sua tradizione giuridica del Vangelo. Noi oggi stiamo discutendo di cose di cui un tempo non si poteva discutere, tutto era già stato chiarito e deciso: c’era un “principio” da rispettare e basta.

La Chiesa Latina, anche per motivi storici, si è instradata sulla via della Norma, della legge e contro questa costituzione Papa Francesco sta lavorando per uscire e per far uscire il popolo tutto da questa lettura esclusivamente  giuridica del Vangelo.

 

Gianfranco – Lettura giuridica ed ideologica.

 

Luigi – Quando sento parlare di vite degne o non degne di essere vissute, tremo. Avrei difficoltà a deciderlo della mia vita, non può certo deciderlo un medico o una legge.

 

Chiara – È importante mettere in luce tutte quelle situazioni in cui, pur essendoci un handicap grave, la vitalità è grande e a volte superiore al normale. È necessario sottolineare che ciò che diventa decisivo non è l’handicap, ma la rete di relazioni che circonda quella persona. Spesso è il modo con cui si sceglie o si vive accanto ad un portatore di handicap a determinare il malessere o la risorsa.

Ho regalato ad una ragazzina, che ha un fratello con un grave ritardo psico-fisico, il libro “Mio fratello rincorre i dinosauri” in cui lo scrittore, un ragazzo di 18 anni, racconta la sua vita con un fratello down. Questa ragazzina è passata da una fase depressiva, ad un nuovo modo di vedere il fratellino, ed è passata da una condizione di grave vergogna ad una di gioia, nella quale sta lentamente scoprendo le risorse del fratello. Occorre, con grande rispetto della fatica altrui, essere capaci di cogliere ciò che di particolarmente positivo può emergere dalle condizioni di fragilità.

 

Gianfranco – Proprio Ghislain Lafont, nella presentazione dell’antologia “Roma come Chiesa locale”, coglieva tra i criteri fondamentali che ispirano il nostro gruppo quello della formulazione di una teologia  che parte dai fatti e non dall’affermazione di principi.

Luigi – Il “piano inclinato” nella qualità della vita, ha fatto si che in Islanda non nascano più down, c’è stata tutta una campagna per cui se nello screening prenatale risulta questa patologia, i genitori scelgono di interrompere la gravidanza. Nessuno di noi si sente di dire a una donna in gravidanza nella quale risultano geni portatori di handicap: “devi portare a termine la gravidanza”,  ma non è pensabile una campagna che stabilisca se una vita è degna o non è degna di essere vissuta. Questa è una strada pericolosa, di impoverimento di tutti.

 

Francesco – Lo stato non può entrare di prepotenza sulla vita delle persone.

 

Franco – Io vado in un Hospice dove i malati che entrano hanno un’aspettativa di vita di non più di 90 giorni. Ci spiegava il medico responsabile: “Le cure palliative, tempo 20 minuti da quando si entra, a prescindere dalla malattia, eliminano il dolore; quindi cessa l’angoscia legata al dolore. Sparito il dolore, le persone riacquistano la serenità, proprio questa assenza di dolore fa sì che le persone non chiedono mai l’eutanasia, non solo perché non  potremmo farla, ma perché non ne sentono l’esigenza.” Continuava il medico: “Il mio compito non è quello di guarire chi entra da noi, ché non può guarire, ma il nostro compito è di permettere il passaggio senza i dolori che un tempo accompagnavano la morte.

In tanti anni, non abbiamo avuto una sola persona che abbia chiesto l’eutanasia. Quello che le persone chiedono e noi siamo qui per questo, è guardare alla persona nella sua interezza”.

 

Chiara – Un libro interessante è “Saper morire” di D. Borasio, medico palliativista, in cui ci sono racconti di vite ed anche riflessioni importanti.

 

Lorenzo – Un tema che è venuto fuori più volte, è che l’eutanasia o il suicidio assistito non è tanto legato alla  gravità della malattia o al dolore. ma alla solitudine che si vive. Di fronte a certe situazioni particolarmente complesse, è più facile decidere “mi tolgo dai piedi”, piuttosto che cercare strade che permettono a quel concentrato di dolore che ridiventi persona. C’è tutta una convergenza di opinioni che fa sì che l’esistenza abbia un senso solo nella fase produttiva: fin quando lavoro, fin quando posso essere utile come  uomo “e quando tutto questo finisce?”  “Beh hai vissuto abbastanza!” Invece, aver molta cura anche della fase finale, perché spesso è proprio quando si giunge sulla cima di una montagna che si ha uno sguardo ampio. Certe cose importanti riusciamo a vederle non quando si corre, ma quando si va lentamente o si è fermi.

 

Maurizio – Il caso Welby mostra come la Chiesa a volte più che aiutare a riflettere, cavalca battaglie politiche che   spengono ogni riflessione. Welby non chiedeva il suicidio, ma come Giovanni Paolo II, come Martini, chiedeva di poter spegnere l’accanimento terapeutico. L’eutanasia pone molti interrogativi e una pluralità di situazioni cui non si è in grado di rispondere a priori.

 

Marco – Gli antichi greci, gli spartani in particolare, e i romani con la rupe Tarpea, si ponevano già degli interrogativi, anzi pensavano che i portatori di handicap non potessero vivere una vita dignitosa e quindi andava eliminata.

Nel Vangelo l’atteggiamento di Gesù e degli Apostoli nei confronti dell’handicap è quello della guarigione.

Gesù e Pietro non sfuggono alla morte ma accettano di essere uccisi.

In una gravidanza, dopo l’amniocentesi, se c’è una malattia grave, la proposta che sempre più spesso viene fatta è l’interruzione della gravidanza. Siamo davvero su un “piano inclinato”, in cui è sempre più difficile distinguere, valorizzare la vita, aldilà della salute.

La salute è importante, ma non totalizza l’esistenza. Siamo pesantemente condizionati dal pensiero che la vita ha senso solo se possiamo entrare nel sistema della produzione; un conto è dire che il lavoro permette ad ogni persona di contribuire al bene personale ed al bene comune, è un diritto inalienabile, un conto è credere di misurare il valore dell’esistenza solo sulla possibilità o meno di lavorare.

 

Lorenzo – Mi è capitato di partecipare a molte morti e vorrei portare due esempi che forse rappresentano i due estremi.

Avevo una sorella dializzata, poi in conseguenza di una operazione al cuore si trovava in rianimazione, legata mani e piedi e tracheostomizzata, mi ricordo la sua grande sofferenza acuita anche dal non poter comunicare… ad un certo punto il suo cuore dava segni di cedimento e i medici intervenivano continuamente per sostenere, pompare, ossigenare… perché? Per prolungarle le sofferenze? Le leggi, siamo nel 2011, impedivano ai medici di interrompere quell’accanimento. Quale ottusa ferocia in quelle terapie?!

Sull’altro versante c’era un amico nostro, Franco Pagano, a cui avevano diagnosticato recidive tumorali con metastasi, ad un certo punto ha rifiutato tutte le cure, comprese pappe e papponi e flebo idratanti, ha passato più di un mese bevendo ogni tanto solo un po’ d’acqua e l’abbiamo visto avvicinarsi al traguardo e passare la morte con grande serenità. Non avevo mai visto nessuno scivolare oltre la morte, con tanta pace sua e dei familiari.

Non si può né deve essere normato tutto, ma alcune leggi sono indispensabili per salvaguardare i medici e i pazienti contro l’accanimento o per salvare da quei medici assetati di soldi, che per i soldi sarebbero disposti a tutto.

 

Franco – Ho trovato al pronto soccorso un medico cosciente, che affermava che la TAC, che corrisponde alle radiazioni di 1500 radiografie, nel caso di quel bambino   non sarebbe servita a nulla, ma se non l’avesse fatta poteva essere denunciato per omissione.

 

Lorenzo C’è una differenza tra il pensare che la vita giunge alla fine e il pensare che la vita giunge ad una pienezza. Al di là del credere o meno alla resurrezione, c’è la possibilità di scoprire, nella fase finale, l’opportunità di giungere ad una pienezza. Quando chi parte viene sostenuto e rispettato, ha l’opportunità di cogliere alcuni tasselli che danno una luce nuova a tutta la sua esistenza; in alcuni casi è un’apertura, in altri una riconciliazione…

 

Luigi – Per questo è necessario demedicalizzare o almeno deospedalizzare la morte. Sempre più spesso la morte in Europa avviene dietro un paravento in una camera d’ospedale, con la presenza di “tecnici della salute”.

Occorre riscoprire la capacità di saper veder morire, infatti molti ospedalizzano i loro familiari per sfuggire a quell’agone finale. Come cristiani siamo chiamati a riprendere in mano il passaggio finale e ritrovare la naturalezza del sostenere chi sta partendo.

Per mio padre in ospedale, nella fase finale, noi siamo dovuti uscire dalla stanza, mentre i medici “intervenivano”… e mio padre moriva solo. Con mia madre in casa, noi figli l’abbiamo potuta seguire, sostenere e accompagnare con grande serenità.

 

Francesco – Nella situazione attuale i medici sono sotto minaccia continua di denuncia.

 

Franco -A volte si aggirano per i reparti, avvocati in cerca solo di consenso da parte dei malati, poi saranno loro ad occuparsi di trovare le ragioni per cui denunciare l’ospedale e dividersi i soldi.

 

Gianfranco – tutto ciò che disturba: minori non accompagnati, malati mentali, dipendenti da alcol, sostanze, giochi… fino al morire, tutto ciò  che disturba viene istituzionalizzato. Il “piano inclinato” porta a delegare ed allontanare dalla vista ciò che disturba, collocandolo in luoghi fuori dalla portata comune, perché gli altri continuino a produrre, ad essere efficienti.

Invece abbiamo visto molte volte, anche stamattina, che situazioni di disabilità pesanti affrontate con coraggio, fanno affiorare risorse incredibili che danno nuovo senso al vivere comune. Illich  rimprovera alla chiesa cattolica di aver istituzionalizzato la vicinanza, la relazione, di averla ingabbiata. Il Cristiano non è più compagno di strada di chi è in difficoltà, deve contribuire economicamente, anche con l’8/₀₀, delegando però agli addetti ai lavori. Anche la morte è in questa delega. Dovremmo essere capaci di incoraggiarci a vivere dentro le difficoltà e a farne l’occasione di responsabilità, maturazione, nuove opportunità.

Il Gruppo “La Tenda” è formato da:

Franco Battista, Chiara Flamini, Lorenzo D’Amico, Luigi Mochi Sismondi     Torre Angela      Roma

Francesco Cagnetti, Solange Perruccio, Maurizio Firmani                                   Monteverde        Roma

Tina Castrogiovanni, Nunzia Dell’Ova, Antonella Soressi                                    Ostia Nuova        Roma

Micaela Soressi,   Daniele Trecca, Marco Noli                                                          Ostia Nuova        Roma

Maria Dominica Giuliani, Caterina Monticone                                                         Aurelio-Boccea   Roma

Gianfranco Solinas                                                                                                        Martina Franca  Taranto

 

Gruppo La Tenda

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