Lettera 28 (Prima Serie)

 

Cari amici

in questo numero de “la tenda” ci occupiamo della professione forense. Con questa piccola ricerca vorremmo avviare una riflessione sui mestieri e sulle professioni più diffusi e che meglio concorrono a definire la fisionomia della nostra città. Ci spinge ad aprirci a questa problematica la consapevolezza che, specie in una società in rapida trasformazione come l’attuale, occorra fare uno sforzo deciso per abbandonare i sentieri abituali e per sperimentare ipotesi e valutazioni nuove nell’organizzazione della vita sociale, se si vuole costruire un mondo a misura d’uomo. Ci sentiamo perciò impegnati ad aiutare gli amici ad analizzare più attentamente la realtà e lo faremo ospitando la riflessione e le testimonianze di tutti coloro che vorranno raccogliere il nostro invito. Questa volta esaminiamo il mondo della giustizia dall’angolo visuale dell’avvocato; in seguito ci auguriamo di poter arricchire il dialogo con il contributo di qualche magistrato. Ci sembra che da questa documentazione venga fuori abbastanza chiaramente, in consonanza del resto con tutto il pensiero cristiano, l’invito a coloro che vogliono dare un significato di servizio alla loro professione di avvocato ad uscire dal ghetto di un esasperato individualismo ed a prendere coscienza delle implicazioni sociali della professione stessa. Siamo coscienti che si impongono anche chiare trasformazioni strutturali (da una più seria regolamentazione del gratuito patrocinio a forme di socializzazione della prestazione legale per tipi di vertenze – cause di lavoro, infortunistica, ecc. – che si caratterizzano sempre più per la loro dimensione quantitativa) previo un coraggioso studio di queste possibilità. Riteniamo tuttavia che ciò sarà possibile solo se ci saranno persone che sapranno lottare contro lo spirito di casta e che si sforzeranno di realizzare quei valori popolari contenuti nella nostra Costituzione. Fraterni saluti.

Gli amici de “la tenda”

 

Ripensiamo Il Significato Della Professione Forense.

Le trasformazioni in atto nella società non potevano non avere ripercussioni anche su una professione di antiche origini e tradizionalista come quella forense.

Uno sguardo appena attento può rilevare facilmente la grossa gamma di cambiamenti che in essa si sono verificati e tuttora si stanno verificando.

Vediamone insieme i più rilevanti:

a) La caduta di alcune barriere di ordine sociale ed economico ha operato dei cambiamenti nella tradizionale composizione sociologica del corpo forense aumentando però, nel contempo, il numero dei legali che, non potendo contare sulle tradizionali basi di partenza costituite dall’eredità di uno studio avviato, dall’ esistenza di solide e fruttuose relazioni sociali nella famiglia d’origine o su di un patrimonio famigliare atto a coprire i rischi della professione, hanno da risolvere, specie nei primi anni, notevoli problemi di natura economica.

b) La crescita abnorme del numero degli avvocati, assolutamente eccessivo, specie in determinate zone, rispetto agli effettivi bisogni della collettività. Va però subito precisato che in questa valutazione non si è tenuto conto delle molte aspettative (gratuito patrocinio, assistenza ai non abbienti) che tuttora rimangono insoddisfatte.

c) Nascita e sviluppo accelerato di nuove branche di attività legali basate più sulla quantità che sulla qualità degli interventi, con conseguente scadimento della preparazione professionale e quindi della tutela offerta.

d) Aumento del lavoro di routine che, nelle grandi città come Roma, a causa delle distanze tra i vari uffici interessanti l’attività legale, comporta un dispendio di tempo e di energie del tutto sproporzionato rispetto all’attività da svolgere; tempo ed energie che vengono sottratte allo studio delle questioni ed alla preparazione culturale in genere.

e) Un tirocinio sempre più scadente per i giovani che si avviano alla professione, fatto più di attività pratiche (disbrigo del lavoro di cancelleria, partecipazione ad udienze assolutamente insignificanti) che di studio e di riflessione.

f) La durata dei procedimenti giudiziari così lunga che, quando la sentenza sopraggiunge, le parti spesso non vi hanno più interesse.

g) Il costo delle procedure assolutamente eccessivo, per cui il ricorso alla giustizia è per molti ancora un lusso da non potersi permettere.

A questi cambiamenti per così dire “oggettivi”, non potevano non accompagnarsi cambiamenti soggettivi, cioè del modo di essere e di esercitare la professione degli avvocati.

Da un punto di vista esteriore si può subito dire che alla figura dell’avvocato un po’ genio e un po’ diavolo, signore di censo e di abitudini, spesso trombone, ma talora anche capace di generose e sincere impennate, ormai del tutto scomparsa, si è andata sostituendo quella appiattita del tecnico del diritto costretto a recuperare nell’efficientismo sobrio e nel conseguimento di certi risultati pratici, se non il prestigio perduto, perlomeno i vantaggi economici un tempo sicuramente conseguenti all’ingresso nella classe forense.

Più rilevante, specie per i nostri fini, è però il cambiamento che riguarda l’ indipendenza dell’avvocato. E’ ovvio che quando qui parliamo di indipendenza non ci riferiamo a quelli che ne sono gli attributi secondari – come la mancanza di orari o di direttive di lavoro imposte da altri, o la libertà da ogni apparente vincolo di subordinazione, anche se in fondo sono questi i soli connotati secondo cui l’opinione pubblica definisce “libera” la professione dell’avvocato – né ci riferiamo tanto alla possibilità di agire liberi da coercimenti esterni, quanto piuttosto a quella di disporre in modo originale e indipendente i rapporti fondamentali del vivere, alla facoltà di orientare le proprie azioni secondo comandi provenienti da se stessi. Ed è anche ovvio che quanto diremo riguarda coloro che si sono avviati alla professione senza quattrini o proficui appoggi.

Il discorso sull’ indipendenza così intesa ci sembra essenziale per chi, come noi, intenda esaminare la realtà allo scopo di vedere se e quali ostacoli incontri nel contesto in cui dovrebbe collocarsi l’attività di chi voglia essere cristiano anche nei fatti, nei comportamenti concreti di ogni giorno.

Prima, tuttavia, di affrontare questo discorso, vogliamo ancora premettere qualche dato di fatto che, insieme a quelli più sopra elencati, meglio varrà a caratterizzare la situazione qui a Roma.

A Roma gli avvocati e i procuratori legali iscritti agli albi professionali sono circa 6.000, quasi quanti ne esistono in tutta la Francia! Anche se non tutti gli iscritti esercitano effettivamente la professione, il numero resta però sempre assai elevato, eccessivo comunque per una città praticamente priva di industrie e tagliata fuori dalle correnti dei grandi traffici economici.

Per contro il contenzioso, cioè l’insieme dei procedimenti pendenti avanti gli uffici giudiziari, è qui a Roma costituito prevalentemente dalle procedure esecutive, cioè dirette al recupero dei crediti, i quali sono poi spesso di entità modestissima, dalle cause di lavoro e da quelle relative ad incidenti stradali. E’ appena il caso di sottolineare che i primi due tipi di procedimenti sono caratterizzati quasi sempre dalla stato di disagio economico di una delle parti in conflitto: il debitore nel primo caso, il lavoratore nel secondo.

Beninteso, una città di oltre tre milioni di persone “produce” inevitabilmente anche questioni e liti di altro genere (in materia di obbligazioni e contratti, di proprietà), ma la clientela, anche in questi casi, non facente parte di un apparato produttivo di rilievo, è quasi sempre occasionale e non offre all’avvocato alcuna garanzia di futura collaborazione.

C’è infine da osservare che gran parte del lavoro più qualificato finisce per confluire quasi esclusivamente in pochi studi di ampia notorietà.

In conclusione, ad un eccessivo numero di professionisti, fa riscontro un contenzioso, cioè una possibilità di lavoro, non certo ricca né quantitativamente, né qualitativamente. Ciò provoca uno stato di permanente insicurezza, specie nei primi anni di professione, ed una inevitabile concorrenza nociva per l’indipendenza, intesa nel senso anzidetto, sia nei rapporti con i clienti che in quelli con i giudici ed i colleghi, cioè su tutto l’arco dei rapporti nei quali si esaurisce l’attività dell’avvocato.

Circa i rapporti con i clienti, è naturale che in una situazione del genere la ricerca e la conservazione della clientela diventino la principale preoccupazione dell’avvocato alla quale ogni altra esigenza finisce per essere subordinata.

L’esistenza di un fenomeno come quello dell’intermediazione, cioè il ricorso a procacciatori fissi od occasionali di clienti ne è la dimostrazione. Non si spiegherebbe altrimenti come a farvi ricorso non siano alcuni avvocati soltanto, ma un notevole numero di essi, se è attendibile – come attendibile sembra a causa della sua fonte – l’indicazione di una inchiesta svolta alcuni anni or sono fra gli stessi avvocati, secondo la quale, per l’80% degli intervistati, l’intermediazione è un fenomeno sicuramente esistente e, secondo molti di essi, così diffuso da interessare non meno del 20% degli studi legali dei rispettivi distretti di appartenenza. Non può esservi dubbio che solo uno stato di effettiva insicurezza possa indurre l’avvocato ad assicurarsi lavoro futuro mediante procacciatori di clientela prezzolati (questurini, agenti di custodia, infermieri, carrozzieri, ecc.) o nei confronti dei quali (politici, ecclesiastici, burocrati) l’avvocato è costretto ad assumere obblighi e doveri, ad instaurare comunque una dipendenza di altra natura (come l’assistenza gratuita in pratiche personali del procacciatore, l’appoggio presso autorità od enti, ecc.). (Cfr. G.P.Prandstraller “Gli avvocati italiani” Milano 1967 pag. 85 e seguenti).

Ma anche indipendentemente da questo avvilente fenomeno, la necessità per l’avvocato di non perdere mai di vista nel bilancio della sua attività la voce incremento-decremento clientela si traduce in un perenne condizionamento dei suoi comportamenti, al punto da rendergli spesso impossibile o di rifiutare certi incarichi o di non accettare certi clienti o di non assicurare un certo tipo di assistenza. Ci sono cause dal chiaro scopo vessatorio, il cui esito negativo è già chiaramente scontato in partenza, che nessun avvocato accetterebbe di patrocinare se potesse rimanere del tutto indifferente di fronte alla perdita del cliente. Anche queste cause, invece, vengono sostenute e portate avanti sia pure al limitato scopo di ritardare al massimo la sentenza, poiché, per molti clienti questo è già un risultato pratico di grande utilità. Basti pensare alle Compagnie di Assicurazione per le quali è un profitto non indifferente il lucrare la differenza tra gli interessi legali che pagheranno al momento della condanna e quei ben più cospicui interessi che le somme poi pagate hanno fruttato finché sono rimasti nelle loro mani. Ci sono altre cause poi, parimenti perdute in partenza, in cui la resistenza passiva di una parte, oltre al vantaggio economico qui sopra accennato, mira a conseguire un altro risultato: quello di costringere l’avversario, specie se assillato dal bisogno come quasi sempre accade nelle cause di lavoro, a preferire un’ immediata transazione svantaggiosa piuttosto che aspettare per anni l’esito del giudizio.

Questo stato di cose non è certo l’avvocato a determinarlo, anche se non si può negare che il suo comportamento contribuisca a mantenerlo invita. A ben guardare, però, l’avvocato ne è lui stesso vittima, non potendosi sottrarre, pena la sua sopravvivenza come professionista, alla logica di un sistema in cui le valutazioni non hanno altro metro che quello dei risultati pratici ottenuti, del profitto fatto conseguire. Per contro, l’avvocato imprenditore di se stesso, che della libera impresa fa proprie le leggi economiche della produzione e del profitto, mentre è indotto a curare sempre meglio gli interessi degli abbienti, trascura sempre più quelli dei non abbienti, alle cui esigenze finisce per diventare, per desuetudine, ottusamente chiuso, incapace di capirle, ideologicamente ostile. Nella migliore delle ipotesi si libera la coscienza con qualche sporadica assistenza gratuita dalla quale esce corroborato, tranquillizzato e quindi indotto a persistere nelle scelte di sempre.

D’altro canto anche se l’esigenza di giustizia è spesso ben più viva dietro la modesta pretesa dell’umile che non dietro il grosso affare del potente, l’avvocato sarà indotto a farsi portatore di quest’ultimo interesse non soltanto per i vantaggi economici immediati, ma anche per il credito e la notorietà che la cosa gli procurerà presso giudici e colleghi. Ci sono avvocati che quando sono costretti a trascinarsi in tribunale clienti dall’aspetto dimesso sgaiattolano frettolosamente per i corridoi magari precedendoli di qualche passo, mentre ostentano un incedere lento e pontificale allorché sono in compagnia di clienti dall’aspetto facoltoso e importante; l’apertura umana in certi avvocati arriva al punto che esistono studi con due distinte sale di attesa combinate in modo che i clienti dell’una non possono incrociarsi con quelli dell’altra.

Questi, ovviamente, sono aspetti paradossali; certo è che all’avvocato, in genere, resta estranea una larga fascia della realtà umana e sociale, con tutte le sue esigenze e i suoi fermenti. Non è a caso che l’affermazione di aspettative a carattere elettivo e la loro trasformazione in diritti avvenga senza concorso di questa categoria cui spetterebbe, non fosse altro per la specifica competenza tecnica, di farsene promotrice.

E’ invece una necessità per l’avvocato affinare la sua preparazione avendo di mira quasi esclusivamente un ben determinato tipo di interessi, di natura individualistica, che sono quelli della tradizionale clientela, e dei quali dovrà fare da mediatore. Ogni elaborazione, ogni ricerca in direzione di valori opposti, dei quali pure è ricca la nostra costituzione e che quindi già sono recepiti, sia pure a livello di principio nel nostro ordinamento giuridico, non desta alcun interesse pratico nella classe forense perché, non potendosi tradurre in attività concrete, rimarrebbe sterile sul piano professionale.

E’ anche per questa ragione di fondo che dottrina e giurisprudenza, mentre sono ricchissime in materia di libera acquisizione della proprietà, di libertà di iniziativa economica, o di libertà di concorrenza, quasi nulla hanno elaborato in materia di limiti a tali libertà, limiti ai quali corrispondono altrettanti diritti collettivi.

La battaglia contro l’inquinamento, ingaggiata da alcuni magistrati, ha colto di sorpresa gli ambienti forensi, allo stesso modo che con aperta ostilità è stata accolta da molti avvocati una recente normativa che, avendo per scopo una concreta tutela della dignità umana, ha sottratto alla possibilità di pignoramento una serie di oggetti casalinghi assolutamente indispensabili per qualsiasi forma di vita appena di un grado al di sopra del livello bestiale.

Nessuno poi si meraviglia se è ritenuta perfettamente lecita, nelle società commerciali, la tenuta di doppi bilanci (uno, quello vero, per uso interno ed un altro, assai meno sincero, ad uso del fisco), o se il furto di qualche mela sia punito con i rigori della galera, mentre la mancata corresponsione del salario al proprio dipendente è un semplice illecito civile.

Certo non si può far carico esclusivo agli avvocati se le cose stanno a questo modo. E’ però un fatto incontrovertibile che l’avvocato, dopo alcuni anni di attività, entra in una spirale senza uscita. Egli è indotto inizialmente a optare per un tipo di clientela che sia in grado di rendere più sicuro il suo lavoro, e quando ha raggiunto un minimo di sicurezza si trova a così strettamente dipendere da questa clientela, da doverne subire prima e assorbire poi le scelte, i criteri, l’ideologia.

Egli perde in definitiva quella funzione di critica, di stimolo al rinnovamento delle leggi, che gli dovrebbe essere propria.

Al Procuratore generale di Roma, il quale enfaticamente assicurava che “quando sembra che attorno a noi crollino i valori di solidarietà umana… è la giustizia pacificatrice che riporta l’ordine nel mondo e la tranquillità degli spiriti”, ribatte realisticamente la Corte di Cassazione con una sentenza in cui si afferma che “un comportamento contrario ai doveri di lealtà, di correttezza e di solidarietà sociale non può essere reputato illegittimo… quando non concreti la violazione di un diritto altrui già riconosciuto”. Queste parole stanno a dire semplicemente che quei valori di solidarietà umana non hanno premuto con sufficiente forza per trasformarsi in diritti pienamente tutelati. Ma quante volte gli avvocati hanno lasciato cadere l’occasione per farsene portavoce?

Vediamo ora il rapporto tra avvocato e giudice.

Le ragioni che or ora abbiamo visto inducono l’avvocato a vedere nel giudice null’altro che un obbligatorio interlocutore dal quale soltanto dipende, in definitiva, il risultato del suo lavoro. Il suo atteggiamento nei confronti del magistrato anche se velato da una cordialità esteriore ed ufficiale è quasi sempre di diffidente prudenza; e ciò non favorisce certo una apertura sul piano umano. Anche perché il giudice lo ripaga, a sua volta, con eguale moneta ritenendolo spesso un inutile se non dannoso intermediario. Se si aggiunge poi che l’opinione pubblica guarda con sospetto ad ogni rapporto tra giudici ed avvocati che non sia quello formale dell’udienza, nessuno si stupirà più se anche dopo anni di incontri quasi quotidiani, giudici ed avvocati rimangano estranei gli uni agli altri.

Il contrasto tra questa affermazione ed il fatto che giudici ed avvocati vivano ogni giorno la stessa realtà e gli stessi problemi è solo apparente. Infatti, un terreno d’incontro esiste, ma non è quello, come si sarebbe indotti a pensare, della realtà viva nei cui risvolti c’è la sofferenza, l’inganno, l’ingenuità, l’astuzia, la violenza, l’ignoranza, la fatica, in una parola la verità delle cose umane, che pure hanno tra le mani; il terreno d’incontro è l’astrattezza di un fatto stravolto, deformato nei suoi reali connotati umani, ridotto – cioè – a fattispecie: l’astrattezza della formula di legge che a questo punto vi si può applicare.

Il vuoto formulismo, il distacco tra mondo reale e mondo delle leggi che ormai molti riconoscono e denunciano come i mali più profondi della nostra giustizia, cominciano a nascere nelle aule di giustizia, ove giudici ed avvocati, gli uni e gli altri ugualmente premuti da esigenze… produttivistiche, sono costretti a filtrare la realtà per ricavarne quegli aspetti più agevolmente riconducibili ad una formula legislativa. Sempre più astraendo, in un progressivo concettualismo di cui in scritti e sentenze si trova un ricchissimo campionario, vien data vita ad un mondo chiuso con un suo proprio linguaggio, fatto solo per adepti, che finisce per servire solo a se stesso e nel quale la giustizia, già declassata a diritto, riduce a vuoto legalismo.

Stando così le cose è perciò perfettamente normale che il Procuratore Generale, intervistato alcuni anni fa alla televisione, a proposito di un clamoroso errore giudiziario (un uomo condannato all’ergastolo per l’uccisione del fratello, dopo vari anni di galera era risultato del tutto innocente per il semplice fatto che questo fratello era tuttora vivo e vegeto) si mostrasse assai più preoccupato dell’istituto del giudicato (cioè di quella costruzione giuridica che per esigenze di “certezza” vuole intoccabile una sentenza definitiva) che non della necessità di dare pronta riparazione a tante sofferenze ingiustamente inflitte. Né stupirà se, di argomentazione in argomentazione, un gruppo di magistrati, pochi mesi fa, si trovò tutto d’accordo – come confidava allibito uno di essi – sulla necessità di restaurare la pena di morte. E a quanto ammonterebbe il conto, se lo si potesse tenere, degli anni di galera inflitti ingiustamente con sentenze tecnicamente ineccepibili, ma nelle quali non aveva trovato spazio alcuno la necessaria valutazione di quella realtà che abbiamo appena detto; o quello delle sofferenze umane d’ogni genere conseguenti a contese giudiziarie che avrebbero potuto essere evitate sol che gli avvocati avessero avuto di mira, più che le astratte possibilità legali del caso, l’esigenza di sostanziale giustizia?

L’elencazione delle aberrazioni di questa alienata e alienante giustizia potrebbe continuare a lungo, ma non vogliamo abusare della pazienza di chi ha voluto seguirci fin qui. Gli chiediamo invece di voler leggere e riflettere sulle due sentenze che pubblichiamo in appendice; esse danno chiara l‘idea di un doppio modo di intendere la giustizia: freddo, burocratico, astratto quello di chi si preoccupa soprattutto di restaurare l’ordine violato e quello scarno di dette elucubrazioni, ma pregno di contenuti e con il quale la giustizia finisce d’essere un’aspirazione che può appagarsi soltanto in una dimensione metafisica, ma è un fatto che si colloca nel reale, che si fa a misura dell’uomo. Purtroppo le sentenze di quest’ultimo tipo sono assai rare e quella del Tribunale di Ferrara che qui pubblichiamo è addirittura unica.

Non sembri fuori luogo se, a conclusione di un discorso sugli avvocati, vengono pubblicate delle sentenze. Esse sono opera esclusiva dei giudici solo nel senso che questi materialmente le stendono. I loro contenuti intrinseci dipendono invece, o dovrebbero dipendere almeno in parte, dall’opera svolta dagli avvocati.

Quanti di costoro si lamentano del vuoto formalismo di tante sentenze dovrebbero chiedersi quanto di questo stato di cose dipende da loro.

Gli avvocati hanno i giudici che si meritano.

Se la giurisprudenza è di un tipo piuttosto che di un altro, ciò non è avvenuto senza la collaborazione o, quanto meno, l’acquiescenza degli avvocati. Sono questi che rappresentano al giudice la realtà, che ne sottolineano taluni aspetti piuttosto che altri, che hanno la possibilità di far entrare nelle aule della giustizia i fermenti nuovi, le esigenze, da tempo trascurate, di tanta parte dei cittadini e di insistere fino a che una certa mentalità, aristocraticamente arroccata su posizioni ostili ad ogni rinnovamento, cambi.

La pubblicazione delle due sentenze vuole perciò essere un esempio di due opposti modi di rendere giustizia, la cui scelta, per ragioni anzidette, spetta anche agli avvocati.

Nonostante quanto sin qui detto, noi non crediamo di doverci rassegnare a constatare questa situazione, che trova giudici ed avvocati chiusi nel loro isolamento di gelosi custodi dell’ordinamento giuridico i primi, e di tutori di ben determinati interessi privati i secondi. Un dialogo tra queste due categorie può essere avviato e può essere determinante per un cambiamento, non soltanto formale, nella misura in cui si prenda coscienza della realtà attuale e della necessità di riscoprire i valori umani e sociali del rendere giustizia ed a condizione che i giudici abbiano il coraggio di abbandonare, per dirla con le parole del Procuratore Generale di Venezia (discorso inaugurale dell’anno giudiziario 1970-71), “quella configurazione quasi sacrale del giudice, chiuso nella cosiddetta torre d’avorio e al di fuori e al di sopra dei sentimenti, delle concezioni che agitano la società” e si convincano invece che “il giudice… agisce nel nome del popolo italiano” e che pertanto “egli deve vivere uomo tra gli uomini del suo tempo per meglio interpretare le esigenze, le tendenze, i sentimenti della società nella quale vive”; ed a condizione che gli avvocati “si pongano con realismo il problema di una diversa loro collaborazione professionale, in una realtà in cui la domanda tradizionale di mediazione di interessi borghesi viene diminuendo e si inserisce una ancora potenziale, ma indubbiamente larga domanda di assistenza da parte di ceti popolari” (dalla relazione di magistratura Democratica nella “Giornata della Giustizia” del 16.1.1971).

La cosa non è certo facile né agevole, specie se si considera che anche tra di loro gli avvocati sono degli isolati. Come categoria, quella degli avvocati, infatti, non esiste altro che per vincoli esteriori e formali; nessun altro interesse se non quello della protezione di alcune residue prerogative può infatti accomunare un gruppo di persone la cui attività ed i cui interessi sono tutti di tipo individualistico.

E’ dunque difficile aspettarsi, oggi, dagli avvocati – come categoria – che si facciano portatori, in forma collettiva e unitaria, di concezioni di importanza generale o che costituiscano un gruppo di punta in fatto di idee innovatrici. Ma il discorso può certamente essere avviato. E questo lungo parlare altro non voleva essere che una proposta in tal senso, un invito all’avvocato a riconsiderare senza pietosi infingimenti o falsi pudori, la realtà della sua professione. A cominciare proprio dall’aspetto “indipendenza”.

Forse anche quest’ultimo “sicuro pregio” della professione – come da molti è ancora ritenuto – potrebbe risultare nulla più che un simulacro il cui sacrifico non sarebbe poi così grave se potesse servire a ridare ad un’ attività la dignità delle cose fatte in accordo con la propria coscienza.

APPENDICE

1° caso . Tribunale di Bologna, 5.10.1968, Presidente Chillemi, estensore Trizzino:

All’odierno dibattimento l’imputato ha ammesso di essere l’autore della lettera ed ha spiegato le ragioni in base alle quali si è determinato a scrivere la frase incriminata.

Ha dichiarato, infatti, che poiché “I Magistrati considerano colpevoli gli imputati, senza rendersi conto che la loro unica colpa è di aver avuto genitori non buoni e di essere cresciuti in ambienti non sani” appunto perciò ha parlato di ignoranza, giacchè a suo parere i Magistrati non sono in grado di capire ciò che avviene nel mondo dei criminali, anche se hanno studiato…

  • Corte d’Appello di Bologna, 13.3.1970, Presidente Testoni, estensore Cappuccio:

Non può essere innanzitutto revocata in dubbio la potenzialità offensiva della frase contenuta nella lettera diretta al Magistrato, persona offesa.

L‘appellativo di “ignorante”, quale che sia il significato filologico o comune, nel quale esso sia stato usato nella lettera, è innegabilmente lesivo della Autorità e della dignità che legittimamente ogni Pubblico Ufficiale riconosce che alla sua persona derivi, nella considerazione altrui, dalla investitura e dall’esercizio della pubblica funzione.

Invero, in tema di illeciti penali, che si concretano in fatti espressivi, occorre far sempre capo ad un sicuro criterio interpretativo elaborato dal pragmatismo giudiziario, criterio secondo il quale, i fatti espressivi, una volta formulati, acquistano sagoma e contorni la cui caratterizzazione esterna e la cui potenzialità lesiva si ancorano istantaneamente alla rappresentazione oggettivata che se ne foggi la media dei destinatari di essi, nel mentre si sganciano non meno istantaneamente dalla rappresentazione che se ne sia foggiata, o interiormente abbia supposta, l’autore dei fatti medesimi.

Orbene, attiene proprio alla rappresentazione oggettivata di chiunque ascolti o legga l’espressione “ignorante”, diretta da un pubblico ufficiale, una carenza di requisiti riconosciuti dalla media degli uomini quale indispensabile corredo di ogni persona cui sia affidato il “munus pubblicum”.

Nel caso di un magistrato, di un appartenente cioè ad un Ordine, cui la generalità dei cittadini commette la esplicazione di una delle più alte idealità umane, quale quella dell’amministrazione della Giustizia, perché l’esercizio del diritto di critica non deve discompagnarsi giammai da quelle dorme di rispetto dell’altra persona o dell’altrui funzione, che rappresentano inalienabili acquisizioni della civiltà umana e cardini fondamentali della armonica convivenza in seno al consorzio umano.

Non può, dunque, pensarsi, nel caso del Forghieri, né a legittimo esercizio di un diritto sanzionato dalla Costituzione, né a una sua apprezzabile convinzione in proposito, sicché il dolo, che è meramente generico, e che, data la peculiarità del caso, potrebbe addirittura essere ritenuto in “re ipsa”, si profila chiaramente nel cosciente e volontario uso di una espressione, cui generalmente e notoriamente e riconosciuta una valida idoneità offensiva.

Parimenti indubbio è il nesso causale intercorrente tra la espressione e la funzione del Magistrato, funzione della quale si contestano nella lettera il metodo ed il valore dell’indagine e dei giudizi.

La circostanza, però, che l’imputato non conosceva di persona il magistrato cui ha indirizzato la lettera offensiva, e l’atteggiamento spirituale dal quale è promanata l’offesa, possono essere apprezzate con equanimità, quali motivi per una mitigazione della pena.

Alla stregua di queste considerazioni, la Corte ritiene di affermare, in riforma dell’impugnata sentenza, la responsabilità del Forghieri Fiorenzo, e di condannare questi in applicazione dei criteri dettati dall’art. 133 c.p. al minino della pena di mesi sei di reclusione, che si riducono a quattro per le concessioni delle circostanze generiche attenuanti su indicate.

La Corte ritiene, altresì, che la personalità dell’imputato dia ragionevole affidamento di sapere evitare una ricaduta nel delitto e, pertanto, sospende condizionalmente la pena inflitta, orinandone la non menzione nel certificato penale a richiesta di privati.

2° caso – Tribunale di Ferrara, 10.7.1970, estensore Trambaiolo.

Il presente processo è uno dei più dolorosi che dei giudici possano mai celebrare.

Inoltre, alle origini del processo stesso esiste una vicenda umana, quella di Giancarlo Carlini, dalla quale è scaturita una selva di incriminazioni, a carico del medesimo Carlini, che hanno dato luogo a processi pendenti davanti a numerosissimi Tribunali (oltraggi, calunnie, ed altro).

L’attuale processo non è che un frammento minimo della complessa e penosissima vicenda.

Perciò, il Tribunale si sente in dovere di tracciare un quadro sintetico, ma completo, del calvario del Carlini, quale risulta dagli atti di causa.

Il Carlini, uomo sano, vigoroso, sufficientemente istruito (aveva frequentato le scuole medie superiori – liceo classico e scientifico – senza, per altro, terminarle) volenteroso ed intelligente artigiano orefice, marito e padre felice veniva colpito da una spaventosa sciagura il 6 di aprile del 1959.

Quel giorno egli si trovava alla guida di una motocicletta e, nei pressi di Castel San Pietro Terme, si scontrava con un autocarro, pilotato da Pasquale Jacomini, che gli aveva improvvisamente tagliato la strada.

Per effetto dell’incidente, il Carlini rimaneva letteralmente maciullato.

Il processo a carico dello Jacomini si svolgeva davanti alla Pretura di Imola, nella udienza del 9 Marzo 1961. Il giudice, vice pretore dottor Antonino Cricchio, riteneva colpevole dell’incidente lo Jacomini e lo condannava penalmente, dichiarando altresì, la responsabilità civile dell’imputato verso il Carlini, costituitosi parte civile, e liquidando, a favore di quest’ultimo, una provvisionale di L.500.000.

Nella motivazione, il Giudice dava atto di un lieve concorso di colpa a carico di Carlini.

A questo punto, il dramma del Carlini assumeva aspetti ancora più dolorosi, perché egli non era affatto guarito, come erroneamente aveva ritenuto il perito di ufficio che aveva valutato del processo penale, la gravità delle lesioni da lui riportate.

Perciò, l’invalido dovette trasferirsi da un ospedale all’altro.

In un primo tempo, era stato ricoverato a spese del suo comune di residenza; ma poi, il Comune si era rifiutato di sostenere le spese ed, anzi, aveva incominciato a pretendere il rimborso di quelle sostenute.

Il Carlini, venutosi a trovare in condizioni economiche assai precarie, non poteva sostenere le spese delle cure adeguate e passava lunghi periodi di tempo fra dolori fisici atroci e, per di più, tormentato da sofferenze morali ancora peggiori. Le sofferenze morali consistevano nel dubbio angoscioso, trasformatosi poi in certezza soggettiva, che, se avesse potuto disporre di denaro sufficiente per pagarsi le cure opportune, gli sarebbe riuscito di evitare lo sfacelo fisico, verso il quale si sentiva avviato.

Infatti, ben presto il Carlini doveva subire l’amputazione del braccio destro (cosa che lo privava per sempre della possibilità di esercitare la sua arte di orefice) e perdeva quasi del tutto la funzionalità della gamba destra, per non parlare di altri gravissimi danni alla salute.

Nel frattempo, lo Jacomini aveva impugnato la sentenza di condanna del Pretore e, di poi, una delle ricorrenti amnistie aveva spazzato via il processo penale pendente.

La successiva causa civile non doveva offrire grandi soddisfazioni al Carlini, perché lo Jacomini non si trovava in floride condizioni economiche ed era assicurato per un massimale di lire 15.000.000, somma, questa, che costituiva un indennizzo irrisorio per un uomo di giovane età, che aveva subito un danno ben peggiore della morte.

Infine, la causa civile subiva la consueta sorte dei processi, destinati a trascinarsi a lungo, a causa del numero insufficiente di giudici oberati da troppe cause.

Insomma, il Carlini, ossessionato dal terrore niente affatto infondato di perdere, pezzo per pezzo, tutto il suo corpo negli ospedali, vedeva abbattersi su di lui, giorno per giorno, le conseguenze: 1) della insufficiente organizzazione del servizio sociale delle cure ospedaliere a favore degli infermi indigenti; 2) della mancanza di una legge che stabilisca una adeguata assicurazione obbligatoria dei proprietari dei veicoli contro i rischi della circolazione; 3) del tristissimo ed allarmante fenomeno delle ricorrenti amnistie, che priva le vittime della strada della possibilità di ottenere un sollecito risarcimento; 4) della ben nota crisi della Giustizia, che costringe i Giudici, sempre in numero insufficiente ed oberati da eccessivo carico di lavoro, ad operare con avvilente lentezza.

Con un minimo di immaginazione, non è difficile rendersi conto che, in siffatte condizioni, l’equilibrio psichico del Carlini doveva fatalmente rimanere travolto.

Infatti, l’attuale imputato cominciò, giorno per giorno, a covare rancore prima, odio, poi, nei confronti della Magistratura, dei suoi difensori, dei medici curanti, del Comune che non gli pagava le spese di ospedale, dei Carabinieri (rei, a suo parere, di non aver svolto accurate indagini nel suo caso), e di chiunque altro fosse stato coinvolto anche marginalmente nella sua tragica vicenda, non escluso il governo che aveva proposto l’amnistia.

L’idea di essere perseguitato divenne ben presto l’idea ossessiva del Carlini e l’unico suo argomento di conversazione consisteva nel narrare e colorire i particolari delle sue sventure e della sua supposta persecuzione.

Tutto concentrato in siffatta idea ossessiva, il Carlini potenziò al massimo, con la forza della disperazione, le sue naturali capacità dialettiche, che divennero notevolissime, aiutate da una fantasia fervida ed esasperata e da una estrema propensione ad immaginare l’inganno e la frode in suo danno in ogni particolare.

Fu così che immaginò che fosse esistita una congiura fra il titolare di una agenzia infortunistica, al quale egli si era rivolto per essere tutelato, ed il Giudice Cricchio. Secondo lui, fra l’infortunistica ed il giudice si sarebbe stabilito che il processo penale sarebbe stato sollecitamente celebrato solo se al Giudice fosse stata consegnato una certa somma di denaro, che egli, Carlini, non poteva dare. Perciò, a parere dell’imputato, il processo penale sarebbe stato celebrato in ritardo.

Al Carlini non passò nemmeno per la mente che il Giudice Cricchio era entrato in Magistratura nell’aprile del 1959 ed era stato destinato alla Pretura di Imola, con funzioni, solo nell’ottobre 1960.

In tali condizioni, celebrare il processo penale nel marzo 1961 costituiva un primato di velocità e di zelo.

Di poi, il Carlini si convinse che il Giudice Cricchio avesse fatto sparire dal fascicolo processuale alcune importanti prove a suo carico. Dopo altro poco tempo, il Carlini si convinse che il Giudice Cricchio avesse voluto, di proposito, danneggiarlo, dichiarando un suo lieve concorso di colpa (irrilevante in pratica, dato che il massimale della assicurazione del Jacomini e le condizioni economiche di costui erano insufficienti, in ogni caso, a garantire un adeguato ristoro dei tremendi danni della parte lesa).

Trascinato dal suo odio contro la Magistratura, il Carlini cominciò a rimeditare in relazione ad un banale episodio accadutagli quando egli era ancora sano, vigoroso e felice. Egli, allora, era stato colto, dalla Polizia Tributaria, in possesso di un lieve quantitativo di sigarette di contrabbando.

L’episodio, sul momento, non aveva avuto sviluppi rilevanti.

Tuttavia, poi, tormentato dalla malattia, il Carlini immaginò di essere rimasto vittima di una congiura ordita ai suoi danni dai finanzieri e, nel processo penale a suo carico, si autodenunciò di aver fatto più contrabbando di quello che era denunciato nel verbale, perché la differenza della merce se la erano intascata, a suo dire, i finanzieri. Denunciò, inoltre, il sostituto Procuratore della Repubblica dottor Clò di essere entrato in combutta con i finanzieri, incarcerando, per calunnia, esso Carlini, al fine di occultare le malefatte dei finanzieri.

Più tardi, il Carlini accusò i suoi difensori nei processi penali e civili di infedeltà e di disonestà professionale ai suoi danni.

Sottoposto a perizia psichiatrica, il Carlini veniva dichiarato infermo di mente dalla dottoressa Schiller di Modena.

Il 18.11.1966, il Carlini si presentò davanti al Giudice Cricchio, nel frattempo promosso Giudice di Tribunale e destinato al Tribunale di Modena, e, in presenza di più persone, lo apostrofò con le seguenti parole: “Lei, con la sua sentenza criminale, fatta quando era Pretore di Imola, mi ha ucciso più di quel criminale che mi ha investito con l’autocarro”.

Intervenuti i Carabinieri, alla richiesta di declinare le generalità, il Carlini rispose: “Io sono colui che è stato ucciso dai giudici”.

Da questo fatto del 18.11.1966, nasceva il presente processo, che non è che un frammento di tutti i processi pendenti contro il Carlini, il quale, in seguito, ha oltraggiato moltissimi giudici, in tutte le parti dell’Emilia.

La storia della fase istruttoria è descritta dalla sentenza di rinvio a giudizio del 17 Maggio 1967, alla quale si fa riferimento.

Nel corso del dibattimento, veniva disposta una perizia psichiatrica del Carlini, che veniva eseguita da un collegio di tre periti.

La perizia concludeva ritenendo il Carlini sano di mente.

La perizia è un esempio raro di contraddittorietà e di incoerenza della motivazione.

In essa sono ben puntualizzate le fasi della idea ossessiva del Carlini, ma si insiste, a torto, sulle notevoli capacità di ragionamento del medesimo, le quali sono scarsamente influenti, essendo risaputo che una mania ossessiva di persecuzioni spinta a livello patologica, non è incompatibile con la sussistenza delle capacità razionali nel malato.

Infatti, il maniaco ragiona spesso normalmente e la sua capacità di giudizio risulta alterata solo quando il discorso cade sull’oggetto specifico della mania.

I Giudici hanno avuto un esempio tangibile ed impressionante della sussistenza della mania ossessiva de Carlini, di questo povero uomo che si atteggia ad accusatore spietato dei Giudici; che pronuncia requisitorie con occhi che lanciano fiamme di indignazione e con la voce che non regge allo sforzo; che soffre terribilmente di dolore, ma no resiste al bisogno di denunciare le presenti ingiustizie subite; che non è capace di difendersi perché e preso dal bisogno quasi fisico di accusare, anche a costo di danneggiarsi; che non è capace di simulare,perché tutto in lui è incontenibile spontaneità ed incrollabile convinzione; che legge continuamente gli articoli della costituzione (non si separa mai da una copia della Carta Costituzionale) per denunciare il sopruso consistente, a suo dire, nell’averlo lasciato privo di cure mediche, di sostentamento e di Giustizia.

I periti hanno insistito nel ricercare, invano, nella paranoia la causa della ossessione del Carlini e, naturalmente, sono giunti alla conclusione che il Carlini non è paranoico.

Ma essi non hanno pensato che anche un tremendo ed insopportabile dolore morale, e non la sola paranoia, può condurre un individuo a cadere preda di una idea ossessiva facendogli smarrire la ragione.

Ciò è, appunto, quello che ogni persona sensata ha modo di constatare trovandosi al cospetto del Carlini.

Certo, il Carlini non può essere curato come si cura un paranoico; ma l’amore del prossimo, più che le medicine, può ridargli la fiducia nella vita e la salute della mente, tanto necessaria ad un uomo che ha perduto per sempre la salute del corpo.

Comunque, l’evidente errore dei periti, troppo prigionieri di schemi precostituiti per poter guardare la realtà con occhio spregiudicato, è rimasto, per fortuna, privo di conseguenze.

Infatti, è entrata in vigore l’ennesima amnistia e destino ha voluto che debba giovarsene proprio il Carlini, il quale ha tanto deprecato le conseguenze, per lui dannose, delle precedenti amnistie.

Per le ragioni già dette, è impossibile, umanamente impossibile, negare al Carlini, la cui mente stata sconvolta dal dolore, le attenuanti generiche, come è impossibile negare che esse attenuanti prevalgano sulle aggravanti del reato di oltraggio.

Entrambi i reati cadono, quindi, sotto amnistia.

La presente sentenza è stata motivata assai più di quanto richieda la decisione adottata.

Lo si è fatto nella certezza che il Carlini, che legge tutte le sentenze che lo riguardano, troverà nella motivazione un sincero atto di amore dei Giudici per lui, un commosso, ideale abbraccio che valga a confortare per un attimo il suo acerbo ed inconsolabile dolore.

Ciò non è estraneo alla funzione del Giudici: è, anzi, un atto dovuto a colui che, senza colpa di colore che hanno dovuto giudicarlo in passato, è, tuttavia, rimasto vittima: 1) della carenza di pubblica assistenza ospedaliera agli indigenti; 2) della carenza della legislazione a soccorso delle vittime della strada; 3) della crisi della Giustizia, aggravata e non risolta dalle ricorrenti amnistie.

La lunghezza della motivazione è, anche, giustificata dalla speranza che la sentenza sia letta dai Giudici che dovranno celebrare i molti gravi processi a carico del Carlini.