Lettera 20 (Seconda Serie)

Cari amici,

nel corso dei nostri ultimi incontri abbiamo voluto affrontare il tema della sofferenza e della morte. Ci siamo nuovamente accorti dell’importanza di riflettere in gruppo su questi temi che riteniamo fondamentali: spesso nella solitudine non si ha la forza né la capacità di avviare una ricerca profonda, mentre quando insieme arriviamo ad esporre ciò che pensiamo, siamo noi stessi che ci meravigliamo della parzialità del nostro pensiero. A volte, infatti, solo in gruppo è possibile percorrere sentieri che da soli non ci arrischiamo a affrontare.

Nella scelta del tema è stato utile ricordarci la necessaria attenzione a non strumentalizzare un tempo di sofferenza o di paura per attirare alla fede; è altresì importante tornare a parlare della sofferenza e della morte, non affidarla ciecamente al personale medico, non nasconderla dietro i paraventi ospedalieri, ma essere capaci di confrontarsi serenamente ed anche fuori da “tempi sospetti”.

La malattia e la sofferenza non sono incidenti da evitare ma parte costitutiva della vita stessa. La morte è un passaggio reale per tutti. In molti casi la sofferenza può aiutare ad orientarci verso l’essenziale, può dischiudere orizzonti inaspettati; dopo esserci opposti mani e piedi a certe situazioni che sembravano travolgerci ci accorgiamo che proprio quel tempo così avversato è stato tanto fruttuoso. In altri casi quella sofferenza ci ha indurito, isolato o resi sterili.

Su questo, dunque, invitiamo i nostri amici a riflettere serenamente e senza paura in un convegno. Se il titolo ci spaventa, pensiamo a quanto questo argomento sia naturale e “condiviso”.

Nel corso della giornata cercheremo anche di distinguere tra le sofferenze “naturali” e quelle provocate dall’ingiustizia e dalla violenza. Certamente saremo più credibili quando riusciremo a parlare della nostra esperienza. Partiremo comunque dal patrimonio comune ad ogni uomo e donna, d’ogni fede e cultura; una attenzione particolare come al solito la riserveremo, “in basso”, con gli ultimi.

Dialoghi sulla sofferenza e la morte:

– La sofferenza come opportunità per conoscere il nostro limite e sperimentare solidarietà e condivisione

– La sofferenza come conseguenza dell’ingiustizia contro cui siamo chiamati a lottare.

Sabato 29 ottobre 2011 dalle 9 alle 18

(il pranzo condiviso sarà offerto dal gruppo de “La Tenda”)

presso il teatro della Parrocchia dei SS. Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela – Via di Torrenova 162 , Roma

(in ultima pagina le indicazioni per arrivare)

 

In questo numero presentiamo anche due articoli che pensiamo possano aiutarci nella nostra riflessione: il primo sul silenzio, spesso componente importante e necessaria proprio del momento della sofferenza, e l’altro che descrive le sofferenze del popolo haitiano rispetto alle quali non possiamo nascondere la nostra corresponsabilità:

 

Sommario della 20° lettera:

1. Il silenzio: una riflessione di Yahia Lababidi

2. Intervista a Ricardo Seitenfus ex rappresentante dell’OSA ad Haiti

Il silenzio

Yahia Lababidi*

Parlare del silenzio può sembrare un tradimento, la rottura di un tacito accordo. E tuttavia, che ne siamo coscienti o no, il silenzio è una presenza costante, intessuta nella struttura delle nostre vite. Da tempo contemplativi, poeti e pensatori hanno fatto cenno ad una sapienza che va, oltre le parole, fino al limite della sensazione, per attirare l’attenzione sull’ineffabile. T.S. Eliot ha scritto che “ dopo un discorso le parole approdano nel silenzio, come un vaso cinese che continua a muoversi nella sua immobilità” (Burnt Norton). I poeti sono i guardiani del linguaggio, ma sono anche i guardiani di un silenzio da cui procede il linguaggio e verso il quale ritorna. Samuel Beckett, nelle sue opere teatrali, come Breath or Act without Words, permette, per così dire, che il silenzio superi la parola – un ideale al quale si riferisce, nella sua corrispondenza, come alla “letteratura dell’assenza della parola”. Spiega così: “ il mio linguaggio mi appare sempre più come un velo che va strappato per raggiunger quelle cose (o il nulla) che stanno dietro”.

I Sonnets to Orpheus di Rilke precisano che queste parole epurate, oniriche, sono proprio il linguaggio del silenzio, o il linguaggio che è diventato “il tintinnio del silenzio”, come ha detto Heidegger. La “doppia sfera” della vita e della morte è riflessa nel gemellaggio del rumore col silenzio: Erst in dem Doppelbereich,/ werden die Stimmen/ ewig und mild (Nella doppia sfera, le voci diventano eterne e dolci).

Perciò il silenzio non deve essere considerato solo in termini negativi, come assenza o forse scacco delle parole. Il silenzio ha un’identità positiva che esiste in qualche modo prima e oltre la rappresentazione, essenza originaria che si nasconde sotto il nostro mondo elaborato. Per Tao Te Ching, “il ritorno alle fonti è il silenzio/ il silenzio è il ritorno all’essere”.

Improvvisamente, una semplice pausa nel corso di un discorso può rendercene consapevoli. Emilio Cioran, autore rispettoso del silenzio, osserva che “un silenzio improvviso in piena conversazione ci riconduce d’un tratto all’essenziale: mostra a che punto dobbiamo pagar caro per l’invenzione di un discorso”.

La comunicazione silenziosa

Secondo Rumi, poeta sufi, ”una persona non parla con parole. La gente è attratta dalla verità e dall’affinità. Le parole sono solo un pretesto”. In quanto linguaggio o comunicazione muta, anche il silenzio può essere una cosa o il suo opposto: può essere eloquente o maldestro, disperante o sereno. Può essere educato, comunicare rispetto, empatia, o anche una forma di moderazione – ad esempio quando ci si astiene da malignità o si evita di essere coinvolti in discussioni o pettegolezzi perniciosi. Oppure può essere maleducato, diffondendo collera o ostilità – come un silenzio imbronciato e pieno di risentimento. Ci sono momenti in cui il silenzio ci si fissa in bocca o in gola, quando riceviamo cattive notizie che non ci aspettavamo e che ci lasciano sgomenti e muti. Confrontati alla gravità d’una situazione, non ci rimane altro che un silenzio non meno autentico, pieno e universale del linguaggio del corpo; sprezzante del bisogno di parole. Come mezzo di comunicazione, il silenzio è non meno fluido e incostante delle emozioni e delle situazioni da cui deriva. Spesso dice ciò che le parole non possono dire. Come Rilke se ne è reso conto, “Le cose non sono così palpabili ed esprimibili come la gente a volte vuol farci credere. La maggior parte delle nostre esperienze sono inesprimibili, esse si presentano in uno spazio dove nessuna parola è mai entrata”.

Il silenzio può avere un significato diverso secondo il contesto culturale. Ad esempio, un silenzio ritenuto imbarazzante o maldestro nel contesto di una società occidentale non lo è affatto in Cina o in Indonesia. Nel Giappone, dove il silenzio è molto apprezzato, è l’eloquenza che desta sospetto. C’è persino un termine per la comunicazione muta – haragei – usato per alludere ai modi preferiti per esprimere una faccenda affettiva.

Il silenzio delle cose

È nel silenzio che le cose si dispiegano pazientemente, si aprono e confidano i loro segreti, o manifestano le loro nature nascoste – sia che si tratti di idee o di creature timidi, un’alba o un’opera d’arte. Ciò che sembra sfuggire al mondo delle parole e dei suoni può manifestarsi a noi in questo stato fondamentale e evidentemente privilegiato; forse perché in quel preciso momento siamo capaci di intenderci e di dirci ciò che sappiamo già. Coltivare il silenzio può anche significare coltivare l’attenzione, per essere presenti a noi stessi e alla vita più profonda che si disvela continuamente in noi e intorno a noi. Il silenzio non è semplicemente assenza di suoni, può anche essere percepito come una presenza fisica reale. Il silenzio fondamentale captato nella natura, ne è un esempio tipico: sia esso relativo (nella foresta o sotto l’acqua) o assoluto (nel deserto, prima di una tempesta o infine nello spazio). Pur potendo esserci diversi gradi di silenzio nella natura, si può dire che tali incontri con questa entità rappresentano una specie di equivalente uditivo della immobilità.

Chi ha fatto una passeggiata la mattina presto conosce questo silenzio sacro. Del pari, chi ha fatto l’esperienza del suono completamente perso nel misterioso e silenzioso ambiente sottomarino dell’oceano/del mare, o chi si è meravigliato di fronte alla calma dell’aria del deserto, conoscerà questo senso del sacro – dove il tempo sembra crollare e dove si può presentire l’eternità. La vera bellezza fa tacere. Anche se si è coscienti della trama complessa delle piccole creature che si dedicano tranquillamente alle loro occupazioni quotidiane, ciò non toglie nulla “alla calma che la natura spira nelle colline e nei boschetti” (Wordsworth). La compagnia solenne di questo silenzio può far sì che lo studio della natura somigli a un tastare il polso dell’essere. Le pitture sono silenziose per definizione. Ma quando si vedono le pitture degli artisti cinesi o giapponesi immerse nello spirito del zen, dove le forme emergono molto nettamente da un fondo infinitamente vuoto, si sente che la pittura risuona da un potente silenzio. Il silenzio delle cose non è morte o assenza di comunicazione, ma esperienza del loro essere più profondo.

Il silenzio come porta

Un altro aspetto del silenzio è il suo ruolo di porta. Non sappiamo sfondare questa porta per entrare e raggiungere lo stato meditativo e riflesso; dobbiamo piuttosto attendere pazientemente che ci si lasci entrare. Si entra e si esce da questo stato, come se fosse un territorio fisico reale. La scultura di Rodin ‘Le penseur’ è un monumento a quest’arte invisibile di riflessione. Non lo si vede circondato da altri individui in piena conversazione, è rappresentato tutto solo – perso nella riflessione e nel silenzio ritrovato.

Ci sono anche dei templi del silenzio, degli spazi secolari del culto, dello studio e della guarigione, dove il silenzio è coltivato, come nelle biblioteche, nei musei, negli ospedali e nei cimiteri. L’importanza intellettuale, morale o spirituale di questi luoghi stimola la contemplazione rispettosa, e ciò ci permette di attraversare questa porta silenziosa.

La lettura può agire come trampolino per avere accesso a questa regione dell’anima, in cui gli scenari esterni sembrano sparire (a tal punto che si può essere perfino incoscienti del proprio corpo). “Un libro deve essere l’ascia per il mare gelato in noi”, ha detto Kafka, un mare sul quale navighiamo in un felice silenzio. Esaltando il piacere e l’ispirazione spirituale della parola scritta, la bibliofila Susan Sontag ha descritto la lettura come “quell’incantamento disincarnato…. sufficientemente estatico per sentirsi senza ego”.

Una fantasticheria tranquilla in cui l’arte di non far nulla (apparentemente) può essere un’altra via verso l’ ”estasi disincantata”; una evasione dalla tirannia di se stesso, dallo spazio e dal tempo. In questo mondo, siamo liberi di viaggiare in qualsiasi senso, di evocare ricordi e fantasie. Tali folli immaginazioni non sono così frivole come sembra, sono necessarie per la salute del nostro spirito e offrono uno spazio creativo per una fiorente attività interiore e una purificazione psichica dalle tossine quotidiane dello stress o della preoccupazione.

La preghiera è una porta centrale per accedere a questo stato di silenzio beato. Lo si nota negli scritti sapienziali sufi che invitano a cercare il silenzio interiore, ed in raccomandazioni buddiste che chiedono allo spirito di diventare silenzioso, tranquillo, per raggiungere l’illuminazione. Nel culto dei quaccheri, il silenzio è una occasione per permettere al divino di entrare nel cuore. Il filosofo cristiano Max Picard, che ha dedicato un intero libro di serie meditazioni a questo soggetto, dice: “Il silenzio è un ascolto”. E forse non è sempre evidente chi veramente ascolti: io o il silenzio stesso. Peraltro le diverse tradizioni spirituali sono tutte concordi nel dire che occorre osservare il silenzio per stimolare la crescita e la trasformazione interiore dell’individuo. Più recentemente, sulla base di scannografie del cervello di monaci buddisti, la giovane scienza della neuroplasticità ha dimostrato che la meditazione cambia realmente la struttura e il funzionamento del cervello. In altri termini, i nostri pensieri e i nostri silenzi possono, di fatto, mutare il nostro spirito e anche la nostra vita – obiettivo finale della filosofia o della religione.

Una cultura del rumore

Forse occorre più che mai fare l’elogio del silenzio, come sforzo per ristabilire l’equilibrio in una cultura contemporanea cacofonica, che sembra ora sospettare, ora nettamente disprezzare il silenzio. Come oggi viviamo in questo mondo moderno, sommersi dal lavoro – affaccendati a informarci e a bippare, sotto il falso imperativo di doverci mantenere in contatto con tutto e con tutti –siamo nella malsana situazione di perdere i nostri silenzi e tutti i valori che ci danno. Ci affrettiamo disperatamente, passiamo da una attività all’altra, senza mai fermarci per discernere ciò che abbiamo appreso, o per riflettere sulle esperienze. Per combattere la distrazione del rumore, possiamo volgerci verso la disciplina del silenzio che, praticata consapevolmente, può essere sia rinuncia che digiuno. Nello stato attuale delle cose, l’erosione del silenzio nelle nostre vite va senz’altro connessa coi nostri nervi devastati dal rumore, o con gli accresciuti livelli di stress, nonché con durate di concentrazione sempre più corte. Gli orribili livelli di decibel nelle discoteche provocano la perdita dell’udito nei giovani, o infliggono l’atroce problema degli acufeni. Secondo il compositore Stockhausen, l’inquinamento uditivo è talmente invadente che non ce ne rendiamo più conto. Questo rumore incessante mina la nostra capacità di pensare lucidamente e di sentire intensamente, e diventiamo incapaci d’esaminare con discernimento il diluvio di stimoli che invadono i nostri giorni febbrili e inquieti. Il rumore non è solo quello del suono, ma è anche nel disordine dell’informazione non digerita e delle emozioni non selezionate che ammucchiamo per giornate e settimane intere. Quando si usurpa così i nostri spazi privati rischiamo di autoalienarci a tal punto che le nostre vite ci sembrano estranee. Alla lista dei danni causati dalla perdita dei nostri silenzi possiamo aggiungere la deformazione dell’arte della conversazione; perché poco importa se una buona conversazione possa apparire facile o effimera, essa è sempre radicata nel nostro pensiero personale, e ne è il prodotto. Se la cultura della lettura era nel passato una porta verso il silenzio, oggi essa è compromessa dall’informazione che vuole soddisfare i nostri programmi sovraccarichi. Ciò, nonché la concorrenza acuta e insistente dei media, ci obbliga a preservare i nostri silenzi con una vigilanza vieppiù accentuata. In tale contesto possiamo ad esempio esaminare più da vicino come Internet intacca seriamente la nostra capacità di concentrarci e di riflettere. L’articolo provocatore di Nicholas Carr “Google ci rende stupidi? Ciò che Internet fa al nostro cervello” (The Atlantic, luglio-agosto 2008) potrebbe servire come punto di partenza per questa discussione.

Se Biagio Pascal aveva ragione di dire che “tutti i problemi dell’umanità provengono dall’incapacità dell’uomo di stare tranquillo e solo in una camera”, allora la proliferazione dei talk-shows e delle telerealtà può essere vista come sintomatica del nostro malessere culturale. Le telerealtà che vogliono distogliere la nostra attenzione dalla realtà o dall’essere presenti a noi stessi, sono precisamente manifestazione della nostra “incapacità collettiva di sederci tranquilli e soli in una stanza”. Invece di permettere che ci spingano nel bagno – forse l’ultimo rifugio di spazio personale e di contemplazione – noi dovremmo contestare il valore di affaticarci da morire nel divertimento e nel multi-tasking. Contro ciò che sembra talvolta essere un complotto del rumore, dobbiamo esigere il nostro diritto di ritirarci, di riflettere e di rigenerarci.

Il buon uso del silenzio

La solitudine vuole aiutarci a comprendere i nostri limiti e a scoprire le nostre intenzioni per affrontarle. Quanto alle idee e ad una migliore coscienza di sé, acquisite nella solitudine, dovrebbero essere esaminate in compagnia di altri. Emerson riassume succintamente questa idea: “Nel mondo è facile vivere secondo le opinioni del mondo, nella solitudine è facile vivere secondo le proprie vedute: ma un grande uomo mantiene armoniosamente l’indipendenza della solitudine in mezzo alla folla”. Tuttavia, come qualsiasi sostanza, il silenzio deve essere manipolato con precauzione. Gli iniziati o i maestri del silenzio hanno saputo sempre conseguire il coraggio e la perspicacia per raggiungere l’estasi (essere o trovarsi fuori di sé). Ma ciascun individuo deve vedere che cosa sia augurabile o utile per se stesso; un eccesso di tali buone cose può essere per alcuni controproducente, o addirittura pericoloso, e condurre alla disperazione, alla follia o al suicidio.

Come i silenzi dei monasteri e delle istituzioni non sono buoni per tutti, così i viaggi prolungati verso i paesi stranieri del silenzio non sono destinati ai turisti. Addestratori di serpenti dello spirito, abituati ad arrischiarsi in ciò che è temibile, possono senz’altro impegnarsi a fondo nella realtà di vita e di morte del deserto, nelle grandi prove della solitudine, oppure nelle loro proprie immagini mutevoli nello specchio. Altri, meno esercitati, potrebbero uscire danneggiati da queste esperienze estreme. È quindi necessario trovare il giusto equilibrio tra digiuni silenziosi e festival rumorosi, il buon dosaggio prescritto da Kafka: “Le relazioni sociali portano con sé la contemplazione di sé”

(Japan Mission Journal, primavera 2011, p.17)

Ricardo Seitenfus mette a nudo le contraddizioni dell’ONU

In un’intervista al giornale svizzero “Le Temps” l’ambasciatore brasiliano Ricardo Seintenfus, rappresentante speciale dell’Organizzazione degli Stati Americani ad Haiti, spiega le contraddizioni dell’aiuto internazionale.

Solo 24 ore dopo questa intervista Seitenfus è stato rimosso dal suo incarico.

Temps: Diecimila Caschi Blu ad Haiti. A Suo parere, una presenza controproducente …

Ricardo Seitenfus: Il sistema di prevenzione delle controversie nel quadro delle Nazioni Unite non è adatto al contesto haitiano. Haiti non è una minaccia internazionale. Non siamo in guerra civile. Haiti non è l’Iraq o l’Afghanistan. Eppure il Consiglio di sicurezza, in mancanza di alternative, ha imposto i Caschi Blu dal 2004, dopo la partenza del presidente Aristide. Dal 1990, siamo qui nella nostra ottava missione delle Nazioni Unite. Haiti dal 1986 ha vissuto, dopo la partenza di Jean-Claude Duvalier, quello che io chiamo un conflitto a bassa intensità. Siamo di fronte a lotte di potere tra gli attori politici che non rispettano il gioco democratico. Ma mi sembra che Haiti, sulla scena internazionale, paghi soprattutto la sua vicinanza agli Stati Uniti. Haiti è stato oggetto di una attenzione negativa da parte del sistema internazionale. Si trattava per le Nazioni Unite di congelare il potere e trasformare gli haitiani in prigionieri nella loro isola. L’angoscia dei boat people può in gran parte spiegare le decisioni internazionali nei confronti di Haiti. Si vuole ad ogni costo che restino a casa.

T. : Che cosa impedisce la normalizzazione del caso di Haiti?

R.S. : Per 200 anni, la presenza di truppe straniere si è alternata con quella dei dittatori. E’ la forza che definisce le relazioni internazionali con Haiti e mai il dialogo. Il peccato originale di Haiti, sulla scena mondiale è la sua liberazione. Gli haitiani commettono l’inaccettabile nel 1804: un crimine di lesa maestà inquietante per il mondo d’allora. L’Occidente era un mondo colonialista, schiavista e razzista che fondava la sua ricchezza sullo sfruttamento delle terre conquistate. Così il modello rivoluzionario haitiano fa paura alle superpotenze. Gli Stati Uniti non riconoscono l’indipendenza di Haiti fino al 1865 e la Francia chiede il pagamento di un riscatto per accettare questa liberazione. Fin dall’inizio l’indipendenza del paese è compromessa e il suo sviluppo ostacolato. Il mondo non ha mai saputo trattare con Haiti, così ha finito per ignorarla. Sono così cominciati 200 anni di solitudine sulla scena internazionale. Oggi, le Nazioni Unite hanno applicato ciecamente il capitolo 7 della loro Carta ed hanno schierato le loro truppe per imporre una operazione di pace. Così non si risolve nulla, si peggiora la situazione. Si vuol fare di Haiti un paese capitalista, una piattaforma di esportazione per il mercato USA, è assurdo. Haiti deve tornare ad essere quello che è, vale a dire un paese prevalentemente agricolo, ancora fondamentalmente impregnato di diritto tradizionale. Il paese è continuamente descritto dal punto di vista della sua violenza. Ma, anche senza uno Stato, il livello di violenza non raggiunge che una frazione di quello di altri paesi dell’America Latina. Ci sono elementi in questa società che hanno impedito che la violenza si diffondesse senza misura.

T. : Non è ammettere una sconfitta il vedere in Haiti una nazione non assimilabile il cui unico orizzonte è un ritorno ai valori tradizionali?

R.S. : C’è una parte di Haiti che è moderna, urbana e rivolta verso l’esterno. Si stima in circa 4 milioni il numero di haitiani che vivono al di fuori dei loro confini. E’ un paese aperto al mondo. Io non sogno di tornare al XVI secolo, ad una società agricola. Ma Haiti vive sotto l’influenza delle ONG internazionali della carità universale. Oltre il 90% dell’istruzione e della sanità sono in mano a privati. Il paese non ha risorse pubbliche per poter far funzionare un sistema di stato se pur minimo. Le Nazioni Unite non tengono conto dei tratti culturali. Ridurre Haiti ad un’operazione di pace nasconde le sfide vere che si presentano al paese. Il problema è socio-economico. Quando il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 80%, è inutile svolgere una missione di stabilizzazione. Non c’è nulla di stabilizzare e tutto da costruire.

T. : Haiti è uno dei paesi più sovvenzionati nel mondo e tuttavia la situazione è solo peggiorata negli ultimi 25 anni. Perché?

R.S. : Gli aiuti d’emergenza sono efficaci. Ma quando diventano strutturali, quando si sostituisce lo Stato in tutti i suoi compiti si giunge ad una mancanza di responsabilità collettiva. Se vi è una prova del fallimento degli aiuti internazionali questa è Haiti. Il paese è divenuto una Mecca. Il terremoto del 12 gennaio e l’epidemia di colera non hanno fatto che accentuare questo fenomeno. La comunità internazionale ha la sensazione di dover rifare ogni giorno quello che sembrava fatto il giorno precedente. La fatica di Haiti comincia a pesare. Questa piccola nazione ha sorpreso la coscienza del mondo con disastri sempre più grandi. Speravo che col dramma del 12 gennaio il mondo avrebbe capito che con Haiti aveva seguito una strada sbagliata. Purtroppo si è rafforzata la stessa politica. Invece di fare un bilancio, abbiamo inviato più soldati. Bisogna costruire strade, erigere dighe, partecipare all’organizzazione dello Stato, del sistema giudiziario. L’ONU dice che non ha alcun mandato per questo. Il suo mandato in Haiti è di mantenere la pace del cimitero.

T. : Qual è il ruolo delle ONG in questo fallimento?

R.S. : Dopo il terremoto, Haiti è diventato un crocevia inevitabile. Per le ONG internazionali Haiti è diventato un luogo di passaggio obbligato. Il problema più grave é quello della loro formazione. L’età dei cooperanti che sono arrivati dopo il terremoto è molto bassa, sono sbarcati in Haiti senza alcuna esperienza. E Haiti, lo posso dire, non è adatta ai dilettanti. Dopo il 12 gennaio, a causa della massiccia assunzione, la qualità professionale è diminuita in modo significativo. Esiste una relazione malefica o perversa tra la forza delle ONG e la debolezza dello Stato haitiano. Alcune ONG esistono solo a causa della sfortuna di Haiti.

T. : Quali errori sono stati fatti dopo il terremoto?

R.S. : Di fronte alla massiccia importazione di beni di consumo per sfamare i senzatetto, la situazione dell’agricoltura haitiana è ancora peggiorata. Il paese offre un campo libero a tutte le esperienze umanitarie. E ‘ divenuto accettabile dal punto di vista morale considerare Haiti come un laboratorio. La ricostruzione di Haiti e la promessa che facciamo balenare di 11 miliardi di dollari hanno infiammato l’avidità. Sembra che un sacco di persone venga ad Haiti non per aiutare Haiti, ma per fare affari. Per me che sono un americano è una vergogna, un affronto alla nostra coscienza. Un esempio: i medici haitiani che vengono formati a Cuba. Più di 500 sono stati educati a L’Avana. Quasi la metà di loro,che dovrebbero essere in Haiti, sono impegnati oggi negli Stati Uniti, in Canada o in Francia. La rivoluzione cubana sta attualmente finanziando la formazione delle risorse umane per i suoi vicini capitalisti …

T. : Si descrive costantemente Haiti come ai confini del mondo, lei invece interpreta il paese come un concentrato del nostro mondo contemporaneo …

R.S. : E’ il concentrato delle nostre tragedie e dei fallimenti della solidarietà internazionale. Noi non siamo all’altezza della sfida. La stampa mondiale viene ad Haiti e descrive il caos. La reazione dell’opinione pubblica non si fa attendere. Per lei Haiti è uno dei peggiori paesi del mondo. Dobbiamo andare verso la cultura haitiana, dobbiamo andare verso il territorio. Penso che ci siano troppi medici al capezzale del malato e la maggior parte di questi medici sono degli economisti. Ma ad Haiti abbiamo invece bisogno di antropologi, sociologi, storici, politologi e perfino teologi. Haiti è troppo complessa per le persone che hanno fretta, i cooperanti hanno fretta. Nessuno si prende il tempo né il gusto di cercare di capire quello che potremmo chiamare l’anima di Haiti. Gli haitiani hanno capito bene e ci considerano, noi la comunità internazionale, solo come una mucca da mungere. Vogliono approfittare di questa presenza e lo fanno con straordinaria maestria. Se gli haitiani ci considerano solo dai soldi che portiamo è perché noi siamo presenti solo in questo modo.

T. : Al di là dell’ammissione di fallimento, quali soluzioni propone?

R.S. : Tra due mesi avrò completato una missione di due anni ad Haiti. Per rimanere qui e non essere sopraffatto da quello che vedo, ho dovuto creare una serie di difese psicologiche. Volevo restare una voce indipendente, nonostante il peso dell’organizzazione che rappresento. Ho continuato perché volevo esprimere i miei dubbi profondi e dire al mondo che ora basta. Basta col giocare con Haiti. Il 12 gennaio mi ha insegnato che c’è uno straordinario potenziale di solidarietà nel mondo. Anche se non dobbiamo dimenticare che, nei primi giorni, sono stati gli haitiani stessi, da soli, a mani nude, che hanno cercato di salvare i loro cari. La compassione è stata molto importante nel momento dell’urgenza. Ma la carità non può essere il motore delle relazioni internazionali. Questo dovrebbe essere l’autonomia, la sovranità, il commercio equo e solidale, il rispetto per gli altri. Abbiamo bisogno di pensare nello stesso tempo come fornire opportunità di esportazione per Haiti.

(Le Temps , 20 dicembre 2010)

Nota di servizio: anche questa lettera è stata spedita con il nuovo indirizzario, abbiamo provveduto a correggere errori, a fare qualche cancellazione e qualche inserimento. Chi si trovi inserito senza desiderarlo ci scusi, basta una comunicazione e provvederemo a cancellare l’indirizzo. Chi invece viene a conoscenza di questa lettera e vuole riceverla ce lo faccia sapere. Come sempre sono gradite segnalazioni di indirizzi di persone interessate.

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Micaela Sorressi, Ostia Nuova Roma

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Come si arriva alla Parrocchia dei SS. Simone e Giuda Taddeo

a Torre Angela:

Con la macchina: – Grande Raccordo Anulare uscire all’Uscita 17 tenersi sulla destra in

direzione Via Casilina uscire su Via di Torrenova e percorrerla

verso destra (sud) fino al n° 162 dove è ben visibile la chiesa.

– Oppure percorrere Via di Torrenova dalla Casilina o dalla Prenestina,

(Via di Torrenova infatti congiunge queste strade 1-2 Km circa fuori

del Grande Raccordo Anulare)

Con i mezzi pubblici: – Dalla Stazione Termini: Autobus 105, scendere alla Stazione di

Torrenova e poi prendere lo 056 verso Torre Angela, scendere

alla 4° fermata e proseguire per circa 150 m, la parrocchia è

sulla destra.

 

Per la segreteria e per informazioni: Gruppo “La Tenda”

Lorenzo D’Amico 06 2009085

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