Lettera 35 (Seconda Serie)

Carissimi amici,

nella prima parte di questa lettera continuiamo a pubblicare qualcosa sull’incontro “Scuola tra poveri”.

cosmic sband Abbiamo chiesto al referente del gruppo musicale che ha suonato durante il nostro incontro di presentare la loro esperienza. Il suo racconto ci pare molto interessante. Avevamo notato durante la loro partecipazione una grande profondità di impegno e di riflessione oltre alla grande capacità di entrare in sintonia con gli altri, questa relazione ne dà un po’ la storia e le basi teoriche.

Segue la trascrizione dell’incontro in cui noi del gruppo “La Tenda” abbiamo provato a rispondere alle domande che ci eravamo fatti come preparazione al convegno. Ci siamo interrogati come coniugare una situazione socio politica così deprimente con i tanti segni di speranza e di “vita nuova” che vediamo intorno a noi. Come al solito ci farebbe piacere che altri, tra i nostri amici e lettori, prendessero parte alla nostra riflessione, la fatica della penna o della tastiera sarà ben ripagata dalla partecipazione alla ricerca comune di un mondo migliore.

Nello stesso incontro abbiamo provato a pensare come portare avanti il nostro lavoro di comunione-comunicazione all’interno della Chiesa di Roma. La scelta è stata di interrogarci sul mondo musulmano, presto affronteremo il discorso come è il nostro solito, tra riflessione teorica ed esperienze vissute “in basso”.

Proponiamo poi un documento scritto dal vescovo di Orano Jean-Paul Vesco che prova a dare una risposta al difficile problema dei cristiani divorziati e delle nuove coppie e famiglie che si sono create. E’ un tentativo interessante di riflessione che prova a farci uscire dal vicolo cieco in cui in questo campo si rischia di finire.

Fin da ora segnaliamo l’incontro con Padre Ghislain Lafont che si terrà il 25 luglio, nelle prossime lettere il programma, il luogo e l’ora

Sommario della 35° lettera:

  1. Ancora dal convegno “Scuola tra poveri” l’intervento del referente della “Cosmic Sband” Paolo Cori
  2. Il Gruppo “La Tenda” prova a rispondere alle domande del Convegno
  3. Una possibile uscita dall’impasse, matrimonio cristiano ed indissolubilità di Jean-Paul Vesco Vescovo di Orano
    1. Presentazione della “Cosmic Band” di Paolo Cori

Ancora Dal Convegno “Scuola Tra Poveri” L’Intervento Del Referente Della “Cosmic Sband”

Salve, sono Paolo Cori, referente del Progetto C.O.S.M.I.C. , da cui è nato il gruppo musicale “COSMIC SBAND”, che poco fa avete sentito suonare e cantare.

COSMIC è una sigla le cui iniziali stanno per “Coro ed Orchestra per la Salute Mentale e l’Integrazione Comunitaria” .

Sono uno psichiatra e lavoro nel Centro di Salute Mentale di Frascati; su invito di una nostra e vostra amica, che fa parte del nostro gruppo, siamo venuti oggi ad Ostia per portare la nostra testimonianza prima con la nostra musica e ora con le nostre parole.

Il progetto COSMIC, attivo da 2 anni, si realizza grazie alla collaborazione in atto da oltre 10 anni tra il Centro di Salute Mentale di Frascati e l’Associazione di Promozione Sociale Alchimia, cui aderiscono “utenti”, “operatori” e “familiari” che afferiscono ai vari Centri del Dipartimento di Salute Mentale della ASL Roma H, oltre a numerosi “cittadini attivi” che vivono per lo più nel territorio della Provincia a Sud di Roma.

Il Progetto Cosmic utilizza la “musica” come strumento al servizio dei legami sociali e come linguaggio universale, particolarmente adatto perciò a far superare ogni tipo di barriera e pregiudizio culturale e a favorire quei processi di integrazione che permettono la realizzazione di una vera inclusione sociale attraverso il protagonismo e la partecipazione attiva dei suoi membri alla vita delle proprie comunità.

Il progetto trae ispirazione da 3 parole chiave che

– guidano le relazioni tra i soci dell’associazione e tra i membri del gruppo musicale dove si superano le distinzioni di ruoli;

– informano di sé tutte le azioni intraprese per la promozione e prevenzione della salute mentale;

– costituiscono le basi per costruire percorsi di cura e proposte di riabilitazione; esse sono

• “fare assieme”: che significa mettersi accanto, dare fiducia, riconoscere l’altro nella sua soggettività, nella pari dignità e nel suo diritto all’autodeterminazione; ciò è molto diverso dal “fare per” o peggio ancora dal “fare su” in quanto ci si rapporta con l’altro, non più in termini di potere, anche se a volte mascherato da forme di paternalismo, che creano dipendenza e subalternità, ma di uguaglianza e parità democratica.

• Auto-mutuo-aiuto: che significa credere che ognuno è portatore di un sapere; oltre al sapere dei tecnici c’è infatti un sapere derivante dall’esperienza che può e deve essere valorizzato ed usato; perciò chiunque, anche se portatore di un problema, può essere risorsa per l’altro.

• “Recovery”: termine inglese che significa “riprendersi, riaversi, recuperare” con cui si definisce la “guarigione” come intesa dalle persone con problemi di salute mentale; ossia, una persona con problemi di salute mentale può sentirsi “guarito” e raggiungere un buon livello di funzionamento sociale, nonostante la persistenza di alcuni sintomi, diversamente da come la guarigione viene intesa dai tecnici, per i quali essa si realizza solo con la scomparsa di tutti i sintomi. Lavorare insieme per il “recovery” prevede perciò un’alleanza ampia tra il sistema curante e le risorse che possono essere messe in campo sia dalle persone con problemi di salute mentale, che dalle loro famiglie e dalla comunità cui appartengono; riconoscere il diritto e la possibilità della guarigione secondo questa visione, significa riconoscere contemporaneamente al paziente anche la capacità di assumersi la responsabilità di prendere decisioni, riguardanti il proprio percorso di cura.

In un servizio di salute mentale ci imbattiamo quotidianamente, al di là delle rare manifestazioni a volte bizzarre, a volte inquietanti della follia, molto più spesso con la sofferenza, , con la solitudine e la vergogna che conducono all’isolamento, al ritiro sociale, all’emarginazione, con il risultato di una grande povertà, soprattutto di relazioni umane; Non si può rispondere a tutto questo ovviamente limitandoci alla sola prescrizione di psicofarmaci o proponendo attività terapeutiche basate su un sapere tecnico specialistico, di cui potranno usufruire al massimo, quando va bene, un terzo di coloro che ne avrebbero bisogno. E’ chiaro che ci vuole ben altro e soprattutto la consapevolezza che nessun servizio psichiatrico, per quanto competente e dotato di risorse, peraltro sempre più limitate, è in grado da solo di rispondere alla domanda di salute mentale della popolazione; per cui occorre, riconoscendo i nostri limiti, in un’ottica di salute pubblica, saper scoprire ed attivare tutte le risorse nascoste presenti nella comunità. Siamo sempre più convinti che la salute mentale è un Bene Comune e che è compito di tutti tutelarla e difenderla. Costituirsi in associazione, il fare assieme musica, muoversi come una comunità in cammino, confrontarsi con gli altri, raccontarsi e dare testimonianza della propria storia, partecipando anche ad iniziative come quella di oggi, è un modo di fare la nostra parte, per cercare di arricchire la vita di tutti noi di relazioni umane significative, ricordando, per finire con una metafora musicale, quanto detto in una sua celebre canzone da Fabrizio De Andrè “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori” .

Vi ringrazio per averci invitato, per le testimonianze e le belle persone che abbiamo conosciuto e speriamo di rincontrarci per future iniziative comuni.

 Il Gruppo de “La Tenda” risponde alle domande dal convegno “Scuola tra poveri”

1. Quale il confronto possibile tra povertà e lavoro in una società fondata sui valori del mercato?

2. Quali ricchezze esistenziali possiamo trovare in noi e cogliere nelle altre persone in una situazione di povertà?

3. Cosa di fondamentale donne e uomini intorno a noi stanno già testimoniando e come incamminarci insieme su questi sentieri di essenzialità, solidarietà e condivisione?

4. Quali sono i luoghi comunionali dove i cristiani possono confrontarsi?

5. Quali risposte possiamo dare a livello personale e quali a livello comunitario?

Antonella: La crisi attuale ha un suo compito: non ci introduce nel piano dei valori, ma ci a uscire dal consumismo. In un’inchiesta di Avvenire, raccontavano di alcuni ricchi che si fingevano poveri: in un quartiere ricco venivano ignorati, in un quartiere povero hanno trovato molto aiuto.

Francesco: La povertà, nell’economia capitalista, può avere anch’essa un suo valore nella misura in cui è funzionale al profitto. Ad esempio, le lavoratrici del Bangladesh sono una risorsa per il mercato, perché con i loro bassi salari riducono i costi. La società capitalista non si interessa della dignità del lavoro ma del suo valore di scambio. Si sono fatti dei tentativi nella storia per uscire da questo sistema, ma sono tutti falliti. Dobbiamo tenerci questa società che ignora la dignità di chi lavora? Questo primato del profitto, non è solo una legge del mercato, ma è onnipresente (politica, relazioni sociali ecc.) Determina tutto. Sono dell’idea che non bisogna abbandonare mai la speranza, però bisogna anche essere realisti. Sono chiamato anche singolarmente ad una vita sobria, ma questo intacca la società dei consumi?

In una inchiesta della televisione francese si spiegava qualche trucchetto usato dalle aziende per far durare non più di tanto i loro prodotti e rendere impossibile ripararli, in modo che le vendite aumentino. La “breve durata” è anch’essa una legge ferrea di questo mercato.

Per fortuna esistono tante realtà positive nel mondo: come dice il salmo, “della grazia di Dio è piena la terra”. Ci sono tante persone che fanno realmente una vita alternativa, per sé e per i destinatari delle loro attività, vedi per esempio le missionarie Figlie di Maria, che hanno una loro sede in Centrafrica e insegnano alle giovani ad usare la macchina da cucire, e inoltre nozioni di igiene, pronto soccorso, per poi affidar loro un ruolo di consulenti nei loro villaggi. Ci sono anche piccole associazioni, che finanziano micro-realizzazioni in America Latina, in Africa. La portata di queste iniziative è circoscritta, ma risponde a bisogni reali in modo molto intelligente. Ognuno di noi può citare infiniti esempi di simili iniziative.

Rimane il problema fondamentale del cambiamento generale. La politica, la scuola, la cultura e la Chiesa dovrebbero impegnarsi perché un modo nuovo di pensare si diffonda. Oggi siamo di fronte ad alcune degenerazioni gravi, come la corruzione diffusa. Non vorrei concludere con una considerazione pessimista, dico solo che ho difficoltà a trovare alternative a questa situazione. Quando le migliaia di iniziative di piccoli gruppi, associazioni riusciranno a fare breccia nel sistema?

Franco: Ricordo che in seconda o terza elementare avevamo un libro di lettura in cui c’era una pagina intitolata: “Il costo ed il valore di uno spillo”. Il testo spiegava quante erano le persone che avevano lavorato per la realizzazione di uno spillo: il minatore, gli operai di una fonderia, il trasportatore, il commerciante… Quello spillo acquistava un valore non per se stesso, ma per tutte quelle persone che avevano speso le loro risorse. Ecco, è necessario che scuola e famiglia si impegnino a spiegare ai ragazzi il valore delle cose.

Un bambino che, invece di trovare le cose bell’e fatte, è costretto ad inventarsi un gioco, sviluppa la fantasia, la manualità, la creatività e la soddisfazione è molto maggiore.

Luigi: Vorrei fare un discorso più ottimistico. Io credo e penso, anzi penso e poi credo che il mondo vada verso la sua liberazione e che la sofferenza che stiamo attraversando nasce da cambiamenti significativi che stiamo preparando. Questo mondo economico sta evidentemente andando in crisi, in una crisi di valori, una crisi interna al sistema. In un momento in cui domina il denaro e il mercato economico domina su tutto, che questo mercato stia mostrando il fiato corto, ci aiuta a capire che questo sistema è fallimentare. Questa è la premessa.

Ora vorrei fare due osservazioni. Una sul lavoro, che rimane per me e per la mia vita un ambito fondamentale. Lavoro in cantieri edili. Si crea un grave ostacolo all’ingranaggio di questo mercato, solo se tu rispetti l’altro, spingi l’altro a rispettare il più debole, senza facili scusanti, a rispettare chi, pur impegnandosi al massimo, non ha molte capacità e quindi i risultati del suo lavoro sono scarsi. Quando rispetti il meno capace come quello più capace, facendogli fare lavori diversi, il tutto con profondo rispetto della sua persona, del suo impegno, hai un ritorno di rispetto e tutto questo crea spesso una piccola meraviglia, che apre spiragli preziosi.

Una seconda osservazione non riguarda la povertà di denaro, ma la povertà di forza, riguarda chi, a causa di una grave malattia o per l’età perde forza. Penso ad esempio a mia suocera, da un certo tempo in casa con noi a causa della malattia, senza più forze fisiche, mentali, ma con una grande capacità di dare affetto e suscitare affetto, tanto che ci aiuta a riflettere sull’importanza di valorizzare in noi stessi la debolezza. A volte, vedere i doni, che emergono dalla nostra debolezza, ci aiuta a valorizzare la nostra stessa debolezza e questo ci permette di essere più indulgenti e positivi verso le nostre fragilità o il nostro invecchiamento.

Franco: C’è una parte di società che non è soggetta al consumismo, almeno in gran parte, che è il mondo del volontariato. Alcune forme di volontariato sono solo nominali: dietro di esse ci sono grossi interessi. Posso parlare del volontariato che facciamo in ospedale: solo la nostra associazione, nel Lazio (ma ce ne sono molte altre), conta 2500 persone. Questo è il periodo dell’anno in cui iniziano i corsi di formazione. Nel nostro centro, all’ospedale Nuovo Casilino, si sono iscritte 51 persone, di cui quattro minorenni, che hanno avuto il bisogno del consenso dei genitori. Questo mostra quante persone sono capaci di impegnarsi, senza avere un ritorno economico.

Luigi: La provenienza è tutta dal mondo cattolico?

Franco: La maggioranza viene dal mondo cattolico, ma molte persone non hanno appartenenze. Abbiamo avuto anche un musulmano.

Chiara: Quella che mi sembra la carenza maggiore in questo momento è l’assenza di un pensiero su ciò che facciamo, di un pensare, anche mettendo in campo idee diverse. Nei bambini e nei ragazzi la ragione potrebbe essere l’eccessivo uso di telefonini, videogiochi, tutti strumenti che puntano sulla velocità, al punto che non si ha più il tempo di fermarsi a pensare, cosa che richiederebbe un dispendio di energia. D’altra parte, se messi nella condizione di farlo, se stimolati, i ragazzi mostrano un grande interesse ad interrogarsi.

Per gli adulti la questione è più complessa, ma la mancanza di un pensiero è esperienza di tutti i giorni. In collegio docenti la nuova preside ha presentato i progetti da approvare. Non c’è stato, da parte dei docenti, nessun dibattito, nessun intervento per stabilire dei criteri di priorità o di opportunità. Dei 120 presenti, la metà, seduta in fondo, chiacchierava di tutt’altro, coprendo la voce della preside, dell’altra metà, una parte era presa dai telefonini. Anche a proposito dello sciopero, non c’è stato nessun confronto a scuola sulle idee diverse, sull’opportunità o meno di farlo. L’unico motivo addotto contro la partecipazione è stato la decurtazione di 80 euro dallo stipendio.

Anche nel mondo parrocchiale l’abitudine è di ridurre il cristianesimo a cose da fare, ma l’interrogarsi sulla propria fede, anche sul senso del fare, sembra un extra che ci è estraneo ed anche un po’ nocivo; soprattutto, ciò che i singoli cristiani vivono nel mondo non ha interesse per la comunità, il bisogno di un ritorno e di un confronto è totalmente assente. Quanto invece il luogo comunionale ci sostiene nelle scelte personali! Anche i gruppi del vangelo hanno un grosso compito nelle scelte di vita. Anche papa Francesco, nell’Evangelii Gaudium, quando parla di andare nelle periferie, propone un andare capace di lasciarsi interrogare, ferire.

Piccola Sorella Costanza: Ho l’impressione di essere in un mondo completamente sconosciuto. A proposito della prima domanda: “Quale il confronto possibile tra povertà e lavoro in una società fondata sui valori del mercato?”. Dopo tanti anni di assenza dall’Italia, venendo da Cuba, quello che mi colpisce maggiormente è la gran quantità di persone che chiedono l’elemosina per strada, tanti uomini, giovani, alcuni africani, che chiedono vergognandosi, spesso nascosti dietro una pianta, un cassonetto, che ti rivolgono una richiesta di aiuto… Li guardo e penso: forse nel loro paese sono persone libere, forse persone che hanno studiato, laureati, comunque persone forti, capaci di affrontare un viaggio che è stato spesso durissimo… Che ne è di queste persone, del lavoro, della dignità? Sono ancora persone, ma che non esistono, forse non hanno i documenti… Sopravvivono chiedendo qualcosa, non sono abituati a questo, ma lo fanno per poter mangiare. Tutto questo mi interroga e non trovo risposte.

Piccola Sorella Franca Vincenza: Ho difficoltà ad intervenire perché sto vivendo un’esperienza di impoverimento, anche a livello mentale, il cambiamento di comunità, di ambiente: c’è questa fragilità di vita. Sono stata molto contenta quando mi hanno proposto di andare al Laurentino 38 (un quartiere di case popolari), perché ho l’opportunità di immergermi in una realtà che ho sempre scelto. Quello che avverto in questa fase iniziale è la grande solitudine che vivono le persone. Esse si conoscono, ma c’è una grande povertà di relazioni e un pesante velo di tristezza che attraversa le loro esistenze, c’è un vivere alla giornata che è frutto di un vivere affannato. Manca ogni capacità associativa… “Quando piove in una struttura del ponte (i ponti sono collegamenti aerei tra palazzi) che non è la mia, non mi riguarda”. Sono arrivata da troppo poco tempo al Laurentino per avere uno sguardo profondo sulla realtà, però sento il peso di una tristezza diffusa. Nel passato avevo trovato, nei quartieri popolari, una grande energia, una capacità di lottare. Oggi avverto una passività.

Nella comunità cristiana c’è la spinta verso opere di carità, ma non una volontà di interrogarsi insieme per cercare di rimuovere le cause della povertà. Ma questa mia rilevazione potrebbe essere frutto di uno sguardo ancora superficiale.

Lorenzo: Nel rileggere le domande, coglievo la ricchezza del contributo di Luigi, che le ha sintetizzate a partire dai nostri precedenti incontri. Dietro le domande c’è come una trama che presuppone e dice di persone che vivono poveramente: “Quali ricchezze esistenziali possiamo trovare in noi e cogliere in altre persone in una situazione di povertà?”. Mi pare che durante questa mattinata è emersa la coscienza che tali ricchezze esistenziali ci stanno attraversando, ma come farle diventare una realtà condivisa, comunitaria? Mi pare che qui sia il nodo.

Nell’analizzare il vissuto quotidiano, mi accorgo della tragica dipendenza dai telegiornali, che non ti raccontano la vita, ti descrivono solo l’inferno esistente nella vita: tutta la grandezza esistente non viene messa in luce. Le persone non fanno che raccontare le varie tragedie e l’ansia suscitata dalle notizie riportate. Il male generale è alimentato da questa angoscia indotta, che non sai dove smaltire. A volte mi dicono: “Devi guardare la vita, non per ciò che desideri, ma così com’è!”. Non voglio immaginarmi una vita finta: la parte tragica è reale, ma una parte, non il tutto.

Un’altra cosa che mi impressiona è la grande dipendenza delle persone dal cellulare: tutti che parlano con tutti. Trovare persone capaci di stare sole con se stesse, tranne casi patologici, è quasi impossibile.

Luigi: Prima si parlava, ora si chatta o si guarda uno schermo. Questo è vero alla fermata o in autobus, nella sala d’attesa del medico, luoghi, un tempo, di dialogo. Oggi ognuno è chiuso nel suo recinto.

Lorenzo: Tornando al nostro tema, sento che al centro della povertà e dell’impoverimento c’è il lavoro e la cosa grave è che un tempo si parlava di persone sfruttate sul lavoro, oggi si parla sempre più spesso di persone “inutili”, in “esubero”…

Luigi: Che termine orribile, criminale! Dire ad una persona “Sei in esubero” significa: “Che ci stai a fare sulla terra?”. I ragazzi recepiscono seriamente che sono inutili ed è drammatico perché colgono che da un punto di vista sociale nessuno ha bisogno di loro.

Lorenzo: Circa 35 anni fa, un amico olandese raccontava che il suo paese era molto avanzato a livello sociale ed alcuni uscivano dall’università e ricevevano una pensione a vita. Questa cosa scandalizzò noi italiani, ma per lui era una grande conquista. Dopo 20 anni di lavoro si trovò disoccupato con una grossa buonuscita che lo garantiva a livello economico. Lui naturalmente avvertì il disagio e fece di tutto per tornare al lavoro. Questo per dire quanto sia decisivo il lavoro nella vita dell’uomo.

C’è una lettera di Paolo ai Tessalonicesi (1 Ts 5, 21) che dice: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”. Penso che sia una frase decisiva nella nostra vita: dobbiamo essere capaci di pesare ogni cosa, custodire, trasmettere ciò che è buono.

Riguardo alla domanda: “Quali sono i luoghi comunionali in cui i cristiani possono confrontarsi?”, Francesco ha sempre risposto: il luogo comunionale per eccellenza è l’eucaristia domenicale, il luogo in cui i cristiani si incontrano, pregano, si confrontano è l’eucaristia; facciamo la comunione e, contemporaneamente, facciamo comunione fra noi. Penso che ci dovrebbero essere anche altri luoghi di comunione: le assemblee mensili, una meditazione comune sulle letture della domenica, penso alla lettura del Vangelo nelle case… ci sono luoghi in cui questa comunione potrebbe crescere. Se guardiamo a livello di singoli, ci sono persone che hanno un cammino prezioso, ma la domanda è: come e dove arricchirsi reciprocamente tra cristiani? Quale ritorno comunitario c’è di tante singole vite? Spesso tanta preziosità passa totalmente ignorata dalla comunità, perché manca il ritorno comunitario. Faccio un esempio concreto: la presa di coscienza che il povero non è un “oggetto” da aiutare, ma un “soggetto” con una sua unicità, una sua ricchezza, è prima di tutto un essere con la sua dignità… questa considerazione, per me fondamentale per ogni relazione, è così difficile da comunicare perché il confronto è troppo frammentato.

Luigi: Questo dipende anche dal cambiamento di epoca: quando ci siamo formati, si discuteva attorno ai preti-operai, alle fraternità di Charles de Foucauld. Quarant’anni fa la condivisione di vita con i più poveri era qualcosa di vissuto da molti o per lo meno percepito da tanti. Era un’ onda che ti accompagnava.

Francesco: Occorre una consuetudine di vita con i poveri per coglierne la ricchezza. Non è nell’opera di carità che capisci: è nella condivisione quotidiana che puoi coglierne il valore.

Chiara: E’ vero ciò che dice Francesco sulla consuetudine. Io vedo, nella mia scuola, che un cambiamento di sensibilità verso i ragazzi che hanno più problemi avviene negli insegnanti che rimangono stabili negli anni: all’inizio non vedevano, oggi mostrano uno sguardo sui ragazzi che si va approfondendo.

Lorenzo: Volevo aggiungere un’ultima cosa sui movimenti di rivolta che stanno nascendo nelle borgate romane. Il tutto è frutto di un piano che prevede l’accensione di tanti piccoli focolai per dare vita al grande fuoco della protesta, piano che vorrebbe ridurre le cause della nostra povertà sociale alla presenza dei migranti. C’era un manifesto interessante che diceva: “Se vi hanno fatto credere che il problema centrale sono i migranti, vi hanno fregato”. Sarebbe importante leggere il libretto “Morte agli italiani” di E. Barnabà, ambientato in Francia quando i migranti eravamo noi. Questo libretto fa capire come la molla capace di scatenare disordini non sia il razzismo, ma il disagio sociale.

Chiara: E’ vero, la gente che manifesta ha un grave disagio, ma ha anche assimilato le menzogne sugli immigrati che vengono create ad hoc.

Luigi: C’è qualcuno che sta cercando di fare la sua carriera politica su questo. Il compito di ogni persona che abbia a cuore il mondo in cui vive è cogliere ogni occasione per riportare alla verità, stando nel bar come sull’autobus. A Torre Angela faremo un primo incontro per sfatare i luoghi comuni sugli immigrati. Inviteremo una persona che si occupa degli asili nido, che spieghi con quali criteri vengono fatte le graduatorie… una persona che possa parlare delle case popolari o del lavoro…

Lorenzo: Ci sono tante persone che credono di fare politica, solo perché seguono l’euforia di una platea che li applaude: loro stessi saranno trascinati dove non vorranno. Innescano un meccanismo e vi rimangono intrappolati. Non sono persone incapaci di intendere e di volere, ma sono persone che cercano consenso e riducono progressivamente la propria capacità critica.

Una possibile uscita dall’impasse

L’indissolubilità di un’alleanza autentica tra due persone è stata affermata con forza da Cristo, e da lui messa in relazione con la creazione dell’uomo e della donna (cf. Mt 19,4). Fin dai tempi apostolici, essa ha occupato un posto particolare nella dottrina della Chiesa, più che in ogni altra religione o tradizione. Così, sulla linea di Paolo, che associa allo stesso mistero l’alleanza degli sposi e quella del Cristo e della Chiesa (cf. Ef 5,32), il matrimonio è stato elevato, secoli più tardi, al rango di sacramento. Il matrimonio cristiano è un tesoro che deve essere protetto e valorizzato, soprattutto in un momento in cui. in Francia e altrove in Europa, si acuisce il divario tra il matrimonio sacramentale cristiano e il matrimonio civile.

Tuttavia, se il patto matrimoniale tra due persone è nella sua essenza indissolubile, esso rimane una delle più belle avventure umane, ma anche la più difficoltosa che ci sia. Molte sono le coppie che si lacerano e si disfano, e molti sono anche coloro che dopo una prima alleanza sciolta in coscienza e verità si trovano nella situazione di stringerne una seconda, ugualmente in coscienza e verità. Si tratta di coloro che troppo genericamente vengono definiti «divorziati risposati». Sappiamo quanto questa terminologia generica faccia riferimento a storie di vita, tutte uniche e tutte diverse, che difficilmente si possono comprendere in uno stesso vocabolo e sotto uno stesso trattamento.

In virtù del carattere indissolubile del primo legame, rispetto al quale non si attribuisce alcun potere, il magistero della Chiesa oggi ritiene che lo stato di vita dei «divorziati risposati» sia assimilabile alla persistenza ostinata in uno stato di peccato grave (l’adulterio), che nega loro l’accesso al sacramento della riconciliazione e quindi alla comunione eucaristica (Codice di diritto canonico, can. 915). Questa nozione di persistenza ostinata in uno stato di peccato è il punto critico che distingue i «divorziati risposati» dai peccatori comuni, che noi tutti siamo, perché nega l’accesso al sacramento della riconciliazione. Non c’è infatti perdono sacramentale possibile senza la ferma volontà di rinunciare al proprio peccato. Ma solo la riconciliazione sacramentale può, dopo una colpa grave, aprire la strada al sacramento dell’eucaristia.

La nozione di persistenza ostinata in uno stato di peccato grave non ha certamente alcun legame con la vita di tante coppie che mettono tutto il loro cuore a (ri) costruire, giorno dopo giorno, una vita coniugale vera e feconda. La loro vita non ha molto a che vedere con il disordine e la doppiezza di una vita adultera che suppone una relazione con due persone contemporaneamente, cosa che non è nel loro caso.

Anche se sono disposti a riconoscere che la loro vita è segnata da una dolorosa rottura, magari colpevole in relazione all’impegno preso il giorno delle nozze, non si riconoscono nella situazione di adulterio nella quale invece si trovano agli occhi della Chiesa. Dal loro punto di vista, la posizione magisteriale appare ingiusta, eccessivamente legalista, senza alcuno spazio per l’espressione della misericordia divina. Si sentono esclusi, o peggio ancora si auto-escludono dalla Chiesa, e molti di loro perdono la via della fede.

Eppure sembrerebbe possibile scommettere sulla non contraddittorietà tra l’affermazione rigorosa dell’intrinseca indissolubilità di ogni vero amore e il fallimento dal punto di vista umano, di questo amore. Occorre per questo tornare alle fonti dell’indissolubilità e operare una distinzione tra unicità e indissolubilità.

Alle fonti dell’indissolubilità del matrimonio sacramentale

Per poter ricevere il sacramento della riconciliazione, e in seguito avere accesso alla comunione eucaristica, i «divorziati e risposati» sono posti di fronte a una decisione impossibile, vale a dire rompere un’unione coniugale felice dalla quale sono forse nati dei figli. Tale decisione è impossibile da prendere, non a causa di una mancanza di coraggio o di una mancanza di fede. È impossibile perché la loro scelta di impegnarsi in una seconda alleanza ha creato un secondo legame altrettanto indissolubile quanto il primo.

In effetti, non è il sacramento del matrimonio che rende indissolubile l’unione di due persone che intendono donarsi completamente l’una all’altra; è l’indissolubilità di ogni vero amore umano che rende possibile il sacramento del matrimonio.

La forza rivoluzionaria delle parole di Gesù sul matrimonio non deriva dal fatto che lui ha decretato l’indissolubilità dell’unione reale dell’uomo e della donna. Deriva dal fatto che Gesù la rivela, la riconosce fin dall’inizio nello spessore della realtà umana, che è l’unione autentica dell’uomo e della donna («l’uomo lascerà suo padre e madre…»; Mt 19,5s).

C’è nell’alleanza coniugale tra due persone qualcosa di «definitivo» che si crea, qualcosa che supera le due persone stesse e impedisce di pensare una nuova alleanza dopo il divorzio come una relazione adulterina dalla quale si potrebbe uscire con un semplice atto volontà. La nascita dei figli è il segno più evidente di tale «definitivo» che è avvenuto.

Di fronte a questo definitivo creato da una seconda alleanza, la Chiesa stessa non può nulla, e questo in virtù del carattere ontologicamente indissolubile che essa riconosce all’alleanza tra due persone che si donano autenticamente l’uno all’altra. Essa incontra quel limite che essa stessa, d’altro canto, oppone ai «divorziati risposati» per riferimento alla loro prima unione che non può essere spezzata. Non è infatti possibile difendere, da un lato, l’indissolubilità del matrimonio sacramentale basata su un’indissolubilità ontologica che il sacramento disvelerebbe, rinforzerebbe, trascenderebbe e, dall’altro, considerare una seconda unione, spesso umanamente più solida, come se potesse essere sciolta semplicemente da un atto di volontà. Bisognerebbe in tal caso scegliere di porre il fondamento, il «tutto» dell’indissolubilità, nella sola azione sacramentale. Non è questo ovviamente il caso, dal momento che la Chiesa riconosce il carattere indissolubile del matrimonio civile tra due persone non battezzate.

Distinguere indissolubilità e unicità

Riconoscere carattere d’indissolubilità a una seconda unione dopo un divorzio, e quindi accogliere l’esperienza umana vissuta da così tante persone, presuppone di non collegare troppo facilmente indissolubilità e unicità.

Le persone vedove che, dopo un certo periodo, scelgono di risposarsi fanno molto spesso l’esperienza sconvolgente e destabilizzante di poter amare due persone di un amore diverso ma totale. Queste persone scoprono che il loro secondo amore non ha dissolto il primo, che conserva tutto il suo posto, il suo valore unico. Esse fanno, lecitamente agli occhi della Chiesa, l’esperienza che i «divorziati risposati» fanno in modo non lecito. È un fatto: le nostre relazioni amorose autentiche lasciano una traccia indissolubile, incancellabile, nelle nostre vite. Esse non si cancellano le une con le altre.

L’unicità, che è lo scopo ultimo di ogni autentico amore coniugale, immagine dell’amore di Cristo per la sua Chiesa, è significata dal sacramento del matrimonio, che non è ripetibile (fatta eccezione per i casi di vedovanza o di annullamento del primo matrimonio). Attraverso il sacramento di cui sono ministri, i coniugi riconoscono esplicitamente la presenza del Signore al cuore del loro amore. Essi riconoscono esplicitamente questo amore come un dono di Dio. Riconoscono che il loro matrimonio è una vocazione, una chiamata a mostrare una forma particolare dell’amore intimo di Dio per tutte le sue creature. L’indissolubilità è di conseguenza ben lontana dall’esaurire in sé il valore unico del sacramento del matrimonio.

Dal momento che i «divorziati risposati» sono confrontati al definitivo della situazione che hanno creato impegnandosi in una seconda unione coniugale autentica, questo significa che ogni accesso al sacramento della riconciliazione diventa per loro impensabile? Ciò equivarrebbe a considerare il loro secondo «sì» alla stregua di un errore imperdonabile, una situazione nella quale la Chiesa, dispensatrice della misericordia divina, difficilmente può porsi.

Per superare questa impasse il ricorso alla distinzione tra reato istantaneo e reato permanente nel diritto penale è particolarmente illuminante. L’analogia permette di fondare una necessaria distinzione tra la decisione di impegnarsi in una seconda unione e le conseguenze oggettive e permanenti derivanti da questa decisione. E di trarne le conclusioni.

Reato istantaneo e permanente nel diritto penale

Nel diritto penale in vigore in tutti i sistemi di diritto sia romano sia anglosassone, la dottrina comune opera una distinzione fondamentale tra reato istantaneo e reato permanente.

I reati istantanei sono reati, come l’omicidio, la cui esecuzione si svolge in un tempo limitato e chiaramente identificabile. L’omicidio porta a una conseguenza definitiva sulla quale l’omicida non può più fare nulla. Può essere giudicato sulla gravità del suo atto ed eventualmente può chiedere perdono.

I reati permanenti, al contrario, come il furto con sottrazione dei beni (vale a dire, il fatto di conservare per sé l’oggetto rubato), si prolungano in modo indefinito nel tempo e l’infrazione si perpetua fino a quando non si mette fine volontariamente alla situazione irregolare. Il ladro perpetua il reato che si aggrava con il tempo fino a che non ha restituito l’oggetto rubato. Non può chiedere perdono prima di aver restituito l’oggetto al suo proprietario.

La distinzione ha rilevanti conseguenze giuridiche. In particolare, nel caso del reato permanente nessun termine di prescrizione può essere calcolato finché non viene messa volontariamente fine alla situazione di irregolarità. È importante notare che il criterio discriminante è quello della volontà: un reato è permanente perché un’azione riprovevole si protrae nel tempo con atti di volontà costantemente reiterati, che si potrebbero interrompere in qualsiasi momento.

La questione è di sapere se il fatto di essersi impegnati in una seconda unione sponsale è assimilabile analogicamente a un reato istantaneo o a un reato permanente. Come nel caso del furto, il reato si può interrompere in ogni momento (interrompendo la seconda alleanza), o come nel caso dell’omicidio, l’impegno in una seconda alleanza crea qualcosa di definitivo che esula dalla volontà di coloro che l’hanno contratta?

L’attuale posizione magisteriale della Chiesa, senza aver esplicitamente posto tale distinzione, assimila di fatto una seconda alleanza tra due persone, di cui una almeno precedentemente sposata sacramentalmente, a un reato permanente, ovvero a un reato che persiste nel tempo per via di una manifestazione ripetuta della volontà dei coniugi di rimanere in una posizione gravemente sbagliata. Parrebbe tuttavia più corretto classificare il fatto di entrare in una seconda alleanza nella categoria dei reati istantanei i cui effetti perdurano nel tempo. Si tratta infatti chiaramente di un atto unico della volontà, che ha conseguenze permanenti e perfino definitive.

Vi è, da un lato, un atto di volontà, forse colpevole, che è quello di stringere una nuova alleanza. E ci sono, dall’altro, tutti gli atti di volontà che verranno posti, un giorno dopo l’altro e un anno dopo l’altro, e che sono della stessa natura di quelli posti da tutte le altre coppie che costruiscono un destino comune e ne assumono insieme le difficoltà. Questi atti della volontà non fanno assolutamente numero con il «sì» pronunciato un giorno davanti al sindaco o nell’intimità di una relazione. Sono la conseguenza necessaria di quel «sì». Non possono essere considerati una persistenza ostinata in una situazione di peccato, ma una volontà di vivere e riuscire in una relazione di alleanza nella quale, un giorno, abbiamo deciso di impegnarci, fosse anche per la seconda volta, fosse anche in modo gravemente erroneo. La differenza tra questi due ordini della volontà è essenziale per le conseguenze che ne derivano.

Seconda alleanza come «reato» istantaneo: le conseguenze

La distinzione (senza separazione) tra l’atto singolare della volontà di entrare in una relazione di alleanza coniugale — racchiuso nel tempo di un «sì», e gli atti quotidiani della volontà di far crescere questa alleanza, perché porti frutto (figli, forse, ma non soltanto), ha almeno tre conseguenze positive.

1. Permette di pronunciare una parola di verità e di conseguenza anche eventualmente di riconciliazione sacramentale, su un’azione passata che ha conseguenze nel presente e nel futuro. Se si considera, come avviene adesso, che da un medesimo atto della volontà scaturisca l’impegnarsi in una nuova alleanza e il rimanervi (reato permanente), fintanto che la persona non rinuncia a questa seconda alleanza non si può dire alcuna parola di verità e di riconciliazione sacramentale sulla sua situazione. Questo, però, è impossibile se la seconda alleanza è un’autentica alleanza coniugale, che potrebbe essere coronata dal sacramento del matrimonio in assenza dell’impedimento dirimente di un primo matrimonio sacramentale valido.

Per contro, se si distinguesse tra la decisione fondante l’alleanza coniugale (il «sì»), e la situazione permanente che ne deriva, la Chiesa potrebbe dire sugli atti che hanno portato alla rottura dell’alleanza una parola dì verità e possibilmente una parola di riconciliazione. Essa potrebbe così onorare pienamente la sua vocazione pastorale che illumina, guida, giudica e riconcilia sacramentalmente. Un pastore non può lasciare una delle sue pecore in una situazione impossibile. Altrimenti, questo significherebbe che si rassegna a correre il rischio di perderla. La distinzione consentirebbe altresì alle persone coinvolte, magari lungo un percorso spirituale accompagnato, di rivolgere uno sguardo riconciliato ad azioni del passato che possono aver contribuito alla rottura dell’alleanza. Un tale sguardo sul passato diviene possibile al punto tale da ipotizzare una vita cristiana nella Chiesa, nutrita dai sacramenti della riconciliazione e dell’eucaristia.

Sostenere che non si possa pronunciare una parola di perdono sacramentale per una persona pienamente consapevole delle proprie eventuali mancanze, ma che affronta il definitivo della propria condizione, equivale di fatto a riconoscere nella rottura dell’alleanza sacramentale un peccato irremissibile. È meglio dirlo piuttosto che nascondersi dietro la finzione di un impossibile ritorno indietro. In questo senso, la citata analogia con l’omicidio è provocatoria ma illuminante. Un assassino pentito può essere sacramentalmente riconciliato. Eppure il suo atto determina conseguenze irreparabili e permanenti, che si protraggono nel tempo, quanto meno nel cuore dei parenti della vittima. L’omicidio però è giustamente trattato come un reato istantaneo, perché non è possibile alcun ritorno al passato. L’assassino può dunque beneficiare di un perdono che si nega a una persona impegnata in una seconda alleanza tacitamente assimilata a un reato permanente. Ma se si stabilisce che una seconda alleanza crea una situazione di vita definitiva allo stesso modo in cui un omicidio crea una situazione di morte definitiva, diventa difficile capire perché la riconciliazione sacramentale può essere accordata all’uno e negata all’altro.

2. La stessa distinzione permette di differenziare le situazioni personali, abbandonando l’appellativo poco soddisfacente di «divorziati risposati».

Concentrarsi nel considerare in se stessa, e nel suo carattere irreversibile, la decisione fondatrice, il «sì» della seconda alleanza, permette di uscire dal calderone dei «divorziati risposati». Ogni persona ha una storia singolare, che richiede discernimento e ricerca di verità specifiche. Essere lasciato(a) per un(a) altro(a) e tentare di «ricostruirsi una vita» dopo un lutto doloroso è cosa diversa dallo «strappare» l’alleanza e andarsene con uno dei «pezzi». Ciò permette anche di non imprigionare troppo in fretta nella medesima «solidarietà di peccato» colui o colei che non è mai stato(a) sposato(a), e che sposa una persona divorziata senza avere alcuna responsabilità nella rottura della prima unione. L’alleanza autentica tra due persone trae la sua grandezza dalla sua fragilità; sono innumerevoli le cause di rottura, sulle quali non c’è bisogno di dilungarsi.

3. La distinzione consente infine di non focalizzare la questione dell’indissolubilità sul ri-sposarsi, ma di rivolgere lo sguardo sulla rottura in se stessa.

Secondo l’attuale posizione del magistero, è il nuovo matrimonio più che la rottura della prima alleanza a rappresentare il vero problema. Quando affronta il tema dei «divorziati non risposati» l’esortazione Familiaris consortio mostra invece una grande comprensione delle possibili cause di rottura dell’alleanza: «Motivi diversi, quali incomprensioni reciproche, incapacità di aprirsi a rapporti interpersonali, ecc. possono dolorosamente condurre il matrimonio valido a una frattura spesso irreparabile. Ovviamente la separazione deve essere considerata come estremo rimedio, dopo che ogni altro ragionevole tentativo si sia dimostrato vano» (n. 83; EV7/1793).

C’è qui il riconoscimento esplicito della possibilità oggettiva di una rottura irreparabile dell’alleanza, che non è biasimevole se è giustificata dall’oggettiva impossibilità a mantenere una vita in comune. Un’eccessiva focalizzazione sulla seconda alleanza può mascherare il fatto che l’offesa fondamentale, umanamente e spiritualmente, accade innanzitutto e principalmente al momento della rottura del primo legame. L’impressione che si esoneri un coniuge dalla propria responsabilità nella rottura soltanto perché non si è impegnato in un nuovo rapporto di alleanza, lo espone al rischio di non poter fare verità su un atto che può necessitare di pentimento, richiesta di perdono al coniuge e richiesta di riconciliazione sacramentale.

L’analogia con la distinzione tra reato istantaneo e reato permanente è qui ancora pertinente. Infatti, quando si stabilisce un’autentica seconda alleanza dopo la rottura del primo legame ci si trova, secondo noi, in un caso analogo a un reato istantaneo che produce effetti permanenti e definitivi. Nel momento in cui, per contro, un legame si rompe senza la volontà di contrarre un altro legame, ma per la sola volontà, ad esempio, di godere di una libertà che si considerava perduta, ci si trova nel caso analogo a un reato permanente e non istantaneo. In tal caso, infatti, ci sarebbe chiaramente una volontà reiterata di rimanere in uno stato di separazione quando nulla precluderebbe formalmente la ricostituzione dell’alleanza coniugale. È lo stesso movimento della volontà che ha deciso la rottura e che rimane in questa situazione. Si coglie facilmente la differenza con la situazione precedente. In questo secondo caso, paradossalmente, si capirebbe meglio il riferimento a una persistenza nello stato di peccato che farebbe ostacolo al ricevere il sacramento della riconciliazione.

Verso una necessaria pastorale della riconciliazione

La distinzione introdotta attraverso l’analogia giuridica con i reati permanenti e istantanei nel diritto penale ha il vantaggio di aprire teologicamente la porta a una pastorale della riconciliazione senza mettere in discussione l’affermazione del carattere indissolubile del matrimonio. Una pastorale della riconciliazione è anche l’unica in grado di coniugare due realtà che per essenza non possono essere inconciliabili: l’indissolubilità del matrimonio e la misericordia infinita di Dio. Tutte le vie alternative offerte oggi ai «divorziati risposati» fanno torto all’una, all’altra o a entrambe queste realtà.

– Utilizzare la dichiarazione di nullità del primo matrimonio per vizio di consenso (immaturità…) porta a concludere che non c’è mai stata alcuna alleanza. I casi di autentica nullità sono estremamente rari e sono il risultato di una carenza da parte di coloro che hanno preparato i futuri coniugi. Ciò significa che si dovrebbe avere il coraggio di non celebrare molti matrimoni, con le conseguenze pastorali che si possono facilmente immaginare. Se, al contrario, la procedura viene utilizzata per addolcire o deviare dalla regola dell’indissolubilità, si fa violenza sia alla vera dottrina della Chiesa in materia di indissolubilità sia alle persone alle quali vengono negati anni di vita, come nulli e non accaduti. Per non parlare dei figli, che sarebbero nati dal nulla.

– L’astinenza eucaristica derivante dall’impossibilità di ricevere il sacramento della riconciliazione è una violenza inaudita fatta alle persone di cui è difficile misurare la portata. Tale divieto, salvo arrangiamenti pastorali più o meno clandestini, viene talvolta pudicamente definito «digiuno eucaristico». Ma il digiuno per sua natura è fatto per essere rotto. Ora, dei divorziati risposati che non intendono rompere la loro famiglia non potranno mai rompere il digiuno. Non si tratta quindi di un digiuno, ma della privazione definitiva di un cibo che consideriamo essenziale nella vita di un cristiano. Tanto vale dirlo chiaramente.

– L’astenersi dagli atti propri dei coniugi o il vivere «come fratello e sorella», per indicare una vita coniugale privata di relazioni sessuali, mette le persone in una situazione per così dire impossibile. Anche in questo caso le formulazioni fanno violenza sia alle persone sia alla visione cristiana dell’alleanza. I rapporti sessuali non esauriscono l’alleanza, c’è una vita nell’alleanza dopo le relazioni sessuali, o perfino senza. Esse non sono affatto il vertice dell’alleanza e vi sono molti altri gesti riservati agli sposi. Senza parlare dell’intimità e della tenerezza nella quotidianità, il gesto riservato agli sposi è primariamente il custodirsi come unici l’uno per l’altro e il farsi dono reciproco della parte più intima di sé, in modo tale che è proprio tale dono che sta a fondamento dell’unicità dell’alleanza e della sua indissolubilità ontologica.

L’espressione vivere «come fratello e sorella» non è priva di ambiguità. Infatti, per coloro che hanno sentito la chiamata a vivere qualcosa di questa fraternità, per esempio sotto forma di vita religiosa, c’è lì un ideale di vita che si differenzia dal rapporto di alleanza tra due persone. E una vocazione, non un ripiego. E la vocazione consiste precisamente nel rinunciare a questo dono più intimo di sé a una persona, a trattenerlo, al fine di vivere qualcosa dell’universalità dell’amore di Dio. Tra questi due stati di vita c’è più che una questione di relazioni sessuali. C’è una differenza di vocazioni esprimenti ciascuna, in modo complementare, un aspetto dell’amore divino.

Per concludere

È nel fondamento stesso dell’indissolubilità dell’alleanza autentica tra due persone che bisogna cercare di risolvere i segni di contraddizione tra questo vertice dell’amore umano e i suoi inevitabili e dolorosi fallimenti, e non nella ricerca di un compromesso al ribasso tra due ordini di realtà che sarebbero divergenti. Non ci sono, da un lato, delle parole di Cristo che designerebbero un ideale di amore coniugale e, dall’altro, delle necessarie concessioni che rischierebbero di relativizzarle troppo.

Il percorso esplorato intende considerare nella sua radicalità il carattere indissolubile dell’alleanza tra due persone e riconoscerlo alla seconda alleanza allo stesso modo che alla prima. La seconda alleanza crea quindi una situazione definitiva, che supera i due partner e la Chiesa stessa. Ma non si tratta in alcun modo di relativizzare il valore unico del matrimonio sacramentale. Al contrario, se prende forma un futuro possibile, la tentazione di negare il passato perde forza.

L’esperienza umana dimostra che è possibile vivere una seconda alleanza in tutta la sua fecondità, anche dopo il fallimento della prima. È quindi importante distinguere tra l’indissolubilità del vincolo coniugale e la sua unicità, che non sono sinonimi. L’unicità a cui aspira l’amore coniugale è significata dal sacramento del matrimonio la cui indissolubilità non ne esaurisce il significato.

L’analogia con la distinzione tra reato istantaneo e reato permanente nel diritto penale consente di operare una distinzione fondamentale tra due livelli di volontà: l’atto di volontà fondatore della seconda alleanza (il «sì») e gli atti quotidiani di volontà inerenti alla riuscita di qualsiasi relazione coniugale.

Pertanto, la presa in conto del carattere definitivo, indissolubile, di un’alleanza autentica, anche se non sacramentale, e la distinzione tra i livelli di volontà, consente di uscire dall’impasse rappresentata dall’attribuzione di una persistenza ostinata in uno stato di peccato alle coppie che vivono un autentico amore coniugale.

Diventa quindi possibile sia per le persone coinvolte! sia per la Chiesa, rivolgere uno sguardo di verità, e se occorre una parola di perdono, su un atto (l’impegno in una seconda alleanza) racchiuso nel tempo di un «sì» e questo indipendentemente dalla persistenza della seconda alleanza. Tale possibilità apre la porta a un cammino di riconciliazione sacramentale, secondo modalità da definire, stante appunto il perdurare di una seconda alleanza. Le modalità della riconciliazione, che potrebbero prevedere un percorso, delle tappe, dovrebbero ovviamente prendere in considerazione anche la dimensione della riparazione, per quanto possibile, come in qualsiasi cammino di riconciliazione.

Un siffatto percorso non porterebbe più scandalo o incomprensione rispetto alle alternative attualmente offerte ai «divorziati risposati», le quali fanno violenza sia alle persone sia ai fondamenti stessi della fede. Al contrario, un cammino di riconciliazione spalancherebbe le porte della misericordia di Dio, che si manifesta sacramentalmente, senza ovviamente fare sconti alla verità e senza mettere in discussione il carattere unico del sacramento del matrimonio.

23 settembre 2014.

(Il Regno 17 2014)

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