Lettera 18 (Seconda Serie)

Cari amici,

il piccolo gruppo de “La Tenda” ogni due mesi si incontra, si confronta, dialoga su temi che di volta in volta riteniamo particolarmente importante; una volta l’anno di solito organizziamo una giornata con gli amici lettori e anche quest’anno pensiamo di poterci incontrare a maggio. Ora però vorremmo invitarvi ad un incontro straordinario che vogliamo allargare ai nostri amici.

Rom, Sinti e dintorni:

– il nomadismo scelta o imposizione?

– quali i mestieri per l’oggi?

– quali le ricchezze e quali i problemi della convivenza?

– quali le opportunità dalla frequenza scolare?

Sabato 15 gennaio 2011 dalle 9 alle 13

presso la Parrocchia di Santa Monica a Ostia

Piazza di Santa Monica, 1- Ostia Lido, Roma

(trenino per Ostia fermata Lido Centro)

Incontreremo e ci confronteremo con rom, rumeni e persone che da anni, in vari contesti, ne condividono la vita

 

In questo numero presentiamo anche due articoli che ci pare possano aiutarci a far crescere la speranza in un futuro di vita :

– Come è rinverdito il Sahel: carestia, siccità, riduzione dell’aiuto internazionale…eppure nuove tecniche agricole hanno trasformato alcuni spazi semidesertici in terre più produttive.

– Intervista a Mons. Luis Portella presidente C.E. congolese : su mandato del Simposio delle C. E. dell’Africa e del Madagascar, ha chiesto all’Unione Europea di imporre regole cristalline alle proprie industrie estrattive in Africa

Come è rinverdito il Sahel

In Niger, circa la metà della popolazione rischia la carestia; in Ciad, il limite di guardia è superato. Impennata dei prezzi, siccità, riduzione dell’aiuto internazionale spiegano in parte l’attuale disastro. Eppure, nuove tecniche agricole hanno trasformato alcuni spazi semidesertici in terre più produttive. Esperienze limitate, ma da seguire con attenzione.

di MARK HERTSGAARD – Giornalista, The Nation, New York. Una versione di questo articolo è stata pubblicata da The Nation, New York, il 19 novembre 2009.

IN BURKINA FASO, nell’Africa occidentale. Il sole tramonta al termine di un’altra giornata di caldo opprimente. Ma qui, nell’azienda di Yacuba Sawadogo, l’aria è nettamente più fresca. Accetta in spalla, questo agricoltore dalla barba grigia si aggira per i suoi boschi e campi con la disinvoltura di un uomo molto più giovane. Sawadogo, che non sa leggere né scrivere, è però un pioniere in materia di agroforesteria, un metodo fondato sull’integrazione degli alberi nel sistema di produzione agricola. Questa tecnica, che negli ultimi anni ha trasformato il Sahel occidentale, costituisce uno degli esempi più promettenti del modo in cui popolazioni povere possono far fronte al cambiamento climatico.

Vestito con una tunica di cotone marrone e in testa una papalina bianca, Sawadogo si siede sotto le acacie e i giuggioli che proteggono un recinto dove sono rinchiuse una ventina di faraone. La maggior parte di questa azienda di venti ettari, non pochi per la tipologia locale, appartiene da generazioni alla sua famiglia, che l’aveva però abbandonata dopo la terribile siccità del 1972-1984: una riduzione del 20% della media delle precipitazioni annuali che aveva allora azzerato la produzione alimentare nel Sahel, trasformando vaste estensioni di savana in deserto e causando centinaia di migliaia di morti per carestia.

«La gente si è ritrovata in una situazione così catastrofica che ha dovuto cambiare modo di pensare», racconta Sawodogo. Lui stesso ha reintrodotto una tecnica utilizzata da secoli dai contadini locali, lo zaï, che consiste nello scavare delle «buche di semina», cioè buche poco profonde che concentrano le rare piogge verso le radici delle colture. Per captare una maggiore quantità di acque di ruscellamento, ha allargato le sue. Ma l’innovazione più importante è stata quella di aggiungervi del letame durante la stagione asciutta, una tecnica che gli altri contadini consideravano uno spreco.

Concentrando acqua e fertilizzante nelle buche di semina, ha aumentato la resa delle colture. Ma non aveva previsto il risultato più importante: tra i solchi di miglio e sorgo sono germogliati degli alberi, nati da semi contenuti nel letame. Dopo varie stagioni, gli alberi, che ormai misuravano diversi piedi di altezza (1), hanno contribuito ad accrescere la resa delle colture e a fertilizzare il suolo: «Da quando uso questa tecnica per riabilitare la terra degradata, la mia famiglia è al riparo dall’insicurezza alimentare, nelle buone come nelle cattive annate».

L’agroforesteria messa a punto da Sawadogo ha già guadagnato vasti settori nel Burkina Faso e anche nei vicini Niger e Mali, e ha trasformato centinaia di migliaia di ettari semidesertici in terre più produttive. «Si tratta senza dubbio di uno sconvolgimento ecologico positivo, il più grande nel Sahel, e forse nell’intera Africa», afferma Chris Reij, un geografo olandese che ha lavorato per trent’anni nella regione. In termini tecnici questo metodo viene definito «rigenerazione naturale assistita» (Rna). Studi scientifici confermano i molteplici vantaggi dell’introduzione di alberi nelle colture alimentari locali: proteggono dal vento i giovani germogli e contribuiscono a mantenere l’umidità del suolo, mentre la loro ombra preserva le colture dal calore. Le foglie cadute funzionano da pacciamatura (tecnica di protezione delle colture che serve ad accelerarne la crescita ndt), aumentando così la fertilità del suolo e fornendo foraggio per il bestiame. In caso di carestia, ci si può anche alimentare con le foglie di alcuni alberi. «In passato, i contadini erano a volte costretti a seminare i campi quattro o cinque volte, perché il vento portava via i semi – spiega Reij, che raccomanda la Rna con lo zelo di un missionario. Gli alberi fanno da schermo e proteggono il suolo; ormai basta seminare una sola volta.»

Le zaï e altre tecniche di raccolta delle acque di ruscellamento hanno contribuito anche a riapprovvigionare le falde sotterranee. «Negli anni ‘80, il livello delle falde freatiche scendeva di circa un

metro all’anno – ricorda Reij. Da quando vengono praticate la Rna e le tecniche di raccolta delle acque è aumentato di cinque metri nonostante la crescita demografica.» In certe zone, si è arrivati a diciassette metri di aumento. Alcuni studi confermano effetti di riapprovvigionamento simili anche in Niger.

Col passare del tempo, Sawadogo è diventato un appassionato di alberi. La sua azienda ora somiglia più a una foresta che a una campagna coltivata. «All’inizio, mescolavo alberi e colture — racconta. Ma alla fine ho preferito gli alberi, perché offrono altri vantaggi.» Possono infatti essere sfruttati, i rami si possono tagliare e vendere ogni anno, senza contare che i loro effetti benefici sul suolo facilitano la crescita di nuovi alberi: «Più alberi si hanno, più cresce il guadagno.»

Aumentando il suo parco forestale, Sawadogo ha potuto vendere legna da ardere, per mobili e da costruzione. Gli alberi entrano anche nella farmacopea tradizionale, il che è un grande vantaggio in una regione in cui le cure mediche moderne sono rare e costose. Questi contadini, va chiarito, non piantano alberi, come Wangari Maathai, premio Nobel e attivista, e il suo movimento Ceinture verte [Cintura verde] hanno chiesto di fare alla popolazione del Kenya: questo per loro sarebbe troppo oneroso e rischioso. Si limitano a gestire e proteggere quelli che crescono spontaneamente. Studi relativi al Sahel occidentale dicono che l’80% degli alberi piantati muore dopo uno o due anni. Al contrario, gli alberi che crescono naturalmente sono specie endemiche, dunque più resistenti. E, naturalmente, non costano nulla.

Anche nel Mali, gli alberi crescono un po’ ovunque in mezzo alle colture. Nel poverissimo villaggio di Sokura, le case sono fatte con rami ricoperti di fango; non ci sono né acqua né elettricità; i bambini hanno vestiti sudici e strappati, e in molti di loro il ventre gonfio denuncia la malnutrizione. Eppure a sentire gli abitanti, la vita migliora, in gran parte grazie agli alberi.

Oumar Guindo possiede sei ettari sui quali coltiva miglio e sorgo. Dieci anni fa, ha accettato i consigli di Sahel eco, un’organizzazione anglo-maliana che promuove l’agroforesteria. La sua terra è oggi cosparsa di alberi, uno ogni cinque metri circa, e le risorse d’acqua sono aumentate. Al ritorno al villaggio, mostra i granai rettangolari che, come le case, sono fatti di telai di legno ricoperti di fango. Tutti contengono notevoli provvigioni di miglio: la sicurezza alimentare è garantita fino al prossimo raccolto e anche oltre. «Prima – dice un contadino – la maggior parte delle famiglie aveva un solo granaio. Ora, ne hanno tre o quattro, anche se la loro terra non è aumentata. Abbiamo anche più bestiame.»

Per giungere a un tale risultato anche i governi, da parte loro, hanno compiuto scelte importanti. Salif Guindo (nessun rapporto con Oumar), un agricoltore del villaggio mariano di Ende, racconta come gli abitanti del villaggio abbiano resuscitato una vecchia associazione di contadini, chiamata Barahogon, che per generazioni aveva incoraggiato la gestione degli alberi, fino a quando tagliare legna non divenne illegale e l’associazione fu abbandonata. Il governo coloniale francese in un primo tempo aveva dichiarato che tutti gli alberi erano di proprietà dello stato, il che gli aveva permesso di vendere i diritti di taglio ai boscaioli. La situazione è rimasta praticamente immutata anche dopo l’indipendenza. I contadini che venivano sorpresi a potare o tagliare alberi erano puniti. Di conseguenza, i germogli venivano estirpati per evitare noie ulteriori. Il persistere di queste pratiche per più generazioni ha denudato il suolo rendendolo sempre più secco.

All’inizio degli anni ‘90, il governo maliano, allarmato forse dal fatto che alcuni contadini infuriati per i maltrattamenti subiti avevano ucciso degli agenti forestali, ha votato una legge che dava agli agricoltori la proprietà degli alberi che si trovavano sulle loro terre. Gli interessati sono venuti a conoscenza della legge solo quando Sahel eco ha organizzato una campagna d’informazione. Da allora, la Rna si è diffusa rapidamente. In Niger, spiega Toni Rinaudo, un agronomo e missionario australiano, si è avviata pienamente solo dopo che le autorità hanno sospeso i regolamenti che proibivano l’abbattimento degli alberi: perché gli agricoltori facciano crescere alberi, bisogna anche che abbiano il diritto di tagliarli…

Lo stesso schema si ritrova nell’insieme del Sahel occidentale: la Rna si è diffusa fondamentalmente per contagio, da coltivatore a coltivatore e da villaggio a villaggio, man mano che la gente vedeva i risultati con i propri occhi. Grazie all’agroforesteria, è ormai possibile distinguere, su foto satellitari analizzate dall’Istituto geologico americano (Us Geological Survey), la frontiera tra il Niger e la Nigeria. Dalla parte del Niger, si vede un’abbondante copertura di boschi;

da quella della Nigeria, dove i grandi progetti di piantagione di alberi sono disastrosamente falliti, il suolo è quasi a nudo.

Quando hanno visto queste immagini, nel 2008, gli stessi promotori della Rna, come Reij e Rinaudo, hanno avuto uno choc: non immaginavano che così tanti contadini avessero fatto crescere tutti quegli alberi. Mettendo insieme i dati evidenziati dalle immagini satellitari e i risultati di inchieste sul terreno, Reij ritiene che, nel solo Niger, gli agricoltori abbiano fatto crescere duecento milioni di alberi e riabilitato circa 3.125 chilometri quadrati di terre degradate.

Gli ultimi dati sembrano dimostrare che le regioni al sud del paese che praticano l’agroforesteria sono quelle che resistono meglio all’attuale siccità. Reij sottolinea che gli alberi forniscono anche un’arma economica per farvi fronte: nel 2005, durante una precedente siccità, la legna tagliata e venduta ha permesso ai contadini di procurarsi i soldi per comprare cereali.

La Rna, che si basa su un sapere gratuito, non implica alcuna dipendenza da aiuti esterni. Per questo, spiega Reij, è molto diversa dal modello di sviluppo dei «villaggi del millennio» promossi da Jeffrey Sachs, l’influente direttore dell’Istituto della Terra dell’università Columbia. Il progetto fornisce ai villaggi quelli che vengono considerati dei pacchetti di servizi integrati necessari allo sviluppo: semi e concimi moderni, pozzi per l’acqua pulita, cliniche. «Questa visione di una soluzione della fame in Africa è seducente – dice Reij. Il problema è che non funziona. Il progetto dei Villaggi del millennio richiede un grosso investimento in ogni villaggio, così come un aiuto esterno per diversi anni, e questa non è una soluzione sostenibile. È difficile credere che il mondo esterno fornirà i miliardi di dollari necessari per creare decine di “villaggi del millennio” in Africa.» E in effetti l’aiuto estero si è esaurito dopo la crisi finanziaria del 2008.

Gli attori esterni hanno tuttavia un ruolo: possono finanziare, a un costo molto basso, la condivisione dell’informazione che, all’origine, ha permesso alla Rna di diffondersi con tanta efficacia nel Sahel occidentale. Se i contadini sono stati i primi a muoversi per illustrarne i vantaggi ad altri nelle loro stesse condizioni, hanno però ricevuto un aiuto fondamentale da parte di un piccolo gruppo di militanti e di Ong, quali Rinaudo e Reij, o Sahel eco. Questi ultimi sperano di diffondere la Rna in altri paesi africani grazie alle «iniziative di rinverdimento dell’Africa», afferma Reij, che ha parlato dell’idea con il presidente dell’Etiopia. Restano comunque indispensabili delle misure per lottare contro il riscaldamento climatico, che fa del Sahel un luogo tanto inospitale. Perché ogni forma di adattamento ha i suoi limiti: se non si riduce la quantità di gas serra emessa nell’atmosfera, l’aumento delle temperature finirà per avere ragione delle soluzioni più ingegnose.

MARK HERTSGAARD

E’ tempo di un’Africa più matura

Intervista di Valentino Savoldi a Mons. Louis Portella-Mbuyu Presidente della Conferenza episcopale congolese e padre sinodale, il vescovo di Kinkala si dice fiducioso di un risveglio del continente. Anche grazie al sinodo

ll Congo è un paese che negli ultimi dieci anni è stato scosso da tre guerre civili. Il posto giusto, dunque, dove mettere alla prova la capacità della chiesa di essere artefi ce di processi di giustizia, di pace e di riconciliazione.

Mons. Louis Portella-Mbuyu, presidente della Conferenza episcopale congolese e impegnato al sinodo, tocca subito l’argomento giustizia: «Già prima delle ultime tre guerre, la chiesa aveva fatto molte dichiarazioni per aiutare la gente a incamminarsi verso la democrazia e per indicare ai governanti il modo giusto di esercitare il loro servizio. Lo scorso anno, prima dell’assemblea plenaria della Conferenza episcopale, abbiamo fatto un’inchiesta sulla povertà, attraverso la Caritas e la Commissione “Giustizia e pace”. In base ai risultati, abbiamo scritto un messaggio a tutta la nazione, specificando in maniera chiara che è compito di chi esercita l’autorità interessarsi davvero dei poveri. Io stesso ho consegnato a mano il messaggio al presidente della repubblica, assieme a un

altro scritto, in cui i vescovi chiedevano la formazione di commissioni elettorali indipendenti in vista di elezioni trasparenti».

I temi portanti del 2° sinodo africano non sono stati approfonditi dalle comunità cristiane. Come lo spiega?

È un problema di comunicazione e di mancanza di mezzi per far sentire la nostra voce. Ci siamo mossi ma non abbiamo saputo comunicare ciò che stavamo facendo. L’Università cattolica dell’Africa Centrale ha organizzato un colloquio sulla riconciliazione. So che anche altrove si sono tenuti incontri su questo argomento tanto importante per il continente. Le varie diocesi congolesi hanno raccolto reazioni al testo dei Lineamenta e risposto al questionario allegato. Riconosco, tuttavia, che si sarebbe dovuto fare molto di più per sensibilizzare la gente e anche per inviare informazioni ai mass media.

Che cosa pensa di questo sinodo?

L’ho atteso con impazienza. Nel contesto dell’evangelizzazione emerge chiaramente che le questioni della riconciliazione, della giustizia e della pace sono vitali e urgenti nel nostro contesto storico. La chiesa in Africa è chiamata a essere molto profetica, se vuole contribuire a salvare il continente. Deve interpellare i politici per metterli davanti alle loro responsabilità. Oggi la situazione del degrado dell’Africa è dovuta ai nostri politici e ai nostri intellettuali. Dovremmo essere capaci di assumere il nostro passato, carico di ferite, per poter guardare al nostro futuro in un modo più positivo. C’è un lavoro reciproco da svolgere, in dialogo tra stato e chiesa. E il sinodo darà a noi, vescovi, i mezzi necessari per interpellare i nostri responsabili, a tutti i livelli, per preparare un futuro migliore.

Lei sembra attribuire le responsabilità della miseria del continente a fattori interni, invece che ai paesi occidentali, come molti fanno. Perché?

Ogni essere vivente sopravvive e progredisce nella misura in cui è in grado di sviluppare un proprio dinamismo interno. Questo è un principio che riscontriamo in ogni civiltà. L’Europa, ad esempio, ha subito ogni sorta di invasioni e di aggressioni, ma la soluzione a tutti i suoi problemi è sempre venuta dal suo interno.

La cosa deve valere anche per noi: nonostante lo schiavismo, il colonialismo e il neocolonialismo, tocca agli africani trovare le vie per uscire dalla miseria. È una questione di cultura e di trasformazione della cultura. Dobbiamo assumere tutte le ferite del passato e, anziché starcene con le mani in mano a piangere su di esse, cercare di guarirle e poi procedere con le nostre stesse energie. In ogni storia, anche la più dolorosa, ci sono elementi positivi che vanno ripresi e valorizzati per avere la forza di proiettarsi in avanti e costruire il proprio futuro.

Quali fattori ritardano l’ora in cui gli africani saranno in grado di reagire ai condizionamenti esterni e trasformare le difficoltà in opportunità?

In primo luogo, va detto che l’ambiente economico internazionale pesa sull’Africa, nel senso che milita contro di essa. Per uscire da questo handicap agli africani sarà richiesto uno sforzo eroico. In secondo luogo, il continente avanza in un modo dispersivo: le sue forze vive non sono riunite e federate in modo da poter lavorare in armonia. In Europa si marcia verso l’unità degli stati, mentre l’Africa mostra di essere in ritardo rispetto all’impellente bisogno di unità. L’Unione africana resta ancora un mero nome: non ha forza organizzativa e non è una realtà su cui si può contare molto. Va, infine, detto che i nostri dirigenti politici sono molto legati all’Occidente, ma in modo molto disperso e poco costruttivo. Nello stesso tempo, i nostri intellettuali guardano a tutto ciò con un senso di rassegnazione e fanno silenzio. Tutto il continente ha bisogno di una autentica risurrezione a livello politico, intellettuale e morale.

Qualcuno nota una crescente tensione, se non un vero e proprio risentimento, nei confronti degli europei, soprattutto nei paesi francofoni. È così?

Questa tensione è legata al fatto che conosciamo bene l’ammontare delle ricchezze naturali del nostro continente, ma sappiamo altrettanto bene dove vanno a finire. Enormi ricchezze prendono la via dell’Occidente e della Cina, con la complicità dei nostri dirigenti. Ed è quasi sempre questa o quella nazione europea che sostiene i nostri politici, molti dei quali sono dittatori e permettono ai governi occidentali e orientali di continuare, indisturbati, il vergognoso sfruttamento delle nostre risorse. Dato che oggi gli africani sono meno allocchi di un tempo – molti hanno studiato e sono a conoscenza della situazione – cresce anche la tensione verso gli occidentali.

Come immagina il futuro?

Per temperamento, io sono un uomo di speranza. Come tale penso che, prima o poi, ci sarà una presa di coscienza da parte degli intellettuali del bisogno di emergere e di sentirsi responsabili del

proprio futuro. Intravedo già un risveglio culturale e spirituale dell’Africa: tutto il resto – il cambiamento politico e sociale – sarà nient’altro che il risultato di questa presa di coscienza, di questo risveglio, di questa volontà di essere vivi.

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Micaela Sorressi, Ostia Nuova Roma

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