Lettera 34 (Seconda Serie)

Carissimi amici,

di nuovo la foto di Meheretu Salomon[1] a illustrare la relazione del nostro incontro dedicato alla “Scuola tra poveri”, la sua storia che in parte ci raccontano nel loro intervento Franca e Carlo Travaglino, vuole dare il senso del nostro incontro.

“Siamo alunni di maestri eccellenti”, ci hanno detto, “persone che nessuno avrebbe pensato mai di mettere in cattedra. Sono dei grandi docenti della vita, con la propria vita. Meheretu diceva: “Questo non è un ospedale, è la casa della vita” e noi abbiamo imparato a vivere.”

I poveri dunque come maestri, ma chi sono i poveri? Ci aiuta la riflessione di Padre Pio Parisi che Gianfranco Solinas ci ripropone nella presentazione “…tanti sono poveri perché altri sono grandi e ricchi, con tante ingiustizie e violenze (…) tutti siamo piccoli e poveri in quanto condividiamo la fragilità incomprimibile della condizione creaturale. C’è una dimensione generativa della povertà, dunque, che va continuamente riscoperta. Essa si radica nella esperienza che ognuno fa della propria debolezza e di quella altrui; la coscienza dolorosa della propria insufficienza fa uscire da se stessi e incontrare l’altro, gli altri, tutti gli altri. E l’incontro con gli altri è un’espansione della propria coscienza, se non l’inizio di questa. (…) Quando si riconosce l’altro, comincia la vera conoscenza che è anche amore. Così ciò che a prima vista sembra pura negatività, la sofferenza, si rivela sorgente di grandi valori: la conoscenza e l’amore”.

La dimensione sociale, politica della povertà si intreccia quindi con la dimenszione esistenziale dell’uomo, di modo che, pur senza dimenticare la concreta responsabilità di farci carico della povertà del fratello e di lottare insieme per la giustizia, possiamo senza dubbio affermare che tutti facciamo, abbiamo fatto o faremo esperienza di povertà.

L’incontro dell’11 ottobre è stato particolarmente importante toccando nel profondo la mente ed il cuore dei partecipanti, una grande varietà di storie: dai “bozzetti fotografici” di Lorenzo, alle lotte nella periferia di Roma, dalla tragedia del Rwanda, alla storia di Nicola e Daniela che insieme nell’amore e con grande lucidità hanno affrontato la malattia e la morte e infine la vita a fianco dei più poveri vissuta in Etiopia ed Eritrea da Carlo e Franca e le esperienze di teatro tra i poveri del mondo e nel Centro di salute Mentale di S. Giovanni che ci ha proposto Vania.

Nel ringraziare tutti quelli che in un modo od in un altro hanno esposto la loro storia vorremmo mettere in comune queste ricchezze con chi non è potuto essere presente.

Nella prossima lettera daremo conto del dialogo pomeridiano, aperto da una bellissima rappresentazione musicale del gruppo ”Mitica Sband” di cui racconteremo ma che già da ora vogliamo ringraziare, dialogo che ci ha permesso un primo confronto su questi temi. Come al solito saremo contenti di condividere anche le riflessioni di chi ci legge.

Sommario della 34° lettera:

Incontro “Scuola tra poveri” Ostia 11 ottobre 2014

  1. Presentazione del convegno di Gianfranco Solinas
  2. Qualche “fotografia” di introduzione di Lorenzo D’Amico
  3. Storie di resistenza e di solidarietà
  4. Siamo alunni di maestri eccellenti, persone che nessuno avrebbe pensato mai di mettere in cattedra di Carlo e Franca Travaglino
  5. Una testimonianza dal Rwanda di Marie Claire Safari
  6. Non dobbiamo fermarci a combattere la fragilità, dobbiamo vivere quella fragilità come un’occasione della nostra vita di Nicola Garritano
  7. Il teatro come scuola tra poveri di Vania Castelfranchi
  8. Interventi dei partecipanti
    1. Presentazione del convegno di Gianfranco Solinas.

Presentazione del convegno

Mi sembra molto significativo che il nostro incontro si tenga nell’anniversario dell’apertura del Concilio e nel giorno in cui la liturgia ricorda S. Giovanni XXIII, profeta  di una chiesa povera.

L’attenzione alla povertà, nella riflessione de “la tenda”, è stata costante.

Fin dal 1969 ci siamo occupati con continuità del sottosviluppo urbano, della condizione della gente che abitava nelle baracche, della dura realtà degli operai delle aziende romane in crisi, degli immigrati, dei rom, degli studenti confinati nelle classi differenziali, dei malati di mente e di molte altre dimensioni dell’emarginazione sociale.

Dopo la ripresa della pubblicazione, negli anni 2000, ricordo:

– l’ampia riflessione dedicata al dibattito in seno al Concilio sulla Chiesa serva e povera ed al rapporto presentato dal Card. Lercaro a Paolo VI, il 19 novembre 1964, sul tema della povertà nella Chiesa, documento di cui analizzammo ampiamente le radici, prima e durante il Concilio;

– l’attenzione al posto dato ai poveri nella Teologia della Liberazione;

– l’incontro sul tema “I poveri e la Chiesa” dell’autunno 2007.

Oggi, nel nostro incontro “Scuola tra poveri”, come spiegavamo nella lettera n. 33 del settembre scorso, poniamo attenzione alla povertà vista nell’ottica che Papa Francesco ci ha indicato: vivere la povertà da poveri assieme ai poveri, per poter così imparare, alla scuola dei poveri, ciò che è veramente essenziale e aprire il cuore agli altri e all’azione del Padre, guidati dalla presa di coscienza della nostra debolezza e insufficienza.

Ci è di aiuto una riflessione di Giorgio Marcello, qui presente tra noi, in apertura del campo scuola estivo di quest’anno della rete “Bambini, ragazzi e famiglie al Sud”. Mi sembra opportuno leggervi un brano di tale illuminante intervento.

“Prendere sul serio la povertà significa dunque non limitarsi a parlare della povertà degli altri, ma soprattutto orientarsi verso quella a cui siamo chiamati, personalmente e comunitariamente, alla scuola della cattedra dei piccoli. Come insegna Pio Parisi, essa consiste in quel cambiamento radicale nel nostro modo di guardare attorno a noi, “per cui scopriamo che quelli che non stanno in cattedra e che a nessuno verrebbe in mente di metterceli hanno tante cose da insegnarci. Questa è la meraviglia: sembra che siano solo da aiutare e invece sono quelli di cui abbiamo maggior bisogno e più possono aiutarci”. La lezione di Pio Parisi è quanto mai attuale. Vorrei citare un suo testo del 1989, che invito tutti a rileggere. Si intitolaAppello ai piccoli e ai poveri” (Parisi 2000). È presentato come un appello politico che contiene in modo implicito l’annuncio del Vangelo. Un Appello che l’autore stesso definisce paradossale. Può essere compreso solo da chi si rende conto della tragicità del mondo in cui viviamo e non si sente ben collocato in esso. E da chi prende consapevolezza del fatto che tanti sono poveri perché altri sono grandi e ricchi, con tante ingiustizie e violenze; e che tutti siamo piccoli e poveri in quanto condividiamo la fragilità incomprimibile della condizione creaturale.

L’appello è rivolto ai piccoli e ai poveri, perché si uniscano in tale esperienza e portare i frutti di cui la società ha più bisogno.

Essi sono invitati a restare uniti per sostenersi nell’esperienza della debolezza. A questo riguardo, P. Pio aggiunge: “La storia e la ragione suggeriscono che i piccoli e i poveri si uniscano perché l’unione fa la forza, e che cerchino in tal modo di diventare grandi e ricchi. Non si vuole negare questa via e la necessità, in qualche modo, di percorrerla, ma il nostro appello punta a qualcosa di più grande, di più incisivo, di più decisivo: rimanere piccoli e poveri scoprendo il valore di tale condizione”.

L’autore è convinto che questa ricerca può dar luogo ad esperienze in grado di generare i frutti di cui la società ha più bisogno: la conoscenza dei suoi problemi reali, per crescere e governarsi; la crescita della carica di gratuità, la forza di combattere contro il male.

C’è una dimensione generativa della povertà, dunque, che va continuamente riscoperta. Essa si radica nella esperienza che ognuno fa della propria debolezza e di quella altrui. In un passaggio significativo dell’Appello, si afferma che “la coscienza dolorosa della propria insufficienza fa uscire da se stessi e incontrare l’altro, gli altri, tutti gli altri. E l’incontro con gli altri è un’espansione della propria coscienza, se non l’inizio di questa. Quando si riconosce l’altro, comincia la vera conoscenza che è anche amore. Così ciò che a prima vista sembra pura negatività, la sofferenza, si rivela sorgente di grandi valori: la conoscenza e l’amore” .

Qualche “fotografia” di introduzione di Lorenzo D’Amico

Cominciamo con alcune “foto” provenienti da varie parti del mondo. Non abbiamo scelto belle oasi fittizie per rincuorarci un po’: siamo invitati ad entrare in situazioni a volte difficili, a volte dure… ma per coglierne la grande ricchezza di vita.

La prima “foto” rappresenta Madikizela, una donna nera del Sudafrica, neuropsichiatra, con il suo libro: “Morì un uomo quella notte”. Madikizela partecipò alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica. Siamo alla fine dell’apartheid, Mandela è stato appena eletto capo distato, si apre la Commissione e Desmond Tutu la presiede. Lo svolgimento del libro ci aiuta a cogliere ciò che di prezioso emerge da tanto dolore: vittime e carnefici si incontrano in tribunali in mezzo ai vari villaggi; sono chiamati a ricostruire gli avvenimenti per poter insieme superare le lacerazioni terribili che erano avvenute. Un poliziotto racconta come ha ferocemente ucciso i mariti di alcune donne presenti. Alla fine una delle vedove dice: “Non riuscivo a controllare le lacrime, lo ascoltavo ma ero sopraffatta dall’emozione e potevo solo annuire, per dire: «Si, ti perdono. Spero che, vedendo le nostre lacrime, sappia che non sono soltanto per i nostri mariti, ma anche per lui… Vorrei prenderlo per mano e fargli vedere che c’è un futuro, mostrargli che lui può cambiare».

E’ difficile, dice Madikizela, non giungere alla conclusione che debba esserci qualcosa di divino nel perdono espresso in un contesto di tragedia. In che modo potremmo altrimenti comprendere come quelle parole possano essere pronunciate da qualcuno cui è stato fatto un male irreparabile? … Quando avvenivano questi fatti, Tutu ci invitava al silenzio, perché eravamo “su un suolo sacro”.

“Io non volevo che l’odio facesse di me una sua vittima”.

A questo proposito vorrei ricordare il lavoro svolto da Daniel Bar-On, un ebreo di origine tedesca, che dopo aver fatto il contadino, l’educatore, si laurea in psicologia e per molti anni fa incontrare figli dei gerarchi nazisti e figli di sopravvissuti all’Olocausto. C’è un suo libro: L’eredità del silenzio. “Raccontare storie può aiutare la persona che le narra a elaborare alcuni aspetti traumatici del passato, specialmente quando ad ascoltare ci sono persone “dell’altro lato”. Queste storie hanno la funzione di sollecitare altre storie che sono rimaste nascoste nella mente e nei cuori delle persone per varie ragioni, aspettando il momento e il contesto giusto per essere raccontate”.

C’è una seconda foto. Questa volta siamo a Cosenza, più esattamente a Falerna Marina, e volevo solo citare una relazione di Giorgio Marcello . Occorre saper guardare la complessità della realtà, saper approfondire le cause che generano ingiustizia e impegnarsi a rimuoverle. La povertà è un’opportunità per ritrovare uno stile di vita sobrio, essenziale e conviviale, permette di ritrovare una condizione autenticamente umana; permette di riorientare il cammino personale e comunitario assumendo la povertà come orientamento. “Scopriamo che quelli che non stanno in cattedra e che a nessuno verrebbe in mente di metterceli, hanno tante cose da insegnarci. Questa è la meraviglia (…) sembra che siano solo da aiutare e invece sono quelli di cui abbiamo maggior bisogno e più possono aiutarci” . Tutti siamo piccoli e poveri in quanto condividiamo la fragilità della condizione umana. Occorre “rimuovere i bisogni che compromettono la dignità e amplificano la disuguaglianza e i problemi ad essa connessi, aiutandoci reciprocamente a restare poveri, scoprendo continuamente la fecondità di questa condizione” . “La condizione di minore è assicurata a chi prende sul serio il Vangelo e più che cercarla occorre essere pronti ad accoglierla: viene da sé a chi segue il Signore” .[Sul nostro sito www.latenda.info si può trovare la relazione di Giorgio Marcello]

Terza foto. Bangladesh: Muammad Yunus, il “banchiere dei poveri”, fondatore della Grameen Bank, la Banca del villaggio. La filosofia di questa iniziativa consiste nel creare piccoli finanziamenti, pochi dollari dati a persone in condizione di estrema povertà, richiedendo loro, quale unica garanzia, la volontà di riscatto. Il microcredito ha avuto 9 milioni di beneficiari, di cui il 96% donne (i soldi sono stati utilizzati per acquistare: una macchina da cucire, un chioschetto…). Nel 2007 Yunus tentò di creare un partito politico. L’oppositore, salito al potere, nazionalizzò la banca, dopo 37 anni, costringendo Yunus a dimettersi.

Quarta foto. Argentina: Juan Grabois, fondatore del MTE (Movimiento de los trabajadores Excluidos). Racconta Juan: “Il MTE è un’organizzazione popolare indipendente dai partiti politici e dallo Stato, che fondammo nel 2002 con i lavoratori più sofferenti. Lo fondammo tra camion sgangherati e carretti pieni di spazzatura, tra mense popolari e assemblee, nelle zone più povere di Buenos Aires, a partire dalla solidarietà elementare che sorge dal dialogo fraterno tra coloro che soffrono e coloro che non hanno avuto la fortuna di nascere poveri, ma che aderiscono a questa lotta. Circa trenta persone, tra lavoratori e studenti, componevano il nucleo iniziale del MTE, che è poi cresciuto e si è andato rafforzando nel tempo. Oggi il MTE raggruppa varie cooperative di cartoneros che raccolgono più di 500 lavoratori in diversi punti del paese. Il nostro movimento ha fondato, insieme ad altre organizzazioni sociali, la Confederazione dei lavoratori dell’Economia Popolare (CTEP) che raggruppa cartoneros, sarti, artigiani, venditori ambulanti, produttori di mattoni, addetti alle consegne, lavoratori di infrastrutture sociali, imprese recuperate, operatori sanitari e contadini. La Confederazione dei Lavoratori dell’Economia Popolare, fondata dal nostro Movimento, ritiene sia necessario guardare al lavoro al di fuori dei paradigmi del mercato, ovvero come a un diritto non riducibile al concetto capitalista di produttività.

Un’ultima foto. Tor Bella Monaca, Roma. Ora entriamo in un terreno minato. Tutto il quadro a cui accenno sembra affetto da devastazione: sto entrando nell’obitorio di un Hospice, sono insieme ad una giovane donna ed al suo compagno. Lei è stata usata ed abusata dal padre e da tanti uomini. Ci avviciniamo al tavolo dove è stato ricomposto il cadavere dello zio di questa donna, che non sa se avrà la forza di entrare. Vede la testa dello zio, decide, si avvicina, lo accarezza, lo bacia, lo abbraccia, intanto è tutta tremante, l’alcool le sta togliendo le forze… piange, piange. Guardandola, ho l’impressione di essere di fronte ad un sipario di palcoscenico, ma il sipario è tutto lacerato… e proprio questa sua lacerazione permette di vedere tutta la profondità dell’animo umano: improvvisamente siamo gettati dentro al grande mistero della vita e cogliamo la preziosità della sua esistenza, la sua tenerezza; proprio il momento della massima fragilità ci permette di cogliere in lei un raggio della luce di Dio, quella creatura ci spinge a pensare in modo nuovo alle fatiche, alla vita, alla stessa morte… forse ci rende un po’ più umani, liberandoci da parole e giudizi. Quando guardiamo in quella profondità, troviamo una parte importante di noi stessi e dell’umanità intera, ritroviamo la tenerezza, l’unicità e il mistero di ogni creatura umana. Ci sono tempi nei quali dobbiamo essere capaci di vedere e trasmettere speranza, consolazione, ma ci sono tempi nei quali occorre saper portare il peso di dolori senza poter consolare: solo il dolore condiviso permette la purificazione.

Alcune brevi riflessioni.

Ogni comunicazione autentica, dice C. M. Martini, nasce dal silenzio, è qualcosa che deve nascere dentro per poter germogliare e maturare; chi nel rapporto con gli altri vuole solo e sempre luce, chiarezza, certezza assoluta, dà segno di voler dominare piuttosto che comunicare, perde l’altro, anche se in apparenza lo conquista.

Occorre molto ascolto e molta pazienza per evitare conclusioni affrettate.

La gravità della situazione attuale con l’aumento reale della povertà e della miseria, con cause organizzate sempre più pericolose, ci pone di fronte all’urgenza di interrogativi profondi, a cammini capaci di cogliere la complessità degli elementi da considerare, ma al contempo ci pone di fronte alla priorità di lasciarsi guidare da ciò che appare dietro quei sipari lacerati.

Abbiamo più volte sottolineato che la povertà è un’opportunità per arrivare a ciò che è essenziale.

Per concludere, non possiamo prescindere da ciò che di positivo già esiste; noi non crediamo in un Dio che ci risolve i problemi, ma in un Dio che ci dà la forza per affrontarli.

Le testimonianze riportate di seguito ci offrono storie diverse, culture e fedi diverse, mostrano proprio la grande forza che ha permesso e permette di affrontare situazioni gravi; ne vengono fuori realtà preziosissime da cui possiamo trovare forze nuove capaci di generare vita.

Storie di resistenza e solidarietà

Franca (Comunità Foce del Tevere) : io sono una cittadina dell’Idroscalo, sono la portavoce della Comunità Foce del Tevere, da noi di povertà ce n’è tanta però cerchiamo di viverla con dignità e serenità, cercando di aiutare la nostra comunità.

Per cominciare, tanto per non dimenticare, vi voglio raccontare quello che è successo all’Idroscalo il 23 febbraio 2010. In quel giorno l’Idroscalo ha subito una vera e propria invasione da parte dell’allora sindaco Gianni Alemanno. Entrarono alle 6 la mattina, erano 1.200 forze dell’ordine e noi eravamo 12 donne, 12 donne a difendere la propria casa, la propria dignità. Lui entrò e con un giorno sgomberò e sbracò le nostre case e le 35 famiglie ancora oggi sono deportate, perché fu proprio una vera deportazione. Deportate in un Residence, sull’Ardeatina e per il loro futuro non si sa quello che il sindaco Marino vorrà fare.

Ecco perché è nata la nostra Associazione, perché da allora abbiamo cominciato a lottare per la nostra dignità.

La comunità dell’Idroscalo è composta da 500 famiglie, italiane, albanesi, rumene e rom. Noi siamo gente semplice, gente che lavora, siamo una comunità, forse l’ultima della periferia romana, una comunità che ha lottato e continua a lottare per la propria dignità.

I rom che vivono da noi sono quelli che cercano ferro, le loro donne hanno gonne lunghe, sono quelli di cui parecchia gente ha paura. Noi entriamo nelle loro case, il rispetto è reciproco, certo in continuazione gli ricordiamo le nostre regole, ma loro accettano e rispettano. A una donna rom siamo riusciti a fare avere il medico e la diabetologa, ora ha la sua fornitura di medicine per tre mesi e tutte le visite che le occorrono, stiamo cercando insieme a persone competenti e splendide di mandare i loro figli a scuola e nonostante la loro cultura differente ci stiamo riuscendo.

Noi viviamo di stipendio eppure siamo riusciti a coinvolgere tante persone ad avere carità, facciamo colletta alimentare ed anche di vestiti e cerchiamo di portare serenità nelle case di chi ha bisogno. Da noi ci sono persone con problemi con la giustizia, vengono aiutate lo stesso, magari sono agli arresti domiciliari e noi, secondo il loro bisogno a turno facciamo per loro le commissioni, anche portandogli la spesa a casa tutti i giorni. Diamo l’opportunità a molte donne di andare a lavorare tenendo i loro figli a casa nostra, facciamo visita ogni giorno ad i nostri anziani e dedichiamo loro un po’ del nostro tempo, magari solo per ascoltarli, alcuni fanno le “punture” perché anche questa è una spesa.

L’Idroscalo lotta da sempre, per noi essere qui oggi è molto importante. Si lotta per i nostri diritti. Quattro anni fa abbiamo ottenuto, lottando, per la nostra sicurezza una scogliera a mare, per noi è stata una vittoria. Per noi ogni diritto è una lotta. Lunedì scorso alle 9.30 all’Idroscalo sono venute una macchina dell’Acea con due pattuglie di carabinieri, senza avvisare, perché da noi funziona così, hanno tolto il contatore generale, ci hanno mostrato il foglio di distacco. Dopo le nostre proteste, dopo che un operaio si è mosso a compassione ci hanno rimontato il contatore. Il giorno dopo siamo andati dal presidente del nostro municipio che si è impegnato a trovare una soluzione con noi, stiamo aspettando di essere chiamati, e se non chiamano si lotta.

Lottiamo per il trasporto scolastico perché pur avendo tutti i requisiti ogni volta lo escludono, ma noi non ci arrendiamo. Lottiamo per avere una pensilina dove poterci riparare con i bambini nelle giornate piovose mentre aspettiamo l’autobus. Per evitare il grande disagio su via dell’Idroscalo dove si allagava ogni volta che pioveva, dopo le tante richieste al Municipio abbiamo comprato e montato dei tombini con i nostri soldi ed il nostro lavoro, ed ora via dell’Idroscalo non si allaga più.

Si lotta perché le nostre strade piene di buche vengano asfaltate, si lotta per un parco giochi, un campo di calcetto, l’unico campetto che c’è l’abbiamo costruito noi cittadini. E’ difficile vivere in una comunità in cui le Istituzioni sono assenti, sorde, dove anche lo Stato ti è nemico. Mi hanno insegnato che le leggi nascono per difendere i più deboli, i poveri ed io continuo a crederci. All’idroscalo lo Stato sono io, mia figlia, le donne della comunità, soprattutto i figli che sono il futuro. Noi poveri non ci arrendiamo perché toccati nel nostro profondo reagiamo.

Abbiamo anche una chiesetta col nostro parroco, anche se con opinioni diverse siamo molto uniti e lottiamo insieme.

Maria Dominica Giuliani: Non dovevo essere io a parlare oggi ma Maripina. Oggi non è potuta venire. È andata in pensione un anno e mezzo fa, ha insegnato musica. Fa parte della comunità di S. Leone, suona l’harmonium alla messa domenicale, si occupa dei poveri, è un’ottima cuoca, fa pranzi in quantità industriale, ma sempre con molta cura. È luminosa, sorridente, sempre in movimento.

Lo scorso gennaio c’è stata l’influenza, si è ammalata con una febbre altissima, stava per morire perché non ha difese immunitarie attive, con un’infezione interna tremenda. Sono riusciti a portarla dal pronto soccorso successivamente al Gemelli e aumentavano le speranze; poi si è stabilizzata, ma erano rimaste necrosi alle estremità. A un certo punto l’hanno amputata, per salvarla. Noi eravamo sotto choc, la sono andata a trovare, ma non sapevo cosa dirle, le ho fatto compagnia. Si rendeva conto che non c’era alternativa. Le hanno amputato le gambe sotto al ginocchio e alcune falangi delle dita delle mani, prima di Pasqua. Pensavamo: “Ridotta così che farà, che vita è?” È tornata a casa, prima sdraiata, poi in carrozzella, col marito che ha problemi di salute. A metà luglio noi facciamo il pranzo sociale con 150 poveri, per la preparazione siamo andati a casa da lei per renderla partecipe. Al pranzo lei è venuta, ha diretto dalla sedia a rotelle. Ha ripreso l’impegno con i poveri a settembre e la domenica sera ha ripreso ad animare la messa. Abbiamo avuto un incontro con Franzoni giorni fa, lei è arrivata con la sua carrozzina. Vuole essere autonoma, pensavamo avesse bisogno del nostro aiuto, ancora non mi sento di chiederle cosa la spinga. Ci ha insegnato che i poveri non hanno bisogno di aiuto ci danno loro questa forza grande. Oggi non è venuta per impegni sanitari improrogabili del marito.

Vorrei aggiungere una mia esperienza di questi giorni. Da Boccea a piazza Garibaldi per lavoro prendo l’autobus 46, passa sull’Aurelia dove ci sono diverse case generalizie. Sull’autobus strapieno, salgono tre monsignori, 2 africani e 1 asiatico, più anziano. Nelle fermate successive le persone si trovano questi tre così bardati. Sento che qualcuno parla, fa una battuta, un vescovo parla in inglese, le persone si sono animate hanno fatto domande. Quando stavano per scendere qualcuno ha detto: “Noi preghiamo per voi”. Ho ripensato agli anni del Concilio, allora c’era interesse per la Chiesa, poi le persone si sono disinteressate. Una chiesa con la macchina personale e l’autista allontana, chi prende l’autobus può sentire chi dice: “Siamo vicini a voi”, questo mi dà speranza

Chiara: Stamattina doveva venire Neda, che è una donna che vive a Ponte di Nona Vecchio, un quartiere di case popolari nell’estrema periferia est di Roma. Neda è stata “deportata”, usando le sue parole, a Ponte di Nona, dopo essere stata in occupazione. A Ponte di Nona ha trovato, alla fine degli anni ’90, un quartiere senza lampioni, strisce pedonali, luce nelle scale delle palazzine e soprattutto senza scuole, posta, ASL, farmacia, negozi, mezzi pubblici. Nel 2007 sono state costruite altre case popolari (il doppio rispetto alle prime) senza che ci si curasse dei servizi. Continua a non essere presente la ASL, la posta. Hanno appena trasferito sulla Casilina il Servizio Materno Infantile, che costituiva un punto di riferimento per i tanti bambini e ragazzi disabili. Nel 2007 hanno finalmente aperto una farmacia e un supermercato. Nei primi anni a Ponte di Nona, Neda si è impegnata con altre persone in un comitato di quartiere, ottenendo lampioni, un autobus, strisce pedonali e, occupando un terreno con delle tende, anche la scuola materna ed elementare, poi quella media (aperta solo nel 2006). Negli anni seguenti queste battaglie, Neda si è occupata dei ragazzi che avevano grossi problemi familiari (genitori o fratelli tossicodipendenti o in carcere), accogliendoli a casa sua nel pomeriggio. Il figlio più piccolo di Neda, che è stato mio alunno e che ora ha 17 anni, va in giro per le case di Ponte di Nona, dove ci sono persone agli arresti domiciliari o che non possono permettersi di pagare il barbiere, a tagliare i capelli con la macchinetta. Tra le persone che va a visitare c’è un suo coetaneo, ex studente della nostra scuola, che dopo due bocciature in prima media, ha smesso di frequentare ed ha iniziato a compiere piccoli reati fino a fare una rapina, in un supermercato, con una pistola giocattolo, a soli quattordici anni. Ora è agli arresti domiciliari. Il figlio di Neda dice che non giustifica ciò che ha fatto, ma giustifica la persona, questo suo coetaneo che è vissuto in una famiglia di spacciatori e non aveva la possibilità di un futuro diverso.

Siamo alunni di maestri eccellenti, persone che nessuno avrebbe pensato mai di mettere in cattedra di Carlo e Franca Travaglino

Franca: Si è creata un’aria molto intensa. La testimonianza per cui siamo venuti è una storia che ci costringe a parlare di noi, non solo di me e Carlo, ma di tutta la famiglia, anche di tanti di voi qui presenti, e la comunità di malati e di poveri e di emarginati che ha come segno distintivo la dignità e la volontà di mettere fuori le proprie risorse e potenzialità anche per le civiltà in cui si trova a vivere. H.E.W.O. è una sigla che significa organizzazione di benessere dei malati di lebbra dell’Etiopia e dell’Eritrea, “dei” non “per i”.

Già nel cercare le parole per identificare la realtà siamo stati molto attenti, abbiamo fatto la lotta per ottenere questa dicitura. Per le autorità doveva essere “per i”, non bisognava mischiare il benefattore col beneficato. Carlo disse che allora ce ne saremmo andati perché non aveva senso, i primi a essere beneficati siamo noi. Il luogo di questa realtà è l’Etiopia. Partimmo da Massaua, sul mar Rosso, la parte nord dell’Etiopia, nell’ultima fascia del deserto arabico. Poi ci siamo spostati nel Tigrai, più a sud e in Addis Abeba. Nel 1969 io e Carlo venivamo da un lungo periodo di maturazione e impegno, sentimmo la necessità di vivere l’anelito di seguire il messaggio di Cristo proprio in situazioni di sofferenza, di povertà. La lebbra allora faceva terrore. Scegliemmo di fermarci a Massaua, tra i più poveri dei poveri. Il mar Rosso è caldo e là i malati si riunivano e nelle sue acque trovavano sollievo. Lo scegliemmo come coppia di coniugi, non come singoli, volevamo inconsciamente dimostrare che non solo dei religiosi, ma anche delle persone comuni potevano vivere il messaggio evangelico come famiglia. A Massaua eravamo sulla sabbia, veramente sulla sabbia, in una struttura fantasma, dove erano rinchiusi 36 malati di lebbra, chiamata Ostello dei vecchi, dove invece erano malati di età media sui 40 anni, perché non si potevano chiamare lebbrosi. Avevamo lasciato la sicurezza della casa e ci inserimmo con l’obiettivo di condividere questa realtà di povertà e sofferenza.

Mi ricordo che i primi tempi eravamo lì per conoscere, per imparare, per sapere come muoverci. Avevamo dei punti fermi: credere nella paternità di Dio, nella fratellanza fra tutti gli uomini. Se siamo fratelli dovremo fare qualche cosa per gli altri. In 45 anni avete fatto tante cose, tra di voi ci sono tante persone che condividono e sostengono i progetti. I primi giorni, con quel caldo, che io avevo escluso, una mattina giravo e vidi un gruppo di pazienti seduti a terra sulla sabbia con una lavagnetta su cui era scritta la parola “cavalo” (nella loro lingua amarica non esistono le doppie). Quella immagine la rivedo come fosse oggi, aprì una strada nella nostra mente. La scelta di una parola italiana cosa significava? Significava il desiderio di comunicare, di essere vicini, di trasmettere. Il desiderio di imparare, di aprirsi, la loro volontà di essere protagonisti di una rinascita. Doveva essere la via di andare insieme, puntare su questo per poter uscire. C’era la morte, la desolazione, era un ospedale fantasma. I bagni erano una presa in giro, c’era il piatto della doccia, ma non si poteva usare, non c’erano le fognature, neppure il buco, bisognava andare all’aperto, ma va bene anche così, perché lì fa sempre caldo.

Pensammo di dover imparare a vivere. Insieme a loro siamo diventati una scuola di vita. Meheretu diceva: “Questo non è un ospedale è una scuola di vita”. I maestri sono loro, i poveri, il libro è il vangelo, il corano. Abbiamo imparato a vivere anche noi. Un giorno Carlo camminava preoccupato per le gravi difficoltà e si vedeva in viso la sua sofferenza. Avevamo un malato che non aveva solo la lebbra, ma un grosso tumore che deturpava la faccia, non si vedeva neppure l’occhio. Però la sua interiorità e la sua intelligenza facevano superare il disagio. Si avvicina e dice a Carlo: “Coraggio, no paura, Dio c’è”. Questo è uno dei tanti episodi. Mettendo insieme quello che ci è stato suggerito anche da loro, dalle loro malattie, dalla loro fragilità, ma anche dalle loro potenzialità, dalla sabbia siamo entrati in città come gruppo di malati. Abbiamo lottato per la sepoltura, per la carta d’identità, sfidando tutti, siamo saliti sugli autobus, siamo entrati anche nei bar. Piano piano è cambiata la mentalità. Il capo del partito ci disse: “Grazie a voi abbiamo buttato a mare i nostri tabù, andate avanti, noi vi seguiremo”. Un comunista, il capo del partito, aveva visto che era una comunità di vita che camminava. Adesso i malati di lebbra, di AIDS, di tbc, i poveri sono accettati, perché si presentano con dignità, sono persone competenti; è un diritto studiare, è un diritto il lavoro, è un diritto l’accoglienza. C’ è stata l’accoglienza.

Antonella – Qualche anno fa nella Parrocchia di s. Vincenzo avevate raccontato che loro stessi lavoravano all’interno della struttura, non erano solo assistiti, ma assistenti. E ci avete fatto vedere i loro lavori.

Franca – Fanno lavori di ceramica, maglieria, ortofloricoltura , forno, allevano animali….

Carlo – Oggi non sono assistenti, ma dirigenti, maestri, direttori.

Franca – Sono dirigenti, abbiamo imparato noi a ridimensionarci. Abbiamo imparato noi le cose essenziali, la dignità nel dolore nella sofferenza. Quando ho avuto il linfoma e poi un ictus, chi mi dava la forza, perché ho saputo reagire? Perché avevo davanti a me la dignità nel dolore. Ho saputo reagire per gli occhi di Meheretu, la dignità di Minnia, una ragazza di 20 anni, che non poteva fare nessun movimento, solo scacciare le mosche con una mano e con quella mano era riuscita a imparare a scrivere. C’è la scuola all’interno dei centri e spostammo una maestra che ebbe tanta pazienza perché Minnia imparasse a scrivere. Ci hanno insegnato il coraggio ad affrontare le difficoltà e a non pensare a se stessi. Una volta stavo a fianco a una moribonda che l’ultima notte mi diceva: “Vai a casa, è tardi, non preoccuparti per me”. Non vi sembra una grande lezione non pensare alla propria sofferenza, pensare al mio disagio, perché mi aspettava mio figlio e mi vedeva stanca?

Ci sono tanti servizi che noi prendiamo in cura non solo la malattia fisica ci ha spinti, la malattia è solo un incidente, tutti possiamo averle, ma la persona del malato, la ricostruzione della personalità, mettere fuori la potenzialità dell’intelligenza, della volontà, anche la forza fisica dei malati se non hanno crisi acute. C’è l’anelito a vivere. Anche Meheretu quando gridava di dolore per le crisi diceva: “Io non sono la malattia”.

Carlo – Avrete colto l’essenza della testimonianza di Franca, noi continuiamo a essere alunni da 45 anni, è una profonda convinzione, non è un’espressione buttata lì. Un giorno con Franzoni fummo invitati a tenere una relazione sulla partecipazione alla vita degli altri; dovevamo dare un titolo alla nostra testimonianza e fu questo: “Potremo mai ringraziare abbastanza i poveri?” Ancora oggi ci poniamo questo interrogativo. Perché siamo alunni di maestri eccellenti, persone che nessuno avrebbe pensato mai di mettere in cattedra. Sono dei grandi docenti della vita, con la propria vita, non con le parole. Testimoniano la vita. Meheretu diceva: “Questo non è un ospedale, è la casa della vita” e noi abbiamo imparato a vivere. Fin dall’inizio abbiamo lottato contro l’assistenzialismo, abbiamo scelto la via della condivisione, creando una comunità di poveri, povera, per i poveri, partendo da una grande ricchezza, le potenzialità di ciascuna persona, farle venire fuori. Sono venute fuori potenzialità enormi, oggi sono dirigenti della scuola, dell’ospedale, dei servizi. Questo è il frutto della scuola reciproca, dello stare insieme. Della povertà non si parla, la povertà si vive. Un bambino di 9 anni con il padre partecipava a Roma alle riunioni in grandi ville o in case ricchissime. Un giorno disse al padre: “Io con te non vengo più, sono stanco di entrare nelle case dei ricchi per parlare dei poveri”. È una grande lezione. Questo fu un grande conforto. Perché noi siamo entrati in un deserto, in un campo di concentramento come alunni per imparare la vita. Franca aveva escluso quel posto troppo caldo, 45°- 48°, con umidità al 90%. Il giorno dopo, quando scoprimmo questo campo, disse: “Questo è il nostro posto”. Per prima cosa chiedemmo a loro di costituire un piccolo consiglio per guidare noi e camminare insieme, con la coscienza di ciascuno. Letai ha una responsabilità nella comunità, in una riunione di fronte a una signora che parlava di assistenza disse: “Non condivido quello che state dicendo. Prima di andare avanti vi faccio una domanda: “Noi chi siamo per voi? Poveri a cui dare un’elemosina o fratelli con cui fare un cammino insieme?” Non posso accostare un povero se lo considero uno a cui dare l’elemosina, ma un fratello con cui camminare insieme e imparare insieme a vivere. Ho qui un pensiero di Meheretu. “Noi siamo innamorati di voi, perché voi siete innamorati di noi”.

Questa è la scuola dei poveri, innamorarsi reciprocamente “Questo è il miracolo di Dio in mezzo agli uomini, questo nostro innamoramento è segno che Dio sta in mezzo a noi in questa casa”. Il luogo teologico della presenza di Dio è la convivenza fraterna con i poveri. Ogni giorno festivo celebriamo la liturgia, chiamiamo questo incontro “la liturgia della fraternità”. Cristiani, musulmani, non credenti, insieme. Stiamo tutti insieme in questo mondo perché Qualcuno ci ha messi in questo mondo. Un giorno uno dei malati di 50 anni disse: “Nella mia vita mai ho visto quello che sto vedendo in questa casa, non pensavo si potesse vedere Dio in questo mondo e qui lo sto vedendo, questa è la grande scoperta della mia vita. Sia benedetta la malattia che mi ha portato qui dove si incontra Dio, dove si vede Dio. Questo è un evento nuovo anche per i miei familiari perciò tutti abbiamo cominciato a pregare per ringraziare”. Non è una lezione di vita?

Franca – Francesco nostro figlio fa il medico, anche lui è stato un alunno della nostra comunità. La scelta della professione è stata messa nel suo animo e nella sua volontà dalla sofferenza a cui assisteva. Certi atteggiamenti di sensibilità, di comprensione li ha presi di là, è una fortuna grande anche per lui, ha imparato tanto.

Carlo – Avevamo con noi un pezzo di uomo, Teka, non un uomo intero fisicamente, amputato delle gambe, con solo moncherini al posto delle mani, cieco, sdentato, con la faccia rovinata, ma di una ricchezza formidabile, noi lo chiamavamo maestro di vita. Nessuno gli aveva dato il minimo rispetto, quello che si dovrebbe ad ogni persona. Lo abbandonarono, lo scaricarono con una carriola vicino al nostro cancello, perché aveva una cancrena, l’odore era pesante. All’inizio bestemmiava contro Dio e contro gli uomini, poi cambiò. Lodava Dio e ringraziava gli uomini e diceva: “Mi ha cambiato la fraternità, lo stare insieme”. Quando frequentava l’università a Francesco mandò questo messaggio: “Tu stai studiando molto con tanti sacrifici per la vita degli altri. Anche per noi. Noi stiamo studiando con te, non con i libri, con la nostra preghiera, col nostro affetto per te. Non sei solo nel sacrificio, ci siamo noi. Ci sono già tutti quelli che ti affideranno la difesa della loro salute, la cura delle loro malattie. C’è Dio con te perché noi gli chiediamo di stare con te e Dio ci ascolta”. Non è una lezione questa? Per motivo di sicurezza non possiamo nominare una persona. In Eritrea abbiamo subito violenza dalla dittatura, la comunità è frustrata, soffre, siamo stati costretti a organizzare un servizio H.E.W.O su strada. Abbiamo denunciato questo a livello di tribunale internazionale per la violazione dei diritti umani, non siamo cancellati giuridicamente, io risulto ufficialmente il responsabile con Franca, ma il locale è stato occupato militarmente. Continuano a gestire le attività sulla strada le persone stesse che stavano con noi, che stanno con noi. La responsabile è stata da poco in Italia. Il suo messaggio sembra fatto apposta per questa circostanza, per dire cosa fa la scuola dei poveri, non c‘è scuola che quella dei poveri, fa crescere le persone, cambia la vita, non c’è altra università migliore. È il luogo della presenza di Dio, della cultura, della vita. Dopo 45 anni lo possiamo dire. Questo testo di chi ha vissuto anni in comunità spiega tante cose:

“Carissimi Carlo e Franca, sono passati solo 5 giorni dal mio ritorno, ma mi mancate come se fossero passati 5 anni. Sono dispersa nel vuoto. Durante il tempo trascorso insieme siamo stati molto bene. Qui le risate che facevamo non ci sono, trovarle è molto difficile. Sapete già il motivo. Siamo sempre sotto pressione. Vi voglio un bene immenso, per me siete tutto, siete la mia grande affettuosa, carissima famiglia, siete tutta la mia vita. Perché ci siete voi e la comunità io sto vivendo bene la mia vita giornaliera, nonostante la tragedia. Grazie per quello che siete, per quello che fate. La comunione tra noi impoveriti è un dono di Dio, è una fortuna nella disgrazia sociale. Io sono fortunata e ringrazio il Signore notte e giorno che mi ha donato voi e la comunità, ringrazio il giorno che ho incontrato voi perché ho trovato voi e con voi la comunità che è diventata la mia famiglia. Nella comunità dei poveri e dei malati, abbandonati da molti, ho imparato la fraternita, l’amore, la parità dei diritti che si può vivere anche nei momenti difficili, con questa sofferenza si trova la via della salvezza. Ho avuto la possibilità di incontrare tanti fratelli e sono diventata ricca interiormente, perché ho tanti fratelli che mi vogliono bene, come io voglio bene loro. Siamo fisicamente nel buio senza luce, acqua, pane, libertà, rispetto. Siamo stati dimenticati nel buio di un tunnel, siamo stati impoveriti, siamo un popolo in lutto, senza il conforto di altri popoli e nazioni, ma tra poveri ci teniamo stretti per mano, è questa la nostra salvezza. Dentro di me io sono luminosa, mentre tutto in casa e fuori è buio, dentro sono luminosa come è luminoso un cielo pieno di stelle in piena notte. Questo è il miracolo della fraternità vissuta. Vorrei dire tante cose, ma sono molto emozionata. L’amore che ricevo è ampio e significativo, non posso descriverlo in questo messaggio, ma rimane sempre nel mio cuore e sono sicura che servirà a darmi coraggio e conforto.” Non aggiungo altro.

Una testimonianza dal Rwanda di Marie Claire Safari

Buongiorno a tutti e grazie per l’invito da parte di Lorenzo e del gruppo de La Tenda. Io vi ho portato una testimonianza sul Rwanda. Mi presento innanzitutto: sono Marie Claire Safari, sono un infermiera e ho una famiglia, sono sposata con un insegnante di italiano e abbiamo tre bambini. La mia esperienza di integrazione qui in Italia è stata un esperienza veramente unica e ho capito molto del mio paese perché mi sono staccata dalla sua realtà interna.

Sono cresciuta in Burundi da una famiglia di origine Rwandese. Nel ’94 sono arrivata qua in Italia a seguito della guerra tra il Burundi e il Rwanda dovuta a questioni etniche. Noi abbiamo avuto questa sofferenza a causa di una identità che è stata conseguenza della colonizzazione perché in Rwanda e in Burundi le etnie sono state portate dai colonialisti mentre prima c’erano solo dei gruppi sociali. Con i colonialisti questi gruppi sono diventati etnie. Quindi queste due etnie, per questioni di potere, hanno cercato di dominare una sull’altra. In Burundi al potere c’erano i Tutsi, in Rwanda gli Hutu. Io vivevo in Burundi dove c’erano gli Hutu che erano in guerriglia e c’è stato questo genocidio. In Burundi non è mai stato riconosciuto, però è successo davvero ed io ero lì.

L’ episodio scatenante la guerra è stata la morte del presidente che è morto, quando ero al convitto, insieme al presidente del Rwanda e che ha scatenato questo odio e ha fatto scoppiare queste guerre e cominciare questi ammazzamenti.

A un certo punto, nella mia famiglia non sapevano neppure come rintracciarmi perché stavo al convitto e tutte le strade e le linee telefoniche erano bloccate. La mia famiglia è stata un mese senza sapere se ero viva o se ero morta e quando dopo due o tre mesi si sono riattivate le linee telefoniche ho chiamato a casa e i miei non ci volevano credere perché dove stavo io avevano bruciato alcune studentesse nelle scuole e anche nelle chiese. Per potermi far tornare a casa mio padre e mio fratello hanno dovuto coinvolgere alcuni militari con una macchina di scorta. Sono stata fortunata perché a un certo punto si doveva decidere se noi figli dovessimo ammazzare i nostri genitori o se i nostri genitori dovevano uccidere i propri figli. Mio padre ha deciso di mandare me e due miei fratelli in Uganda per salvarci. Dall’Uganda io sono potuta venire in Italia. I miei fratelli, invece, sono tornati in Burundi perché mio padre era caduto in depressione trovandosi senza gli otto figli che aveva messo al mondo, solo con mamma e non sapendo come fare. Quindi si è deciso di rimandare i ragazzi restanti in Burundi nonostante la situazione, per stare vicino a papà. Nel frattempo in Rwanda si stava consumando un genocidio che è stato riconosciuto da poco e quest’anno c’è la commemorazione dei vent’anni. Nel ’98 i miei genitori sono tornati in Rwanda quando è subentrata la pace.

La mia esperienza qui in Italia mi ha fatto capire queste problematiche. Quando stavo in Burundi io pensavo che era normale che un Hutu dovesse ammazzare un Tutsi e io dovevo scappare, quello che dovevo fare era solo scappare, mentre quando sono arrivata qui, ho capito qual è il motivo. Ho capito perché io mi chiamavo Tutsi l’altro si chiamava Hutu, la differenza è nel naso. Guardando anche le riprese fatte negli anni 30 in cui si misurava proprio la teca cranica, le dimensioni del naso, le dimensioni dell’occhio per definire che uno alto era Tutsi e uno basso con il naso largo era Hutu. Sapere che ci siamo ammazzati per questo motivo mi ha fatto un po’ male però ho preso coscienza di quello che stava succedendo a casa mia.

Nel ’98 sono tornata in Burundi dopo essermi diplomata infermiera e poi sono andata in Rwanda perché i miei genitori si erano trasferiti lì. Vedevo le persone un po’ addormentate e un po’ paurose perché non si fidavano più in quanto, nel genocidio in Rwanda, l’Hutu che aveva ammazzato un Tutsi non era una persona che veniva da un’altra città ma era un vicino che sapeva dove poteva andare a nascondersi il Tutsi ed è lì il dramma. E’ lì che subentra anche quello che si è detto del Sudafrica: la riconciliazione. Dopo il genocidio in Rwanda il governo ha dovuto fare una riconciliazione tra il popolo che è stata copiata proprio dal Sudafrica. Sono stati fatti questi tribunali, gacaca: sono tribunali popolari dove il colpevole ha raccontato nudo e crudo quello che ha fatto ed è stato perdonato lì, al momento. Io non ho mai partecipato, né mia madre ha mai avuto il coraggio di parteciparvi, perché lei non se la sentiva e io non ho avuto l’occasione. Mi raccontavano però che in questi gacaca gli assassini raccontavano anche dove andare a trovare i corpi perché c’erano ancora dei corpi che non si trovavano anche dopo aver demolito le fosse comuni. Tramite i gacaca sono stati ritrovati i corpi delle persone.

C’è questa riconciliazione; il governo sta cercando di fare questa riconciliazione tra i popoli e ci sta riuscendo anche se la ferita è ancora aperta e tuttavia si deve andare avanti.

In questo momento tutti soffrono: sia chi ha perso qualcuno sia anche chi ha ammazzato; perché chi ha ammazzato aveva questa povertà spirituale. Perché ammazzare una persona con il machete è la cosa più grave che si può fare in quanto il machete non ti finisce ma ti fa a pezzi e ti lascia lì. Le persone chiedono perdono perché erano presi da questo circolo vizioso, perché non capiscono e perdono proprio la capacità di discernere, di capire se quello che hanno fatto lo hanno fatto proprio loro. Quando dopo lo raccontavano non si capacitavano neanche loro stessi di quello che avevano fatto.

Quando siamo andati in Rwanda nel 2003 con mio marito e l’ho portato per presentarlo alla mia famiglia, mia nonna mi ha chiesto “ma questa persona ti rispetta?”. Perché lei aveva paura che non mi rispettasse e solo dopo mi ha chiesto se mi amava, ma la prima preoccupazione di mia nonna era che mi rispettasse. Quando mio fratello ha chiesto a mia nonna se mio marito poteva entrare in casa nostra per essere presentato ,quella è stata la prima domanda che lei gli ha rivolto e solo dopo mi ha concesso come sposa. Mio padre era morto da poco ed era a mia nonna che dovevo chiedere il permesso di sposarmi perché da noi quando muore un capo famiglia non ci si sposa e non si festeggia per un anno. Mia nonna mi ha dato il permesso e ci sono stati molti cambiamenti e arricchimenti nella mia vita. Anche tramite mio marito ho imparato a conoscere la cultura italiana. Ho avuto dei genitori qua, i suoi genitori, che mi hanno accudito come figlia ed io li chiamavo “mamma” e “papà” anche se loro non si capacitavano che io li chiamassi così. Sia io che i miei fratelli li abbiamo sempre chiamati così perché da noi si insegna che quando c’è una persona adulta, un bambino non può usare il suo nome. Quindi noi li chiamavamo così e loro alla fine hanno capito e c’è stato questo scambio di culture. C’è stata questa integrazione sia a livello familiare e anche a livello professionale: c’è Barbara, qui presente, che mi ha aiutato a capire tante cose a lavoro e mi ha insegnato molto.

A livello familiare anche adesso quello che stiamo cercando di fare è di dare dei valori ai nostri figli. In questo mondo dove ci troviamo, a volte sembra che manchi questa spiritualità. Noi cerchiamo di insegnargli il rispetto, l’amore. Fuori sembra che tutto è ovvio, che tutto si ottiene alzando la voce, urlando e invece non è così.

La mia testimonianza, dopo questo viaggio in Rwanda nel 2003 è questa: ho visto tante persone che elemosinano, che chiedono. Quando hanno visto mio marito con i miei figli che erano bianchi si è formata la fila e io mi sono detta che non ero lì a distribuire soldi perché io per avere soldi lavoro. Mi sono chiesta cosa fare per aiutare il mio popolo ed ho fatto una onlus per poterli valorizzare, per non mandarli a chiedere elemosine perché non devono elemosinare ma devono lavorare e devono far vedere la loro capacità, per dare loro dignità. Abbiamo ottenuto un finanziamento della tavola valdese e abbiamo formato una cooperativa in cui queste persone che sono sopravvissute al genocidio, che sono mamme che hanno i loro figli, adesso lavorano e fanno oggetti di artigianato e insegnano ai loro figli che non devono andare a elemosinare. Perché tramite il sudore, tramite il lavoro si ottiene anche il rispetto, si ottiene anche la dignità.

Sono tutti misti in questa cooperativa ed è la cosa più bella perché hanno visto che anche nella cooperativa si può lavorare insieme. Si lavora insieme e chi sa di più insegna anche agli altri, senza guardare più il naso. Perché prima, di una persona, si guardava il naso per sapere se era della parte tua o dell’altra. Invece, si lavora insieme e non è facile. Per esempio, nel periodo da aprile a luglio in Rwanda ci sono le commemorazioni dell’inizio del genocidio e tante persone tornano indietro nel ’94 e hanno questa sindrome post traumatica da stress. Questo trauma non gli permette di vivere e alcune persone rivivono il dolore proprio; anche adesso rivivono il dolore che hanno subito nel ’94.

Quello che posso fare io, l’impegno che mi sono presa, è di accudirli come fa una mamma e quindi cercare le persone che li possono aiutare anche se in Rwanda gli psicologi sono pochi. Il governo si è organizzato per il periodo da aprile fino a luglio con degli infermieri per sostenere queste persone perché è un fenomeno che coinvolge tutto il paese, non è in una città ma in tutto il paese. Le persone soffrono veramente, non riescono più neanche ad andare a lavorare, non riescono a fare un’attività semplice a casa in quanto vanno in depressione perché c’è questa commemorazione che gli fa rivivire il dolore che però non si può neanche cancellare.

Quello che posso fare io, nel mio piccolo, come aiuto, è creare questa piccola cooperativa che piano piano sicuramente darà i suoi frutti . E’ da un anno che abbiamo cominciato a lavorare con loro. Il mio augurio è di aiutare la formazione degli psicologi per insegnare a loro volta agli psicologi rwandesi che hanno bisogno di sostegno. Per questo ho contattato anche un gruppo di psicologi perché abbiamo ottenuto un altro finanziamento sempre dalla tavola valdese. Dico sempre che il mio lavoro è solo un granello di sabbia e spero di poter fare del mio meglio: con questo piccolo finanziamento cominceremo anche noi ad andare lì ad imparare come si lavora in Rwanda perché la psicologia che si utilizza qua non è la stessa che si utilizza in Rwanda in quanto in Rwanda si deve avere l’esperienza anche di etno-psicologia.

C’è tanto lavoro da fare però io ho fiducia perché sento che sto aiutando il mio popolo, con questi piccoli finanziamenti che stiamo ottenendo, spero di aiutare il mio popolo a rialzarsi. E’ vero che non riuscirò a cancellare il dolore ma vorrei aiutarli ad accettare questo dolore e soprattutto a riprendersi per questo percorso di unità nazionale che anche il governo si sta impegnando a fare.

Non dobbiamo fermarci a combattere la fragilità, dobbiamo viverla come un’occasione della nostra vita di Nicola Garritano

(L’intervento di Nicola comincia con un minuto di silenzio… scambio di sguardi, sorrisi, un abbraccio e tanta partecipata commozione)

Siamo stati solo un minuto senza parlare, ho potuto guardarvi quasi tutti negli occhi… un sorriso… apparentemente una comunicazione povera, povera di parole, povera di gesti, ma credo che, nel minuto di silenzio che è passato, c’è stato un po’ di imbarazzo, un po’ di tenerezza, si è creato un momento di intimità, l’abbraccio con Antonietta… Ecco, abbiamo riprodotto gli ultimi quattro mesi passati con Daniela, a casa, mesi “poveri”, poveri di parole, poveri nelle cose da fare -siamo usciti due o tre volte-, apparentemente una vita non vissuta. Eravamo tra aprile e luglio, mesi che favoriscono l’apertura all’esterno, cosa che per dieci anni abbiamo sempre fatto con Daniela.

Ci siamo sposati nel 2002, eravamo fidanzati dal 1995. Nell’ottobre 2003 Daniela era in dolce attesa, nel gennaio 2004 le viene diagnosticato un tumore al polmone, un adenocarcinoma classificato tra i peggiori, poche, quasi nessuna speranza. Gli otto-nove dottori incontrati ci davano tra i due e i tre mesi di vita e consigli molto tecnici: “Vai a fare un viaggio, fai ciò che vorresti fare…”. C’era una vita di mezzo. Le proposte erano: “Si ferma la gravidanza e cerchiamo di fare qualcosa per te, ma non è detto… Oppure porti avanti la gravidanza, ma non è detto che tu possa portarla avanti fino al parto. Non c’era una scelta migliore, c’era la meno peggio. Dottori, psicologi, amici sono entrati in questa corsa terribile contro il tempo. La confusione era tanta, le pressioni da ogni parte. Alla fine approdammo alla legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, ma la nostra scelta non fu “volontaria”: abbiamo subito questo “percorso”. Daniela ha avuto tre giorni di stimolazione per partorire, ma il parto non avveniva, per cui sono cominciati i sensi di colpa: “Vedi, questa cosa non si doveva fare”, “Vedi, questo è Dio che ci dice che non dovevamo farlo”. Il terzo giorno decidono di intervenire e di togliere il feto. Sono stati tre giorni e tre notti devastanti, non ce la facevo più a stare nella sala d’attesa aspettando che succedesse qualcosa. Sono sceso giù in chiesa, c’era una piccola cappella. Erano i primi giorni di febbraio. Entro, vado verso l’altare dove c’era un crocifisso messo su una base. L’ho scaraventato a terra con un calcio, ho preso Dio per il collo, chiedendogli che cosa stesse succedendo, perché accadeva tutto questo. Un secondo dopo ho sentito quasi una bomba dentro di me, come un’esplosione. Credo che sia stato il momento in cui ho incontrato Dio. Ho ripreso il crocifisso e l’ho rimesso in piedi e da quel momento ho sentito Dio come un Padre a cui rivolgermi, a cui chiedere aiuto, consiglio e non come un Padre che risolvesse i miei problemi. Questa storia è partita da una rinuncia alla nascita di un figlio, ma da quel momento Daniela ha vissuto migliaia di situazioni che hanno fatto crescere le persone, me compreso. Ho visto il “concepimento” e il “partorire” in moltissime situazioni. Daniela ha “ospitato” la malattia, la malattia ospitata è stata la prosecuzione della nostra vita e grazie ad essa, anche se sembra un paradosso, abbiamo avuto l’opportunità di un’unione di coppia diversa: senza la malattia non avremmo avuto una vita di coppia così ricca. Siamo scesi a fondo, lei dentro di me e io dentro di lei: la fragilità è l’opportunità di una maggiore profondità.

Faccio il pizzaiolo, non ho fatto l’università, ma ogni tanto scopro la bellezza di parole nuove. Ultimamente ho scoperto la parola “caducità”, che vuol dire fragilità. Noi abbiamo fatto un percorso di compassione: la parola compassione viene sempre scambiata per pietismo (“poverina…”, “mi dispiace che…”), invece è un termine più nobile, più bello. Ho imparato che è una parola latina che significa “insieme di fronte alla sofferenza”, andare incontro alla persona che soffre, partecipando al suo dolore. Questo è il percorso che ha caratterizzato i dieci anni e mezzo di malattia, ci ha permesso di vivere la vita appieno, di fare incontri ricchissimi, di trovarci in posti del mondo dove non avremmo mai pensato di andare. Siamo stati con Carlo e Franca in Etiopia, in un centro di malati di lebbra, AIDS e TBC, centro in cui i malati sono i protagonisti della loro nuova dignità. Abbiamo conosciuto la comunità di Torre Angela, abbiamo partecipato in tutti questi anni al gruppo del Vangelo… Sono stati tutti percorsi “ricchi”, mentre in noi c’era una situazione di “povertà”: non si poteva avere un figlio, non si poteva fare un’adozione, tutte le strade che provavamo erano impedite dalla malattia. Quindi tutto avrebbe dovuto impoverire la coppia, ma in realtà abbiamo avuto l’opportunità di aprirci completamente. Anche gli incontri con le persone che soffrivano ci permettevano una ricchezza nuova, finalmente capivamo quello che ci dicevano Carlo e Franca prima della nostra partenza per l’Etiopia: “Non andate con la convinzione di dover fare, ma con la condizione di essere”. Io avevo sempre la convinzione di dover salvare il mondo, la partenza per l’Etiopia sembrava realizzare questo mio desiderio… Giunto in Etiopia, non avevo tutti i beni che ho a casa, non li avevo dietro e neanche mi servivano: ero una persona di fronte ad un’altra persona, non c’era nient’altro che mi servisse. Io non parlavo nessuna delle loro lingue, ma la comunicazione è stata su un piano completamente diverso. Abbiamo avuto a disposizione molto più di quello di cui avevamo bisogno.

Tornando agli ultimi quattro mesi, abbiamo scelto l’assistenza domiciliare in casa, dove hai tutto a disposizione. So di essere una persona agiata, vivo in un appartamento grande, c’è tutto quello che ti offre la moderna tecnologia, non posso dire di essere povero, neanche di capire cos’è la povertà materiale. Quando, negli ultimi mesi, la malattia era arrivata alla testa, non c’era più la possibilità di beneficiare di tutta la tecnologia che avevamo, c’erano giornate intere in cui Daniela non parlava, ma comunicava. I nostri 19 anni di vita insieme sono serviti, perché con uno sguardo mi diceva: “Sparecchia la tavola”, “Ma non mi levi i calzini?” e le persone che venivano a trovare Daniela non trovavano una situazione disperata, ma una persona piena di vita, che trasmetteva vita vera, piena. Venivano intimorite e trovavano il suo corpo cambiato, gonfio per il cortisone, ma anche tutta la dignità, la personalità, l’umorismo di Daniela: il suo modo di interagire non era cambiato. Certo, invece di usare mille parole ne usava due e poi un sorriso profondo, grande e le persone ripartivano ricaricate. Io ho avuto la fortuna di assistere a questo prodigio, ho avuto la fortuna di non vivere questa cosa come brutale, ma di vivere una forma straordinaria di intimità. Ho avuto più intimità con Daniela, in questi quattro mesi di quando si faceva l’amore a letto, di quando ci siamo baciati le prime volte, perché era così forte la complicità e il modo di comunicare tra noi, che bastava un piccolo gesto di tenerezza per comunicare in profondità.

Adesso vi parlo dell’ultimo quarto d’ora. Avevo letto come Madre Teresa di Calcutta, una donna piccola, alta quanto Daniela, in India prendeva le persone abbandonate, in fin di vita, persone che non avevano più nessuno, e restava con loro l’ultimo quarto d’ora della loro vita e pensavo che quello che faceva fosse insignificante: mica salvava quelle persone! Dopo svariati anni è capitato a me. Avevo capito che rimaneva poco, pregavo Dio che mi desse la forza di stendermi sul letto vicino a Daniela. L’ho fatto e le ho parlato: l’accarezzavo e le dicevo: “Abbiamo fatto una vita stupenda, abbiamo avuto persone affianco che ci hanno voluto bene per quello che eravamo; hai dato un grande insegnamento di vita, piena, ricca a me e alle altre persone che ti incontravano; abbiamo avuto una vita così ricca che non sarebbero bastati cento anni, non abbiamo rimpianti, abbiamo partecipato alla vita malgrado la malattia. Daniela, puoi andare serena: hai lasciato a me e alle persone molto di più di quello che ti avevamo chiesto”.

Questa è stata un’esperienza gigantesca, un’esperienza di vita. Per me è stata anche un’esperienza di fede. Daniela mi ha messo addosso l’impronta della fede ed è una fede che va su strada, che va incontro alle persone, non rimane sulle cattedre, va verso la vita. Tuttora Daniela ha questa “espansione” verso le persone. Non bisogna aver paura della nostra fragilità, che può essere una malattia, il momento economico non favorevole, un momento difficile in casa. Non dobbiamo fermarci a combattere la fragilità, dobbiamo vivere quella fragilità, sapendo che non è un impedimento, ma un’occasione della nostra vita. Attraverso di essa ti si apriranno porte sconosciute. Ringrazio Dio per avermi dato questa possibilità, ringrazio Dio di avermi dato questa comunità ed oggi la presenza di Daniela è così forte che, quando vado a dormire, devo rimettere le scarpe nella scarpiera, abbassare le serrande e chiudere pure il gas… la presenza di una persona non deve essere necessariamente fisica. La presenza è ciò che rimane di lei dentro di te.

Il teatro come scuola tra poveri di Vania Castelfranchi

Io faccio il teatrante, faccio il laboratorio di teatro con il Centro di Salute Mentale di San Giovanni a Roma; però nasco dall’esperienza di Teatro Antropologico quindi in realtà noi facciamo il teatro in Amazzonia, in Africa, in Mongolia, nei posti dove il teatro è molto diverso e dove ha la funzione molto concreta, molto pratica per poter sfogare delle frustrazioni pesantissime che le popolazioni indigene dei vari paesi subiscono.

Ho portato quest’esperienza al Centro di Salute Mentale perché in qualche modo ogni realtà ha le sue pentole a pressione, posti dove la pressione aumenta e servono delle valvole di sfogo e il teatro è un’ottima valvola di sfogo, quindi in questo caso ho applicato gli strumenti che ho studiato in giro per il mondo con le popolazioni indigene, con i mattacchioni del Centro di Salute Mentale di San Giovanni.

La mia esperienza è molto semplice, il teatro è uno strumento che viene studiato e insegnato, in cattedra ci stanno i grandi maestri, ci sono dei dogmi che vanno seguiti, grandi insegnamenti e per fortuna, chi c’è passato come me, capisce che quasi tutto quello che è stato insegnato non ha nessuna concretezza e che il teatro è fatto di persone che lo vivono e che lo utilizzano come strumento per evolvere, per crescere, per capire le cose e per creare comunità, perché è un gesto fatto per il sociale: si fa in gruppo, serve per il sociale. Questa è la ragione per cui sono qui, l’intervento è semplicemente una testimonianza per dire che in questi anni ho sperimentato che tanto più uno incontra le persone nelle varie realtà e fa spettacoli come noi abbiamo fatto, più capisce che c’è un falso fatto da pochissimi nomi che sono rimasti, residui, sui libri di storia del teatro. In realtà l’atto del teatro è l’atto delle vite minuscole delle persone che lo fanno perché devono raccontare le proprie tragedie; è molto bello che le tragedie dei singoli siano anche le tragedie greche, perché ci rende partecipi di qualcosa di molto più ampio e, quindi, non vale il nome del grande attore più del tuo. Fondamentalmente, questa bellezza del mettersi in discussione ogni volta è riuscire ad entrare in questa elasticità mentale di non sapere nonostante sai, sai perché hai molta esperienza, ma continuamente lo rimetti in campo.

A me è capitato con popolazioni indigene, perché hanno dei canoni di pensiero, di psicologia, totalmente diversi dai nostri, hanno delle moralità diverse rispetto alla moralità occidentale. Devi continuamente rimetterti in discussione e riscrivere la grammatica di come parli, di come ragioni, di come ti muovi: questo è stato un grande insegnamento. Penso che questo è molto difficile perché c’è un’abitudine molto occidentale a voler costruire delle certezze che ti puoi portare in giro per proteggerti come con un’armatura. C’è una cosa che i greci mettevano in discussione attraverso la tragedia, i greci andavano tutti insieme a teatro per far crescere la civiltà, la democrazia e dicevano: è necessaria la catarsi, questo fenomeno per cui si riscrivono le regole tutti insieme, ogni volta per capire quello che ha funzionato e quello che non ha funzionato e bisogna riscrivere.

Nella nostra realtà si va pochissimo a teatro e le persone credono di avere delle regole definitive. questo fa si che con gli altri la comunicazione diminuisca tantissimo: C’è poco interessamento della diversità che è il luogo dell’apprendimento principale e tutto diventa molto omologato. Il mio lavoro in questi anni è diventato quello di spargere il virus della diversità e convincere le persone che non sanno, che per sapere bisogna per forza entrare nella condizione di profonda ignoranza, nel senso bello del termine, per dire che gli strumenti che ho non mi potranno mai bastare per capire la persona che ho al mio fianco. Ormai il nostro gruppo si rimette in discussione ogni volta che ci vediamo. La normalità è una complessità enorme della realtà. È molto importante che incontri come questo avvengano nelle scuole, nelle università, nelle piazze, nelle chiese, avvengano ovunque. Il teatro cerca di fare questo, di comunicare alla gente di non fissarsi su quello che conosce.

In Italia ci sono le piazze e noi abbiamo inventato questo fenomeno, un posto dove ci si incontra, ricchi e poveri, perché è li che la civiltà cresce: bisognerebbe ridirlo e amplificare questo concetto.

Interventi dei partecipanti

Vania Castelfranchi: Vorrei dire qualcosa attorno ad un popolo indigeno che vive in Brasile, i Guaranì attualmente un popolo minuscolo, chiuso in una piccola riserva, stanno occupando piccoli appezzamenti di terra abbandonati, appartenuti ai grandi fazenderos. Dopo aver fatto degli spettacoli per loro, gli chiedevamo: “cosa possiamo fare per voi quando incontreremo le autorità civili politiche?”. Non c’era acqua, non c’erano strutture e questo capo indigeno, Marcos Veron, assassinato 5 o 6 anni or sono, ci rispondeva: “Non ci serve niente, perché abbiamo la terra” e ci spiegava che quella terra era loro, era appartenuta ai loro padri che l’avevano lavorata e non avevano bisogno di nient’altro e proseguiva: “la terra è di chi se ne prende cura, di chi la lavora. Perché dovremmo chiedere il permesso per dormire qui o seminare il mais in un terreno totalmente abbandonato?” Ci portò in un cimitero indigeno e mostrava le sepolture, effettuate sui terreni da loro lavorati, o tra le piante fatte crescere: “La terra non si può acquistare senza essersene presi cura, diventa tua solo se la lavori”. Quest’incontro mi ha spinto a riflettere sul senso di appartenenza-proprietà: “Qualunque cosa ci appartiene solo se ce ne prendiamo cura”.

Suor Lucia Sacchetti: questa mattinata aderisce perfettamente al tema: “scuola tra poveri”. Anche l’ambiente, i volti tutti importanti, ma modesti e questo mi piace. Sono convinta che la grandezza è qui in questa modestia. Tutte le testimonianze, una diversa dall’altra, sono state rese nella condizione di poveri: penso a Franca e Carlo, che vanno e donano, li ho sentiti poveri; ma anche in Vania, il teatrante, una condizione che aderisce al povero che incontra. Devo dire semplicemente grazie, perché a volte si usano i poveri per la propria carriera. Tante volte, anche quando si dice di lottare per i poveri, non fanno crescere i poveri. Credo importante moltiplicare le piazze, queste “piazze” luoghi di incontro, di confronto. Qui ci troviamo dentro alla fatica umana e dentro la bellezza dell’umanità.

Marie Claire Safari: Mi volevo allacciare al discorso sulla psichiatria perché anche io ho avuto un esperienza: c’è mia cugina che è una sopravvissuta del Rwanda che vive con noi con un figlio ed è seguita da un centro psichiatrico a San Paolo. Come infermiera e come parente, ho potuto constatare che accettare la malattia è difficile, la malattia psichiatrica fa paura. Quando abbiamo assistito mia cugina per una settimana, lei stava proprio in crisi e stava mentalmente nel ’94, era il 2005 ma lei scappava da queste milizie che la venivano a ammazzare nel 2005. Noi ci siamo prima spaventati molto, non sapevamo a chi rivolgerci perché pensare di andare in un servizio psichiatrico ci faceva paura. Alla fine abbiamo preso una decisione: abbiamo prima provato a dargli tutte le gocce immaginabili ma non facevano effetto ed alla fine ha dovuto fare una terapia di ricovero per tre mesi in un reparto di psichiatria con dei farmaci molto forti. Quando ci siamo resi conto della malattia e di dove ci trovavamo è stato difficile. Abbiamo anche preso coscienza di questa difficoltà. Essendo infermiera, quando andiamo al centro diurno, riesco a relazionarmi con gli psichiatri, gli psicologi e gli infermieri ma è difficile entrare in questa realtà perché la malattia psichiatrica fa paura e quindi dobbiamo parlarne spesso. Perché tante persone scappano a contatto con questa realtà in quanto avere la testa che non ti accompagna è veramente una tragedia e vivere con una persona con un disagio psichiatrico è difficile. Non si sa neanche come aiutarla perché a volte non si sa neanche a chi rivolgersi in quanto tanti servizi non svolgono neanche quel minimo che potrebbero fare. Noi siamo riusciti come associazione a produrre un CD audio, che ho dimenticato di portare, e lavorare con questi ragazzi è stata una ricchezza innanzitutto per me e anche per la mia famiglia e i miei figli. Loro hanno imparato ad accudire mia cugina, sapendo che lei prendeva i farmaci: erano loro che dovevano stare attenti a lei, a ricordarle di prendere i farmaci. Ora è indipendente e li prende da sola. Però mi ricordo che i miei figli mi chiedevano “ma ti sei ricordata di chiederle se ha preso i farmaci?”. Perché vedevano che quando prendeva i farmaci stava bene e non avevano più paura di lei come quando è stata in crisi. Ho visto che questa esperienza è stata veramente un valore nella nostra famiglia. Ho avuto due conferme a scuola con i miei figli in quanto sono bambini capaci anche di confrontarsi con altri bambini con difficoltà. C’è il secondogenito che è convinto di riuscire a parlare con un compagno che è autistico e io sono sicura che lui ci parla perché lo accompagna, lo sente e riesce a comunicare con lui nonostante la maestra di sostegno non riesca a dirgli quello che deve fare. Quando questo ragazzo sta con James, la maestra mi ha confermato che il bambino è tranquillo, si sente ascoltato, si sente che comunica. Questo è stato per me il diploma più grande che posso avere come mamma. Non c’è prezzo. Anche Ettore, il più grande, aveva anche lui un bambino autistico nella sua classe e quando dovevano fare il cambio dell’ultimo anno, in quinta la maestra di sostegno mi ha chiesto il permesso che Ettore andasse vicino a questo bambino. Questo succede perché James e Ettore sono bambini che hanno vissuto il disagio e quindi riescono a capire come aiutare gli altri. Quello che chiedo a tutte le persone, a tutte le mamme, è di far fare anche queste esperienze ai figli: ci troviamo di fronte a una paura più grande di noi e per non affrontarla uno scappa e l’altro si sente abbandonato. Il consiglio che posso dare è di accogliere anche questi disagi e queste difficoltà.

Un’altra testimonianza che posso dare è che adesso lavoro in oncologia e vedo momenti difficili per le famiglie e per i pazienti quando ricevono questa diagnosi. Per me questo ha cambiato anche la mia vita di tutti i giorni perché adesso apprezzo ogni giorno, ogni secondo, ogni ora della mia vita in quanto devo dare l’esempio.

Quello che ricevo dai miei pazienti veramente è grande. Mia suocera è venuta a mancare a causa di un tumore, però mi ricordo che quando andava a fare la terapia diceva sempre “speriamo che trovo quell’infermiere che non mi fa male per trovare la vena”. Quando mi hanno trasferito avevo paura perché in tutte le persone vedevo mia suocera. Quindi cercavo di essere talmente delicata e di accoglierli perché ci vedevo lei. Anche adesso cerco di fare del mio meglio per farli sentire a loro agio chiamandoli per nome e suscitando il loro stupore. Dico loro che sono più parenti dei miei parenti che stanno in Africa perché li vedo una volta a settimana mentre mia mamma che vedo una volta l’anno è lontanissima. Si crea così questo contatto che è essenziale per chi soffre.

Luigi Mochi Sismondi: Abbiamo vissuto molte esperienze profonde ed è stata una mattinata molto ricca. Forse il “principio unificante” dei vari interventi è l’attenzione ad ogni persona: l’attenzione al pastore analfabeta che diventa il nostro maestro; attenzione alla persona che sta soffrendo e sta nel reparto oncologico; attenzione alla persona che ha difficoltà nella vita a causa del disturbo mentale; attenzione al povero perché siamo tutti poveri; attenzione a un sorriso, come diceva Nicola, che è espressione di tutta una vita. E tutto questo, se noi riusciamo a capire che non c’è persona al mondo che non sia il volto di Dio, il volto di Dio appare nella persona e, più la persona è considerata poco importante nella società, più lì sta il volto di Dio.

Nota di servizio: anche questa lettera è stata spedita al nostro indirizzario. Chi si trovi inserito senza desiderarlo ci scusi, basta una comunicazione e provvederemo a cancellare l’indirizzo. Chi invece viene a conoscenza di questa lettera e vuole riceverla ce lo faccia sapere. Come sempre sono gradite segnalazioni di indirizzi di persone interessate. Come sapete non prevediamo un abbonamento per ricevere questa nostra lettera in modo da non limitarne la diffusione, le spese di stampa e di spedizione infatti sono contenute. Ogni partecipazione a queste spese sarà comunque gradita, il nostro Conto Corrente Postale è il 45238177 intestato a Francesco Battista

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  1. L’avevamo pubblicata già nella Lettera 22 del Febbraio 2012. La storia e le parole di Meheretu Salomon sono state pubblicate in un libretto “Sapienza di un pastore analfabeta” a cura dell’Hanseanians’ Eritrean-Ethiopian Welfare Organization. ( H.E.W.O.) e a loro, anche nostro tramite, si possono richiedere informazioni