Lettera 19 (Seconda Serie)

Relazioni e gli interventi del convegno: “ROM, SINTI e dintorni”

Cari amici,

in questo numero presentiamo le relazioni e gli interventi del convegno: “ROM, SINTI e dintorni” che si è svolto ad Ostia nel mese di gennaio, a queste affianchiamo la lettera dei bambini rom di Torino al prefetto.

E’ intervenuto per primo Carlo Stasolla, che ha una moglie rom, e ci ha parlato brevemente della storia dei Rom e del significato politico, sociale, ma anche economico della segregazione nei campi nomadi.

Poi Andrea Mochi, dopo una lunga permanenza a Ŝutka, che è un paese macedone interamente formato e gestito da una comunità rom, ci ha presentato delle persone e delle storie. Maria Teresa Tavassi ci ha raccontato dal punto di vista dell’inserimento scolastico come è possibile muoversi per un aiuto concreto. Infine Luca Filippi e i suoi amici ci hanno parlato di un’esperienza di convivenza e di solidarietà nata dallo sgombero di uno dei campi.

Seguono come al solito gli interventi, le domande e le risposte dei relatori.

Dall’introduzione di Luigi Mochi: “…Sono affetti da tutti i vizi e le passioni: l’oziosità, l’ignavia….l’ira impetuosa, la ferocia, la vanità. Le loro donne sono più abili nel furto e vi addestrano i loro bambini.” Naturalmente si parla degli Zingari e sembrano parole di oggi, prese dai peggiori stereotipi ma sono di centocinquant’anni fa, tratte dal libro Uomo delinquente di Cesare Lombroso, padre della criminologia italiana. Questo per vedere com’è radicato e persino santificato negli anni il razzismo nei confronti dei rom. Ma proviamo a raccontare un’altra storia, magari mischiando una storia documentata con il mito e la leggenda, e con quella cultura che ancora riusciamo a vedere seppure abbrutita nei campi.

C’era una volta un popolo che viveva nelle vaste pianure dell’India. Era un popolo pacifico di povera gente, perché la sua cultura non dava importanza al potere né al denaro. Credeva in un dio grande e misericordioso, che amava gli uomini derelitti più di ogni altra cosa, credeva nella natura, credeva nell’uomo. Questo popolo strano non aveva né capi né padroni. Il suo ordinamento non prevedeva distinzioni di classe. Ogni membro era il capo della propria famiglia. Le controversie venivano risolte dalla saggezza dei membri anziani. Storie, miti e leggende venivano tramandate a voce perché nessuno conosceva la scrittura. Un giorno in quelle vaste pianure arrivarono gli invasori mongoli e arabi portando devastazione e morte. Il popolo pacifico fu costretto a fuggire. Da più di mille anni si sposta per l’Europa senza trovare pace. Quelli che non appartengono alla loro stirpe li chiamano zingari. È interessante l’etimologia, la più probabile viene dal greco atziganoi, che significa colui che non può essere toccato. Oppure gitani, da egiziani.

I rom non piacciono a nessuno. Anche gli estremi difensori della correttezza politica si trovano in imbarazzo nel sostenere la causa di questa minoranza. Magari si difendono gli stranieri, gli immigrati, ma loro non sono come gli altri. A dire la verità non sono neanche stranieri, sono in Italia stabilmente da più di seicento anni. La loro presenza nel nostro paese infatti è accertata fin dal quattordicesimo secolo. Secondo i dati censiti nel 2007 gli zingari in Italia sono 140.000, di cui più della metà ha meno di quattordici anni. Il che equivale a poco più dello 0,2 % della popolazione. Eppure il problema così limitato nei numeri appare insolubile a fronte di continua paura. Cerchiamo di conoscere, di capire, di confrontarci, per formarci delle idee libere e consapevoli. Proveremo ad opporci alla barbarie che ci circonda, superando quella facile incapacità di vedere le cose vicine, che spesso ci impedisce di vedere il presente. Forse tra qualche decennio, guardando questo nostro tempo qualcuno si domanderà, come facciamo noi pensando agli anni del nazismo: “Possibile che nessuno sapesse? Possibile che nessuno vedesse i morti a migliaia nel Mediterraneo e l’abominio dei campi nomadi?”.

Carlo Stasolla: Quando la gente comune parla di chi è nomade, di chi ruba i bambini, di chi ha poca voglia di lavorare, di andare a scuola, subito si pensa al popolo rom. Allora diciamo subito che è il popolo dei senza diritti, a partire dal nome: il popolo rom è un popolo a cui viene tolto il primo diritto che è il diritto ad essere chiamato con il proprio nome. Infatti, anche a livello di istituzioni, si dice “piano nomadi”, mentre queste persone non si chiamano nomadi. Altrimenti noi dovremmo chiamarci tutti quanti sedentari. Allo stesso modo non si chiamano zingari. Zingari è un termine estremamente negativo. L’origine di questo nome, appunto come veniva accennato, è duplice: da una parte atziganoi, termine greco usato dal 1400, quando giungono in Italia e vengono confusi con una setta di “intoccabili”: sono quindi coloro che non vanno toccati, che sono impuri. Oppure, secondo un’altra etimologia, sono coloro che vengono dall’Egitto. Questo perché ce n’era una presenza molto consistente nell’isola cipriota, in cui c’è una zona che si chiama “antico Egitto”. Ultimamente vengono chiamati appunto nomadi, oppure slavi, oppure romeni, creando quindi grande confusione. Ogni popolo è chiamato come si vuol far chiamare: noi ci chiamiamo italiani e così ci chiamano gli altri all’estero…per i rom non è così. Questo popolo si chiama popolazione romanì e si tratta di rom e sinti. Rom significa uomo: è una roticizzazione del termine donna ed è il nome originario, quando sono partiti tanti anni fa dal Pungiab. Sinti invece è il nome di un fiume di quella stessa zona, quindi un fiume indiano. Allora innanzitutto è necessario riconoscere il diritto al nome per questo popolo. Si tratta di una popolazione nomade, sicuramente presente intorno all’anno mille in India. A un certo punto, per cause sconosciute (ci sono anche qui diverse teorie), ci fu una migrazione: non un’unica migrazione ma migrazioni successive di questo popolo verso l’occidente. Sicuramente passarono per l’Armenia (questo si sa perché la lingua rom proviene dal sanscrito e per il 40% è sanscrito). Nella lingua rom ci sono alcune parole armene. Poi passarono per la Grecia. Quindi ci fu una lenta migrazione. Nell’anno mille vengono segnalati alcuni gruppi di rom nell’Asia Minore. Costantino IX aveva un problema: allevava animali di pregio e ogni tanto animali selvatici attaccavano i suoi animali; allora si rivolse a degli atziganoi perché gli risolvessero energicamente questo problema. Essi avvelenarono gli animali selvatici e fecero credere di avere fatto una grande magia. Ebbero quindi un riconoscimento da parte di questo re. Già dunque si distinguevano come un popolo costretto a spostarsi: tutte quante le loro migrazioni (c’è un nomadismo, ma un nomadismo forzato) sono dovute a persecuzioni. Fino a che – andiamo rapidamente – giunsero in Europa nel 1200-1300. La prima testimonianza di una loro presenza in Italia è del 1422. Un capobanda di un gruppo rom giunse a Bologna e mostrò un salvacondotto imperiale. A quel tempo tutti dovevano avere dei salvacondotti imperiali o papali per muoversi e coloro che dovevano espiare delle colpe erano costretti a spostarsi nei vari luoghi meta di pellegrinaggi spirituali come Gerusalemme, Roma. Probabilmente questi salvacondotti erano falsi, ma erano l’unico modo per potersi muovere.

In Italia cominciarono ad arrivare nel millequattrocento. Iniziò ad arrivare questo primo gruppo che venne guardato con molta curiosità ed attenzione da parte della popolazione del nostro paese. Poi, procedendo rapidamente nell’excursus, ci fu il Concilio di Trento, una data molto importante, in cui il nomadismo viene condannato e viene molto irreggimentato, per cui chi sfugge alle regole, chi non è battezzato viene visto in malo modo. Tutto il millecinquecento e il milleseicento sono secoli di bandi ed espulsioni. Per cui l’essere zingaro costituiva di per sé un reato e varie erano le punizioni: la sottrazione dei figli, la fustigazione delle donne e la galera per gli uomini. Questo avvenne in tutti gli stati italiani e quindi ci fu uno spostamento continuo di gruppi di rom nelle varie città. A Roma erano già presenti nel millecinquecento: il quartiere Monti era pieno di rom.

Arriviamo poi all’Olocausto, l’Olocausto rom, in tutto quanto il mondo. Si presume che siano stati cinquecentomila i rom portati nei campi di concentramento nazisti, non per aver commesso qualche reato, ma per il semplice fatto di essere vagabondi e di essere rom. Questa segregazione arriva fino ad oggi, fino alle attuali politiche sociali. Sicuramente oggi le politiche sociali sono un’attualizzazione di queste antiche politiche. In Europa ci sono circa dodici milioni di rom, in Italia sono centoventi-centotrentamila. Novantamila sono rom, trentamila sono sinti. I rom si dividono in tanti gruppi, ci sono i rom italiani: i rom abruzzesi, i rom calabresi, i rom napoletani, i camminanti di Noto. Sono della prima migrazione, presenti in Italia da cinquecento anni e hanno mantenuto la loro identità culturale. Poi ci sono i rom stranieri, che giungono in conseguenza di varie migrazioni succedutesi nell’ultimo secolo: i rom provenienti dall’ex Iugoslavia, dal Kosovo, dalla Macedonia. L’ultima migrazione riguarda i rom rumeni. Tutte le migrazioni sono dovute a guerre, conflitti o a gravi situazioni economiche. Poi ci sono i sinti, anche loro presenti in 30.000 circa, anche loro in Italia da circa cinquecento anni. Essi vengono divisi in sottogruppi regionali: ci sono i sinti lombardi, i sinti marchigiani, i sinti veneti e così via. Si tratta quindi di gruppi provenienti dall’immigrazione, tutti quanti hanno una lingua comune, che si differenzia nei dialetti, e aspetti culturali simili. Comunque in genere si tratta di un popolo che assume sempre la visione e in parte anche la lingua del paese in cui si trova a vivere, quindi mantiene sempre una grande elasticità.

Qual è la situazione attuale di questo popolo così sconosciuto, oggetto di stereotipi, di pregiudizi,?

Il destino e la politica nei confronti dei rom sono molto simili a quelli nei confronti della spazzatura, non solo perché essi vengono spostati fuori dalla città, ma anche perché ogni politica sociale negli ultimi venticinque anni nel nostro paese è molto simile alla politica sulla spazzatura. Anzitutto diciamo una cosa: i rom non vivono nei campi in altri paesi, i rom vivono nei campi solamente in Italia. I campi sono dei ghetti urbani, che sono sorti in Italia, a Torino e poi a Roma nel 1985: si è iniziato ad istituirli con una legge regionale … Il campo è un’assurdità, il campo è un luogo in cui, su base etnica, vengono collocate delle persone. Se noi pensiamo a che cosa succederebbe se si decidesse di spostare tutti gli ebrei oppure tutti i romeni in un posto della città… È assurdo anche solo pensare ad una cosa simile… Qualsiasi amministratore locale sarebbe messo in manicomio se pensasse di fare una cosa simile, se la dicesse in campagna elettorale sarebbe un caso assurdo. Invece in Italia non è così: pensare di collocare delle persone, su base etnica, per il solo fatto di essere rom, in un’area chiusa, isolata, non integrata è scontato. Questa è la politica sociale degli ultimi venticinque anni nei confronti dei rom. Dicevo che questa politica è molto simile a quella dei rifiuti. Esiste quindi una consequenzialità che porta a mettere i rom nei campi.

Ciò che si fa, per prima cosa, è una campagna di criminalizzazione e colpevolizzazione. Il secondo passaggio consiste nell’allarme sociale, per cui, attraverso campagne mediatiche, si inizia a spaventare le persone. Pensiamo all’omicidio Reggiani e alla campagna che ne è venuta fuori. Se noi consideriamo l’entità numerica dei rom a Roma ci rendiamo conto che sono settemila… come due condomini di Torre Angela. Quindi un numero veramente esiguo che non giustifica un allarme sociale. Terzo passaggio: lo stato di emergenza. Stato di emergenza vuol dire soldi, fiumi di soldi, significa commissari straordinari che possono, senza bandi pubblici, decidere come gestire l’emergenza. Quarto passaggio: l’elaborazione di un piano sociale, come per i rifiuti, per realizzare il piano di emergenza. Nel caso dei rom non c’è la discarica, ma c’è il campo, comunque vicino alla discarica.

Allora, se guardiamo le politiche sociali dal 1985 ad oggi, si sono realizzati vari piani nomadi secondo il processo che abbiamo descritto. Alla fine il punto di arrivo qual è? Il rom è un criminale. Quindi va messo in un campo. I campi sono questi spazi chiusi, fuori dalla città, recintati, videosorvegliati, in cui non c’è integrazione, costosissimi. Un rom a Roma costa alla comunità cinquecento euro al mese. Una famiglia di sei persone costa tremila euro al mese. Questo non si dice perché con la metà di questi soldi i Rom potrebbero avere delle case.

Questo sistema, piano piano, negli anni ha creato tutto un apparato, per cui attorno al piano nomadi ci sono trecento-quattrocento persone che ci lavorano; e ci sono per la scolarizzazione, gestione dei campi, ricerca lavoro, assistenza sociale, assistenza sanitaria… tutte persone che lavorano in buona fede, pensando di fare del bene. Si è creato un sistema che si è incancrenito, per cui oggi smantellarlo è molto difficile. Chi vuole oggi il superamento dei campi nomadi, chi lo vuole alla fine? A nessuno conviene, perché il sistema ormai si è creato e comunque va bene così….Quindi la realtà è che si ripete la storia e che quello che avveniva nell’anno mille quando ci furono le migrazioni forzate, nel millecinquecento quando si fecero i primi bandi di espulsione in tutta la penisola per cui essere rom significava dover andar via, sciò, via dalla città, i rom non si devono vedere, si ripete oggi. In forme capitalistiche e più sottili. Questa è la realtà. La realtà, parlando delle ultime politiche sociali, è l’ultimo piano nomadi, presentato nel luglio 2008 a Roma come una rivoluzione copernicana, da esportare in tutta Europa e che in pratica non fa che ribadire la volontà di espulsione. È un piano che è partito dalla seguente costatazione: abbiamo fatto ripetuti (costosissimi) censimenti in tutta quanta Roma ed è emerso che in città ci sono più di 7.000 rom. Ci sono ottanta insediamenti abusivi, sette villaggi attrezzati. Questa è la situazione nel luglio del 2008. Il piano nomadi, su cui si spenderà la cifra di 34 milioni di euro, che è già diventata quasi 40 milioni di euro, cosa prevede? “Toglieremo tutti gli insediamenti abusivi, gli 80, e faremo tredici villaggi attrezzati, dove c’è dignità, dove c’è sicurezza, dove c’è legalità”. Dopo due anni e mezzo, e sono stati spesi quasi tutti questi soldi, gli insediamenti abusivi sono passati da 80 a 153, quindi sono aumentati. Di villaggi attrezzati non ne è stato costruito neanche uno. Quindi è un piano fondato sulla rimozione degli insediamenti abusivi che però non ha portato a questo. Pensate che uno sgombero costa mediamente, giornalmente, dai quindici ai ventimila euro e non produce nulla, se non l’esasperazione delle persone e la frammentazione dei gruppi sgomberati. In realtà tutti questi soldi spesi hanno una precisa funzione, politica, quella di dare la percezione di sicurezza a noi. Quindi sono soldi ben spesi a livello politico, perché in realtà stanno dando la percezione che il problema si sta risolvendo, ma è solo una percezione. Certamente poi ciò, in sede elettorale, ha un effetto. Quindi il fatto di togliere un insediamento rom sotto casa e portarlo poi a tre, cinque, dieci chilometri lontano, in zone industriali o vicino alle discariche, crea consenso. I costi sono alti, l’amministrazione lo sa, però questo rende in termini elettorali e politici.

Dunque la questione rom oggi è molto importante, si pone in maniera molto importante e urgente. Da una parte bisogna darsi da fare per far conoscere la realtà di questo popolo, che è un popolo estremamente pacifico: è l’unico popolo al mondo che non ha fatto mai una guerra. È un popolo che non rivendica una terra e quindi ha una visione profetica della vita che ci spiazza. È un popolo che non segna barriere, che non segna confini. Non esiste altro popolo al mondo che abbia queste caratteristiche. È un popolo che ha una funzione importante, quella di essere una spazzatura: su di esso si buttano tutte le colpe. Nello stesso tempo ha anche una funzione economica molto importante, perché far girare i rom fa girare i soldi.

Qual è la soluzione? La soluzione è anzitutto la conoscenza, il superamento degli stereotipi. Faccio solo un esempio: quanti di noi sono stati a casa di una famiglia rom e hanno veramente parlato a tu per tu con queste persone? Uno stereotipo che tutti quanti abbiamo è quello dei rom che rubano i bambini. Penso che a tutti quanti noi hanno detto da bambini: “Attento che c’è la zingara che ti ruba, stammi vicino”. Gli stereotipi si abbattono con gli studi scientifici. Allora l’Università di Verona, cinque anni fa, ha deciso di fare uno studio sui rapimenti di bambini da parte di rom. A partire da notizie di rapimento apparse sui giornali negli ultimi dieci anni, i ricercatori sono andati a visionare gli atti dei processi in una diecina di tribunali. Sono stati studiati 300 casi. Di questi solo in uno è rimasto il sospetto che una donna rom avesse potuto avvicinare un bambino per prenderlo: per gli altri risultava che il fatto non era stato commesso. A questo punto l’Università ha fatto una cosa interessante: ha fatto una ricerca dei casi di sottrazione di minore a famiglie rom. Andando a studiare tutti i procedimenti, attraverso i quali i bambini rom sono stati collocati in case-famiglia e poi dati in adozione, ha rilevato grosse anomalie nelle relazioni scritte dai servizi sociali: troppo spesso il termine zingaro viene associato al termine criminale. Salta fuori un atteggiamento inconscio quando si parla di “zingari” (…io uso il termine zingaro, che è una parolaccia che dovremmo cercare di non usare, perché mi riferisco ai termini usati dalle relazioni dei servizi sociali). Per gli assistenti sociali tale termine ha in sé qualcosa di negativo che trasmettono nelle loro relazioni. È un pregiudizio di base. Questo pregiudizio è la causa per cui negli ultimi cinque anni più di duecento bambini sono stati sottratti alla popolazione romanì e dati in adozione. La conclusione di questa ricerca scientifica è che non è vero che i rom rubano i bambini, ma è vero che la nostra società ruba i bambini ai rom.

Un altro stereotipo è quello che consiste nell’attribuire il nomadismo ai rom. Perché si parla di “piano nomadi”? Perché c’è un’ignoranza di fondo, ma c’è anche un’intenzione: dire nomadi significa che parlare di persone che si spostano perché devono nascondere qualcosa; dire nomadi significa dire che queste persone non vogliono vivere nelle case. Quindi politiche abitative non se ne possono fare, perché i rom non andranno mai nelle case: sono nomadi. Questo non è vero.

Mia moglie è di etnia rom, quindi siamo una famiglia mista, ci siamo sposati diciotto anni fa. Io già vivevo nei campi. Dopo il matrimonio per scelta abbiamo continuato a vivere nei campi per dieci anni. Lo abbiamo fatto condividendo con ogni gruppo la vita e l’attività lavorativa. Quindi abbiamo vissuto con i rom italiani, con i rom stranieri e con i sinti. Il nostro stare nei campi non aveva come scopo quello di risolvere un problema, di fare l’assistente sociale della situazione, ma quello di condividere la loro vita e imparare da loro. Abbiamo fatto esperienza di essere accolti da chi non è accolto. Lì sono nati i nostri figli, sono cresciuti e poi, dieci anni fa, abbiamo fatto la scelta di trasferirci in una struttura che proprio in quel periodo veniva data dalle ferrovie all’Associazione Centro Astalli, il servizio dei gesuiti italiani per i rifugiati. Abbiamo fatto diventare questa struttura un luogo di accoglienza costituito da cinque case-famiglia per minori e per donne. Si tratta di una struttura di emergenza, dove negli ultimi sei mesi accogliamo rom che vengono sgomberati. Abbiamo sempre aperto la nostra famiglia all’affido familiare e all’adozione: in questo momento abbiamo un ragazzo adottato, un nostro figlio e tre bambini rom in affido che cercheremo di far tornare con le loro mamme.

Recentemente abbiamo fondato un’associazione, l’Associazione 21 luglio, che si occupa dei diritti dell’infanzia, soprattutto dell’infanzia rom. È un’associazione che per statuto non può accedere a finanziamenti pubblici e quindi non può entrare nel giro di soldi del “piano nomadi”. Questo ci costa parecchio dal punto di vista economico, però ci dà un’enorme libertà di dire quello che pensiamo e di non essere ricattati. La nostra associazione promuove ricerche. Il 15 febbraio, presso l’auditorium Unicef presentiamo un report, intitolato “Casilino 900, parole e immagini di una diaspora senza diritti”. Casilino 900 è stato chiuso quasi un anno fa . Lo sgombero è iniziato il 19 gennaio ed è terminato il 15 febbraio. È stato presentato, a livello nazionale, come un atto di umanità, come un atto di solidarietà e come un’azione condivisa con i rom. Nella ricerca, durata tre mesi, condotta da diversi ricercatori professionisti, arriviamo a conclusioni molto diverse.

Andrea Mochi: (Per i lettori non presenti al convegno una piccola spiegazione: Andrea ha simulato la presenza di persone che ha conosciuto nella sua esperienza in Macedonia. Facendo finta che fossero con lui le ha presentate in maniera viva e coinvolgente)

Parto dalla presentazione di persone che ho incontrato e che sono qui con me oggi. Vengono da Šuto Orizari, in Macedonia, la più grande comunità rom esistente al mondo, l’unica nella quale i rom si autogovernano.

Mirsada è la figlia più piccola del Direttore della prima scuola di Šutka (come i suoi abitanti chiamano affettuosamente Šuto Orizari), quella dedicata a due fratelli partigiani rom, morti da eroi durante la resistenza all’occupazione nazista. La scuola del padre di Mirsada accoglie duemila ragazzi. Il padre di Mirsada ha studiato pedagogia in Russia e, oltre al russo, parla correntemente l’inglese, il francese, il tedesco, l’albanese, il macedone, il serbo-croato e naturalmente il romanè.

Anche la sorella di Mirsada ha frequentato quella scuola, poi si è iscritta all’università di Skopje, grazie anche agli aiuti dell’Open Society Institute di George Soros, uno dei più grandi finanzieri al mondo. Nel 2002 Soros ha messo in ginocchio la Banca di Inghilterra, ha finanziato Solidarnosc, ha finanziato la rivoluzione arancione in Ucraina, da sempre finanzia gli studi dei giovani rom in tutto il mondo. La sorella di Mirsada, grazie all’aiuto di Soros, è riuscita a laurearsi nel 1999 in Scienze Politiche a Skopje. In quel momento in Macedonia si discuteva la questione dei profughi rom, che provenivano dal Kosovo, fuggendo dalla devastazione del paese. Il Presidente macedone convocò un’assemblea pubblica sull’argomento. La sorella di Mirsada si è alzata e ha parlato per quarantacinque minuti, in macedone, proponendo una doppia strategia: da una parte l’accoglienza dei profughi in Macedonia e dall’altra la difesa delle loro abitazioni lasciate incustodite in Kosovo. La ascoltarono tutti stupiti, poi la votarono come delegata rom per la questione. In famiglia soltanto Mirsada ha appoggiato la sua scelta. Ma lei ha tenuto duro ed è arrivata a far costruire dal Ministero degli Esteri Italiano un campo da calcio di fronte a dove abita.

Con noi c’è anche Kadené Rusten, una figura di spicco della comunità di Šuto Orizari. Kadené vive in due stanze, con tre figli, due nuore e sette nipoti. La comunità le riconosce la capacità di preparare unguenti e di curare con massaggi e manipolazioni. Anche Kadené è andata in Germania, trent’anni fa, in cerca di fortuna. Sono partiti in cinquanta da Skopje con un autobus, guidati da un autista macedone che aveva promesso loro di farli entrare nella Repubblica Democratica Tedesca. Dopo tre giorni di viaggio sono arrivati nei pressi del confine. Ma l’autista, con la scusa di andare a cambiare una ruota dell’autobus, li ha lasciati lì, in mezzo alla strada, senza soldi e senza bagagli. Hanno cercato di attraversare il confine a piedi ma è stato negato loro l’ingresso. Kadenè ricorda di aver visto i soldati di frontiera, sdentati e incattiviti dalla povertà, aggredire qualcuno accanto a lei e poi iniziare a picchiarsi tra di loro. Sono scappati. Hanno fatto un giro di cento chilometri a piedi, per poi ritrovarsi al punto di partenza, ovvero dove li aveva lasciati l’autista macedone. Si sono rivolti allora all’Ambasciata Jugoslava, che ha detto loro che essendo dei rom si sarebbero dovuti arrangiare da soli. Kadené in qualche modo è riuscita a rimanere in Germania.

Šenaz, la sua prima figlia, è nata nella nuova Germania riunificata. Ma durante il parto in ospedale l’ostetrica ha fatto una manovra sbagliata e Šenaz è nata con la schiena storta. Kadené è andata in ospedale, ha preso sua figlia, l’ha portata a casa e ha iniziato a massaggiarle il coccige col pollice. Per due ore al giorno, tutti i giorni. Poi le ha manipolato i nervi della mano e ha continuato questo trattamento per un mese. Alla fine l’ha stretta in fasce di lana e dopo un altro mese la schiena ha iniziato a svilupparsi perfettamente. Quando è tornata dal pediatra, il medico le ha chiesto chi era stato a curare la bambina. Lei gli ha detto: “Sono stata io”. Lui le ha chiesto se voleva lavorare nella sua clinica pediatrica, ma lei ha detto di no. Kadené è tornata in Macedonia, per fortuna mia che ho avuto così l’occasione di incontrarla.

Io sono Andrea Mochi Sismondi e ho vissuto diversi mesi, nell’arco di tre anni, nella comunità di Šuto Orizari. Ho incontrato questa comunità per caso, insieme alla mia compagna e a mio figlio, che all’inizio aveva un anno e mezzo. Arrivati lì abbiamo sentito qualcosa che aveva a che fare con una dimensione comunitaria che non conoscevamo. A partire dalla forma architettonica delle case. Šuto Orizari non è un campo, è un quartiere nato dopo il terremoto del 1963. Esisteva un luogo dove venivano portate tutte le macerie, quel luogo è stato dato ai rom. Su quel luogo pian piano si è costituita una comunità, che adesso conta quarantamila persone d’inverno e ottantamila d’estate quando le famiglie tornano a sposare i figli. Abbiamo cercato di trovare dei pretesti per rimanere lì dei mesi. E alla fine ci siamo rimasti a intervalli regolari per tre anni. La comunità, che non ci conosceva, ci ha chiesto in qualche modo di essere raccontata. La storia dei rom è una storia scritta dagli editti di espulsione. Si ricostruisce la storia del popolo rom dagli archivi delle municipalità. Giustapponendo gli editti di espulsione si ricostruiscono i loro spostamenti.

A un certo punto abbiamo avuto bisogno di qualcuno che ci traducesse, perché noi il romané non lo conoscevamo. Abbiamo incontrato Mohammed, che era tornato dopo cinque anni di peregrinazione clandestina in Europa. Era partito a quindici anni, perché aveva una cugina, di cui era innamorato, che era stata portata in Belgio. La famiglia non voleva che stesse vicino a lui. Non era vista di buon occhio la loro relazione. E lui allora è partito, comprando un visto all’ambasciata. Perché funziona così… Su questo desiderio di movimento che non è solo del popolo rom, ma è di chiunque vive nella situazione in cui il movimento gli è negato, lucra tutto un giro para-burocratico: decine di migliaia di euro al mese che entrano in nero nelle ambasciate per i visti. Mohammed non è riuscito ad arrivare in Belgio, si è fermato in Francia. Lì si è reso conto che mostrandosi per quello che era, un rom, veniva scansato. Visto che aveva la pelle scura e gli occhi leggermente allungati, a un certo punto si è inventato cambogiano, si è inventato una mamma cambogiana esule a Parigi, un padre macedone. Si è inventato una famiglia mista e ha trovato un’accoglienza completamente diversa, perché la narrazione della tragedia del popolo cambogiano è acquisita e digerita: si è pronti alla solidarietà.

Poi è tornato e attraverso di lui – e al desiderio fortissimo che aveva di riavvicinarsi alla comunità dalla quale era fuoriuscito – si è aperta per noi quella che loro chiamano “uman network”: la rete umana, la rete parentale, la rete amicale. Abbiamo girato per le case cercando una relazione fondata sul porci delle domande comuni. Ad esempio: qual è il tuo percorso possibile verso la realizzazione della felicità? Che cos’è che ti fa più paura? Che cos’è la cosa peggiore che ti potrebbe capitare? E la cosa migliore che ti potrebbe capitare? Immediatamente c’è stato chiesto di non essere trattati come dei rom, ma come degli uomini (e quindi letteralmente dei rom). Ci hanno chiesto di avere una relazione non specifica e non folklorica. E qui si entra nella questione del folk, che è l’altra identità attraverso la quale ci si relaziona con i rom. Vedere i rom che ballano o i rom che suonano è cosa cui siamo abituati e che siamo capaci di comprendere e di   appoggiare, ma vedere un rom che sale su un palco e ti parla della vita è profondamente rivoluzionario, è fastidioso. Abbiamo tentato di farlo, perché lavoriamo in teatro ed è in questo che ci siamo cimentati.

A Šuto Orizari abbiamo fatto degli incontri quotidiani con un gruppo di persone che si riunivano per riflettere sui rapporti tra individuo e comunità. Che cosa significa comunità, all’interno di un gruppo che vive in un ghetto ma ha un’identità molto forte? Noi lì eravamo gli stranieri e per questo i nostri ospiti avevano la possibilità di relazionarsi con noi in maniera diversa. Abbiamo fatto un gioco molto duro: noi tiravamo fuori gli stereotipi – i rom rubano i bambini, i rom non hanno voglia di lavorare, ecc. – e poi li smantellavamo argomentando insieme.

A un certo punto stavamo parlando della paura che loro avevano quando uscivano da Šuto Orizari e noi abbiamo chiesto come mai in Europa tutti sono così spaventati da persone che a loro volta sono spaventate. Amet ha risposto così: “Ad essere sincero la paura dei non rom verso i rom mi sembra essere un mito. Parlando con i non rom spesso ti accorgi che non hanno paura di noi in realtà: semplicemente si sentono superiori e non vogliono che noi ci mettiamo allo stesso livello. Quasi tutte le famiglie macedoni (questo è diverso dalla situazione italiana) hanno avuto e hanno ancora dei rom che lavorano per loro. Vogliono la nostra inclusione, ma solo fino ad un certo punto. Se le nostre donne continueranno a lavorare come colf o come babysitter nelle loro case noi rimarremo sempre inferiori. Non importa che siano brave babysitter o brave colf, non è esattamente questo il punto. Il punto è che loro ci vogliono vedere destinati a fare dei lavori sottomessi. La loro società ha bisogno di un’etnia inferiore.”

Maria Teresa Tavassi: Io parlerò della mia esperienza in un gruppo di volontariato che è nato nove anni fa e si chiama La lucerna, laboratorio interculturale. La spinta che ha portato alla nascita di questa associazione è stato il desiderio di lavorare insieme alle persone immigrate, rifugiate, richiedenti asilo, fare qualche cosa insieme, curando la relazione. Per fare questo abbiamo pensato di mettere in piedi dei laboratori di cartoleria e legatoria e di cucito. Quest’ultimo è rimasto sempre in attività, perché ritenuto dalle persone il più utile: permette di accedere al lavoro nelle sartorie, nei piccoli negozi di taglia e cuci ecc.. e così è stato infatti. Appoggiandoci ad un istituto religioso abbiamo cercato di fare anche altro.

Abbiamo avuto anche dei rom nel nostro laboratorio, ma per poco tempo perché essi non ne vedevano tanto l’utilità visto che non c’era un risultato immediato, per cui poi hanno cercato cose più utili per un inserimento nel mondo del lavoro.

Abbiamo visto che lavorando manualmente c’era tempo per stare insieme, per creare relazione, per stabilire rapporti che andavano al di là del laboratorio. Il ruolo di noi volontari non è mai stato quello di insegnare, ma quello di animare. Si imparava insieme: io cercavo di imparare il cucito o la cartoleria e da questo fare qualcosa insieme è nato il desiderio di raccontare, raccontarsi e scambiare le proprie esperienze.

Dopo tre o quattro anni abbiamo cominciato a raccogliere quei racconti a partire dalle fiabe che le persone raccontavano ai loro bambini. Queste raccolte sono state poi pubblicate. Abbiamo potuto venderle e il ricavato lo abbiamo investito nei laboratori. Poi abbiamo raccolto un’altra serie di racconti sui mestieri ed è uscito un libro su arti e mestieri. L’argomento del terzo libro è stato il pane e il modo di farlo: siamo andati nelle famiglie per impararne la preparazione e ciò ci ha permesso di passare del tempo con le persone. Poi ne abbiamo fatto uno sull’Africa e l’ultimo, pubblicato a dicembre, è stato quello sulle feste.

Otto anni fa le scuole ci hanno chiesto di andare a fare dei laboratori da loro. Prima siamo andati nelle scuole del centro di Roma dove c’erano ragazzi immigrati. Ma non è stato l’ambiente più adatto: erano delle scuole medie non molto interessate ai laboratori: avevano piacere che si citassero se facevamo delle conferenze, ecc. Gli ultimi quattro anni sono stati quelli più belli in una scuola di periferia, la scuola di Torre Spaccata: una scuola elementare. C’erano parecchi bambini immigrati e bambini rom. Lì facevamo laboratori artigianali, raccontavamo delle fiabe e poi i bambini dovevano rappresentarle.

Quello che io posso mettere in evidenza, a partire dal lavoro che abbiamo fatto, specialmente quello nelle scuole è che il lavoro manuale e artigianale aiuta a sviluppare la propria creatività in una società in cui questa capacità è un po’ nascosta. In particolare, tale lavoro aiuta a creare relazioni tra le persone, relazioni che per noi sono fondamentali.

Secondo me è molto importante sviluppare le capacità creative e collaborative dei bambini, molto accentuate specialmente nei bambini delle elementari. In queste scuole gli insegnanti sono bravi, cercano di cogliere anche gli aspetti particolari dei bambini. Credo che in questo modo la classe ne guadagni come scuola di vita. In particolare, nel laboratorio delle bambole, c’era un bambino rom che insegnava a tutti gli altri. Tutti andavano da lui, perché lui era il bambino che sapeva disegnare nel modo migliore e dava espressività al viso delle bambole. Il bambino rom e un’insegnante molto brava, che era una pittrice, erano loro gli unici che potevano insegnare anche agli altri. E’ stato molto bello, perché si è capito che la creatività può dare valore ad una persona, al di là di come può essere etichettata.

Un altro aspetto dei laboratori è quello di dare valore allo stare insieme, al fermarsi, al raccontarsi lentamente, in una società come la nostra in cui la comunicazione avviene spesso a distanza.

L’ultimo aspetto importante è stato quello del lavoro di rete: quando è stato possibile collaborare con i diversi soggetti, il laboratorio ha funzionato. Per esempio nella scuola sono stati bravissimi gli insegnanti. La coordinatrice aveva a cuore il servizio alle persone: c’erano persone disabili, persone di varie etnie, rom. Tutti bambini diversi ma ben inseriti nel gruppo classe. Cioè c’era un’integrazione ed è stato proprio merito degli insegnanti averla creata.

Tutto questo lavoro è stato fatto per il territorio e per far conoscere le nostre attività si facevano delle feste con le famiglie a cui la gente partecipava volentieri.

Luca Filippi (Luca vive in un appartamento insieme ad alcuni rom, è prete e bracciante agricolo): L’esperienza che abbiamo vissuto per me è contenuta in una parola chiave che riassume tutto il percorso che facciamo con la nostra famiglia: fraternità.

Se dovessi pensare a una parola che possa sintetizzare tutto quanto, credo sia proprio questa. L’altro, che mi sta davanti, per me, per la vita mia diventa come una possibilità di salvezza, diventa essenziale, diventa fondamentale. Ma l’altro, siccome comincia a occupare lo spazio mio può diventare un pericolo. Infatti quando uno sta da solo possiede tutto quello che gli sta attorno. Invece, se c’è anche solo un altro, già iniziamo ad essere in due e quello che era mio, ecco che diventa nostro e se siamo in tre dobbiamo cominciare a dividere. Questa pratica della fraternità mi viene in mente come qualcosa di fondamentale, un lavoro continuo che uno deve fare, ma è vero che il senso di comunità esiste da quando esiste l’uomo.

Mi veniva in mente la Bibbia quando racconta di Caino e Abele. Erano in due e c’era possibilità per tutti e due, però c’era anche un pericolo. Il pericolo si manifesta quando uno è invidioso dell’altro e tra l’uno e l’altro nascono problemi, mentre poteva esserci una possibilità di salvezza.

Dai tempi dei tempi ci sono queste due possibilità nell’incontrare l’altro: la salvezza e la chiusura nella paura e nell’egoismo. E sarà così fino alla fine dei tempi quando poi ci incontreremo dall’altra parte tutti quanti, tutti uguali.

Quindi la fraternità , secondo me, è qualcosa di essenziale per la vita nostra. Il Signore Gesù dice: “Non dovete chiamare tra di voi nessuno padre, maestro, signore, perché di maestro e signore ce ne è uno solo e voi siete tutti fratelli”.

La nostra è un’esperienza di fraternità: loro perché si sono trovati a viverla, io perché l’ho scelta. E’ dal luglio del 2006 che viviamo insieme.

Io chiesi di andare nella parrocchia di Torrevecchia, spostandomi dalla parrocchia di San Filippo Neri a Boccea. Chiesi contemporaneamente due cose: a loro di poter vivere nel loro campo, un campo spontaneo che sta lì nella ex Bastogi, nella zona di Torrevecchia, e alla parrocchia di vivere col lavoro manuale e quindi di lasciare stare quello che è chiamato sostentamento del clero.

La vita nostra è una vita molto normale. La cosa che mi sembra essenziale è il fatto che si cresce insieme pur essendo molto diversi. Questa è la cosa che mi colpisce tanto, e rimango anche meravigliato, nel senso che ognuno di noi naturalmente ha le sue cose belle, ma ognuno di noi ha pure un sacco di cose non proprio belle. In questa esperienza di vita condivisa, si scopre che, nel desiderio di vivere insieme, c’è la capacità di accoglierci e di crescere anche negli aspetti forse meno facili, come negli aspetti più belli. Questa secondo me è una delle cose più belle. Per me, poi, che ero abituato ad altro è stato un mezzo miracolo, per loro invece è stato normale. Quando chiesi loro se potevo vivere nel loro campo forse rimasero un po’ meravigliati, ma il mio trasferimento fu alla fine considerato come una cosa abbastanza normale. I due fratelli partivano per la Romania, quindi Elena mi diede la sua baracca. Questo mi colpì molto.

Poi siamo stati sgomberati dal campo ex Bastogi. Quindi abbiamo iniziato a girare alla ricerca di una casa e siamo stati ospitati nella parrocchia di san Frumenzio da novembre a marzo. Poi abbiamo trovato questa casa in via Battistini e lì viviamo insieme e siamo un nucleo familiare sempre fisso, più o meno. Siamo io, Maria, il marito di Maria, il figlio Nico, Elena, Nello con la moglie e col figlio Gabi, e un altro prete, che però ha deciso di lasciare questo percorso e tornare ad una vita “normale”. Infine c’è Salvatore, che ha appena avuto un infarto e sta in ospedale: lo ricordiamo col pensiero. A marzo cambieremo casa e andremo nella zona di Ottavia.

Una difficoltà grossa è quella del lavoro. Io faccio il bracciante agricolo, Salvatore ha la pensione, perché è in dialisi, e gli altri fanno un po’ di lavoretti sempre saltuari. E’ molto difficile uscire dalla precarietà, che comunque è un po’ di tutti. La precarietà rende parecchio faticoso avere un po’ di sicurezza, perseguire un progetto.

L’altra difficoltà che vedo è che tante volte ti sembra che un modo di pensare, un’abitudine, una cultura, vuole prevalere su un’altra. Invece il lavoro da fare è quello di mescolare le culture, mischiare le abitudini, le forme di vita, perché credo che da lì poi nasca tanta ricchezza, tanta crescita.

Nello: Mi chiamo Nello. In Romania ci sono tre gruppi di zingari, noi siamo Romanì romenizzati, non parliamo “zingaro”, parliamo il rumeno, i nostri nonni parlavano “zingaro”. Noi siamo come rumeni. Siamo qui da sette anni: all’inizio vivevamo nelle baracche e da quattro anni viviamo insieme. Abbiamo ancora dei cugini che abitano nelle baracche. In Romania siamo come tutti gli uomini: non rubiamo, non possiamo vivere solo chiedendo l’elemosina. Qui io vado a pulire i vetri al semaforo: non abbiamo niente, non abbiamo lavoro per questo vado ai semafori. Rubare i bambini? Mai abbiamo fatto queste cose. I rom fanno tanti bambini, amano i bambini. I bambini sono la loro vita ma rubare bambini no.

Elena: In Italia ci troviamo bene, ci sono brave persone. Ti senti come a casa. Io non mi sono sentita mai messa da parte dagli italiani. Tutti uguali.

Quando siamo venuti ad abitare in una casa la gente mi guardava così: “sono zingari, rubano”. Hanno chiesto a Luca se andavamo a rubare e lui ha risposto loro di no. Piano piano ci hanno conosciuto e abbiamo fatto amicizia con le persone del palazzo.

Maria: A scuola di mio figlio va tutto bene, all’inizio ha avuto un po’ di difficoltà. Ai ragazzini penso che i genitori dicevano: “sono romeni, zingari”, ma piano piano se ti conoscono bene si prende amicizia con tutti. Nella casa di accoglienza ho lavorato tre anni e ho fatto tanta esperienza.

Anna Amelia (piccola sorella che vive con i giostrai): Volevo sapere le differenze e le difficoltà di vivere nei campi con la propria gente o in una casa con persone che non si conoscono.

Nello: E’ meglio stare in casa, hai rapporti con tutti e conservi anche i rapporti con i parenti: loro vengono da noi e noi andiamo da loro. In questi giorni abbiamo portato loro la legna. Abbiamo tanti amici.

Maria: Abitare nelle case è meglio anche per il lavoro: quando abiti nelle baracche non si fida nessuno, quando dici che abiti in una casa in affitto è già un’altra cosa.

Carlo Stasolla: Solo una notazione storica. Mi è venuta in mente, mentre parlavano loro, la difficoltà come rumeni di inserirsi. Sapete voi quando finisce la schiavitù in Europa? Alla fine dell’ottocento. Gli ultimi ad essere stati schiavi sono i rom in Romania. Ancora nell’ottocento i rom erano schiavi dello Stato, dei privati e della Chiesa. Questo è il peso, queste sono le ferite sociali che uno si porta dietro e quindi la difficoltà anche storica, culturale ad uscire fuori e alzare la testa.

Antonella Soressi: e’ bello che ci sia una cultura che rimane e che possa esprimersi, ma come si può inserire in una società che è così dura? Noi andiamo a lavorare per otto ore al giorno e mi domando come può una persona stare in ginocchio davanti ad una chiesa a chiedere dei soldi. Mi sento già schiava a lavorare otto ore figurarsi a stare lì a chiedere: mi sentirei come se mi offendessero. Come si possono conciliare questi due mondi senza annullarne le caratteristiche?

Anna Amelia: Data l’esperienza fatta con i giostrai, mi rendo conto delle difficoltà che la legislazione italiana pone. La nostra legislazione non garantisce l’artigianato, il lavoro stagionale.

Ci sono leggi terribili per cui tanti sono costretti a vivere fuori regola. Dobbiamo impegnarci a cambiare le leggi in modo che diano la possibilità alle varie realtà di integrarsi nel nostro mondo senza annullare il proprio modo di vivere. Il mondo Rom ha delle ricchezze che potrebbero darci molto, ma che così non vengono valorizzate.

Luigi Mochi: Anche per me il punto centrale è il lavoro. Dovrebbe essere possibile entrare in maniera regolare e “civile” nel mondo del lavoro, anche senza condividere in toto la mentalità corrente e senza essere costretti ai ritmi che la società del consumo ci impone. Questo è uno sforzo di fantasia che dobbiamo fare ed una pressione civile che dobbiamo fare su chi ci governa.

Ma non è detto che questa situazione debba essere immutabile: non ci possiamo rassegnare all’espulsione dal mondo lavorativo e quindi alla riduzione alla marginalità di tanti concittadini.

La mia ipotesi è che dobbiamo pensare, progettare insieme un modo di lavorare che sia inclusivo delle persone che hanno una mentalità che non è proprio quella del “giapponese”, che entra al mattino in fabbrica ed esce al tramonto.

Paola Aversa: Ho avuto la fortuna di fare l’esperienza in un centro di ascolto per stranieri della Caritas ed ho scoperto un mondo di valori, di solidarietà, che noi abbiamo perso. Loro mi dicevano: “io sono venuto qui ed accetto le umiliazioni per un profondo amore delle persone che ho lasciato nel mio paese, io sono qui per aiutare loro”.

Quando abbiamo visto insieme il film “Come un uomo sulla terra” mi ha colpito il protagonista che diceva: noi eravamo sicuri che, una volta venuti qui in Italia e dopo avere raccontato le torture alle quali siamo stati sottoposti, qui sarebbe successo il finimondo e invece ci siamo resi conto che lo raccontiamo ai politici, lo raccontiamo alla gente, lo raccontiamo a tutti, ma non succede niente. Adesso si sta consumando nel Sinai una tragedia per 250 profughi che sono nel deserto in un container e nessuno dice nulla. Parlavo ieri con padre Zerai e gli dicevo: se vi fossero stati 250 inglesi o 250 spagnoli cosa sarebbe accaduto? Lui mi ha risposto che sarebbe bastato un solo inglese o uno spagnolo per cambiare tutto, invece quei profughi sono persone di serie B. In una società come la nostra vali solo se hai soldi, se sei ricco, se il tuo valore può essere trasformato in valore economico.

Non potrebbe essere l’incontro un modo per recuperare quello che abbiamo perso?

Nei tre mesi che ho passato al centro di ascolto sono cambiata, ho capito quanto ci possono dare le persone che arrivano, quanto perdiamo non conoscendo l’altro e quanto la nostra cultura potrebbe essere migliore. In Italia ci sono 5 milioni di immigrati che hanno risanato l’Inps e chiedono molto meno di quanto chiedono gli italiani, quindi anche volendo fare un discorso economico questi ragazzi sono una ricchezza enorme per questo paese. In questo vedo una cecità, una incapacità di lettura e sono convinta che attraverso il dialogo verrebbe giù questo muro di paura.

 

Carlo Mochi: Ci chiedevamo perché le cose vanno così… Il perché è molto semplice: conviene così, perché si crea una doppia rendita.

La prima è una rendita finanziaria perché di fronte ai rom, ai piani nomadi, di fronte all’emergenza case si è creato un business.

La seconda è una rendita politica che si basa sull’effetto “nimbi”, “non dietro la mia casa”: io ti garantisco che a casa tua non verranno mai, posso spostare i campi Rom da un’altra parte. Ora finché noi diamo spazio ad una rendita finanziaria da una parte e ad una rendita politica dall’altra, la politica, che in questo è veramente trasversale agli schieramenti, non avrà interesse a risolvere il problema. Se noi non riusciamo ad far crescere la conoscenza del mondo rom, non possiamo disinnescare questo processo che nasce essenzialmente dalla paura. Questo non è un mezzo veloce, non abbiamo la bacchetta magica. Occorre realizzare dei processi di avvicinamento attraverso la reciproca conoscenza. Questo vederci tra di noi è un momento iniziale che deve essere riproposto in tutte le occasioni. Nelle occasioni in cui un incontro è avvenuto, la paura diminuisce e diminuiscono le rendite perché dire: “mando via queste persone “ non paga più il politico di turno.

Chiara Flamini: Volevo fare delle domande a Carlo o a qualcuno degli altri presenti che hanno una conoscenza del popolo Rom dall’interno.

1. Dzemila ci ha detto che la scuola è molto importante ma io mi chiedo come facilitare dentro la scuola l’incontro e la valorizzazione di tutte le culture.

2. Carlo, tu hai detto che con Dzemila hai vissuto in diversi campi e che siete andati per condividere e imparare. Che cosa hai imparato tu dai rom e dall’esperienza che hai vissuto?

Carlo Stasolla: Prima di rispondere volevo fare una riflessione sull’elemosina e dare degli spunti su come i nostri valori morali stanno cambiando. Abbiamo fatto santi persone che chiedevano l’elemosina, come per esempio San Francesco con il valore che lui dà all’elemosina, all’umiliarsi e al chiedere all’altro. La richiesta di elemosina è stato un valore cristiano fortissimo, ma oggi noi condanniamo la donna che ha otto figli e chiede l’elemosina. Ci dà più fastidio vedere una donna rom fuori dalla chiesa che chiede l’elemosina, piuttosto che un imprenditore che non paga le tasse e che produce un danno economico sicuramente maggiore. Ecco come i valori morali stanno cambiando e come i rom vengono considerati spazzatura.

Poi invito Andrea, che fa teatro, a pensare al valore della mano che chiede l’elemosina. Il valore della mano è una barriera che si costituisce tra il rom ed il gaggè: se il rom si sente a casa sua non chiederà mai l’elemosina, quindi se la donna chiede l’elemosina è perché sente che la società le è ostile, fermo restando il fatto che poi il campo è un luogo dove nasce la devianza. Devianza non perché si è rom, ma perché è il campo che la genera. Questa è una situazione che noi abbiamo creato e che loro non hanno cercato.

Per rispondere in merito alla scuola e al lavoro, noi come associazione riteniamo che tutto quanto parta dal campo. La scuola non può funzionare fintanto che i bambini vivono nel campo, riteniamo che ancor prima del lavoro siano importanti le politiche abitative.

Abbiamo calcolato che la metà dei soldi spesi per i rom sono sufficienti per pagare affitti per 3 anni a tutti i 6 mila rom nei campi. Di quello che il Ministero, la Regione ed il Comune di Roma oggi spendono, i 34 che oggi sono diventati 40 milioni di euro che servono per i 6 mila rom, la metà sarebbe sufficiente per pagare gli affitti per 3 anni a queste persone. Però questo non si fa, perché a quale politico conviene dire: diamo la casa ai rom? Si preferisce spendere il doppio piuttosto che fare questo.

Sulla scuola sono stati fatti di nuovo passi indietro. Spero che il nuovo assessore faccia qualcosa. Ricordiamo per esempio i menù etnici che c’erano una volta? Mia moglie con una famiglia ebraica osservante ed una musulmana organizza delle cene. Ieri siamo stati a una di queste cene, c’erano pietanze di tre cucine diverse e si è mangiato veramente bene. Si mangia veramente bene nel senso che avviene un incontro e che la tavola è veramente il luogo dell’incontro.

Dobbiamo salvare ciò che resta da salvare. Salviamo una cultura che sta morendo qui in Italia: la cultura rom sta morendo, la stiamo uccidendo con tutti i suoi valori, anche quello di chiedere evangelicamente l’elemosina, che abbiamo sempre considerato fino a qualche decennio fa un valore cristiano molto importante. Come mai adesso non è più un valore? Forse per via della logica capitalista per cui hai, se guadagni quello che hai. Poi, se andiamo fino in fondo, bisogna vedere come lo guadagni. In merito alle cose che ho imparato posso dire che sono due. Una è l’accoglienza, avere la porta di casa sempre aperta a chiunque e quindi il desiderio di mescolare le cose sempre. Noi appunto facciamo anche affido familiare ed abbiamo in casa bambini di etnie e di culture diverse e questo è bello. Se sei solo ti senti morire, nel senso che non ti confronti con l’altro. L’altra cosa che ho imparato è la capacità, comunque sia, di riuscire ad andare avanti, malgrado tutto.

Ciò che ho imparato sono valori cristiani o comunque parte della cultura cristiana che penso sia veramente molto vicina alla cultura rom. Il corbanno che viene ucciso e offerto a Dio, fa parte dell’Antico Testamento, la donna più grande che, quando entri in casa, ti lava i piedi: questi sono aspetti della cultura rom. Tutti aspetti che noi stiamo perdendo, e allora ecco, se il rom ha la funzione di essere la pattumiera, io dico che i rom sono portatori di una profezia molto forte.

Andrea Mochi: Per gli abitanti di Ŝutka una delle principali fonti di reddito è la raccolta delle bottiglie di plastica che trasportano con dei carri trainati da cavallo o dei motocarri. Queste bottiglie di plastica vengono raccolte per le strade o nei cassonetti. Quando ne raccolgono un grosso sacco, esse vengono vendute ad una pressa ed i cubi ricavati vengono spediti a Milano. Quindi la potenzialità dell’integrazione in quel caso ad esempio c’era. Tu hai un’esigenza, delle persone che vengono incontro alla tua esigenza con un lavoro che fanno da decenni e hai la possibilità di realizzare una politica economica e una politica sociale con un lavoro culturale. Metti in relazione la tua esistenza di amministratore con una comunità con la quale hai un rapporto difficile e trovi la possibilità di risolvere le due questioni insieme. Ma nel 2007 il comune di Scopie, per darsi un’immagine più europea in nome del tentativo di preadesione all’ Unione Europea, ha lanciato una campagna di raccolta differenziata, cosa più che lecita. Per fare questo ha però messo delle gabbie di ferro gialle accanto ai cassonetti, le ha chiuse con dei lucchetti e poi le ha date in appalto, non ai rom, ma ad una municipalizzata. Di fatto i rom hanno perso il lavoro.

Luca Filippi: Voglio tornare su quello che si impara stando insieme. Per quanto mi riguarda, ho acquistato il gusto del tempo, nel senso che noi abbiamo molto tempo libero a casa. Una cosa che ho scoperto, che prima non avevo, è il gusto di stare tanto tempo a tavola. Anche quando vengono amici, quando viene gente si sta tanto tempo a tavola.

Un’altra cosa: lo scarso senso del possesso. Quando siamo stati sgomberati dal campo, io avevo il mio zainone ed un altro paio di bustone nelle quali avevo messo le mie cose che avrei voluto portarmi dietro, loro invece (i rom) non avevano niente. Massimiliano, un nostro amico che viveva con noi fino qualche tempo fa, era disperato perché dai suoi vari apparecchi elettrici sparivano sempre le batterie, perché quando ad uno serviva una batteria, la prendeva dove la trovava. All’inizio si rimaneva un po’ perplessi, poi alla fine ci siamo adeguati. Un’altra cosa bella che ho imparato è il gusto della festa, della musica, tanta musica, tanto ballo, la possibilità di stare insieme, il vino: c’è il senso della gioia, della festa, dello stare insieme.

Gianfranco Solinas: Un vecchio gesuita, Pio Parisi, parlava a questo proposito della “cattedra dei piccoli e dei poveri: le persone più vulnerate, più cancellate sono i nostri maestri; se impariamo ad ascoltarli scopriamo il nostro limite, la nostra piccolezza. In questo nostro cammino è stato importante che, consapevolmente, scegliessimo di percorrere la strada della vulnerabilità condivisa, che ci porta ad aiutarci reciprocamente, perché altrimenti anche nei confronti dei Rom il rischio è quello dell’unilateralità e quindi della presunzione, quasi ci fossero delle persone che devono sempre soccorrere e altri che devono sempre essere soccorsi, mentre dobbiamo vivere sempre aperti alle due direzioni: aiutare ed essere aiutati, accogliere ed essere accolti.

L’altra dimensione cruciale che, come piccola esperienza, andiamo facendo é di cercare di vivere e di far camminare insieme l’azione e la riflessione. Uno dei problemi che sta vivendo il volontariato in Italia è la carenza di riflessione, è l’esaurirsi nell’azione, nel soccorso: l’intervento perde di vista l’importanza della vicinanza, della dimensione dell’ascolto. Si diventa esperti del soccorso, tecnici del soccorso, si perde di vista l’importanza del legame tra diversi, tra diverse cucine, diverse culture… Solo attraverso l’incontro tra realtà diverse la vita riacquista colore, la fratellanza vissuta nel quotidiano riacquista spessore.

Lorenzo D’Amico:. Alcuni giorni fa Dzemila, la moglie di Carlo, ci raccontava che con la sua famiglia d’origine viveva in Jugoslavia, vivevano in un appartamento. Suo padre ebbe un grave incidente stradale e per farlo curare lo portarono qui in Italia dove Dzemila cercò lavoro. Attraverso un prete, si presentò a casa di una famiglia che cercava una colf, ma, quando la vide, la padrona di casa le disse: “Ah no, zingara no, magari negra, ma zingara no!”. Dopo altri tentativi, scelse di vendere al mercato il calendario di Frate Indovino e la gente le diceva: “Ma perché non vai a lavorare?” e a volte le dava pure l’elemosina. A questo punto Dzemila tornò al mercato senza la gonna, ma con i jeans e iniziò a vendere i calendari, a vendere bene e si chiese: “Ma perché ci costringete a nasconderci?”.

La gravità della situazione è sotto gli occhi di tutti, non dobbiamo indorare la pillola dicendo: “Questo mondo interculturale è già nato”. Il problema di cui parlava Carlo, “i campi rom rischiano di distruggere un popolo”, è un rischio reale. Io però penso che i racconti che sono stati fatti, questa vita di Luca con altre persone in un appartamento, questa condivisione, il matrimonio misto tra Dzemila e Carlo, l’inserimento nel mondo della scuola, l’inserimento di Yanko, rom jugoslavo, nel mondo del lavoro come fabbro artigiano, gli spettacoli teatrali di Andrea e Fiorenza, che ci offrono l’opportunità di conoscere dall’interno un mondo, un popolo… sono tutti segni di un futuro, che si va delineando, di ascolto reciproco, sono spazi di vita che riaccendono la possibilità e la speranza di una dignità per un popolo… sta ad ognuno di noi non perdere il collegamento con altre sorgenti di vita: solo tale collegamento ci permetterà di superare le fasi più buie.

Maria Dominica:. Alcune settimane fa una donna rom di 37 anni mi confidava un segreto che non era riuscita a condividere neanche con le sue sorelle: a breve avrebbe partorito il settimo figlio dopo nove gravidanze, il quarto con parto cesareo. Le avevano detto che, all’atto del parto, ci sarebbe stata l’asportazione totale dell’utero a causa dello stato dei tessuti e mi chiedeva cosa poteva fare perché questo non succedesse: temeva questo trattamento in quanto rom. Il suo terrore era questo: che potessero impedirle di avere altri figli in quanto di etnia Rom. Per fortuna non è successo ciò che temeva. E’ nato il piccolo che ora ha un mese. Lei avrà bisogno di cure, ma con molta consapevolezza ha detto: “Sono una donna e so decidere da sola se avere o no un altro figlio”. Dentro di me ho pensato: guarda che coraggio ci vuole per affrontare la vita e guarda che bello essere depositari di un grande coraggio come questo. Quando è nato il bambino è venuto a farmelo conoscere e a rassicurarmi che non c’era stato il bisogno di un intervento di asportazione dell’utero. E io mi sono accorta che, ancor prima di stendere una mano per chiedere soldi, occorre stabilire una relazione, sapersi fermare per incontrare una persona e piano piano stabilire un rapporto.

Per quanto riguarda il problema del lavoro, noi della La.Va. (Lavoro Vagabondo), che è un’associazione nata nel ’95 nella comunità di S. Leone vicino a Largo Boccea, tentiamo di affrontarlo in modo creativo, dando una possibilità di lavoro spesso saltuario a persone senza fissa dimora, che non lo avrebbero trovato in altro modo. In questi anni abbiamo potuto dare lavoro a non più di 9-10 persone alla volta. Sono persone che hanno avuto un contratto di collaborazione a progetto, persone per cui paghiamo i contributi. In questo modo si riabituano le persone al lavoro e i clienti alle persone. Alcuni di loro sono stati assunti regolarmente. La crisi si fa sentire anche per noi. Abbiamo alcune richieste dei condomini per le pulizie, però altri lavori non si trovano ed il turn-over per ora è fermo. Dobbiamo dire che le persone italiane, forse perché più problematiche, non sono riuscite a farsi assumere; tra le persone straniere ci sono invece alcune assunzioni perché esse dimostrano una maggiore volontà di inserimento.

Voglio raccontare un fatto accaduto molti anni fa davanti alla chiesa di S. Leone. Una bambina rom di 6-7 anni era lì a chiedere l’elemosina. Un uomo, che stava per entrare per la messa, ha afferrato la bambina e l’ha sbattuta lontano dalla chiesa. Io ero dietro a lei, a 4-5 metri, e ho potuto prendere la bambina al volo. L’uomo è entrato e al momento della comunione l’ho visto davanti a me… quel giorno non mi sono avvicinata all’eucarestia. Forse è proprio per questo episodio, che mi portavo dentro, che a settembre dello scorso anno, quando il rettore ha deciso di mandare via i poveri dalla nostra chiesa, ho voluto riprendere il digiuno eucaristico.

Francesco Cagnetti: Abbiamo fatto una diagnosi della situazione: mi pare che dopo una diagnosi occorre fare una terapia. Ecco, parliamo del mondo dei rom, di persone, del riconoscimento della loro qualità di cittadini, di uguaglianza di diritti e questo convegno ci apre una strada da seguire. Non possiamo aspettarci dalle autorità politiche alcun aiuto: si occupano e preoccupano solo di trovate elettorali. Allora, pur contestando il concetto di supplenza, penso che la Chiesa di Roma dovrebbe occuparsi, per un anno intero, dei migranti, dei rom (come ad esempio fanno in Brasile, dove ogni anno dedicano la loro riflessione ad un aspetto della vita del paese). Si dovrebbe mobilitare tutta la Chiesa per avviare la soluzione di questi problemi. Perché dal mondo politico, oggi, non possiamo aspettarci alcuna soluzione.

Marco Noli: Noi siamo qui, accomunati non da una ricerca di giustificazioni per la discriminazione, ma da una ricerca di strade per superarla. Dobbiamo essere coscienti, senza esaltazioni, che la popolazione rom è come tutte le altre, per cui, nelle percentuali che si ritrovano in tutti i popoli, anche tra i rom ci sono alcuni che vivono di usura.

Riguardo alle priorità, io direi che, ancor prima del lavoro, la priorità sia un intervento culturale: il lavoro e tutto il resto saranno conseguenze di questo intervento. Il modo di vivere di questa società non è basato sulla giustizia, ma sullo sfruttamento. Il vangelo ci dice: “guardate le nuvole e sapete se pioverà o no, ma non siete in grado di riconoscere i segni dei tempi”. Eppure dovremmo avere gli strumenti per capire che alla base delle varie strutture che ci creiamo, alla base dell’isolamento scolastico, del modo di pensare i campi, c’è il razzismo e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Una città come Roma ha tanti appartamenti vuoti, ma se pensiamo ad una soluzione abitativa per i rom vengono fuori i campi. La stessa Chiesa, la Caritas dovrebbero fermarsi e interrogarsi: dopo 20-30 anni che abbiamo le mense per i poveri, quale futuro? Dobbiamo aumentare il numero delle mense, il numero dei pasti e così aumentare il numero degli ostelli per i poveri o obbligare ad aprire gli appartamenti vuoti ed inutilizzati? Ciò che mi sembra necessario è fermarsi ed interrogarsi sulle soluzioni da trovare.

Cristina: faccio parte di una associazione di volontariato che si è occupata dei Rom per circa 10 anni. Quanto è stato detto finora è molto parziale. Quando ci siamo costituiti come associazione di volontariato, ci siamo rivolti al comune per “trovare lavoro” e ci è stata fatta una proposta da loro definita “oscena”: “occupatevi dei rom, insegnate l’italiano a quella fascia d’età (13-15) che non può frequentare la scuola elementare. E’ stata un’esperienza molto dura e molto bella. Il primo lavoro fu nel campo di vicolo Savini sotto il nome dell’ARCI per circa due anni. Poi abbiamo fatto il corso delle 150 ore e uno sulla sessualità, su “come siamo fatte”. Questo corso si chiamò “Maternità consapevole” e si svolse presso il campo Gordiani, l’unico che si mostrò interessato, infatti lì le donne si sentivano più libere dalla soggezione maschile, che ci sembra una costante nel modo di vita rom. Le donne ci dissero che era la prima occasione per loro di ritrovarsi a parlare fra di loro. Ripetemmo questa esperienza nel carcere minorile di Casal del Marmo, in cui c’erano tutte ragazze rom.

Partecipammo anche al progetto europeo di promozione delle arti degli zingari: musica, pittura, oreficeria… Il progetto fu riconosciuto finanziabile, ma poi non fu finanziato per esaurimento fondi.

Franco Battista: Ci sono momenti in cui emerge in noi un senso di impotenza, di incapacità a produrre qualcosa di positivo. Se crediamo realmente di essere impotenti, finiremo con il non fare più nulla. Le testimonianze che abbiamo ascoltato sono piccole gocce, sono piccoli passi che riaccendono la nostra speranza.

All’inizio del ‘900 gli italiani che andavano in America venivano ghettizzati, discriminati. Oggi molte strade portano i loro nomi, questo vuol dire che molti di quei discriminati hanno tirato su la testa.

Penso che non siamo l’unico gruppo in Italia che si occupa di questo, dobbiamo essere capaci di uscire dal ghetto dei nostri gruppi e prendere contatto con tante altre realtà che hanno questa stessa spinta a creare luoghi d’incontro tra persone di diversa cultura.

Anna Amelia: Vorrei raccontare un’esperienza che ho fatto. L’anno passato c’è stata una manifestazione-raduno dei rom a Roma e mi colpiva ciò che ascoltavo: “Noi siamo l’unico popolo che non ha mai fatto una guerra e che, come tutti, ha sofferto per la guerra”. C’erano dei cantanti rom molto bravi che spingevano a “riprendere la propria vita in mano”. C’erano anche deputati europei rom che insistevano molto: “Dobbiamo riprendere la nostra vita in mano: non possiamo aspettarci dagli altri grandi cose, dobbiamo far studiare i nostri figli”. Mi pare che anche la nostra Chiesa, quando aiuta, dovrebbe risvegliare il potenziale delle persone. Il popolo rom ha tanti valori: dobbiamo stare attenti che non prendano da noi ciò che abbiamo di negativo.

Antonella Soressi: Nella parrocchia di S. Vincenzo, don Nicola a chi chiedeva l’elemosina offriva sempre dei piccoli lavori di pulizia che poi pagava.

Andrea Mochi: La genesi dei rom scaturisce dalla fuga da un paese in guerra e questo meccanismo è qualcosa che riemerge tante volte nella loro storia e che ha permesso loro di sopravvivere: quando si accorgono che la nave affonda, si allontanano. Se esaminiamo l’origine delle nostre civiltà, a monte di tutto c’è sempre un’opera di conquista. I rom, invece, di fronte ad un possibile scontro, si allontanano magari con il tuo pollo , ma rifiutano la logica della contrapposizione.

Una cosa che notavo e che mi ha creato dei problemi è il loro rifiuto della dialettica, che per noi si basa sulla contrapposizione di idee. Loro, invece, giustappongono un pensiero ad un altro, non accettando né rifiutando quello di un’altra persona.

Giovanna Liberati: Conosco una donna rom che chiede l’elemosina davanti al supermercato. Vedo che per molti di noi è parte del supermercato. Quali alternative ha, visto che nessuno la prende a lavorare? Pulire i vetri al semaforo, chiedere l’elemosina o rubare. Chiedere l’elemosina è la conseguenza di una politica del rifiuto.

Teresa Ossella: Questo popolo che non ha mai avuto sicurezze e questa nostra politica, che li fa passare da uno sgombero all’altro, acuisce l’insicurezza, accentua questo loro vivere alla giornata.

Andrea Mochi: Ripetono molto spesso: “All’oggi l’oggi, il domani al domani”. Per quei rom che ho conosciuto c’è una distinzione tra “integrazione” e “assimilazione”. Laddove devo rinunciare a dire di essere rom per essere rispettato, si parla di assimilazione; invece laddove accetto le regole della comunità in cui vivo e posso dire di essere rom, si parla di “integrazione”. E’ abbastanza facile ridurre il mondo dei rom all’aspetto folkloristico: al di fuori del loro cantare e ballare non viene loro riconosciuto alcun rispetto. I due confini non sono così netti. Dire: “I rom rubano” è vero. Rappresenta il loro DNA? E’ una realtà che riguarda tutti e sempre? No. Mantenere questo difficile equilibrio è, mi pare, l’unico spazio possibile.

Anna Amelia: Esaminando oggi la condizione di molti rom che provengono dall’ex Jugoslavia, vediamo realmente condizioni di imbarbarimento, ma dobbiamo essere capaci di risalire a ciò che hanno subito qui e lì. Molti di loro hanno dovuto negare la loro identità allora, nascondendola senza perderla, per trovare uno spazio vitale e, ottenuto tale spazio, ecco riemergere ciò che è al cuore delle loro cultura.

Lorenzo D’Amico: Sono operaio dipendente di una piccola falegnameria artigianale, non sono il principale, ma liberamente collaboro a rubare, cioè coscientemente contribuisco ad evadere almeno in parte il fisco, perché so bene che se dovessimo denunciare tutti i lavori, nel giro di due anni dovremmo chiudere. Questo modo di pensare e di agire mi fa capire che c’è un modo di rubare che può essere spietato. E’ ben diverso chi ruba un pollo, anche se è il mio pollo, una bottiglia d’olio, rispetto a chi fa ricettazione, spaccio, strozzinaggio. Dobbiamo evitare quei ragionamenti di chi vorrebbe vivere in una nube asettica.

Mi pare molto importante quel movimento che è sorto l’anno passato nel mondo dei rom chiamato DOSTA (BASTA). Un movimento che sta aiutando a denunciare le violenze sui rom, ad esempio in carcere, o le aggressioni e gli incendi nei campi. Hanno iniziato una campagna di difesa a livello legale: stanno prendendo in mano la loro vita, iniziando ad essere responsabili del loro futuro. Mi pare importante che i rom prendano coscienza della loro identità per poter costruire il loro futuro.

Lu_______________________________________________________________________________________________________________________________igi Mochi: A proposito dell’elemosina, ho cambiato mentalità: ora, quando trovo una persona in mezzo alla strada che prende freddo, pioggia, parolacce o caldo e chiede l’elemosina, nei limiti delle mie possibilità, la aiuto. Non voglio dire che ho ragione oggi e avevo torto prima, certo è che avendo conosciuto Nello che fa questo, ho un motivo in più per agire così. Nella regola di S. Francesco è scritto che i frati non devono conservare nulla: quello che c’è è a disposizione di tutti. Così è oggi per le piccole sorelle. Noi viviamo una condizione particolare per cui un oggetto desiderato che è sugli scaffali di un supermercato, nel giro di poco tempo, spesso, riempie le pattumiere. Quindi da una parte una società che tiene all’effimero e dall’altra una società che tende ad accumulare. Di fronte a questo, che qualcuno consumi con gioia e nella condivisione le cose che ha, è per noi un segno importante.

Gianfranco Solinas: : Anch’io nel passato non davo l’elemosina, poi ho cominciato a comprare ciò che decidevo di dare, perché dietro questa decisione c’era la convinzione che i soldi sarebbero stati sprecati da chi li riceveva. Ora mi sono liberato da questo pregiudizio e lascio lei o lui decidere cosa fare con i soldi. L’esperienza di Milano di don Colmegna, quella dell’interposizione, è una realtà che mi convince sempre di più: non è offrire freddamente delle capacità di mediazione, ma è un interposizione che nasce da un ascolto profondo e da cui segue un modello conviviale.

Un meccanismo terribile che impedisce la comunicazione è l’ansia. C’è un’ansia primaria e una che nasce da meccanismi politici-elettorali. Ecco, mi pare importante che persone di culture e popoli diversi si accolgano e si ascoltino reciprocamente: da qui nasce la possibilità di comunicare ansie profonde, come diceva Maria Dominica. Non dobbiamo banalizzare il tutto dicendo che si tratta di piccole esperienze: se veramente banalizziamo questo, finiamo per essere schiacciati dalle tragedie che ci racconta ogni giorno la TV e per pensare: “Questo è ciò che veramente conta”.

Un’ultima nota: la notizia dei vari bollettini che mi pare tragica è che il vero nomade odierno è il capitale, libero di muoversi oltre ogni confine. Le persone sono bloccate e il capitale è libero di massacrare persone e popoli.

Lettera che i bambini Rom dei “campi nomadi” di Torino hanno scritto al Prefetto nel febbraio del 2011 dopo la morte dei 4 bambini di Roma:

Caro Prefetto,

siamo i bambini rom che abitano nella tua città e come i 4 bimbi di rom morti giorni fa noi abitiamo nelle baracche. A volte abbiamo paura che le nostre “case” prendano fuoco e tutto bruci. Molti di noi vanno a scuola sui pulmini del comune, altri, invece, vanno accompagnati dai loro papà. Sai, a qualcuno piace la scuola, ad altri no, però ci andiamo perché poi non ci danno più il permesso di soggiorno. I nostri genitori hanno molti problemi, tanti dei nostri nonni sono nati in Italia e non sono mai diventati italiani come sei tu.

Abbiamo sentito dai grandi che tu sei buono e puoi fare tante cose belle per noi. Ci puoi aiutare perché non succeda niente di brutto dove abitiamo? Perché non ci vieni a trovare? Così vedi che non siamo come scrivono tanti giornali, siamo bimbi come tutti, contenti di essere rom, anche se le nostre case non sono grandi come la tua.

Aiutaci gagio prefetto, vieni a trovarci e ti parleremo di tante cose così capisci tutto e ci puoi aiutare.

Ti mandiamo un bacio.

I bambini rom dei campi

Nota di servizio: anche questa lettera è stata spedita con il nostro indirizzario, abbiamo provveduto a correggere errori, a fare qualche cancellazione e qualche inserimento. Chi si trovi inserito senza desiderarlo ci scusi, basta una comunicazione e provvederemo a cancellare l’indirizzo. Chi invece viene a conoscenza di questa lettera e vuole riceverla ce lo faccia sapere. Come sempre sono gradite segnalazioni di indirizzi di persone interessate.

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Chiara Flamini, Torre Angela Roma

Alessia Galici, Ostia Nuova Roma

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Caterina Monticone Aurelio-Boccea Roma

Luigi Mochi Sismondi, Torre Angela Roma

Liliana Ninchi, Ostia Nuova Roma

Marco Noli, Ostia Nuova Roma

Solange Perruccio, Monteverde Roma

Umberto Sansovini, Ostia Nuova Roma

Gianfranco Solinas, Martina Franca Taranto

Antonella Sorressi, Ostia Nuova Roma

Micaela Sorressi, Ostia Nuova Roma

Daniele Trecca Ostia Nuova Roma