Lettera 26 (Seconda Serie)

In questo numero continuiamo a riflettere in occasione dei 50 anni del Concilio Vaticano II e presentiamo un documento che abbiamo trovato particolarmente interessante, è la riflessione del teologo malese Edmund Chia sulla nascita della coscienza di sé della Chiesa asiatica come conseguenza del Concilio. È questo un esempio di quel lento e difficile processo di decolonizzazione della teologia e della prassi ecclesiale che nel Concilio trova la sua ispirazione.

Mentre scriviamo siamo ancora in attesa dell’elezione del Vescovo di Roma, in questa occasione, di cui avremo modo di parlare più compiutamente nelle prossime lettere, vogliamo riproporre sulla procedura di elezione del Papa un articolo che apriva la prima lettere della Tenda nel Giugno del 1969, sono passati quasi 44 anni ma a nostro parere conferma la sua validità.

Aggiungiamo il bilancio economico annuale ringraziando tutti gli amici che ci hanno aiutato e quelli che vorranno continuare o cominciare a farlo.

 

Come accennavamo nella lettera di gennaio, il prossimo incontro, che si terrà il 20 aprile, affronterà, di nuovo alla luce del Concilio, il tema della riflessione sul mondo del lavoro e dell’economia con un interesse particolare al ruolo dei giovani: non vogliamo infatti solo raccontare il Concilio ma prendere in mano il metodo di riflessione, di partecipazione e di giudizio sul mondo che ha guidato i Padri Conciliari.

Siamo confortati in questo tentativo dalle Parole iniziali della “Gaudium et spes”:

“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.(…)

Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.”

Di queste parole da tempo cerchiamo di fare il nostro programma e quale speranza-angoscia in questo periodo di forte crisi e di dura difficoltà specie per i più poveri, possiamo sentire più fortemente del problema del lavoro ed in modo particolare del lavoro per i giovani? Ci aiuterà in questa riflessione un “esperto” veramente all’altezza del tema: Pierre Carniti segretario generale della CISL dal 1979 al 1985 e poi deputato europeo per due legislature impegnato in questa difficile attualità in una riflessione sulla diseguaglianza, il lavoro e la democrazia. A lui abbiamo chiesto di svolgere la relazione introduttiva.

“ECONOMIA E LAVORO: DIFENDERE LA GIUSTIZIA , CREARE OPPORTUNITÀ PER I GIOVANI”

2° Incontro de “La Tenda” sul Concilio Vaticano 2°

Sabato 20 aprile 2013 dalle 9,30 alle 18

Relazione introduttiva di Pierre Carniti

(il pranzo condiviso sarà offerto dal gruppo de “La Tenda”)

presso il teatro della Parrocchia dei SS. Simone e Giuda Taddeo

a Torre Angela – Via di Torrenova 162 , Roma

(in ultima pagina le indicazioni per arrivare)

Sommario della 26° lettera:

  1. “Il Vaticano II e la nascita della Chiesa asiatica” Edmund Chia (teologo malese)
  2. “L’elezione del Vescovo” da La Tenda n° 1 del Giugno 1969
  3. Bilancio economico 2012 della Lettera del Gruppo “La Tenda”

 

“Il Vaticano II e la nascita della Chiesa asiatica” Edmund Chia (teologo malese)

(testo da Adista Documenti del 6 ottobre 2012 con integrazioni dal testo originale di Francesco Cagnetti)

IL TEMPO DEGLI EREDI

Non è troppo azzardato affermare che la Chiesa asiatica sia nata sulla scia del Concilio Vaticano II. Fino ad allora esistevano svariate Chiese asiatiche, piuttosto che una sola Chiesa unita. Inoltre, pur esistendo da più di 500 anni, queste Chiese in Asia erano più simili a piccole colonie delle loro Chiese madri in Europa. Non solo conservavano una maggiore somiglianza con l’Europa piuttosto che con l’Asia, ma la loro gerarchia era anche maggiormente in contatto con funzionari ecclesiastici europei che con altri vescovi in Asia. Infatti, fu al Concilio Vaticano II che molti dei vescovi asiatici si incontrarono ed ebbero modo di conoscersi per la prima volta. Al loro ritorno in Asia, rimasero in contatto e, successivamente, accarezzarono l’idea di creare una

sorta di struttura che alimentasse il nuovo spirito di comunione che si era creato tra di loro.

La visita di Paolo VI in Asia nel 1970 rappresentò l’occasione per i vescovi asiatici di ritrovarsi a Manila, nelle Filippine. L’evento riunì 180 vescovi provenienti da tutta l’Asia, i quali colsero l’occasione per chiedere che fosse convocato un incontro dei vescovi asiatici (ABM, Asian Bishops’ Meeting). Fu durante questo incontro che venne concepita l’idea di una Federazione delle Conferenze Episcopali dell’Asia (FABC). Citando il domenicano francese Yves Congar, il gesuita filippino C.G. Arévalo suggerì che l’Incontro dei vescovi asiatici fosse considerato come l’atto di nascita di una Chiesa veramente asiatica: «E ora gli eredi hanno recuperato la propria voce, ora possono parlare per se stessi… Ora è il tempo degli eredi».

Il teologo indiano Felix Wilfred così si è espresso riguardo all’ABM: «Mai prima di allora i vescovi asiatici si erano riuniti per condividere esperienze e deliberare su questioni comuni e sui problemi che affliggono il Continente. L’incontro ha segnato l’inizio di una nuova consapevolezza riguardo ai molti collegamenti tradizionali che univano i vari popoli di questa parte del mondo». Al termine dell’incontro, i vescovi diffusero una Dichiarazione riconoscendo di aver visto «il volto dell’Asia finalmente emergere come vera comunità di popoli. Perché le barriere che hanno così a lungo isolato le nostre nazioni cadono una dopo l’altra, e tra noi cresce il desiderio di conoscerci e di scoprirci come nazioni sorelle asiatiche, tra le quali possono nascere saldi rapporti di amicizia e di fiducia, di collaborazione, di condivisione e solidarietà vera».

I vescovi conclusero l’incontro sollecitando la creazione della FABC: «Le Conferenze episcopali qui rappresentate sono invitate ad autorizzare e sostenere una struttura permanente per l’attuazione efficace delle decisioni di questo incontro». Con questo mandato, a Hong Kong, quattro mesi più tardi, nel marzo 1971, si svolse una riunione tra gli undici presidenti delle Conferenze episcopali al fine di discutere la natura, gli obiettivi e la portata della proposta di una federazione. A Hong Kong, tuttavia, i vescovi incontrarono il loro primo ostacolo nelle riserve espresse su tale proposta da alcuni funzionari della Curia romana, come rivelato dal vescovo Edward Cassidy, allora nunzio a Taipei.

In un’intervista al cardinale sudcoreano Stephen Kim, che fu tra i vescovi che parteciparono alla riunione di Hong Kong, Thomas Fox riporta quest’affermazione del cardinale: «Cassidy ci disse che non c’era niente che si potesse fare. L’unica cosa era andare a far shopping, o lasciare Hong Kong subito. Rimanemmo scioccati». A quanto pare, Roma temeva che la federazione proposta delle Conferenze episcopali dell’Asia potesse lanciare le stesse sfide che stava ponendo il Consiglio Episcopale Latino- Americano (CELAM), fondato nel 1956. Va ricordato che la Conferenza di Medellín del 1968, in cui venne lanciata l’opzione per i poveri, aveva generato un enorme disagio tra i funzionari curiali. Roma non desiderava di sicuro che un altro gruppo di Conferenze episcopali percorresse una strada simile, tanto più dopo l’approvazione di fatto dell’opzione per i poveri da parte dell’episcopato asiatico. Il vescovo filippino Julio Labayen commentò poi che i vescovi di Curia avevano effettivamente criticato la Dichiarazione ABM come «opera di sociologi piuttosto che di uomini di Chiesa». In ogni caso, dopo un po’ di dibattito, i vescovi riuniti a Hong Kong decisero di proseguire la loro riunione.

E questo può essere considerato il primo atto della Chiesa asiatica, in maniera simile a ciò che accadde alla prima sessionedel Concilio Vaticano II, quando i delegati episcopali rifiutarono di cedere alle raccomandazioni dei vescovi curiali per quanto riguardava la gestione del Concilio. Così, i vescovi

di Hong Kong si fecero avanti con le loro proposte e con le bozze degli statuti, poi approvate dalla Santa Sede nel novembre 1972. La FABC venne ufficialmente costituita due anni dopo l’ABM, un evento spesso considerato come un prodotto di «ispirazione profetica» e una «grazia della collegialità».

IL CONTESTO DELLA CHIESA IN ASIA

La creazione di un’istituzione pan-asiatica finalizzata alla condivisione collegiale è stato solo il primo passo nello sviluppo della Chiesa asiatica. Il passo più importante si è avuto in realtà con la nascita di idee teologiche nuove, con le riflessioni profetiche dei vescovi asiatici e dei loro teologi di fronte alle realtà contestuali del Continente. (…).

Un tema ricorrente nelle loro riflessioni teologiche è quello dell’Asia come «continente di masse brulicanti … [con] … quasi due terzi dell’umanità. Si tratta di un volto in gran parte segnato dalla povertà, dalla denutrizione e dalla malattia, devastato dalla guerra e dalla sofferenza, turbato e inquieto» (ABM, art. 5). Un altro tema ricorrente è quello dell’«Asia come continente di culture, religioni, storie e tradizioni antiche e diverse, una regione variopinta come la tunica di Giuseppe» (ABM, art. 7). Se l’Asia è diversa da tutti gli altri continenti, lo è in quanto culla delle grandi religioni del mondo. I vescovi si rendono conto che sono queste «grandi tradizioni religiose asiatiche a costituire la base della creazione, della crescita e dello sviluppo delle culture e delle nazioni di questo grande Continente» (FABC IV, art. 3.0.2).

Al di là delle realtà contestuali esterne alla Chiesa, bisogna anche lottare con l’atteggiamento che ha caratterizzato la Chiesa asiatica almeno fino al 1970. Un buon riassunto è costituito dalla seguente dichiarazione dell’ABM: «Dobbiamo però riconoscere anche, con rammarico, gli aspetti nei quali siamo deficitari: laddove abbiamo cercato di favorire solo ristretti interessi

“nazionali”; laddove avremmo potuto mostrare più compassione e sollecitudine per i poveri e non siamo stati sufficientemente vigorosi nell’esprimerci a favore della giustizia e della difesa dei diritti umani; laddove non abbiamo incarnato la Chiesa nei modi e nelle forme delle nostre rispettive culture, mantenendola quindi come un’estranea nelle nostre terre; laddove non abbiamo perseguito la comprensione, la riconciliazione e la collaborazione con i nostri fratelli di altre Chiese cristiane e di altre

fedi (ABM, art. 17).

Purtroppo, a causa degli atteggiamenti assunti nel corso dei secoli, la Chiesa è apparsa disincarnata e pertanto estranea ai popoli dell’Asia. Le sue origini e il suo patrimonio coloniale, la sua costante dipendenza dalle norme, dai soldi e dall’autorità dell’Occidente hanno contribuito ulteriormente all’estraneità della Chiesa. Un’estraneità aggravata dal fatto che i cristiani costituiscono una piccola minoranza nella maggior parte del Continente. Oggi, ad eccezione delle Filippine e di Timor Est (dove vivono circa i due terzi di tutti i cristiani presenti in Asia) e della Corea (dove circa il 25-30% della popolazione è di fede cristiana), negli altri Paesi i cristiani rappresentano una minima percentuale della popolazione. Una religione di minoranza, come avviene a tutte le minoranze, soffre spesso di un complesso di inferiorità. La percezione della propria irrilevanza può generare a tal punto ansia e timore da indurre a considerare le persone esterne al gruppo come concorrenti, come nemici o anche come potenziali persecutori. La preoccupazione principale di una Chiesa in tali condizioni è allora la sopravvivenza del proprio piccolo gregge. Ciò la porta ad autocentrarsi e di conseguenza ad isolarsi dalle realtà culturali.

L’ADOLESCENZA DELLA CHIESA ASIATICA

È allora che i vescovi asiatici hanno espresso la loro posizione profetica. Invece di cedere al vecchio paradigma e alla mentalità di una Chiesa autocentrata, i vescovi hanno preso sul serio l’invito del Vaticano II ad impegnarsi nel mondo moderno, guardando all’esterno per discernere dove e come la Chiesa dovesse condurre la propria missione e la propria evangelizzazione. Due anni dopo la sua creazione, la FABC ha tenuto la sua

prima Assemblea plenaria per discutere il tema dell’«Evangelizzazione nell’Asia moderna». «Per predicare il Vangelo in Asia – hanno sostenuto i vescovi – oggi dobbiamo realmente incarnare il messaggio e la vita di Cristo nella mentalità e nella vita dei nostri popoli» (FABC I, art. 9). A questo

proposito, «la creazione di una Chiesa veramente locale» (FABC I, art. 9) diventa di primaria importanza, e, perché ciò accada, la Chiesa deve essere «in costante, umile e affettuoso dialogo con le tradizioni, le culture, le religioni, in breve con tutte le realtà di vita del popolo in mezzo al quale ha affondato profondamente le sue radici e la cui storia e la cui vita fa volentieri proprie» (FABC I, art. 12).

Le Assemblee plenarie successive, tenute ogni 4 o 5 anni, hanno discusso i temi della preghiera, della comunione, della vocazione e della missione dei laici. Sorvolerò su queste per parlare in particolare della V Assemblea plenaria, a Bandung, nel 1990.

Quest’assemblea è stata unica nel suo genere perché ha fatto appello a un «modo totalmente nuovo di essere Chiesa» (…). «Per i cristiani in Asia – hanno dichiarato i vescovi – proclamare Cristo significa soprattutto vivere come lui, tra i nostri vicini di fedi e posizioni diverse, e realizzare ciò che lui compie con il potere della sua grazia. La proclamazione attraverso il dialogo e le azioni: ecco il principale invito alle Chiese in Asia» (FABC V, art. 4.1).

L’altro aspetto degno di nota della V Assemblea plenaria è il fatto che si è svolta esattamente 20 anni dopo l’ABM. L’Assemblea di Bandung, dunque, commemorava due decenni di nuova consapevolezza, celebrando la maturità della Chiesa dell’Asia e la sua capacità di prendere posto nella società asiatica. (…). Confrontando le diverse dichiarazioni, si nota come negli ultimi due decenni sia stato dato maggiore spazio a temi sociali come la globalizzazione, la migrazione, la militarizzazione, l’ecologia, i rifugiati, ecc. (…).

VERSO UN’EVANGELIZZAZIONE INTEGRALE ATTIVA

L’ Assemblea plenaria del 2000 ha segnato un altro importante passo avanti per la FABC. Svoltasi 30 anni dopo l’ABM, ha rappresentato l’occasione per rileggere il modo in cui la Chiesa asiatica si era sviluppata. Ecco come i vescovi vedevano la situazione: «Per 30 anni, nel tentativo di riformulare la nostra identità cristiana in Asia, abbiamo affrontato, una dopo l’altra, differenti questioni: l’evangelizzazione, l’inculturazione, il dialogo, l’anima asiatica della Chiesa, la giustizia, l’opzione per i poveri, ecc. Oggi, a 30 anni di distanza, non parliamo più di questioni distinte. Stiamo affrontando i bisogni del presente, che sono massicci e sempre più complessi. E che non sono argomenti da discutere separatamente, ma aspetti di un approccio integrato alla nostra missione di amore e servizio. Dobbiamo agire in maniera integrata. Dobbiamo farlo, di fronte alle esigenze del XXI secolo, con cuore asiatico, in solidarietà con i poveri e gli emarginati, insieme a tutti i nostri fratelli e sorelle cristiani e unendo le forze con tutti gli uomini e le donne d’Asia di molte e diverse fedi. L’inculturazione, il dialogo, la giustizia e l’opzione per i poveri sono aspetti costitutivi di tutto quello che facciamo» (FABC VII, parte III). È stata utilizzata l’espressione “evangelizzazione integrale attiva” per descrivere la direzione che la Chiesa è chiamata a prendere, a partire da un rinnovamento del concetto cristiano asiatico di missione ed evangelizzazione. In particolare, la FABC ha inteso la missione della Chiesa in primo luogo come un «essere con il popolo, rispondendo alle sue esigenze, rivolgendo l’attenzione alla presenza di Dio nelle culture e nelle altre tradizioni religiose e testimoniando i valori del Regno di Dio attraverso la presenza, la solidarietà, la condivisione e la parola» (FABC V, art. 3.1.2). Come sostiene Felix Wilfred, «nella ricerca di una risposta alle sfide del contesto asiatico, il Regno di Dio diventa, nel pensiero dei vescovi, un punto centrale, offrendo il quadro più adeguato per dare un senso alle loro due esperienze più importanti, che sono anche le loro preoccupazioni principali: il pluralismo religioso e culturale dei popoli asiatici e l’incidenza di una povertà di massa». Ne consegue quindi che «Gesù è rilevante per l’Asia non perché la maggioranza della popolazione asiatica è di fede non cristiana, ma perché è povera».

E questo ci porta alla questione di come i vescovi asiatici guardino alle altre religioni. Fin dall’inizio la loro posizione è stata inequivocabile. La prima assemblea plenaria della Fabc fu esplicita nel considerare le altre religioni come «elementi davvero significativi e positivi per l’economia del disegno divino di salvezza» (FABC I, art. 14). I vescovi sono sempre stati consapevoli del fatto che le religioni dell’Asia sono state la fonte e l’ispirazione per generazioni di persone, contribuendo per millenni allo sviluppo spirituale e alla crescita del Continente.

E di conseguenza si sono chiesti: «Come sarebbe possibile, allora, non tributare loro onore? Come non riconoscere che Dio ha attratto a sé i nostri popoli attraverso di loro?» (FABC I, art. 15). La pluralità

delle religioni, hanno proseguito, è non solo tollerata ma accettata come parte del disegno divino di salvezza per gli esseri umani: «Le grandi religioni dell’Asia, con le loro credenze, i loro culti e i rispettivi codici ci rivelano diversi modi di rispondere a Dio, il cui Spirito è all’opera in tutti i popoli e in tutte le culture». «La diversità – sostengono – non è qualcosa da deplorare e da abolire, ma da lodare e da promuovere, come ricchezza e come forza. L’armonia non è semplicemente l’assenza di conflitto, una sorta di “vivi e lascia vivere”. La vera armonia è nell’accettazione della diversità come ricchezza».

Se c’è un concetto alla base di tutta la riflessione teologica della FABC, questo è l’armonia. Nel confronto con le realtà dell’Asia, in particolare con la povertà, con l’ingiustizia e con il pluralismo culturale e religioso, il principio guida che ha plasmato il pensiero della FABC è il modo in cui le cose possono raggiungere una maggiore armonia. «Al centro della nostra visione della vita vi è il senso asiatico di riverenza nei confronti del mistero e del sacro, una spiritualità che coglie la sacralità della vita e la presenza del Trascendente e dei suoi doni anche nelle questioni banali, nella tragedia e nella vittoria, nella sconfitta e nell’integrità.

Questa profonda interiorità conduce le persone a sperimentare l’armonia e la pace e infonde un senso etico in tutta la creazione» (FABC VI, art. 10).

VISIONE NON SIGNIFICA NECESSARIAMENTE RICEZIONE

Quanto ho appena esposto è la visione dei vescovi riguardo a ciò che la Chiesa dell’Asia dovrebbe essere e al modo in cui dovrebbe svilupparsi. Il che, purtroppo, non coincide necessariamente, o almeno non ancora, con quello che la Chiesa asiatica effettivamente è. Proprio come esiste un dibattito sull’ermeneutica della continuità rispetto a quella della discontinuità

in relazione al Concilio Vaticano II, così la stessa discussione si ritrova in Asia per quanto riguarda gli insegnamenti, il ruolo e la statura della FABC. Se, su un piano teorico, la FABC ha elaborato una serie di insegnamenti dirompenti rispetto agli insegnamenti classici e tradizionali sulla missione ed evangelizzazione della Chiesa, alcuni vescovi asiatici, quelli più legati ad approcci colonialisti, preferiscono interpretazioni più in continuità con la storia della missione asiatica. Basti dire che la ricezione degli insegnamenti della FABC è stata, nella migliore delle ipotesi, ambigua. Esiste, inoltre, anche il problema dello statuto e dell’autorità delle Conferenze episcopali regionali, come la FABC (o il CELAM o la Conferenza episcopale australiana). Infatti, in base agli statuti della FABC, si tratterebbe di una «associazione volontaria » il cui scopo è quello di «promuovere la solidarietà tra i suoi membri e la corresponsabilità per il bene della Chiesa e della società in Asia». La FABC, dunque, è superfluo dirlo, manca di autorità e così i suoi insegnamenti e le sue raccomandazioni rimangono «senza effetto giuridico».

Ma, proprio come noi ci rallegriamo dei sedici documenti del Vaticano II e dello spirito di rinnovamento che hanno ispirato, possiamo anche gioire della visione e del progetto di rinnovamento di cui dispone la Chiesa asiatica. Se la realtà, sul territorio, non sembra coerente con questa visione, è in parte perché le richieste poste dalla fede cristiana sono enormi. Una Chiesa inculturata e aperta al dialogo è necessariamente accompagnata da un atteggiamento estraneo ad ogni esibizione trionfalistica della fede. Si tratta, purtroppo, di un lavoro difficile per la Chiesa in Asia. E ciò spiega in parte il fatto che oggi tale visione si trovi principalmente nei documenti della Federazione delle Conferenze Episcopali dell’Asia.

 

L’Elezione Del Vescovo

 

Da “La Tenda” giugno 1969

 

Il Cardinale di Bruxelles, Suenens, ha rilasciato alle “Informations Catholiques Internationales” (n. 336, 15 maggio 1969, supplemento) una lunga intervista. In essa (pag. IX) si legge: “Credo che un giorno ci sarà da rivedere alla luce della collegialità episcopale il modo di eleggere il papa”. La cosa ci riguarda: è il nostro Vescovo.

Attualmente l’elezione del Vescovo di Roma è affidata al collegio dei cardinali.

Chi sono i cardinali? Un po’ di storia, ridotta al minimo: il Vescovo di Roma, come ogni altro vescovo, era coadiuvato, e se necessario sostituito, dai “presbiteri” (= i preti) e dai “diaconi”, questi ultimi anche per l’amministrazione temporale dei bei della comunità. In concilio con altri “episcopi”, particolarmente quelli più vicini (dei castelli romani, diremmo oggi), il papa curava le questioni che riguardavano la comunione con le altre chiese. Da questi tre nuclei nasce lentamente il collegio dei “cardinali”. Questi, dapprima collegati col servizio liturgico di S. Giovanni in Laterano (sede del papa), assumono storicamente funzioni variabili, tra le quali la elezione del papa (riservata ai soli cardinali e vescovi dal 1059, ed ai soli cardinali dal 1179).

Nella storia abbastanza fluttuante del collegio dei cardinali notiamo un elemento assolutamente costante: i cardinali sono sempre collegati ad una chiesa di Roma se preti, o ad una regione diaconale della città. I vescovi entravano nel collegio a titolo della loro vicinanza con la città; e si sentì anche per essi il bisogno di un reale collocamento “nella” diocesi romana, provvedendosi quindi alla loro assunzione al collegio di S. Giovanni in Laterano. Tanto doveva esser forte il senso della comunità locale organicamente composta!

I cardinali dunque furono sempre collocati ecclesiologicamente, liturgicamente, giuridicamente come preti, diaconi e vescovi romani (ed oggi solo a titolo onorifico senza alcun contenuto reale, dopo le ultime disposizioni di Paolo VI, Motu proprio del 15 aprile 1969).

Delle funzioni che questi preti romani hanno conservato a noi interessa soprattutto la precipua: l’elezione del nostro vescovo. Ed a questo riguardo, e sempre semplificando, ancora un po’ di storia.

Nei secoli I-III l’elezione del papa avveniva come per ogni altro vescovo. Cipriano così racconta della elezione di Cornelio nel 251: scelta del clero e del popolo, conferimento dell’episcopato da parte dei vescovi presenti, lettera al vescovo di Cartagine per la comunione. Dal Concilio di Nicea (325) in poi il papa venne eletto dal solo clero; popolo e nobili davano l’approvazione. Iniziò dopo Costantino il lungo periodo delle interferenze del potere politico sulle nomine ecclesiastiche (e viceversa), e a Roma, in particolare, la storia degli interessi dell’aristocrazia nell’elezione papale.

Per tentare uno sblocco, l’elezione del papa venne riservata, all’inizio del 2° millennio, al collegio dei cardinali. A quel livello si trasferirono gli interessi e le pressioni. Non ne mancavano i motivi: i cardinali erano gli elettori del papa ed i titolari delle funzioni centrali di una chiesa sempre più centralizzata.

In questo ambito di ampiezza di rapporti con tutta la struttura ecclesiastica universale, si nominarono tra i cardinali vescovi di diocesi lontane, importanti politicamente e religiosamente. Ciò, sempre limitandoci all’aspetto che consideriamo (l’elezione del papa), soddisfaceva due esigenze: rassicurava i poteri civili di tutta Europa circa un’elezione in cui qualcuno avrebbe parlato anche per loro (e i cardinali si fecero talvolta latori di veri veti e imposizioni), e inoltre, nel papa eletto da vescovi anche non romani, dava alla chiesa universale il contrappeso di una centralizzazione sempre crescente. Cioè: un papa sempre meno romano, per comunità sempre meno autonome. Si può dire che questo equilibrio abbia retto finora. Paradossalmente, come diremo anche riprendendo la posizione del Card. Suenens, esso conserva una sua forza di sviluppo, e perfino chi avverte il difetto di base propone soluzioni che non cessano di aggravarlo.

Ma oggi un fatto nuovo, capovolgente (copernicano, direbbe Suenens, p. IV), è venuto ad inserirsi nella teologia della Chiesa, del vescovo, della diocesi, è venuto a compromettere il secolare equilibrio e a riportare i problemi in termini nuovi e antichi: la teologia della chiesa locale.

Diamo per acquisita al lettore almeno la sostanza di questa teologia, della quale tanto siamo debitori agli orientali. E continuiamo le nostre riflessioni.

La chiesa locale che vuole essere se stessa, col suo evangelico talento, incontra in pari tempo il problema della comunione con le altre chiese. L’incontro si è sempre più realizzato, nella chiesa occidentale, nell’incontro con Roma. Oggi (vedi l’intervista di Suenens), esso è piuttosto uno scontro, un manovrato contrasto, più o meno appariscente.

Come risolvere il problema della comunione con le chiese sorelle, costrette oltre il giusto nella comunione (o in qualche suo surrogato giuridico) con Roma? Due vie erano possibili: l’approfondimento globale della

teologia della chiesa locale, specialmente proseguendo nella linea del concilio, e, l’altra via, la lotta per il controllo dell’elezione del papa.

Noi sentiamo di dover denunciare che il problema è stato posto ancora una volta in una lotta per il potere.

Sta avvenendo quel che talvolta avviene quando, ad una “visione globale” (nel nostro caso: centralizzazione), si sostituisce una nuova visione globale (per noi, la chiesa locale). Ci sono cose che vengono risolte secondo uno schema e cose risolte secondo un altro, fin nella stessa persona. È questa confusione dei momenti di transito, questa paura di andare fino in fondo alle proprie intuizioni, che permette quelle soluzioni intermedie profondamente mistificatorie e senza vero contenuto rinnovatore. Noi pensiamo di dover guardare nel fondo del contenuto di ciò che ci viene indicato, non solo all’aspetto esteriore. Ed in questo problema, giriamo l’impressione ai nostri amici, si cerca ancora di sciogliere il nodo tirando i capi.

Anche persone “dell’avvenire” chiedono dunque per il domani un papa eletto da tutto il mondo. Ciò, si dice, in vista di una migliore recezione a Roma delle posizioni delle chiese locali. Ora noi diciamo: se per papa si intende ancora un vescovo locale (l’altra possibilità, un supervescovo senza diocesi, esula per ora dal nostro discorso) si cercherà forse di garantire le chiese locali di tutto il mondo depersonalizzando la chiesa locale di Roma? Non appare che quel che giunge al suo termine non è né più né meno che il lungo processo iniziato tanti secoli fa, e cioè la soppressione del rapporto tra vescovo di Roma e comunità di Roma? E, paradossalmente, dovremo temere questa liquidazione finale da chi vuole garantire le chiese locali! Ma in buona sostanza l’ultima chiesa (quella romana) che teneva, da 1500 anni solo sulla carta, l’ultimo rapporto elettivo tra vescovo e clero-diocesi sta per vederlo cancellato, e ciò nella ebbrezza di una nuova teologia che ricrea la personalità delle chiese locali!

Ebbene, ci saremmo aspettati da Suenens che la parola di liberazione valesse per tutti: “allora io rinuncio a partecipare ad una elezione in cui la comunità locale non viene chiamata, interpellata; la chiesa di Roma esprima un’indicazione, un’esigenza”. No, il concetto di maturità della chiesa locale vale per tutti, non per Roma: a Roma deve essere applicata la collegialità episcopale.

Ebbene, non accettiamo questa soluzione; abbiamo pagato caro anche noi, finora. E pensiamo che una vera soluzione dei problemi delle chiese locali (di Roma e di tutto il mondo) non passi per un nuovo meccanismo, il più universale possibile, della elezione del papa, ma attraverso una applicazione, a Roma e dappertutto, del concetto di chiesa locale in sé perfetta e comunicante con tutte le altre, salvo il particolare rapporto di tutte col vescovo successore di Pietro.

Lo schema oggi vigente, al quale ci opponiamo tutti, troverebbe il suo coronamento e non il suo superamento nell’elezione del papa da parte dei vescovi di tutto il mondo. Lo schema di una chiesa aristocratica ci darebbe anzi la più completa e razionale realizzazione di sé: “i vescovi scelgono il papa, il papa sceglie i vescovi”. Non è a questo che la teologia della chiesa locale voleva condurre, non è con questo che si garantisce lo sviluppo delle chiese locali.

Le chiese locali hanno diritto alle loro libertà (non ci interessa qui il problema dei limiti, ovviamente in termini di comunione e di ex-comunicazione). Paradossalmente ciò si otterrà garantendo anche alla chiesa di Roma la sua autonomia. Come sempre, non è togliendo i diritti degli altri che si salvaguardano i propri.

E su queste aperture il dialogo con i nostri amici vuole cominciare.

Bilancio economico 2012

Bilancio 2012 della Lettera de’ “LA TENDA”
Spese di stampa e spedizione per 5 numeri (21-22-23-24-25) 777,50
Spese in addebito sul c/cp 47,59
totale spese 825,09
Contributo amici 907,30
Sbilancio positivo 82,21
Saldo iniziale al 01/01//12 147,60
Restano in cassa 229,81

Nota di servizio: anche questa lettera è stata spedita al nostro indirizzario. Chi si trovi inserito senza desiderarlo ci scusi, basta una comunicazione e provvederemo a cancellare l’indirizzo. Chi invece viene a conoscenza di questa lettera e vuole riceverla ce lo faccia sapere. Come sempre sono gradite segnalazioni di indirizzi di persone interessate.

Come sapete non prevediamo un abbonamento per ricevere questa nostra lettera in modo da non limitarne la diffusione, le spese di stampa e di spedizione infatti sono contenute. Ogni partecipazione a queste spese sarà comunque gradita, il nostro Conto Corrente Postale è il 45238177 intestato a Francesco Battista

 

Chiara Flamini 340 3837971

Luigi Mochi Sismondi 335 6848751

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