Lettera 27 (Seconda Serie)


In questa lettera iniziamo la pubblicazione dei testi del Convegno: “ Economia e Lavoro: difendere la giustizia, creare opportunità per i giovani” che, come sapete, si è svolto presso la Parrocchia dei SS. Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela Roma il 20 aprile scorso.

Cominciamo con l’introduzione di Gianfranco Solinas che partendo dalla visione biblica delinea una prima rappresentazione del valore relazionale del lavoro, seguono due relazioni molto diverse che affrontano il problema del lavoro da due punti di vista.

Il primo contributo, quello di Giorgio Marcello, ha affrontato il tema dell’antropologia che è alla base della “Gaudium et Spes” servendosi di un testo di Giuseppe Dossetti. Non è un testo facile quello che qui vi proponiamo, ma di certo molto interessante per conoscere con maggiore profondità i valori del Concilio ma anche i cammini attraverso i quali questi valori possono essere ripresi e portati a compimento. La tesi di fondo è che occorra, per essere attenti ai segni dei tempi e rispondere alle loro domande, restare fedeli ad una antropologia basata sull’ascolto della parola di Dio e di quello che la scrittura ci dice di immutabile nel tempo sulla natura dell’uomo e della storia.

La seconda relazione, di Pierre Carniti, è un’analisi concreta e puntuale sulla crisi del lavoro e il cambiamento di prospettiva che sarebbe necessario per riportare il lavoro al centro della vita politico-sociale come la vera priorità. Si tratta di vedere il lavoro non come merce a disposizione del mercato ma come bene comune, sociale e relazionale, da difendere, valorizzare e redistribuire. È una prospettiva non scontata che ha suscitato in noi un grande interesse ed una partecipazione non solo emotiva.

Abbiamo aggiunto una sintesi del dibattito: sono solo brevi riflessioni che però ci danno conto della risonanza che le parole dei relatori hanno avuto tra i partecipanti.

Nelle prossime lettere presenteremo gli altri contributi di carattere più pratico e legato alla vita quotidiana. A questo nostro convegno è stato presente un gruppo che, pur senza essere numerosissimo, ci è apparso come sempre molto partecipe e motivato ad approfondire e a crescere sia culturalmente che nella condivisione della vita. Vogliamo ringraziare in modo particolare tutti gli intervenuti perché hanno reso questa occasione e questa giornata particolarmente ricca e feconda e invitarli a partecipare attivamente alla nostra riflessione.

Concludiamo con una piccola storiella che ci ha raccontato Alberto, mi pare che abbia molto da farci riflettere sulla valorizzazione consapevole del lavoro:

“Un’antica leggenda narra di un viandante che incontra tre operai che stanno lavorando duramente pietra su pietra alla costruzione di una chiesa. Alla domanda: “che cosa stai facendo?” il primo risponde: “io sto faticando per guadagnarmi il pane”, il secondo: “io faccio questo duro lavoro per la mia famiglia, ho dei figli per cui voglio costruire un futuro”, il terzo, invece alla stessa domanda risponde: “io sto costruendo una cattedrale”.

Operai al lavoro nella costruzione della Chiesa della Sagrada Familia Barcellona 2013

 

Sommario della 27° lettera:

  1. “ Un pensiero biblico: breve riflessione sul significato relazionale del lavoro” di Gianfranco Solinas
  2. “Il lavoro e la vita cristiana. Riflessioni a margine di un testo di G. Dossetti” di Giorgio Marcello
  3. “Il lavoro come bene comune” di Pierre Carniti (ex segretario Generale CISL)

 “Un pensiero biblico: breve riflessione sul significato relazionale del lavoro” di Gianfranco Solinas

Prendo spunto da una conversazione romana di p. Pino Stancari, in preparazione al Giubileo del 2000. Ne trovo traccia in un testo che fa memoria degli scritti del gesuita padre Mario Castelli, in cui si ritrovano riferimenti oltreché a Stancari, a p. Pio Parisi, a p. Saverio Corradino, a Maurizio Polverari. Tale interessante testo, non stampato, è stato curato da Alberto La Porta e da Pino Baldassarri.

La conversazione di Stancari fa riferimento alla realtà del lavoro delineata nei primi tre capitoli della Genesi. L’essere lavoratore per l’uomo è dimensione costitutiva del suo essere creatura di Dio. L’uomo ha un’intrinseca responsabilità nei confronti della terra, del mondo.

Dio stesso è presentato nella Genesi, con la sua gratuita iniziativa creatrice, come lavoratore che crea il mondo, grazie alla sua Parola di vita, che crea l’uomo e lo coinvolge appieno nella responsabilità di partner di tale opera creatrice, tramite il lavoro e il comando di crescere e moltiplicarsi (anche Pierre Carniti, per spiegare la nozione del lavoro nel mondo ebraico e cristiano, in un suo interessantissimo studio sul lavoro e sulle sue trasformazioni, che ci ha messo a disposizione, fa riferimento alla Genesi).

In Gen. 2,15 Dio pone l’uomo nel giardino di Eden perché lo coltivi, lo custodisca, come si custodisce qualcosa di molto bello e non come oggetto di conquista, lo renda fertile con l’acqua che mette a sua disposizione, perché usi questa risorsa per irrigarlo.

L’uomo lavoratore è un essere in relazione, in dialogo con Dio. L’albero della vita, che sta al centro del giardino rappresenta proprio tale relazione di vita dell’uomo con Dio, una relazione di dialogo col Dio vivente. Tale dimensione relazionale è fondamentale per comprendere il senso del lavoro nella Bibbia, il significato del progetto che l’uomo è chiamato a svolgere.

Si tratta di una relazionalità fondativa del senso del lavoro e della procreazione. Adam, creato da Dio e posto nel giardino, è costituito nella sua responsabilità lavorativa e nella responsabilità procreativa come soggetto in relazione con l’altro da sé. L’altro da sé è Dio stesso. Lo stesso rapporto uomo – donna, che renderà visibile l’immagine stessa di Dio, viene a collocarsi nello spazio dell’altruità.

Sarà la rottura di tale equilibrio relazionale originario (rottura della relazione con Dio, della relazione uomo-donna, della relazione col giardino) a mettere in discussione il disegno della creazione ed a porre le premesse perché il lavoro umano si degradi. Facendo a meno di Dio, chiudendosi in se stesso, autodeterminandosi, l’uomo smarrirà la sua comunione con Dio, perderà di vista la dimensione creativa e cooperativa del lavoro umano e della procreazione, così come violerà il compito di salvaguardare il creato che avrebbe dovuto caratterizzare la sua missione.

Tutto l’equilibrio e l’armonia della creazione ne risulteranno sconvolti. Di qui la faticosità del lavoro, la tentazione di sottrarsi alla fatica scaricandola sugli altri, finendo per schiavizzarli, la disumanizzazione della natura stessa.

Leggendo il cap. 3 della Genesi, la più immediata percezione che noi abbiamo della fatica e del peso collegati col lavoro e col generare figli è quella della condanna. Tale risulta, del resto, dalle parole del Signore Iddio che fanno seguito alla trasgressione del suo comando.

In questa fatica e in questo peso c’è tuttavia indicato per l’umanità intera un percorso di redenzione, lungo tutta la storia della Salvezza che Dio porterà avanti mandando Mosè, i Profeti e, infine, il figlio prediletto Gesù.

Interessante, per la nostra riflessione, è l’interpretazione che p. Stancari fa dell’idolatria come pretesa di lavorare senza fatica, creandosi una salvezza alternativa, fondata sulla rottura della relazione con Dio e con il prossimo.

In questa visione idolatrica ci si costruisce un falso dio che permette di ottenere benefici a danno degli altri senza faticare, che porta a disprezzare il lavoro e la vita del fratello, nel momento in cui diventano ostacolo al proprio progetto idolatrico, sfruttando così gli altri, considerandoli terreno di conquista (e aggiungerei di esclusione, a partire dal tema odierno dell’esclusione dei giovani dal lavoro).

La messa in discussione del sogno comunitario e relazionale su cui Dio fonda il suo grandioso progetto di dono della vita, di una vita piena, trova in questa fuga idolatrica la perpetuazione del peccato delle origini.

Nel tempo pasquale che stiamo vivendo, desidero concludere questo pensiero biblico con le parole di p. Mario Castelli, tratte da un suo studio del 1979, intitolato “Speranza operaia e Speranza cristiana” pubblicato sulla rivista “Aggiornamenti sociali”:

“Nella Nuova Alleanza, Cristo risorto inaugura già la glorificazione del giusto perseguitato e messo a morte, del povero di Jahvè di tutti i tempi. E’ Jahvè che ormai dà inizio a una vittoria da lungo tempo proclamata ineluttabile. Ma sul piano storico la lotta continua e il “grido” biblico persiste a farsi sentire. Giacomo (5, 1-6) raccoglie il grido del lavoratore a cui è defraudato il salario e del giusto che viene condannato a morte: “E ora a voi ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! (…) Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza” (…). Dio ascolta la voce del misero che invoca che la giustizia si attui, vendica il povero oppresso, promette a chi ha fede la vittoria: un trionfo reale come lo è la risurrezione di Cristo, in un mondo trasformato mediante un suo nuovo intervento creativo”.

Questo nuovo intervento creativo rigenera la relazione tra l’uomo e Dio, tra uomo e uomo, tra uomo e creato, restituendole senso profondo.

Ed ora un riferimento al Vaticano II.

Sulla teologia del lavoro ho trovato un interessante riferimento in una nota del testo di Giovanni Turbanti, Un Concilio per il mondo moderno, La redazione della costituzione pastorale “Gaudium ed spes”, Il Mulino. Nell’ottobre 1964 Camara fu incaricato, all’interno del gruppo “Chiesa dei poveri” di organizzare una commissione di studio sulla spiritualità dello sviluppo e in questa commissione venne chiamato a collaborare anche Chenu… Il 31 ottobre 1964 Chenu tenne una relazione sulla teologia del lavoro nella quale riprese le sue tesi di fondo sul rapporto creazione-incarnazione-socializzazione. Ritrovo in Chenu la centralità della dimensione relazionale (Ho rintracciato questo testo, grazie alla collaborazione dell’Istituto per le Scienze religiose di Bologna e lo porto alla vostra attenzione, per la rilevanza che ha per il nostro incontro).

“Perché notiamo uno stretto rapporto tra povertà e lavoro? Se c’è un tragico problema della fame, ce n’è uno ancor più grave che è quello del lavoro. Il lavoro è diventato un luogo della disumanizzazione delle masse povere. Pur riuscendo ad elevare il livello economico, esso mette a nudo una povertà ancor più radicale.

Esclusi dalle decisioni che li concernono, dall’assumere responsabilità, gli operai sono in una condizione di servitù, spossessati della dignità che il lavoro dovrebbe procurare. Il marxismo ha attratto i poveri perché ha parlato della loro dignità.

Quali sono i beni di cui sono spossessati?

  1. Col lavoro industriale l’uomo prende coscienza del suo potere sulle forze della natura. Egli si umanizza umanizzando la natura (Homo faber, homo sapiens = linguaggio incompatibile con una civiltà di schiavi). La vera dignità dell’uomo consiste nel farsi carico di condurre il mondo al suo compimento: egli è creatore insieme con Dio:
  • “come Dio”: ricchezza cosmica (nei Padri greci)
  • “immagine di Dio”: interiormente (prospettiva latina), ma anche esteriormente, col lavoro delle sue mani.

Ma il lavoro – scandalo! – distrugge l’immagine di Dio nell’uomo, perché questi, non avendo alcuna responsabilità, non può farla propria.

Come gruppo, l’operaio dovrebbe partecipare alle responsabilità dell’impresa, al loro controllo. È doveroso far accedere l’operaio – tramite i suoi rappresentanti – alle responsabilità. L’uomo deve essere padrone del suo destino.

  1. Frustrazione dell’idea cristiana: l’uomo col lavoro porta a compimento il mistero di Cristo che ricapitola l’universo (Rm 8: “La creazione attende di essere liberata”). Noi rinnoviamo ogni cosa nel Cristo. Il lavoro prepara il Regno. I Padri della Chiesa dicevano che la civiltà romana era stata provvidenziale: ora, il nostro mondo vale ancor meglio per il Regno. Ma l’uomo nel suo lavoro non può più comprendere questa parola: che noi siamo in stato di Risurrezione.
  2. L’effetto più significativo del lavoro manuale è che ci si pone in un mondo socializzato. L’enciclica “Mater er Magistra” ci chiede l’accettazione franca e gioiosa della socializzazione. Le cose grandi comportano rischi. Ma di per sé stessa non può che essere benefica. Questa comunità di lavoro crea solidarietà. La presa di coscienza dell’ampiezza di questo fenomeno, ad un tempo mirabile e temibile, coinvolge gli uomini in massa. Valore umano della solidarietà del lavoro: se diciamo che gli uomini sono fratelli in Cristo, allora dobbiamo vivere con loro come fratelli: questa è la base del Vangelo. Questa solidarietà nel lavoro è un appello alla fratellanza cristiana.

La carità è nelle strutture della società, ma gli operai non possono fruirne perché la Chiesa è assente dal loro mondo. La Chiesa vede troppo la carità come estranea alle strutture”.

A cinquant’anni di distanza, la riflessione di Chenu rappresenta un monito che ci scuote. I giochi finanziari e la fragilità della politica danno forza ad un’idolatria che è nemica giurata della Resurrezione e del lavoro come spazio di autentica solidarietà e socializzazione.

Il lavoro e la vita cristiana: Riflessioni a margine di un testo di G. Dossetti di Giorgio Marcello

Premessa

Il tema del lavoro ha implicazioni molteplici – sul piano personale, familiare, economico, sociale, culturale – in un tempo di trasformazioni radicali: vedi, ad esempio, lo sganciamento progressivo dell’economia dai bisogni umani, l’affermarsi del finanzcapitalismo inteso come “mega-macchina creata con lo scopo di massimizzare il valore estraibile sia dagli esseri umani sia dagli ecosistemi. La grave crisi economica (ma anche culturale e politica) che stiamo vivendo è la crisi di questa civiltà-mondo dominata dal sistema finanziario)”[1].

I cambiamenti in atto riguardano il lavoro (che diminuisce ed è sempre meno garantito), e al tempo stesso suscitano interrogativi sul presente e sul futuro della storia umana.

Da qui il tentativo di cercare una cornice interpretativa in cui collocare la riflessione sul lavoro e, più in generale, sul rapporto tra vita cristiana e impegno nel mondo.

In questa prospettiva, ho pensato di proporre nelle pagine che seguono i contenuti essenziali di un testo di Dossetti sulla visione antropologica del concilio[2]. Si tratta di un documento di grande importanza, e di grande attualità, pur essendo stato scritto nel settembre del 1966. Sono pagine che credo aiutino a capire in che modo la parola di Dio può illuminare il discernimento relativo al lavoro e alle altre forme di impegno nella storia.

Il testo citato suggerisce un metodo di studio dei testi conciliari scandito in tre fasi: a) lettura; b) estrazione delle linee di forza principali dell’insieme dei documenti; c) individuazione degli elementi di una spiritualità globale.

L’autore si rivolge sia ad addetti ai lavori (i membri dell’Istituto di scienze Religiose di Bologna), impegnati ad esplorare vie di sviluppo della ricerca teologica, a partire dagli impulsi del concilio, che a tutti i credenti, con i quali si vuole condividere la preoccupazione per la vita cristiana e le sue prospettive, in un mondo che cambia velocemente.

La tesi di fondo sostenuta riguarda la carenza antropologica del concilio. Di tutti i documenti, ma in particolare della Gaudium et Spes. Una tesi che non intende mettere in discussione la novità del concilio, ma vuole suggerire percorsi (di conversione) orientati a valorizzare e a sviluppare gli elementi innovativi nella visione antropologica elaborata dai padri conciliari, per uno sviluppo coerente della ricerca teologica e della esperienza cristiana.

  1. Carenza antropologica del Vaticano II

Cosa si intende per “carenza antropologica”, e in che senso tale questione ha a che fare con la nostra ricerca? Per Abbagnano[3], l’antropologia consiste nella “esposizione sistematica delle conoscenze che si hanno intorno all’uomo”; per l’enciclopedia Treccani[4], si tratta della “scienza dell’uomo, considerato sia come soggetto o individuo, sia in aggregati, comunità, situazioni”. In sintesi: una serie di proposizioni relative alla condizione umana, che tentano di rispondere alle seguenti domande: cos’è un essere umano? Quali sono gli aspetti più significativi della sua condizione?

L’antropologia come “discorso fondamentale”è quella di cui si parla, ad esempio, al n. 10 della Gaudium et Spes:

Con tutto ciò, di fronte all’evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi capitali. Che cosa è l’uomo? Quale è il significato del dolore, del male, della morte, che malgrado ogni progresso continuano a sussistere? Cosa valgono queste conquiste a così caro prezzo raggiunte? Che reca l’uomo alla società e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?

Secondo Dossetti, la carenza antropologica riguarda soprattutto il documento citato (la GS), e si manifesta come carenza di una “visione autenticamente cristiana della vita e dell’esistenza odierna”.

Egli ritiene che la debolezza della visione conciliare riguarda soprattutto l’antropologia soprannaturale. Quella cioè che si pone la questione di che cosa sia l’uomo sul piano della rivelazione. Ci sono solo spunti di antropologia soprannaturale, che non sono però adeguatamente sviluppati. L’idea di fondo è che se manca una antropologia soprannaturale, ciò accade perché manca una antropologia biblica, ovvero una visione dell’uomo (e della storia) fondata sulla parola di Dio, ancorata cioè al puro dato biblico.

Questa carenza determina la debolezza di tutta l’opera del concilio, e – per Dossetti – rischia di avere conseguenze negative sullo sviluppo delle varie branche della teologia.

Si può ipotizzare che questa debolezza sia legata ad una perplessità di fondo (che forse riguarda non solo l’immediato post-concilio, ma anche i cristiani di oggi), che è la seguente: la parola di Dio può illuminare davvero quello che accade nel mondo? È davvero possibile tenere collegati l’ascolto della parola rivelata e la vita, ovvero i due capi di questa fune (che appare) spezzata?

  1. Rileggere la costituzione “Gaudium et spes”. Antropologia di superficie e antropologia del profondo

Carenza antropologica non vuol dire, per Dossetti, che il concilio sia privo di una visione antropologica; ma che si tratta di una antropologia di superficie.

Se si mette a confronto l’antropologia che si ricava dalla lettura delle scritture con l’antropologia del concilio, si avverte subito che qualcosa dissona. Quella biblica è, infatti, una antropologia del profondo.

La convinzione di Dossetti è che (per favorire uno sviluppo qualitativo del concilio) bisognerebbe rintracciare e valorizzare i frammenti di antropologia del profondo (es.: i primi paragrafi del De Ecclesia, i paragrafi 6 e 7 della Costituzione liturgica). Non solo per definire un ordine di priorità tra le proposizioni conciliari, una sorta di “gerarchia delle fonti” (riemerge il costituzionalista), ma per sviluppare – a partire da quei frammenti – una visione coerente e organica dell’uomo e della sua posizione nel mondo.

 

Antropologia critica e antropologia empirica

Da qui, per l’autore, la necessità di superare la strozzatura del pensiero conciliare, che non solo limita lo sviluppo della riflessione teologica, ma condiziona anche fortemente l’impegno dei cristiani nella storia.

Superare la strozzatura vuol dire imparare a distinguere (non a contrapporre, ma, ripeto, a distinguere) tra una antropologia empirica e una antropologia critica (che corrisponde alla prima distinzione già intravista tra a. di superficie e a. del profondo).

Quella proposta dai documenti del concilio è soprattutto una prospettiva di antropologia empirica, o fenomenologica (si ferma a considerare gli aspetti più superficiali dello sviluppo storico): visione che coglie le trasformazioni in atto, riflette su di esse, ma non riesce ad interpretarne le dimensioni più profonde; si articola in una serie di proposizioni che tentano di spiegare che cos’è l’esistenza umana, basandosi su costruzioni culturali prodotte dagli uomini stessi.

È l’antropologia del dialogo con il mondo.

L’antropologia del profondo parte dalla Parola di Dio; è una antropologia critica, cioè della crisi (nel senso di Giovanni 12,31: ora è la crisi, ovvero il giudizio del mondo, di questo mondo). Si pone cioè come criterio interpretativo ultimo della realtà, come orizzonte metastorico che è in grado di definire il significato più profondo dell’esistenza delle donne e degli uomini, delle loro relazioni, del loro impegno nel mondo. Risponde cioè all’impegno di leggere la storia alla luce della parola di Dio, e di interpretarne il piano più profondo, quello sottostante agli avvenimenti in corso, che sembrano spesso suggerire l’idea di un continuo cambiamento.

Le due antropologie non sono alternative, ma si dispongono su livelli diversi di profondità. Perché c’è differenza tra “dialogo” e “giudizio”. Non si nega il valore del dialogo con il mondo; si afferma che esso va qualificato, va ancorato ad un criterio che lo orienti:

il dialogo per sé è a livello di un’antropologia ancora superficiale, di un’antropologia empirica. Nel profondo non si dà dialogo, nel profondo si danno solo due cose: o la ‘communio’ o la ‘crìsis’; o la koinonìa, cioè la comunione soprannaturale, o il giudizio soprannaturale. Non sono evidentemente concetti che si oppongono a quello del dialogo, sono concetti che lo trascendono, perché sono a livello diverso, come il profondo è a un livello diverso dalla superficie. Non c’è possibilità di opposizione tra questi concetti e se li opponiamo commettiamo un errore metodologico gravissimo, cioè contrapponiamo concetti non contrapponibili, perché non sono sul medesimo piano[5].

Su questo punto, Dossetti insiste: il suo ragionamento non vuole sottovalutare l’importanza del dialogo con il mondo, l’attenzione alle situazioni concrete della vita degli uomini e delle donne. Tale orientamento al dialogo rappresenta, infatti, una delle novità più significative della vicenda conciliare. Uno dei simboli dell’impegno di aprirsi costantemente al dialogo con il mondo è papa Giovanni. Ma proprio quella del papa, precisa Dossetti, non era una antropologia empirica:

Il fatto che Giovanni non è un uomo di cultura e quindi non ha nessuna possibile compromissione con la cultura, almeno intesa in un certo modo, ci garantisce che il suo discorso antropologico è un discorso che va al di là, che è ad un altro livello rispetto all’antropologia empirica del nostro tempo[6].

Impegnata nel costruire un dialogo con il mondo, con la storia, la chiesa è chiamata ad assumere la fatica di elaborare una visione della vita, degli eventi, del lavoro e di tutte le questioni che hanno a che fare con la convivenza umana.

Il punto è, sottolinea Dossetti, che lo sforzo antropologico della chiesa

va qualificato proprio in rapporto a quello che è il livello più profondo dell’antropologia cristiana, livello più profondo che oggi può e deve essere definito meglio, rispetto a questa antropologia che si costruisce adesso e che pone alla Chiesa stimoli prima sconosciuti”[7].

Stimoli nuovi, dunque, nel senso che non la portano fuori dalla realtà, ma la spingono nel cuore stesso delle sue tensioni vitali e delle sue contraddizioni, spesso tragiche.

La conseguenza è – nota Dossetti – che tutta la chiesa, dal vertice alla base, alla estrema periferia, è in movimento al livello dell’antropologia empirica. Tutto ciò, a partire da un impulso di carità (per un servizio di carità al prossimo).

Si apre perciò una questione: come qualificare la intenzione di amore che è alla base dello sviluppo della antropologia di superficie? In altri termini, in che cosa consiste l’amore? Cosa vuol dire discernere i suoi diversi livelli? L’inserimento sempre più consapevole nelle dinamiche della vita sociale e del lavoro porta con sé la necessità di qualificare l’intenzione di amore che detta questa inserzione:

il discernimento dell’amore, dei suoi piani e dei suoi livelli, è una delle cose più difficili per noi: è molto più facile discernere per l’uomo l’amore dall’odio, che discernere i diversi tipi di amore, i diversi livelli e anche qui gli aspetti più esterni e più sensibili dell’amore dagli aspetti più profondi e più soprannaturali. Vi è una parola dell’Ecclesiaste a questo proposito che dice: “l’uomo non conosce né l’amore né l’odio e l’uno e l’altro sono una delusione agli occhi suoi (9,1)”[8].

E’ troppo semplice dire che quando una cosa si fa per amore è una cosa ben fatta; bisognerebbe che l’uomo fosse più conscio del fatto che non conosce l’amore[9].

Non conosce l’amore, nel senso che l’amore che qualifica il piano dell’antropologia del profondo è quello che non possiamo gestire, che si è rivelato come puro dono nel mistero pasquale. Puro dono, in pura perdita. È l’amore di Dio per il mondo, riversato nel mondo attraverso la novità del Figlio.

L’antropologia del profondo (o critica) è dunque una antropologia della carità, cioè dell’amore gratuito di Dio per il mondo. In un altro testo sul concilio[10], Dossetti individua proprio nella carità il criterio ermeneutico di tutta la vicenda conciliare.

È questo il livello verso cui tendere, perché la presenza dei cristiani nel mondo sia coerente con il dono di amore ricevuto, anche se non è un cammino privo di difficoltà. Esso infatti richiede una conversione continua, e una disponibilità a pagarne le conseguenze:

il risultato sarà, se le cose vanno secondo lo spirito di Dio, che ad un certo momento si scoprirà una densità più forte e s’imporrà un impegno più grande dell’antropologia del profondo. Ma questo non avverrà senza veri drammi e gravissime lacerazioni e probabilmente opposizioni e perdite tremende. La nuova antropologia critica del cristianesimo si costruirà probabilmente dopo aver esperimentato, proprio per effetto di un certo tipo d’impegno in una antropologia empirica, dei gravi rischi[11].

  1. Al di là dell’antropologia metafisica

La riflessione che Dossetti propone sulla carenza antropologica del concilio non vuole dunque sminuire l’importanza della dimensione empirica, che – come abbiamo visto – prende sul serio i mutamenti storici; ma pone in risalto l’esigenza di maturare una visione più organica dell’uomo e della storia, una antropologia cioè capace di articolarsi in più livelli di profondità.

Per cui non sfuggono all’autore gli elementi di novità della visione antropologica del concilio, pur nella sua incompletezza. Una delle conseguenze dello sviluppo recente dell’antropologia empirica – nota Dossetti – è rappresentata, ad esempio, dalla rottura dell’antropologia metafisica (che si articola in una serie di proposizioni/rappresentazioni che fanno riferimento non alla persona colta nella sua concretezza, situata nello spazio e nel tempo, ma a categorie e principi astratti, di natura etica o giuridica; non all’uomo concreto e alle vicende in cui è coinvolto, ma agli elementi colti come essenziali e generalissimi della condizione umana, in base ad un esercizio della ragione).

Si tratta di una visione (dell’uomo e della storia), che in passato ha dato luogo ad una antropologia composita: radici di antropologia profonda, piantate nel terreno del mistero e della grazia, posti accanto ad elementi di antropologia metafisica ed etica (che si fossilizza nel diritto).

L’antropologia etica e quella giuridica consistono in una serie di rappresentazioni che colgono l’uomo al livello dei rapporti morali o giuridici. L’una e l’altra esprimono un contenuto normativo; si riferiscono all’uomo a partire da norme morali o giuridiche, non da situazioni concrete. Come nel caso dell’antropologia metafisica, si tratta di un’antropologia di ragione. L’uomo è definito a partire dall’esercizio della razionalità e dei saperi umani.

Nel corso del tempo, l’antropologia etica e giuridica ha veicolato una ecclesiologia giuridica (chiesa come societas perfecta).

Dossetti è convinto che non si possa negare l’importanza di una antropologia etica o giuridica; si tratta però di chiarire se l’antropologia è solo quella o principalmente quella.

Con il concilio si determina la rottura dell’antropologia metafisica; il superamento dell’antropologia etica (e giuridica) e la estensione agli ambiti psico-sociologici: ovvero, il passaggio da una antropologia astratta ad una antropologia che coglie degli elementi di concretezza che sfuggono al discorso puramente etico-giuridico.

Si tratta di uno sviluppo importante. Dossetti si chiede quali siano le implicazioni reali di questa estensione, e afferma che essa è in orizzontale e non in profondità; si resta, cioè, sul piano di una antropologia empirica, ovvero di superficie.

In altri termini, si tratta di un discorso sull’uomo che prevede l’utilizzo di criteri interpretativi e di metodi di intervento più agganciati all’esperienza concreta, ma che non comporta automaticamente una maggiore capacità di amore da parte della chiesa. Per via del ricorso ai saperi delle scienze sociali, la chiesa probabilmente

ridurrà certe asprezze, stabilirà certi giunti di comunicazione, allargherà certi raggi di contatti, modificherà certe metodologie che non saranno più quelle autoritative dell’azione imperativa dall’alto (…), che saranno magari le forme della persuasione dal basso secondo le tecniche socio-psicologiche, ma questo non è ancora né antropologia del profondo, né carità, né amore soprannaturale, cioè non è ancora quel livello in cui l’uomo supera la sua condizione umana e comincia a conoscere l’amore[12].

C’è poi da considerare, nota ancora D., il rischio di una infatuazione per questi metodi:

guardando la situazione non più dal punto di vista teorico, ma in modo empirico e banale colpisce l’atteggiamento dei preti, questo loro buttarsi così ampio e facile sulla psicologia e sulla sociologia (…). Il fatto che tutto questo avvenga con un cambiamento improvviso, in pochissimi anni, giustifica un certo sospetto. Non è una conversione, è in fondo un ricadere nello stesso peccato di prima, se c’era peccato (…). La preoccupazione di soddisfare meglio le esigenze della gente, di aderire ai loro bisogni, alla loro situazione ha in sé un’intrinseca ambiguità in quanto è difficile stabilire fino a che punto è invece il medesimo atteggiamento di prima che adopera solo mezzi diversi[13].

Gli strumenti, i metodi, le tecniche di intervento nelle situazioni concrete che il sapere sociologico e quello psicologico mettono a disposizione rendono sicuramente più idonei a quel lavoro che si esprime nel servizio agli altri (vedi tutta la storia dell’istituzionalizzazione della vita fragile e le conseguenze che essa ha prodotto, con le migliori intenzioni). Si tratta però di non perdere mai di vista la relatività di questi strumenti: essi consentono di cogliere aspetti concreti della condizione umana, ma non tengono conto di tutto l’uomo.

Ad esempio,

una psicologia e una sociologia sganciate da un’etica possono ancora servire l’amore, servire veramente l’uomo reale?[14]

Dossetti non disconosce la necessità di un discernimento etico (ovvero, di agganciare l’antropologia contemporanea, di superficie, empirica, a dei contenuti etici). Sottolinea, però, che c’è di più. Oltre il discernimento etico, c’è quello che assume come criterio l’antropologia dell’amore. Alla luce di questo discernimento, Dossetti afferma che il contenuto effettivo di amore non è nei metodi e negli strumenti: la diversità metodologica non crea l’amore, ma lo serve.

  1. L’antropologia della “Gaudium et spes”

Per don Giuseppe, il testo della Gaudium et spes contiene gli elementi di una antropologia composita, in base alla quale l’uomo è un composto di immutabile e mutabile, mescolati sullo stesso piano. Vedi, per esempio, quanto affermato al n. 10 della costituzione citata:

Ecco: la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo, mediante il Suo Spirito, luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione; né è dato in terra un altro nome agli uomini, in cui possano salvarsi. Crede ugualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine dell’uomo, nonché di tutta la storia umana. Inoltre la Chiesa afferma che al di là di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano, esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli.

L’espressione “al di là”, contenuta nel testo appena citato, traduce il latino “subesse”. Ma che succede se traduciamo quest’ultimo termine non con “al di là”, ma con “al di sotto”? Potremmo trovarci di fronte, secondo Dossetti, alla premessa di una antropologia organica, che si articola in diversi livelli di profondità, e che contenga in sé gli elementi per individuare il fondamento ultimo della condizione umana e dello sviluppo storico. Favorire la maturazione di questa visione antropologica vuol dire intraprendere un cammino di conversione, che permette di cogliere l’evidenza di quella che Dossetti definisce come legge dinamica della chiesa:

la Chiesa è tanto più sottoposta all’influsso delle cose che mutano quanto meno è profonda, ma quanto più la chiesa si porta nel profondo, tanto più ha, non solo il dovere e il diritto, ma la potenza di considerarsi e di operare in maniera trascendente al mutevole, perché è diversa la valenza. La Chiesa che si muove nel mutevole, e che lo subisce, e che ne adopera i mezzi (vedi gli sviluppi post-conciliari della dottrina sociale e di tante pratiche conseguenti, anche sul versante del lavoro e, più in generale, della presenza sociale dei credenti, n.d.A.) è la Chiesa che adopera le stampelle in mancanza degli arti normali, perché non è la Chiesa al suo livello di profondità. La Chiesa quando si muove al suo livello di profondità ha sempre meno bisogno di queste stampelle e quindi è sempre più libera[15].

La chiesa non coincide con la gerarchia, ma è assemblea convocata dalla Parola. Ed è solo l’ascolto umile, paziente, quotidiano della parola di Dio che può rivelare ai credenti la profondità del dinamismo storico, al di sotto degli avvenimenti in corso, i quali sembrano suggerire un continuo cambiamento. Solo la Parola rivela il profondo delle cose.

Quando ci azzardiamo a dire che è la prima volta che il mondo è unificato, che ha la bomba atomica, che è costretto a fare la pace e così via, diciamo una realtà che resta vera anche al livello più profondo? Oppure la nostra situazione, in ultimissima istanza, ci appare diversa solo perché abbiamo perduto la memoria delle cose? L’anamnesi, il ricordo che ci consente di confrontare gli avvenimenti non nel loro contenuto materiale mutevole, ma in ciò che, antropologicamente, hanno di più profondo e di più costante, ci fa ritrovare nell’apparente diversità, nella diversità materiale un’identità sostanziale[16].

Solo una antropologia critica può permettere di accordare la fenomenologia dello sviluppo (storico) con la rivelazione del permanente. La maturazione di questa visione non può essere il frutto di sforzi isolati. Si tratta di convertirsi insieme alla preghiera di ascolto, che – come afferma Castelli nei Dialoghi sulla laicità – “deve portare a rendersi conto che carità per il mondo significa anche individuare le esigenze vitali del mondo: cose, ambiente animato, società umana in particolare ed in genere. Non si tratta tanto di uno ‘studio’ quanto di una ‘riflessione’ su quello che avviene nel mondo, in questa generazione presente. Necessita riflettere assieme per cogliere il senso degli avvenimenti, non fermandosi nella superficialità della cronaca, bensì adoprandosi per scoprire, magari anche nella lettura attenta dei fatti di cronaca, gli orientamenti umani persistenti sul piano storico. A questo tipo di lettura occorre abituare i cristiani”[17].

  1. Per un’antropologia escatologica

Nella parte finale del suo studio, Dossetti prova a mettere in evidenza i tre livelli di una possibile antropologia organica, illuminata dall’ascolto della Parola di Dio. Il livello ultimo di essa è l’amore, che si manifesta attraverso la novità di Dio che entra nel mondo attraverso l’incarnazione, come evento escatologico.

Se rifiutiamo i diversi livelli, allora anche quando parliamo di incarnazionismo tendiamo a vedere il fatto dell’incarnazione come inserimento di Dio nell’uomo, ma a livello umano, mentre l’evento dell’incarnazione è in se stesso un evento escatologico perché rivoluziona l’umano e soprattutto ne determina un livello nuovo di profondità in cui tutto il resto subisce una subordinazione di valenze (…). L’escatologia è già nell’incarnazione e l’incarnazione è già escatologia radicale che spalanca, per così dire , una voragine sotto l’umano e determina un livello che è il più profondo di tutti, il livello in cui Dio è entrato nell’umanità[18].

Dunque, sono tre i livelli di una antropologia organica, o del profondo:

  1. quello della dinamica umana: piano superficiale, quello della storia come moto lineare in avanti (che sembra suggerire che tutto cambia in continuazione);
  2. quello di cui parlano le Scritture, per esempio il Qoelet: sotto il mutevole c’è un ritorno circolare;
  3. quello dell’evento che in sé contiene tutto.

Si tratta dell’evento puro

nella sua dinamica assoluta, che brucia in sé tutta la storia e tutto il dinamismo, non c’è più né sviluppo lineare, né circolarità, ma c’è l’evento che in sé contiene già tutto. Che cosa infatti può apparire più grande del fatto che Dio sia entrato nell’uomo? Niente è più grande di questo, e questo è già avvenuto (…)[19].

L’incarnazione rappresenta il modo in cui Dio lavora nella storia, che illumina il significato ultimo di ogni lavoro umano, come di ogni forma di presenza e di impegno nel mondo. In questa prospettiva, il lavoro umano trova il suo senso più profondo, come attività finalizzata a far vivere gli altri. In altri termini, il lavoro è pienamente tale quando promuove la vita altrui.

Il mistero di Cristo nella sua totalità, come si è già realizzato nell’Incarnazione e nella Resurrezione, ha una tale forza da essere incomparabile con tutto quello che accade negli strati superficiali e poiché l’uomo è già tutto divorato, assorbito da questo fatto, è già possibile ora (…) la crìsis, il giudizio del mondo[20],

nel senso già precisato: non un giudizio moralistico (che comporta una presa di distanze), ma l’individuazione del fondamento ultimo del lavoro, come di qualsiasi altra esperienza di impegno nel mondo.

I cristiani che maturano questa visione organica dell’uomo e della storia, dirà Dossetti qualche anno più tardi, sono come sentinelle nella notte, che si dispongono a vivere – nella storia – il primato dell’uomo interiore: “In ultima analisi, è solo questo che può vincere la notte… ci vogliono dei battezzati formati ad essere e ad agire nel tempo continuamente guardando all’ultratemporale, cioè abituati a scrutare la storia, ma nella luce del metastorico, nella luce dell’escatologia. Purtroppo, siamo invece più spesso abituati al contrario, cioè a immergerci continuamente e totalmente nella storia, anzi, nella cronaca. La nostra miopia ci fa pensare all’oggi o, al massimo, al domani, sempre egoistico. Non oltre, in una reale dilatazione di spirito, al di là dell’io (…). Questa è la via, diurna e non notturna, verso la città dell’uomo, nella prospettiva sempre intensamente mirata della città celeste, della nuova Gerusalemme” (Milano, 18 maggio 1994).

Interventi dopo la relazione di Giorgio Marcello

Paolo Rubeis Alcune commissioni con Lercaro e Camara approfondirono il tema del lavoro, ma l’aula conciliare non né trasse utilità, per cui Dossetti denuncia giustamente nella Gaudium et Spes tale assenza.

Antonella Soressi– da parte del Concilio c’è stata una nuova attenzione alla realtà e come dice Dossetti, a volte, poco alla profondità; ma quest’attenzione alla vita quotidiana è stato un fatto importante.

Lorenzo D’Amico– È stata una grande ricchezza il ripartire dal quotidiano, ma occorre saper spaziare e approfondire. Quali sono quelle realtà che rimangono nel variare delle situazioni? Così come abbiamo tentato in questa giornata: le relazioni di approfondimento e le testimonianze devono camminare assieme. Il rischio che corriamo è che la fatica di ricerca ci tolga la volontà di continuare. Il discorso di Dossetti è: utilizza tutti e due i polmoni, dilata la capacità di respirare.

Alberto La Porta v. l’aneddoto di “chi costruisce la cattedrale” – Dove mi sta portando questo mio lavoro per me, per la mia famiglia, per la società?

Giada Quale ruolo ha la donna oggi nel mondo del lavoro? Il lavoro deve facilitare la relazione, la dignità, l’emancipazione al di là del compenso, a volte occorre saper scegliere al lavoro retribuito, la relazione gratuita.

Gianfranco Solinas Il rischio grosso è fermarsi ai documenti del Concilio, mentre c’è un’altra esigenza, cogliere lo Spirito del Concilio, cogliere i dinamismi di un Concilio in cammino che ci vuole protagonisti.

Chiara Flamini– Il rapido mutamento che viviamo fa pensare a forze che il singolo non può controllare, occorre un impegno comune, inoltre chiederci: quali sono le realtà immutabili che muovono il lavoro? Questo approfondire può generare qualcosa che è contro la tendenza generale, ma realmente necessario. Ciò che capiamo importante va realizzato.

Maurizio Firmani– Com’è passato Dossetti da consulente a critico del Concilio?

Il lavoro come bene comune di Pierre Carniti

La mia sintesi di quello che ho capito del Concilio è questa, la chiesa vive ed opera nel mondo e con i problemi del mondo si deve confrontare, e tra questi problemi il lavoro non è tra i meno importanti.

La situazione del lavoro è disastrosa, la cronaca ci mette davanti episodi drammatici. In Italia ci sono tre milioni di disoccupati a cui vanno sommati gli scoraggiati, i cassintegrati, i tanti giovani che non studiano e non lavorano e sono totalmente fuori dal circuito sociale. Sommando i disoccupati a queste categorie che formano quest’area grigia arriviamo a sei milioni. Questo significa che tra la popolazione attiva uno su cinque è senza lavoro.

Nell’ambito della popolazione attiva in Italia hanno un lavoro 56 persone su cento, in Francia sono 64 in Germania sono 73.

Su cento giovani sotto i 24 anni, la generazione che dovrebbe costruire il futuro suo e del paese, in Italia ne lavorano 17, in Francia ne lavorano 28, in Germania 47. L’Europa risulta molto diversificata e quindi diversificate dovrebbero essere le strategie economiche.

Il 28,7% dei nostri concittadini è a rischio di povertà relativa, cioè hanno meno della metà del reddito medio del paese, oltre 3 milioni sono in condizione di povertà assoluta. Sempre di più si vede gente, anche italiani, che frugano nei cassonetti. Otto milioni di famiglie vivono con meno di 8.500 € annue.

Essere senza lavoro nella società contemporanea non significa necessariamente non fare nulla o morire di fame ma significa sempre essere esclusi. La perdita del lavoro comporta tra le altre cose sempre una perdita di identità, in questa società continuiamo ad essere definiti dal lavoro che facciamo.

Il lavoro è enormemente cambiato. È cambiata la concezione stessa del lavoro che del resto è cambiata continuamente nel corso della storia. È cambiata l’organizzazione del lavoro, il modo di produrre e il rapporto tra uomo e lavoro. Il lavoro oltre che fonte imprescindibile di reddito, per acquistare i beni necessari ad una vita dignitosa, resta un elemento decisivo di appartenenza e di identità.

In una situazione del lavoro sempre più grave se non si individuano linee di intervento questa situazione è destinata solo a peggiorare. Purtroppo il tema del lavoro rappresenta una grave emergenza sociale ma non rappresenta una priorità politica, intendendo come politica in senso ampio i modi con cui una collettività affronta e cerca di risolvere i suoi problemi. Non rappresenta una priorità proprio della cultura politica non solo dei partiti o dei rappresentanti nelle istituzioni. Dicevo che la situazione è destinata a peggiorare perché negli ultimi tre mesi abbiamo perso centomila posti di lavoro al mese. L’hanno scorso ci sono stati 1.100.000 licenziamenti. Questo rende inaccettabile la contrapposizione che a volte si fa tra precari e “troppo” garantiti perché di questa cifra ben 500.000 erano cosiddetti garantiti.

L’idea che nella cultura economica e politica si è portata avanti è quella che l’innovazione tecnica od organizzativa che distruggeva posti di lavoro in un settore ne avrebbe creati in altri. E così è stato per molto tempo, quando nel dopoguerra si abbandonarono le campagne si impiegò questa forza lavoro nell’industria sia pure con i gravi costi umani dell’immigrazione interna da sud a nord. Quando anche l’industria ha avuto bisogno di meno manodopera si è detto, chi non ha più lavoro nell’industria lo troverà nei servizi. Ma l’automazione anche nei servizi ha fatto diminuire il bisogno di manodopera e quindi non può assorbire l’eccedenza degli altri settori.

In definitiva il lavoro disponibile non è sufficiente per tutti, per quelli che vorrebbero o dovrebbero lavorare. Qui bisognerebbe aprire una digressione sulla globalizzazione perché è chiaro che l’enorme massa delle persone che nel mondo viveva in povertà preme per una migliore distribuzione delle ricchezze e tra esse anche del lavoro. Ma anche restando in campo nazionale od europeo possiamo dire che il lavoro disponibile non è sufficiente per tutti.

Questa situazione può produrre conseguenze drammatiche, la protesta che non venisse canalizzata o non portasse risultati, e io non penso che il conflitto sia un male in sé ma che lo possa diventare il conflitto senza regole, potrebbe portare prima alla ribellione, poi alla rivolta e poi a conseguenze imprevedibili. Per fermare questa slavina che potrebbe portare conseguenze esiziali per tutta la società dobbiamo affrontare il problema redistributivo, partendo dal problema delle tasse e del costo del lavoro. Quando sento di qualcuno che si toglie la vita perché senza lavoro per me è una coltellata nella schiena perché ci interroga se siamo, o vogliamo essere o riusciamo ad essere una comunità, o siamo preda, anche noi cattolici, di una cultura dell’individualismo e della competizione. Quell’uomo che si è impiccato in Sicilia con la costituzione in mano ha lasciato un bigliettino significativo: “Ho deciso di togliermi dalla lista dei disoccupati”. Questa è una storia che interroga la coscienza del paese.

Se non cresce la domanda interna, si ridurrà inevitabilmente il volume della produzione e quindi il numero degli occupati. Bisogna quindi applicare delle correzioni per far crescere la domanda, ne cito alcune:

  • Pagare i debiti della pubblica amministrazione.
  • Rifinanziare la cassa integrazione (a giugno ci sono 500.000 lavoratori che la perderebbero).
  • Risolvere il problema degli esodati.
  • Anche se in una situazione con poche risorse si possono prendere alcune iniziative, in primis attivare lavori di manutenzione ordinaria, scuole, ospedali, territorio.
  • Ridurre le tasse sul lavoro per aumentare il reddito disponibile
  • Ripartire meglio il lavoro disponibile:

– avviare un servizio civile obbligatorio per tutti i giovani con un compenso anche modesto, 5-600,00 € al mese da effettuarsi non in strutture pubbliche ma presso onlus, associazioni di volontariato, nell’aiuto a persone in difficoltà. Lo scopo di questa iniziativa, molto più fattibile e sensata del reddito di cittadinanza, potrebbe essere di familiarizzare i giovani che sono rimasti estranei al circuito lavorativo al lavoro e di abituarli a considerare la solidarietà e all’uguaglianza un fondamento migliore dell’individualismo e la competizione per costruire la coesione sociale,

– favorire il part time volontario, in Italia in questi anni è aumentato solo un part time discriminatorio e indotto specie per le donne, con una speciale attenzione ai giovani che nel loro progetto di vita potrebbero alternare il lavoro alla formazione o all’istruzione

– Modificare la riforma delle pensioni Fornero, ripristinando il pensionamento flessibile volontario sia pure con una penalizzazione in termini economici.

– Ridurre e ripartire il lavoro disponibile riducendo gli orari, ad esempio dopo la crisi del ’29 in America Roosevelt oltre a rimettere in moto l’economia con un forte intervento in opere pubbliche chiamò le organizzazioni sindacali e quelle imprenditoriali per trovare un accordo sulla riduzione degli orari di lavoro. Ci sono due modi di ridurre gli orari: 1) I cosiddetti contratti di solidarietà, invece di licenziare si ripartisce l’orario tra tutti, nessuno va a casa, nessuno e fuori, se l’azienda torna nella possibilità di farlo si ritorna agli orari normali. L’esempio è quello della Volkswagen che ha ridotto per un periodo fino ad un terzo l’orario di lavoro per non licenziare e ora ha ripristinato gli orari ed anzi ha assunto nuova manodopera. Questo è uno strumento di tipo difensivo per non aumentare la disoccupazione , si riduce invece di licenziare. 2) Se invece si vuole ridurre la disoccupazione, e dare una speranza concreta ai giovani bisogna fare un intervento di tipo generale per la ripartizione del lavoro.

Queste sono idee radicali o pauperistiche, le organizzazioni delle imprese ci dicono “noi vogliamo distribuire la ricchezza voi volete distribuire la povertà”, ma sono suffragate da studi economici. Cito due famosi economisti:

Keynes in una conferenza a Barcellona nel 1932 diceva in un opuscolo “Promemoria per i nostri pronipoti”: “nell’arco di 100 anni se non ridurremo gli orari di lavoro a 15 ore settimanali saremo sommersi e travolti dal problema della disoccupazione”.

Leontief, premio Nobel per l’economia 1973, sostenendo anche lui la tesi della riduzione degli orari e della ripartizione del lavoro e ritenendo che questa misura era necessaria anche solo per tenere conto delle innovazioni tecnologiche, fece questo esempio: “se quando è stato introdotto il trattore in agricoltura i cavalli avessero deciso di lavorare per meno fieno comunque, entrando in competizione con trattori sempre più potenti, sarebbero finiti fuori gioco e al macello”.

Poiché non vogliamo che questa sia la fine dei lavoratori e del lavoro e continuiamo a ritenere il lavoro un bene sociale, politico ed umano che va salvaguardato, quando questo bene si riduce, per evitare che si producano disastri sociali che non saremmo in grado di sopportare, dobbiamo pensare agli strumenti realistici che ci permettano di raggiungere questa salvaguardia.

Ripeto che questa crisi del lavoro a cui assistiamo a volte troppo passivamente esprime una emergenza sociale ma non una priorità politica. Perché non è una priorità politica il lavoro malgrado i disastri che sono sotto gli occhi di tutti?

In primo luogo perché la cultura economica prevalente per lo meno degli ultimi trent’anni, soprattutto quella liberista ma anche quella laburista, ritiene che il problema del lavoro possa essere risolto solo dal mercato, che sarebbe il fattore migliore di distribuzione delle risorse, cosa del tutto discutibile e contraddetta dai fatti, io non ho un pregiudizio anti mercato ma a patto che il mercato sia regolato se no le distorsioni del mercato producono disastri, inoltre ci sono dei beni che non possono essere affidati al mercato, i beni comuni quali l’acqua, la salute, l’istruzione ma io dico anche il lavoro che nella mia concezione è un bene comune da tutelare come un bene relazionale da mantenere per coinvolgere tutti nella costruzione della società. Il pieno impiego è una delle questioni che il mercato non sa e non può risolvere. L’ideologia mercatistica dice che tutto si può vendere o comprare sul mercato, no, ci sono cose che non possono essere vendute e non possono essere comprate, sono i fattori coesivi che fanno di noi una società e non solo un amalgama di persone che si incontrano casualmente. Siamo arrivati a una tale estremizzazione della ideologia del mercato che si è arrivati a privatizzare la guerra come ci insegna la guerra in Afghanistan in cui il numero dei “contrattors” è superiore a quello dei soldati americani, in questo modo mettendo in gioco valori fondamentali che attengono alla concezione stessa della democrazia.

La seconda ragione che la priorità dei governi è stata ed è la sicurezza personale e patrimoniale delle persone. I manifesti elettorali più grandi con un Alemanno sorridente per valorizzare i risultati di questi 5 anni dicono:” -14% di reati”, il problema ora non è se sia vero o no, non c’è un manifesto che dica -14% di disoccupati. I politici sanno che la gente deplora il fatto che non ci sia lavoro e ci siano tanti disoccupati, sa però che la sicurezza è ritenuta dalla cittadinanza la vera priorità e su quella investe politicamente ed economicamente. Se c’è una rapina la gente protesta, fa manifestazioni e si chiede cosa fa il governo, se il 50% dei giovani è senza lavoro ci si ferma alla deplorazione. La disoccupazione resta così un problema privato dei disoccupati, non una vera priorità politica.

Per uscire da questa palude bisogna cambiare la priorità dei valori di riferimento. Dobbiamo ripartire dalla concezione del lavoro come è un fatto sociale, un bene comune che come tale va inteso, percepito e difeso. La disoccupazione non è solo un problema dei disoccupati ma un problema di tutta la comunità.

Si può cambiare questa situazione? Io credo di sì, non c’è nulla di facile ma nulla di impossibile, io credo, e lo dico in particolare ai giovani che occorra raccogliere l’esortazione di Papa Francesco: “Non fatevi rubare la speranza”. E per far questo bisogna avere obiettivi molto forti e persino radicali.

Siccome ho citato Papa Francesco cito la sua antitesi Macchiavelli il quale parlando ai principi diceva “L’arciere che vuole centrare il bersaglio deve mirare in alto, perché per andare al centro del bersaglio la freccia deve essere scagliata verso l’alto”. Gli obiettivi devono essere impegnativi e difficili.

La situazione attuale non è accettabile, molte responsabilità sono della politica ma ci sono responsabilità che interpellano ciascuno di noi. Può darsi che nel nostro piccolo qualcosa di più si possa fare.

Interventi dopo la relazione di Perre Carniti

Alberto La Porta Il telegramma della Segreteria di Stato del Vaticano per la morte della Thatcher: “che ha portato nella vita pubblica valori cristiani” ?!?

C’è un’analisi sovranazionale o almeno europea, che sta valutando la situazione del lavoro?

Luigi Mochi Sismondi I vari sistemi economici oggi dominanti hanno un nome comune: “la sopraffazione dell’uno sull’altro”. Il centro del problema è la solidarietà al posto dell’individualismo; non è lo scontro degli egoismi che crea futuro, ma la solidarietà. Occorre cambiare i nostri paradigmi culturali.

Maurizio Firmani Quale legame c’è tra le promesse non mantenibili dei politici e le richieste non mantenibili da parte dei giovani?

Micaela Soressi– Solidarietà è la proprietà dei solidi, è costituzione di relazioni profonde: ascolto, identità, solidarietà e capacità di lottare per ciò che vale veramente.

Vittorio Sammarco Il lavoro perde di valore, perché perde di senso la vita dell’uomo, non c’è sguardo al futuro, oltre l’immediato; la società dei consumi ci spinge a pensare solo al presente. Ci viene detto: pensa al presente, consuma per riavviare il futuro, ma se non si pensa al futuro non si riavvia il presente.

Franco Passuello l’attuale mercato non è governabile. Nel passato il conflitto industriale permetteva un equilibrio tra democrazia e capitalismo. Solo se strappiamo il lavoro e i lavoratori dal pensarli merce, è possibile costruire un futuro. dobbiamo impegnarci in basso a produrre valori e ricchezza, ma non profitto, dobbiamo impiegare tutte le nostre capacità per produrre ricchezze vere per la società.

Francesco Giordano L’organizzazione attuale del lavoro gira attorno ai bisogni di alcuni di diventare molto ricchi vendendo i loro prodotti e trovando acquirenti? In questo stato di cose le persone tutte hanno valore come mezzi per ottenere i propri privilegi o per se stesse?

Gianfranco Solinas I vari discorsi che abbiamo ascoltato, ci spingono a sperimentare con coraggio, ognuno di noi deve sperimentare e mettere in rete gli esperimenti fatti.

Giovanna Liberati – Insegno in una scuola dell’infanzia e una madre diceva: “quest’anno i bambini si conoscono tutti”. Ogni mattina affido un incarico, un servizio agli altri e questo genera solidarietà. Servizio, conoscenza e solidarietà vanno di pari passo.

Pierre Carniti Il contratto nazionale del lavoro è stato un punto fondamentale per la crescita del lavoro e dei lavoratori, così credo che un contratto europeo aiuterà in questa direzione. Il contratto nazionale era una garanzia non solo per i lavoratori, ma anche per gli imprenditori: quel contratto lo garantiva rispetto agli altri imprenditori, perché anche loro dovevano rispettare le stesse regole. Con la globalizzazione non ci sono più regole generali, occorrono almeno a livello europeo.

Occorre porre le briglie alla finanziarizzazione dell’economia (v. Tobin Tax). Valorizzare i lavori che non hanno come scopo la rendita o il profitto. Occorre una lotta seria all’aumento delle disuguaglianze: l’aumento delle ricchezze non genera un benessere comune, aumenta le disuguaglianze.

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  1. Gallino L., Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, 2011
  2. Dossetti G., “Appunti per un’antropologia critica o del profondo (14 settembre 1966)”, in Alberigo G. (a cura di), L’officina bolognese, EDB, 2004, pp. 175-196
  3. Abbagnano N., voce “Antropologia”, in Dizionario di filosofia, Utet, 1974
  4. Edizione on line, sul sito www.treccani.it
  5. Dossetti, cit., p. 181
  6. Ivi, p. 182
  7. ibidem
  8. Ivi, p. 183
  9. ibidem
  10. Dossetti G., Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione, Il Mulino, 1996. Sul punto, vedi anche i saggi di Castelli in Castelli M., Corradino S., Parisi P., Stancari G., Dialoghi sulla laicità, Rubbettino, 2001
  11. Dossetti G., Appunti…, cit., p. 183
  12. Ivi, p. 187
  13. ibidem
  14. ibidem
  15. Ivi, p. 192
  16. Ivi, p. 193
  17. Castelli M., Corradino S., Parisi P., Stancari G., Dialoghi sulla laicità, cit., p. 18
  18. Dossetti G., Appunti…, cit., p. 195
  19. ibidem
  20. ibidem