Lettera 17 (Seconda Serie)

“Temo quel silenzio che è frutto della disperazione…” esordisce così Giuseppe in uno dei nostri incontri di cui presentiamo una breve sintesi.

E’ a questo tipo di silenzio, quello che dà per scontato che il dialogo o è impossibile o è inutile , che noi vogliamo reagire.

Il nostro gruppo sia con la sua prima serie di lettere dal 1969 alla fine del 1986 che con questa seconda serie che da quattro anni ci vede di nuovo impegnati, nasce e vive del tentativo di trovare un dialogo possibile.

Un dialogo a cui all’interno della Chiesa diamo nome di processo di comunione. Abbiamo infatti sempre pensato alla comunione come un processo dinamico di confronto e non come un mero stato dell’essere. Un portare all’unità sotto la guida dello Spirito e della comunità con il suo presbitero, in comunione con la chiesa intera, la molteplicità delle esperienze di vita illuminate dal Vangelo e dalla viva presenza del Signore Gesù.

Dobbiamo con tristezza constatare che questo processo stenta ad andare avanti. L’attenzione, anche quella all’interno della Chiesa, è stata purtroppo in questi ultimi decenni volta prevalentemente alla gerarchia che da parte sua si è mostrata poco interessata a far partire un reale processo di confronto e di comunione.

A volte ci troviamo di fronte a qualche segnale positivo proveniente dal magistero e ci affrettiamo a condividerlo, nella scorsa lettera quello del vescovo Luis Infanti De La Mora vescovo di Aysén, nella Patagonia cilena, in questa quello di Kevin Bowling, vescovo di Rustenburg in Sud Africa, sedi apparentemente periferiche ma che proprio per questo dimostrano che la chiesa non vive solo, né forse prevalentemente, a Roma. Spesso però gli interventi della gerarchia costituiscono un oggettivo ostacolo al dialogo.

Vi presentiamo in questa lettera due momenti di dialogo, quello seguito alla relazione di Lafont (chi non l’avesse letta la trova, insieme a tutti i documenti e le lettere de “La Tenda” sul nostro sito www.latenda.info, alla lettera n° 16 ) con le sue risposte, e quello di uno dei nostri incontri. In quest’ultimo non troverete grandi discorsi né, forse, grande saggezza, ma abbiamo voluto farvi entrare in un momento di discussione comune che cerca di essere orientata nella vita concreta e nella riflessione dalla nostra fede. Ci siamo chiesti poi su quali temi orientare la nostra ricerca, ne abbiamo isolati cinque:

– Il dolore, la malattia e la morte

  • Il mondo gay dentro e fuori la chiesa
  • Il confronto sempre più necessario col mondo giovanile
  • La valorizzazione di esperienze di convivialità già esistenti
  • Il confronto con fedi diverse

Saremmo contenti di un intervento in merito da parte dei nostri amici lettori da cui come sempre attendiamo delle risposte che aiutino il nostro lavoro.

Sommario della 17° lettera:

– Dibattito e risposte di Ghislain Lafont durante il convegno “Edificare la Chiesa dell’amore” del 29 maggio 2010

– Sintesi dell’incontro del Gruppo de La Tenda dell’11 settembre 2010

– “Un rispetto reverente per la diversità”: lettera del Vescovo sudafricano Kevin Bowling

Dibattito e risposte di Ghislain Lafont durante convegno “Edificare la Chiesa dell’amore” del 29 maggio 2010

UMBERTO CARULLO: Siamo cresciuti cercando la “civiltà della verità”, oggi credo di più nella “civiltà dell’Amore”; per andare nel concreto: ci sono due modi di vivere questa civiltà dell’Amore, l’uno è la capacità di viverlo in maniera individuale, l’altro come comunità, come chiesa.

LUIGI MOCHI SISMONDI: ringrazio Ghislain Lafont per questo messaggio pieno di speranza. In questo tempo di grave crisi, soprattutto per i giovani, dobbiamo vivere nella speranza che queste difficoltà ci aiutino a dar vita a qualcosa d’importante; nella nostra vita quotidiana ci appaiono improvvisi flash di un nuovo futuro, grazie all’opera di Dio e dei fratelli, la “civiltà dell’Amore” sta facendo la sua strada; non possiamo fermarci nella costruzione della nostra chiesa, dobbiamo essere capaci di contribuire alla maturazione del regno di Dio che è il mondo, dobbiamo imparare a vivere sentendoci realmente fratelli di ogni altro uomo.

LORENZO D’AMICO: con Ghislain ci ritroviamo ancora una volta a riflettere non tanto sul da fare, ma sul ri-centrare i propri pensieri. Quando in un corpo sta crescendo un tumore, in un primo tempo aumentano le dimensioni, ma non possiamo dire che cresce il corpo, cresce la dimensione ma diminuisce la funzionalità; mi pare che la condizione della chiesa cattolica sia molto simile, i vari concordati, da Costantino in poi, hanno fatto crescere la dimensione, la struttura, il potere, ma diminuire l’amore, la verità; quando sentiamo crescere questa parte tumorale, non possiamo dire: “abbiamo il tumore e me ne vado da un’altra parte”, dobbiamo imparare a convivere con questa struttura che vediamo grande, senza dimenticare perché è grande, proprio questa sua dimensione le impedisce di essere al cuore delle cose importanti. Una volta Ghislain ci dicevi che l’aver messo al centro dell’insegnamento cristiano il peccato ha creato una ragione d’essere per molti preti e una dipendenza per molti cristiani: se vogliamo tornare al cuore della nostra fede, dobbiamo ri-centrare sulla compassione, l’amore. Credo che ognuno di noi ha la responsabilità di ripensare la propria vita e la comunicazione, sapendo mettere al centro la parabola del buon samaritano. Contemporaneamente dobbiamo pensare ai piccoli passi che dobbiamo compiere, sapendo che lungo il cammino si dischiuderanno i segni capaci di orientarci. In questa direzione è utile ricordare che l”officina bolognese” di Alberigo insieme alla Rai ha fatto un dvd che ripercorre le tappe del Concilio Vaticano II, è un documento molto utile per ritrovare la direzione da percorrere. Dobbiamo anche essere capaci di cogliere e trasmettere i segni positivi che ci vengono da donne e uomini di diverse fedi e culture.

MARIA DOMINICA GIULIANI: nella comunità di S. Leone, mentre preparavamo le letture di domenica, è emersa l’importanza del Concilio di Nicea, una donna rimpiangeva quel tempo e don Raffaele ricordava che anche quei tempi hanno avuto figure significative di cristiani disposti anche alla morte e persone che scappavano, nascondevano la loro fede….bene anche oggi, grazie al Concilio Vaticano II, siamo a un nuovo inizio, siamo chiamati a vivere la nostra fede con profondità. Anche lo sconcerto che si sta avendo tra i seminaristi a causa della pedofilia, può essere un elemento di purificazione per coloro che hanno scelto il sacerdozio come trampolino di potere, di successo. Nella trasmissione televisiva EXIT è andato in onda un servizio sulla L.A.V.A. (un’associazione che permette di organizzare il lavoro con e per i vagabondi, un lavoro retribuito) e dalla presentazione del documentario emergeva una denuncia e contemporaneamente un programma di evangelizzazione e sul logo della trasmissione appariva uno scritto di seminaristi in risposta all’intervento del nostro presbitero: “SEI TUTTI NOI”. Per cui dobbiamo essere coscienti che i vari episodi, anche quelli dolorosi, ad es. la sordità dei nostri vescovi, stanno purificando le nostre scelte.

FRANCO BATTISTA: Grazie Ghislain per aver riacceso con più forza la fede dentro di noi. Dalla società siamo spinti a desiderare tutto e subito e poiché questo è impossibile, viviamo un senso profondo d’insoddisfazione. Non dobbiamo temere la fatica ma sapere vedere lo scopo, come

per chi sa di costruire una cattedrale; non tutti potranno gioire di veder completare quell’opera, ma avremo la gioia di contribuire a quel risultato finale.

CHIARA FLAMINI: L’esperienza che ho con i ragazzi di 11-13 anni mi insegna che le cose funzionano non quando mostro io la strada, ma quando la percorro insieme con loro. Nell’amore fra due persone c’è anche la capacità di spingere lo sguardo oltre il loro rapporto, verso il mondo, e l’insegnamento di Gesù è proprio orientato a questa doppia attenzione: sguardo su noi stessi e sguardo al mondo, il tutto sulla base della gratuità e dell’attesa di tempi lunghi. Penso che la nuova cattedrale non debba essere costruita dalla sola chiesa.

ANGELA BETTAZZI: Mi ha colpito molto sentir parlare della promessa divina che vale per tutti; la felix culpa; la diversa forma d’amore per il monaco e la coppia. Non è possibile una vera rinascita della chiesa senza una sua forte riduzione, un’accoglienza della morte anche all’interno dei suoi apparati. Dobbiamo essere di più gente di confine.

ANNA MARIA BARRA: La curia romana è per noi romani un po’ come la corte reale, sono lì, li abbiamo trovati lì un po’ come coreografia, non c’impediscono, né ci aiutano ad entrare nel Vangelo. Rispetto a questo papato e alle sue encicliche, in particolare “Deus caritas est”, io le ho trovate molto concrete, capaci di parlare alle nostre vite; pur nei limiti dei suoi abiti molto sfarzosi il papa con le sue parole ci sta proponendo una strada evangelica.

Noi romani abbiamo avuto Ottaviano Augusto, quest’apparato non c’impressiona più di tanto.

GIANFRANCO SOLINAS: Ascoltando Ghislain, mi veniva di pensare al ruolo dei ministeri all’interno della chiesa. L’attuale esercizio dell’autorità si pone “fuori” e “sopra”, mentre la verità la si cerca insieme, è frutto di un dialogo; dalla relazione di Ghislain si percepisce un cammino in cui tutti ricevono e portano; coloro che esercitano l’autorità, si sentono essi stessi fuori e per certi versi soffrono di questa estraneità e l’unico legame che hanno è tra loro. Chi ricerca la Verità, deve lasciare che i propri sensi siamo ispirati dal vivo, deve lasciarsi toccare, rimettere in discussione. L’attuale vescovo di Roma continua a parlare come teologo, non è un pastore capace di favorire la comunicazione, la comunione di una comunità; mi pare anche imprigionato da una struttura, quello che coglie poi lo perde perché non vive dentro una comunità.

FRANCESCO CAGNETTI: Nella relazione di Ghislain ho trovato vari temi da approfondire; il primo è il “popolo di Dio” che non è da intendere come l’insieme dei battezzati. Gesù stesso ci fa capire che popolo di Dio sono tutti gli uomini di buona volontà, c’è una ulteriore accezione: l’umanità intera.

Altro elemento da approfondire: “l’istituzione”, che non è un potere sovrastante ma un servizio pastorale, che come prospettiva ha il continuo ampliamento del popolo di Dio. Qui non contano i numeri, ma la reale comunicazione, senza comunicazione non c’è futuro.

Ancora da approfondire: “l’incarnazione”. Ci si è affrettati a rimandare Gesù in cielo, come se non ci avesse detto che sarà in mezzo a noi per tutta l’eternità.

Ancora: “la lettura del Vangelo partendo dall’ottica dell’amore”, potremmo imparare che questo è il modo di leggere molte cose.

MARCO NOLI: Durante la relazione di Ghislain mi è tornata in mente una frase di Mao: “la confusione è tanta, il momento è favorevole”. Se la confusione è tanta, il condizionamento economico sui paesi più poveri è davvero molto pesante. Sono stato tre settimane ad Haiti, perché ho lì un fratello missionario, e da quella prospettiva mi sono chiesto: “E’ possibile vivere senza amore?”, la risposta è si, davvero in molti casi l’uomo è allo stesso livello dell’asinello, anzi questo diventa più prezioso. La responsabilità nostra è quella di trasmettere la grandezza di ciò che abbiamo incontrato ed anche la responsabilità di opporci a quelle lottizzazioni di potere, che tendono ad azzerare quello che di prezioso sta nascendo, se non è tra le fila di chi detiene i vari poteri.(Una chiesetta abbandonata ad Ostia, era stata assegnata ad alcuni gruppi; improvvisamente e con l’uso della forza, le autorità l’hanno assegnata a S. Egidio, l’incontro di prefettura avvenuto pochi giorni dopo ha preso posizione contro l’uso della forza per l’assegnazione di tale centro). Dobbiamo essere capaci di prendere posizione, senza lasciare che tutto avvenga anche a causa dei nostri silenzi.

ALBERTO LA PORTA: Mons. Chavez, vescovo del Salvador, si è trovato a parlare in Germania con un gruppo di giovani che ricordavano Romero. Ha chiesto a quei giovani: “cosa chiedereste alla gerarchia ecclesiale se fosse qui presente?”. Un giovane ha detto: “Ci pare che la gerarchia dia delle risposte a cose che non chiediamo e non risponda a ciò che di importante portiamo dentro”.

Mi raccontava una coppia di amici che notano una profonda divisione tra la Chiesa gerarchica e il popolo di Dio, in cui ci sono anche molti sacerdoti che si sentono tagliati fuori dalla gerarchia.

Con un gruppo di amici, insieme a Pio Parisi, ci stiamo interrogando su qual è il centro del rinnovamento necessario. Il primo punto è una nuova pratica da ripensare, fatta di amore, di condivisione, di gratuità; un secondo punto da approfondire è il saper guardare fuori dalla Chiesa ufficiale, ai ricercatori di Dio fuori dai recinti canonici e questo tipo di confronto deve essere fatto in particolare dai singoli o dai singoli gruppi.

Sentiamo ripetere: “O Dio, liberami dalla religione, donami di crescere nella fede”: cercando di rafforzare la religione crescono gli steccati, i muri; crescere nella fede è crescere nell’ascolto, nell’accoglienza, nel dialogo.

GHISLAIN LAFONT: Dobbiamo pensare storicamente: tutto il periodo passato e quello che sta per venire non è un periodo “cattivo” e tutta la vicenda sulla verità, che presuppone un certo possesso della verità, una gerarchia per assicurare la diffusione della verità, tutto questo corrisponde ad un clima culturale dell’intelligenza, ma dove va? Dove va ad esistere?

Mi sembra che la rivelazione abbia bisogno di millenni per andare da un punto all’altro; anche il cristianesimo per entrare nella civiltà greca, molto interessata al “vero”, ha cominciato con il vero. Dunque tante cose che sono state dette sono importanti e devono essere custodite, cose dette sul mistero cristiano… Non possiamo rimproverare il magistero di aver ricercato solo sul binario della verità. Certamente è un impegno difficile quello di conciliare la ricerca nel cammino dell’amore, dello scambio e della verità. La riforma della Chiesa, nel senso etimologico, non consiste nel cercare una nuova forma, in una condamnatio di ciò che era prima, ma in un passo in avanti; tutto questo per metterci nella direzione buona e non disprezzare le cose del passato. Di sicuro questa costellazione di verità, di autorità, di peccato ha provocato una certa struttura ecclesiale e il Concilio Vaticano II ha rimesso in discussione tutto questo, ma ci vuole tempo per passare da una realtà ad un’altra. Non dobbiamo pensare che tutti i vescovi e cardinali siano dei carrieristi: certamente alcuni sì, ma non tutti. Alcuni sentono la responsabilità della verità cristiana e con una sincerità autentica continuano in questa dinamica dell’insegnamento in quanto pastori del gregge e questo ha la sua parte di verità. Ciò che costituisce la sua parte di difficoltà è che noi abbiamo cambiato di posto e, come ha detto Alberto, riceviamo risposta per ciò che non abbiamo chiesto e non sentiamo risposta a ciò che desideriamo sapere. Ciascuno fa quello che può e con i mezzi di educazione che ha ricevuto. Ma chiaramente prendo questo rapporto tra la verità e l’amore che ho proposto prima e che è molto difficile da accettare, cioè che la verità risulta da uno scambio, da un ascolto reciproco, che la verità non esiste prima di questo e tutto questo è una scoperta dei nostri tempi, rispetto a quando si pensava che la verità esiste di per sé. Noi diciamo che la verità nasce dal dialogo tra le persone che sono implicate. Una verità, per essere efficace, per indicare davvero una direzione, non può essere che una verità che abbiamo cercato insieme; certamente è utile quando nel gruppo si riassume ciò che è stato detto in conseguenza dell’ascolto reciproco e si dice: “ La verità verso cui stiamo andando è questa”. Questo equilibrio tra logos e dialogo, verità e scambio è molto importante. Quando siamo in un gruppo alla ricerca della verità, è davvero difficile ascoltarsi mutuamente: nel dialogo, oltre ad affermare le proprie analisi, è necessario altresì saper rinunciare, saper accogliere i punti di vista che non sono i miei. Accettare di essere un po’ spiazzati è capacità di rinunciare al possesso di sé per poter accogliere cose inaudite. Nel concreto credo che la parola “rinunciare” sia una parola fondante nella relazione vitale: rinunciando a tutto ciò che sarebbe un’affermazione troppo grande, anche quando abbiamo le idee e i punti di vista migliori, possiamo mostrare la nostra apertura accettando di essere spiazzati; occorre un controllo continuo delle nostre affermazioni.

Vorrei tornare sull’affermazione del “popolo di Dio” di cui Francesco ha parlato. Se torniamo all’idea che la ricerca della verità è frutto di un dialogo, di una ricerca nell’amore, allora non c’è uomo che sia tagliato fuori: ogni uomo ha diritto di essere ascoltato, ogni uomo ha il dovere di ascoltare. Ciò che il Concilio Vaticano II ha detto a proposito del dialogo interreligioso, interecumenico, non è tanto per arrivare ad una verità oggettiva che tutti potrebbero condividere, ma piuttosto creare un’atmosfera di ascolto, di rispetto e alla fin fine di un’indicazione di cammino comune che si può fare tra le persone. Faccio un esempio: tra Paolo VI e il patriarca di Alessandria sulla “definizione di cristianesimo”: Paolo VI ha detto che le formule di Alessandria sul monofisismo, condannate dal Concilio di Efeso, sono legittime; non ha detto: noi parliamo così, ma

accettiamo che voi parliate così. Di recente Giovanni Paolo II ha fatto un accordo con i Nestoriani: il vostro linguaggio è autentico e voi riconoscete che il nostro linguaggio è autentico. Tutto questo è davvero straordinario. Nel V-VI secolo vi erano delle discussioni terribili, lotte anche fisiche a causa di formule; dopo 1500 anni diciamo: sono due modi di dire la stessa cosa, io non posso in coscienza dire così, ma rispetto la tua parola, non è eretica, quindi possiamo dire in comunione, ma con due linguaggi diversi. Penso che se ci riconciliamo con i protestanti sarà lo stesso, cioè non è il nostro parlare, ma accettiamo il loro parlare. In alcune cose ci troviamo di fronte a verità o eresie, ma nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a vari modi di vedere la stessa verità. Quando ero giovane studente, attraverso i vari Concili, apprendevo le varie eresie; oggi i nostri superiori, papi o patriarchi, ci dicono: sono modi diversi d’intendere la stessa verità. Questo ci aiuta a capire che la Verità è la conseguenza dello scambio delle formule, degli approfondimenti. Vediamo ad esempio l’accordo tra la Chiesa cattolica e la Chiesa luterana a proposito della “grazia”: meglio riconoscere la validità di ciò che afferma l’altro che non un testo comune, perché su quel testo comune ognuna delle due parti darà la sua interpretazione, mentre riconoscere la validità di ciò che afferma l’altro permette di riconoscere la diversità dei linguaggi. Questo non è relativismo, ma rispetto dei modi di parlare e questa grande novità la dobbiamo al Concilio Vaticano II. Capisco che abbiamo bisogno di tempo per accettare tutto questo; anche a proposito del dialogo interreligioso, io non credo che tutti possiamo diventare cristiani, ma occorre approfondire il nostro messaggio scoprendo sempre più che è un messaggio che aiuta a vivere e far sì che altri possano ascoltarlo. Mi ricordo quando Giovanni Paolo II è andato in India c’era un gesuita francese, Padre Ceirak, un po’ una Madre Teresa al maschile, che prima che arrivasse il papa diceva: “Speriamo che non parli di Gesù Cristo”, e questo detto da un gesuita, perché se parla di Gesù Cristo porta un messaggio esterno e nel tempo attuale non sarà accettato perché estraneo a questo ambiente, se invece lui parla dell’amore reciproco, dice il cuore del Vangelo, e questo può capirlo ogni uomo. Dare a tutto questo il nome Gesù Cristo forse può essere fatto più tardi, mentre comunicare l’importanza dell’amore tra gli uomini è dare l’essenza del cristianesimo senza usare quel linguaggio che non può essere ascoltato. Tutto questo è legato al nostro tipico ottimismo di fronte alla salvezza. Se la salvezza presuppone il riconoscimento esplicito di Gesù Cristo, cioè il battesimo, allora dobbiamo andare a battezzare come faceva Francesco Saverio: battezzava per liberare l’anima dall’inferno. Il dialogo presupponeva che tutte le vie che Dio ha permesso, fossero anche cattive, possono essere maneggiate, collegate di modo che il Regno di Dio arrivi. Per parlare di popolo di Dio, come faceva Francesco, occorre far riferimento a diversi spessori. Parlare dell’umanità intera come popolo di Dio naturalmente provoca molte discussioni sulle missioni, sull’annuncio di Gesù Cristo, etc.

Ancora una parola sui vari ministeri nella Chiesa di Dio. Posso parlare di ciò che conosco di più, cioè della Francia. Ci sono giovani preti che pensano davvero di dire la Verità, di insegnare… io sono stato tutta la mia vita un insegnante… anche quando ero alla Gregoriana: io non devo insegnare agli altri, ma condividere la mia ricerca sì, questo è possibile: condividere. A questo proposito ricordo la noia di molti colleghi al tempo degli esami, perché dovevano cercare di capire se 100 studenti hanno capito ciò che è stato loro insegnato. Ma io me ne infischio che abbiano o no capito la mia dottrina: l’esame per me era un momento felicissimo, perché ascoltavo questi ragazzi. Forse avrei dovuto verificare, cioè fare la verità, ma non ero interessato a questo e chiedevo: “Dimmi

ciò che ti ha interessato di questo corso e avevamo un dialogo interessante, la maggior parte del tempo era molto ricco, forse perché non avevano capito la verità che volevo far passare, però potevano dialogare. Sinceramente mi dispiace incontrare nel mio paese qualche giovane prete che vuole insegnare la verità, però sono la minoranza, molti sono anziani e ci si pone il problema di che cosa sarà fra dieci anni. Essendo pochi non possono più contare sui colleghi e devono necessariamente cercare collaborazione con i laici il più possibile. Non è più come qui da voi in cui ci sono quattro preti in una parrocchia di 40000 abitanti, è un lusso incredibile: in Francia ne abbiamo uno: come fare da solo? Non è più possibile e non è neanche possibile dire ai laici: “tu fai questo e invece tu fai quell’altro”: occorre mettersi attorno ad un tavolo e chiedersi “cosa facciamo?” Questa è l’unica soluzione, non è possibile fare altrimenti. Ormai in molte diocesi il funerale è preparato da laici che si recano nelle famiglie, ascoltano e, in base a ciò che emerge, viene fuori una liturgia senza messa, con testi adatti a quella famiglia; il vescovo dà il suo consenso. La gente

all’inizio era un po’ spiazzata, è stata necessaria una rieducazione, ma oggi ci troviamo a percorrere una strada molto buona, l’uno o l’altro, laici, non fanno un’omelia: dicono una parola ed è una parola che arriva al cuore della gente. Troveremo un modo di gestire l’autorità che sarà diverso. Se ci sarà anche qui un solo prete, avrà la sua autorità, perché per molte questioni l’ultima parola sarà la sua, ma sarà una parola conseguente ad un vero dialogo comunitario quella che può funzionare. Voi avete molto parlato di questa centralità del presbiterio, perché avete una struttura che noi non abbiamo più e quindi dobbiamo fare senza e con questo non intendo che i sacramenti non sono utili. Alberto ha parlato della necessità di una nuova pratica, in Francia abbiamo una nuova pratica ma è difficile, i preti devono essere sostenuti e criticati perché il tutto non è veramente facile: siamo in una cultura cartesiana, c’è da noi molto integrismo, Lefebvre è francese. Diceva un nunzio francese durante il papato di Pio XII: “Su due cattolici francesi, uno ha sempre la valigia pronta per andare a Roma a denunciare l’altro. Oggi si discute molto di “abusi eucaristici”, fare una cosa che non si fa nella parrocchia accanto non è un abuso, ma forse risponde alla necessità di quella comunità. Sì, negli anni ’70 ci sono stati degli abusi, ma tutto questo è passato presto. Occorre di più aiutare che criticare i preti, perché la loro situazione non è facile.

FRANCESCO CAGNETTI: Si deve aiutare, ma occorre che l’altra parte si lasci aiutare.

GHISLAIN LAFONT: In Francia, ma anche in Belgio, i vescovi, di fronte alla diminuzione dei preti, invece di ripensare la pastorale, coinvolgendo i laici, preferiscono affidare le parrocchie a preti stranieri, che vengono da altre mentalità e non comprendono che cosa significa vivere in un ambiente non cristiano. Tutto questo crea delle grosse conflittualità. Questi preti hanno ricevuto un’educazione sacerdotale che ne ha determinato il comportamento, la mentalità, che si rivela rigida, incapace di confronto, di cammino comunitario… O tali preti tornano nelle loro terre o la gente non va più in chiesa e una tale lontananza del popolo di Dio di quel luogo farà sì che nessun ragazzo di quel popolo, a causa di quel modello, potrà farsi prete e che ne è del futuro di questa Chiesa? Voi che siete più giovani vedrete crescere nella Chiesa dei ministeri che oggi sono inimmaginabili. Realmente il Concilio Vaticano II ha portato un nuovo modo di pensare la Parola di Dio, la sacra mentalità, la religiosità, non un altro Vangelo, ma un altro modo di vivere la Chiesa in cui ci si lascia illuminare dall’alterità, dallo scambio, dal Regno di Dio e tutto questo mi entusiasma, ciò che ho vissuto da bambino lo vivo con riconoscenza, ciò che intravedo è meraviglioso e questo non toglie nulla alla fatica del passato e a quella del presente.

MICAELA SORESSI: Davvero la nostra vita non è un ripetersi ciclico di eventi, ma un progresso e anche oggi quello che è stato detto ci aiuta a cogliere la ricchezza di nuovi passi, anche se non sempre ne conosciamo la direzione. Davvero la Trinità è comunicazione. Lo sguardo ci aiuta ad andare oltre i nostri limiti. E’ vero ciò che dicevi: “Per costruire il futuro non è necessario distruggere il passato” e in questo ci aiuta la parabola del chicco di frumento: nel disfarsi di quel chicco sotto terra c’è il nuovo, è lì la morte ed è lì la vita. Vorrei ringraziare tutti voi, perché mi accorgo di avere meno paura del nuovo che deve nascere. Ci sono cose del passato di cui facciamo fatica a disfarci, perché c’è tutta una dimensione affettiva che ci lega.

GIANFRANCO SOLINAS: Le piccole sorelle di fratel Carlo ci testimoniano questo nuovo tempo che non è quello di catturare l’altro, ma di “stare insieme”, “condividere” rimanendo se stessi.

GHISLAIN LAFONT: Per quanto riguarda i ministeri, oggi penso che sono dei carismi, carismi per guidare il popolo di Dio e per poter fare questo occorre prima sentirsene membro e umilmente sentire la responsabilità di guidarlo. Bisogna contemporaneamente riconoscere quei preti, anche qui presenti, capaci di guidare il popolo di Dio con molta umiltà.

Quando parliamo del Concilio Vaticano II non dobbiamo dimenticare la grande opposizione che ha trovato il suo affacciarsi, i grandi scontri, la fatica di migliaia di persone che cercavano di raccogliere la complessità di tante vite, l’impegno del confronto… Noi oggi ne riceviamo la ricchezza e così possiamo contribuire a costruire cose importanti solo tramite un impegno serio e perseverante e, come è stato detto: senza mai perdere la coscienza dei nostri limiti, senza aver paura del futuro.

UMBERTO CARULLO: Mi veniva in mente, come conseguenza del Concilio Vaticano II, la ricchezza della Chiesa in America Latina, dove la Parola vive in tutta la sua ricchezza grazie ai catecumeni, ai laici, alle suore, ai religiosi non necessariamente preti, in cui appunto i vari carismi vengono valorizzati.

Sintesi dell’incontro del Gruppo de “La Tenda“ del 11 settembre 2010

Francesco: L’idea di collegare, di mettere insieme certo mi pare molto giusta. In questi giorni ho raccolto un sacco di materiale sui Rom e mi sono capitate fra le mani delle cose straordinarie che non conoscevo. Per esempio a Milano, quello che era il direttore della Caritas, don Colmegna, ha fatto delle cose incredibili. Io ho qui un documento che ho ricavato dal suo sito, della Casa della Carità: un lavoro intelligente di avvicinamento dei Rom, di dialogo con i Rom, di agevolazione al loro inserimento nella vita sociale, nella vita politica, nella vita economica, il lavoro, che veramente mi ha sorpreso. E questa cosa dura, dura da anni. Qui a Roma, prendiamo per esempio, sia pure in misura più ridotta, sant’Egidio…ma sant’Egidio fa anch’esso un lavoro di scolarizzazione che è del tutto apprezzabile. Tutte queste cose, le vogliamo mettere insieme, vogliamo farle conoscere. Perché noi, quello di cui abbiamo bisogno è appunto di fare in modo di far ricuperare coraggio, prospettiva e speranza. E allora noi dobbiamo fare proprio questo lavoro.

Gianfranco: Un punto centrale lo trovo in questa affermazione:”dobbiamo essere capaci di avere maestri alternativi”. Noi abbiamo come gruppo dei maestri che sono i poveri, quelli che ci danno forza per vivere e ci creano un futuro. Ma io qui trovo la centralità, sicuramente trovo un legame su un punto particolare con il Concilio, che è il rimettere al centro il popolo. Questa è la rivoluzione copernicana del Vaticano II: c’è stato l’incontro ecumenico dei vescovi che ha rimesso al centro il popolo di Dio. Sembra una cosa superficiale e invece è veramente rivoluzionaria, perché di fatto, storicamente, è avvenuto sempre il contrario, totalmente il contrario.

Discernere che cosa è fondamentale, in questa realtà che brucia…io penso che debba bruciare. Il Signore al pozzo di Sichem dice: “Verrà un tempo in cui adorerete Dio in spirito e verità”. E io penso che sta arrivando questo tempo. Alcune cose è bene che brucino. Quell’affermazione di Gesù è fondamentale. Non c’è tanto da salvare qualcosa. C’è da vivere: mi sembra che ciascuno di noi trovi in sé il discernimento, poi lo troviamo insieme, per costruire cammini positivi. Se veramente l’amore è il centro del cammino del popolo di Dio bisognerebbe esplorarlo nella nostra vita quotidiana.

Faccio una battuta su Virgilio Colmegna, L’idea di Virgilio e della Casa della Carità non è di spostare i Rom in altri posti, costruire nuovi campi…no assolutamente. Costruire spazi di cittadinanza per i Rom, quindi inserimento nelle case, nel lavoro, i bambini a scuola, ma non come teoria, ma cose che hanno appunto già praticato, loro, come Casa della Carità, sono interlocutori del questore, stanno in mezzo tra le famiglie e le istituzioni. Veramente bisogna mettersi in rete, parlo relativamente a queste cose. Uscire un po’ da confini istituzionalizzati. Io vengo dal discorso dei bambini e dei ragazzi istituzionalizzati. Sempre più ho sentito che bisogna invece deistituzionalizzare.

Chiara: Le realtà positive che ci sono bisognerebbe farle emergere e pubblicarle perché le persone siano coscienti che esistono, e che c’è una parte della chiesa che va in un’altra direzione rispetto alla gerarchia. Però io penso anche alla mia esperienza personale che io non riesco a crescere nella fede se non in comunità cristiana per cui ho bisogno di una fede condivisa, non la posso vivere da sola, perché da sola non cammino, è possibile vivere dentro la comunità cristiana , però ai margini, cioè mi alimenta la comunità cristiana però mi alimenta anche Parvim, che vive la sua fede musulmana in spirito e verità. E mi alimentano tante persone non credenti che cercano di vivere una vita evangelica

Gigi: Il nostro lavoro rimane in basso (non dal basso ma in basso). Quando si diceva che il tempio brucia, quello che sta bruciando non è il tempio della fede, né il tempio della nostra speranza in Gesù. Sta bruciando nel senso che molti di noi si stanno distaccando in un certo modo dalla partecipazione alla chiesa istituzione, per lo meno vivono relativizzando un po’ questa cosa. Io vedo l’immagine della chiesa nel senso che veramente lo Spirito ci stia insegnando in questi anni a trovare chiesa, maestri spirituali nell’amica pakistana, nell’amico rom o anche nel compagno di lavoro, o anche nel prete. Come già nelle prime Lettere de “La Tenda” si metteva in luce la necessità del passaggio attraverso il deserto per superare il sacro…mi sembra che ora stiamo camminando su quella strada. Nonostante pensi che il tempio stia bruciando, io non sono pessimista. Tutto sommato penso che in questo c’è il cammino di purificazione della fede.

La chiesa come le singole persone non hanno altro futuro che non sia l’amore. Ma quale amore? Quello che compatisce ma è incapace di sollevare? Quello che accompagna e desta confusione? Quello che serve e suscita riconoscenza? O forse quello che è capace di vedere nell’altro le sue insite più grandi possibilità di sentirsi partecipe del divino e perciò libero e cocreatore.

Francesco: Ora noi facciamo bene a cercare di mettere insieme tutte le realtà che in qualche modo vogliono costruire un tessuto diverso nella chiesa, però dobbiamo anche dedicare parte delle nostre riflessioni a questo fenomeno globale che mette a repentaglio dei diritti fondamentali che sono stati acquisiti.

Solange: C’è un piccolo paese, di circa 100 abitanti, che ha una forte cooperazione con il Nicaragua. Questo sorprende: un piccolo paese e tanta cooperazione. Ciò indica che c’è una grande speranza. Una cosa che ci aiuta è il saper ridimensionare certe verità, che hanno avuto il loro peso, ma che non sono verità assolute e definitive.

Gigi: Il primo principio etico è l’amore, l’economia è la variabile che deve soggiacere all’amore reciproco.

Maria: L’economia funziona con il criterio dei vasi comunicanti: se oggi utilizziamo le risorse di un paese lontano per rispondere ai nostri bisogni, questo processo porta con il tempo ad un livellamento dell’economia delle due economie.

Gigi: L’enfasi che viene data alla questione Rom è puramente populista, l’incidenza di 100˙000 persone su una popolazione di 60 milioni fa capire la consistenza di questa realtà. Possibile che una popolazione di 60 milioni di persone non riesca a pensare ad una politica di interazione con loro?

Francesco: C’è una vecchia politica positivistica che sostiene che i Rom sono per natura dei delinquenti. Non si capisce, allora, da dove viene fuori un Django Reinhardt (chitarrista jazz di etnia sinti) o quel professore universitario Rom… Ciò che è necessario è far sì che i Rom si sentano parte di questa società, dando vita ad una loro cultura “contaminata” e “contaminante” le culture locali. Ad esempio il jazz gitano viene fuori proprio da questa contaminazione tra la musica nera americana e la loro musica tradizionale.

Franco: Possiamo parlare e impegnarci nell’economia senza quella prima regola, quella dell’amore, che fa sì che la produzione sia inseparabile dalla condivisione? C’è un insegnamento fondamentale che ho imparato la domenica a messa, un insegnamento teorico, ma poi ho avuto un insegnamento pratico e questo lo devo ai poveri.

Maurizio: Quando acquistiamo un prodotto dobbiamo essere capaci di non guardare solo al risparmio in termini di soldi: è importante considerare quanto la produzione di quel bene è costata, per esempio in acqua, in anidride carbonica emessa o in sfruttamento di minori oppure quanto questa produzione abbia permesso l’impiego di disabili, di detenuti… C’è per esempio un’enorme differenza nella produzione di carne o di fagioli.

Giuseppe: Temo quel silenzio che è frutto di disperazione e vi ringrazio perché questo incontro mostra la speranza.

Dentro o fuori il “tempio”? Cosa c’è fuori? Con questa realtà dobbiamo fare i conti, dobbiamo imparare a non dare per scontate le cose. E’ necessario entrare nel merito delle cose importanti, come abbiamo imparato da Nicola, non riderci sopra né banalizzare persone o situazioni. Ad esempio Benedetto XVI, in un discorso, sosteneva che il Magistero è l’interprete del pensiero della Chiesa e la Chiesa è il tramite tra Dio e l’umanità… ecco, di fronte a due affermazioni di questo genere dobbiamo essere capaci di capire perché sono gravi e perché possono essere sbagliate. Dobbiamo essere capaci di interrogarci e di rispondere a delle affermazioni basilari che finora abbiamo dato per scontate. Ad esempio, ero in un paese del sud ed un uomo ricco ricattato da due ragazzi malavitosi si è rivolto al boss di zona e questi lo ha rassicurato: “Mandali da me…”. Il ricco era contento della soluzione trovata. Mi chiedevo: cosa potevo rispondere a quel ricco? Cosa c’era che non andava? Poi ho capito: “Forse quella strada che hai imboccato era necessaria, ma almeno dovevi essere triste”. E’ necessario interrogarci e rispondere cose che vadano realmente al cuore della persona, risposte che non rimangano nel campo del giudizio.

Di fronte alla gravità della situazione attuale della Chiesa, E. Bianchi invitava a non dimenticare l’orto degli ulivi.

Sui Rom consiglio “Seppellitemi in piedi”.

Gianfranco: Nicola ha sempre chiarito che il processo comunionale parte dal basso, da una comunità che si incontra, si confronta e il prete ha il compito di facilitarne la comunione. Quindi i vari preti si incontrano, si confrontano su ciò che è maturato nelle varie eucaristie, con tutte le questioni aperte, e il vescovo ha il compito di facilitarne la comunione. Di seguito a questo, ci sarà l’incontro collegiale dei vescovi facilitato dal vescovo di Roma. Nicola si contrapponeva fortemente a quel magistero che prescinde dalle eucaristie della base e mi mostrò un giorno “l’archivio di tale magistero”… il cestino della carta straccia.

Nel confronto, dobbiamo essere capaci di ripensare ai nostri “diritti” che troppo spesso vengono intesi come possibilità di una crescita di consumi. Lo stesso sindacato si è ridotto a questo. Occorre ripensare alla sobrietà non come modello negativo, ma come senso conviviale sostenibile. La stessa economia va ripensata in questi termini. Bisogna imparare a divertirsi senza spendere.

Gigi: La perdita di diritti e la possibilità di consumo a basso costo sono strettamente legate, perché se un popolo produce a costi bassi devo rinunciare a diritti fondamentali. Non ogni merce è un bene e ci sono beni non riducibili a merci.

Solange: Malgrado tutto il peso che sento di questa gerarchia, non dimentico che alla Chiesa devo la conoscenza del Vangelo e di Gesù, che erano totalmente estranei ai miei genitori e all’ambiente in cui sono cresciuta. Sono contenta del legame eucaristico domenicale di mia nipote.

Lorenzo: Ci sono due episodi avvenuti in due case: uno a Torre Angela e l’altro a Velletri. Due persone morte, due diverse pompe funebri, ma alla testa della persona morta è stata posta la stessa immagine (circa 80×250 cm) che rappresenta una madonna, tutta fatata e accogliente. Avrebbe potuto essere anche Padre Pio. Mi pare significativo e grave che il punto di riferimento per molti credenti non è più Cristo, ma la madonna o chi per lei: la stessa deviazione che si riscontra nei santuari. Da una parte abbiamo le deviazioni di molti uomini e donne (e sarebbe necessario chiedersi perché), dall’altra la deviazione di molti vescovi che gestiscono l’autorità non come

servizio, ma come potere e di fronte alle sollecitazioni di alcuni cristiani fingono di non capire. Sta a noi avere e porre come punto di riferimento Cristo.

Ci siamo interrogati negli ultimi incontri su come valorizzare l’eredità di Nicola. Se da una parte dobbiamo ripercorre alcuni tratti portanti del primo ciclo de La Tenda, con maggiore libertà rispetto all’antologia che abbiamo pubblicato, dall’altra dobbiamo mettere a fuoco i temi che riteniamo più urgenti. Ad esempio: perché la gran parte dei giovani, direi in modo particolari se figli di credenti, si sentono così estranei a questa Chiesa? Come cogliere e approfondire le diverse sensibilità dei giovani? Perché molti giovani si sentono estranei non solo nei confronti del papa, ma anche rispetto a quella vita che c’è in alcune comunità cristiane? Un altro tema da approfondire è quello della sofferenza, della malattia, della morte. E’ importante interrogarci senza porre la fede come punto di partenza, occorre poter approfondire partendo da una sensibilità comune. La fede per noi è una grossa ricchezza, la ricchezza più grande, ma la fede non ci toglie la fatica della ricerca, insieme, ai diversamente credenti.

Un altro tema è quello del mondo gay: approfondire non stando in cattedra, ma cogliendo la fatica, il dolore di tanti uomini e donne, con il loro approfondire. Se si ascolta portando dentro di sé la sofferenza dell’altro, si può a volte arrivare a dire anche una parola autorevole.

Se da una parte è necessario mettere a fuoco i temi da approfondire insieme, dall’altra occorre utilizzare i criteri de La Tenda: stare in basso, con i più poveri, e contemporaneamente conoscere e approfondire le radici dei problemi. Con un piccolo gruppo abbiamo iniziato la lettura del Cantico dei Cantici, che è stato nei primi secoli cristiani il testo base per la catechesi. Come l’incontro tra due innamorati è fatto di cercarsi, perdersi, rincorrersi, desiderarsi… così è l’incontro del Signore con noi: un incontro che non è fatto di dogmi, ma di sangue che pulsa.

Giuseppe: Un’amica mi chiedeva: “Credi nella risurrezione? Mi sento sempre più in difficoltà… Le rispondevo: “Per risuscitare dovremmo imparare ad essere leggeri”. Non lasciarsi trascinare a fondo, neanche limitarsi a galleggiare, ma nuotare.

Chiara: Tornando al tema della sofferenza e della morte: davvero la morte migliore è quella nel sonno? Non vorremmo salutare le persone care, prima di morire? Mi pare importante approfondire questo tema, anche pensando a come viene vissuta la sofferenza e la morte nelle varie parti del mondo.

Giovanna: A Torre Angela c’è ancora una grossa partecipazione al lutto, alla morte.

Gigi: Il nostro tipo di sviluppo ha portato a nascondere il malato terminale e la morte.

Maria: Se l’adulto vive la morte come fatto negativo, tende a nasconderla al bambino. Se la vive come un fatto naturale, ecco che il coinvolgimento del bambino è più facile.

Gianfranco: Da una parte pensiamo di tematizzare per un convegno alcuni nodi esistenziali, dall’altra sarebbe utile ridare spazio, leggendo nei nostri vissuti, ai segni di ricostruzione dei legami, ai segni di un modo di vivere conviviale. In un caso o nell’altro, è importante un convegno in cui parlino le esperienza che ognuno di noi vive in modo contraddittorio. Ad esempio accanto all’esperienza della morte anche quella della festa, una festa gratuita, libera, non una festa consumistica.

Maria: E’ necessario uscire dal ghetto della Chiesa e sapere che il popolo di Dio è l’umanità. Saper fare una ricerca con persone di diversa appartenenza, cercando ciò che ci accomuna, anziché ciò che si separa. Un confrontarsi all’insegna dell’accoglienza. E’ importante cogliere il positivo di tante esperienze e comunicarlo.

Giovanna: Anche la malattia può facilitare una rete di convivialità. Anche una nascita può aprire agli altri.

Franco: Il volontariato in ospedale ha bisogno di una struttura che renda possibile tale servizio. Oggi il servizio ai malati nelle case è facilitato da queste organizzazioni.

Gigi: Quali segni di speranza comunicare? L’idea di convivialità, che significa anche austerità, rispetto dei beni comuni, economia del dono. Per cui riflettere sul tema della malattia e della morte, partendo dai nostri vissuti, come luoghi in cui si è realizzata una convivialità.

Giovanna: E’ importante per esempio la convivialità che nasce intorno ad un servizio legato ad un cammino di cresima (ad esempio con gli anziani).

Lorenzo: La convivialità non consiste solo nell’incontrare, ma anche riflettere su tali incontri. Cosa comporta incontrare una persona in una certa realtà? Per esempio è importante riflettere insieme sulla condizione di una persona che è paralizzata…

Maria: Da ragazze andavamo a far visita ai bambini di un orfanotrofio, poi attraversavamo la strada e ci trovavamo dentro un ospizio. Il passaggio dall’uno all’altro e la gioia con cui venivamo accolte ci spingeva a riflettere.

Gianfranco: Quello che manca è la dimensione riflessiva condivisa. Ad esempio la riflessione in gruppo ci ha fatto prendere coscienza del fatto che mentre accogliamo, siamo anche bisognosi di essere accolti. Dobbiamo superare lo status di chi accoglie e comunicare il bisogno di essere accolti. Ci si salva insieme se si condividono i bisogni.

Chiara: Occorre saper creare spazi di riflessione soprattutto per i giovani.

Gigi: E’ necessario recuperare la realtà di tante esperienze positive. Recuperare la gratuità, una responsabilità condivisa.

Un rispetto riverente per la diversità

di Kevin Dowling (vescovo di Rustenburg Sud Africa)

Circa un mese fa, The Southern Cross (settimanale cattolico sudafricano, ndt) ha pubblicato una foto del vescovo di Tulsa, Edward Slattery, con la sua “cappa magna” (abito prelatizio a forma di campana con largo cappuccio e strascico posteriore lungo alcuni metri che veniva indossato nelle cerimonie liturgiche più solenni. Il riferimento è alla notizia di una messa in latino celebrata da Slattery in aprile nella Basilica del Santuario Nazionale dell’Immacolata Concezione, a Washington, ndt). A mio giudizio, tale ostentazione, che rimanda a una forma di trionfalismo in una Chiesa devastata dagli abusi sessuali, è decisamente infelice. Quel-l’immagine richiama i tratti di una corte reale medioevale, non di una leadership umile e servizievole come quella e-spressa da Gesù. Ma ciò mi pare che sia anche un simbolo di quanto accaduto nella Chiesa soprattutto a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II – la “restaurazione”, lo smantellamento attentamente programmato

della teologia, dell’ecclesiologia, della visione pastorale, insomma dello “spalancare le finestre” del Concilio Vaticano II – al fine di ripristinare un modello di Chiesa anteriore o più controllabile, attraverso una struttura di potere sempre più centralizzata, una struttura che ora controlla tutto nella vita della Chiesa tramite una rete di congregazioni vaticane guidate da cardinali che assicurano la stretta osservanza di ciò che è da essi considerato “ortodosso”. E quanti non obbediscono vanno incontro alla censura e alla punizione, come i teologi a cui viene proibito di insegnare nelle facoltà cattoliche.

Non manchiamo di evidenziare a sufficienza questo fatto importante. Il Vaticano II è stato un concilio ecumenico, ossia un esercizio solenne del magistero della Chiesa o, ancora, il collegio dei vescovi riuniti con il vescovo di Roma per esercitare una funzione di insegnamento per tutta la Chiesa. In altre parole, la visione, i principi, le linee direttive del Concilio devono essere seguiti e rispettati da tutti, dal papa al contadino dell’Honduras.

Dal Concilio Vaticano II, tale esercizio dell’autorità di insegnamento del magistero è venuto meno. Al suo posto, vi è stata una serie di decreti, di pronunciamenti e di decisioni variamente etichettati, accompagnati per esempio dall’indicazione che i fedeli cattolici sono tenuti a seguirli con “consenso interiore”, ma che in realtà non sono altro che le interpretazioni o opinioni teologiche o pastorali di quanti hanno potere al vertice della Chiesa. Non si tratta, insomma, di pronunciamenti definiti solennemente come appartenenti al “deposito della fede” per essere assunti e seguiti da tutti i cattolici, come avvenuto per altri dogmi solennemente proclamati. Ne offrono un esempio le questioni del celibato per i sacerdoti e dell’ordinazione delle donne, che sono state addirittura sottratte alla sfera di discussione. Pertanto, tali pronunciamenti sono suscettibili di esami minuziosi, così da valutare se sono in accordo, per esempio, con la visione teologica fondamentale del Concilio Vaticano II, o se si tratta di casi da sottoporre a una diversa interpretazione o opinione.

In retroguardia

Quando ho lavorato all’estero, facendo base a Roma presso la mia congregazione religiosa (la congregazione del Santissimo Redentore, ndt), dal 1985 al 1990, prima di far ritorno qui come vescovo di Rustenburg, una delle mie responsabilità era quella della costruzione del ministero di giovani adulti, insieme alle nostre comunità, in Paesi europei, dove tanti giovani si erano allontanati dalla Chiesa. Sono entrato in contatto con molte centinaia di giovani adulti cattolici sinceramente in ricerca, aperti alle questioni dell’ingiustizia, della povertà e della miseria nel mondo e consapevoli dell’ingiustizia strutturale dei sistemi politici ed economici dominanti, e sempre più convinti del fatto che la Chiesa “ufficiale” non solo stia perdendo la nozione della realtà, ma stia anche dando una cattiva testimonianza rispetto alle aspirazioni dei cattolici pensanti e coscienti in cerca di una diversa esperienza di Chiesa. In altre parole, questi giovani cercano un’esperienza che renda loro possibile credere che la Chiesa a cui appartengono abbia qualcosa di rilevante da dire e da testimoniare per il mondo pieno di sfide in cui essi vivono. Molti di questi giovani adulti, da allora, hanno lasciato la Chiesa definitivamente.

D’altro lato, bisogna riconoscere che per un significativo numero di giovani cattolici, di cattolici adulti, di preti e di religiosi in tutto il mondo, il modello di restaurazione della Chiesa che è stato introdotto negli ultimi 30-40 anni è cercato e apprezzato, risponde alle loro necessità, dona loro un sentimento di appartenenza a qualcosa che presenta chiari parametri e linee direttive per la vita. E che, in questo modo, offre loro un senso di sicurezza e di chiarezza rispetto a ciò che è la verità e a quello che è moralmente giusto o sbagliato, in quanto c’è una struttura di autorità chiara e forte che risolve in modo definitivo tutte queste questioni e in cui essi confidano in maniera assoluta, come in qualcosa di origine divina.

La crescita di gruppi e organizzazioni conservatrici nella Chiesa degli ultimi 40 anni o più, che attraggono un significativo numero di adepti, ha condotto ad un fenomeno a cui trovo difficile relazionarmi. Una Chiesa con uno sguardo rivolto verso l’interno, che incute timore, che si contrappone a un mondo secolare con il suo concomitante pericolo di relativismo, specialmente in termini di verità e moralità – di cui parla frequentemente papa Benedetto XVI -; una Chiesa che, di fronte a tali pericoli, dà l’impressione di mettersi in retroguardia e di confidare in un’autorità forte e centralizzata per garantire l’unità attraverso l’uniformità del credo e della pratica. La sua paura è che, senza tale supervisione e controllo, e se fosse permessa qualunque libertà di decisione, anche in questioni meno importanti, si aprirebbero le porte alla divisione e al crollo dell’unità della Chiesa.

Ciò avviene a causa di una visione fondamentalmente diversa nella Chiesa e della Chiesa. Dov’è che oggi possiamo incontrare i grandi leader teologici e i grandi pensatori del passato, come il card. Joseph Frings di Colonia e Bernard Jan Alfrink di Utrecht, per quanto riguarda l’Europa, e i grandi vescovi profeti le cui voci e testimonianze hanno rappresentato un grande richiamo alla giustizia, ai diritti umani, a una distribuzione equa di beni, come l’arcivescovo Oscar Romero di El Salvador, i cardinali Paulo Evaristo Arns e Aloísio Lorscheider e i vescovi Hélder Câmara e Pedro Casaldáliga in Brasile?

Ancora, chi nel mondo di oggi presta ancora ascolto o almeno si lascia mettere in discussione dalla leadership della Chiesa attuale? Ritengo che l’autorità morale dei vertici della Chiesa non sia mai stata tanto debole. Sarebbe quindi importante, a mio giudizio, che la leadership della Chiesa, anziché voler dare un’immagine del suo potere, dei suoi privilegi e del suo prestigio, venisse sperimentata come ministero umile, orientato a discernere, insieme alle persone, la risposta più adeguata o praticabile che possa servire a dar conto della complessità delle questioni etiche e morali: una leadership, pertanto, che non presuma di conoscere sempre tutte le risposte.

Il principio di sussidiarietà nella Chiesa

Passando un po’ a un altro tema, uno dei contributi realmente significativi della Chiesa alla costruzione di un mondo in cui le persone e le comunità possano vivere in pace e con dignità, con una qualità di vita che possa beneficiare quanti sono stati creati a immagine di Dio, è il corpo di quella che è stata chiamata la Dottrina Sociale della Chiesa, un compendio pubblicato negli ultimi anni. I principi della Dottrina Sociale sono quelli del Bene Comune, della Solidarietà, dell’Opzione per i poveri, della Sussidiarietà, della Destinazione universale dei beni, dell’Integrità del creato e della Centralità della persona, tutti basati sui valori del Vangelo. Si tratta di principi e linee direttive assai rilevanti da applicare a realtà sociali, economiche, culturali e politiche complesse, specialmente per come colpiscono i membri più poveri e vulnerabili della società in ogni luogo.

Tuttavia, se la leadership della Chiesa, in qualunque parte, si permette di disapprovare o condannare le politiche economiche e sociali e i governi e gli attori che le portano avanti, essa deve a sua volta permettere che venga criticata allo stesso modo rispetto alle sue politiche, alla sua vita interna e soprattutto al suo modus operandi. Una cultura e una pratica democratiche, con un accento sulla partecipazione dei cittadini e sul dovere da parte di quanti sono stati scelti per governare di dar conto delle proprie azioni, sono sempre più auspicabili, malgrado l’inevitabile limitatezza umana. Quando persone pensanti di ogni convinzione guardano ai vertici ecclesiali, questi vengono criticati rispetto, per esempio, alla questione di un’autentica partecipazione al governo della Chiesa e riguardo a come, di fatto, tali vertici devono essere responsabilizzati. Se la Chiesa dichiara di seguire i valori del Vangelo e i principi della Dottrina Sociale della Chiesa, la sua vita interna, i suoi metodi di governo e il suo uso dell’autorità saranno analizzati sulla base di ciò in cui noi crediamo. Prendiamo un principio della dottrina sociale di importanza vitale per garantire la democrazia partecipativa nel campo socio-politico, cioè il principio della sussidiarietà.

Ho lavorato con la Conferenza episcopale sudafricana, nel Dipartimento di Giustizia e Pace, per 17 anni. Dopo la nostra liberazione politica nel 1994, comprendemmo che tale liberazione avrebbe avuto poca rilevanza per la realtà dei poveri e degli emarginati se non si fosse tradotta in emancipazione economica. E pertanto decidemmo che una questione fondamentale per il Sudafrica post 1994 fosse quella della giustizia economica. Dopo una lunga discussione a tutti i livelli, diffondemmo una Nota Pastorale, nel 1999, intitolata “Giustizia economica in Sudafrica”. Il suo punto principale era necessariamente l’economia. Tra le altre cose, trattava di tutti i principi della Dottrina Sociale della Chiesa, e io riporto ora una citazione dalla parte relativa al principio di sussidiarietà:

“Il principio di sussidiarietà protegge i diritti degli individui e dei gruppi di fronte ai potenti e in particolare allo Stato. In base ad esso, quelle cose che possono essere fatte o decise ad un livello più basso della società non devono essere di competenza di un livello più alto. Così, esso riafferma il nostro diritto e la nostra capacità di decidere da noi stessi come organizzare le nostre relazioni e cercare l’accordo con gli altri. […] Possiamo e dobbiamo fare passi avanti per incoraggiare l’assunzione di decisioni ai livelli economici più bassi e rendere il maggior numero di persone capaci di partecipare quanto più possibile alla vita economica” (Giustizia economica in Sudafrica, p. 14)

Applicato alla Chiesa, il principio di sussidiarietà richiede ai suoi vertici di promuovere e incoraggiare attivamente la partecipazione, la responsabilità personale e l’impegno effettivo di tutti in termini chiamata e di ministero particolare nella Chiesa e nel mondo, secondo le proprie opportunità e i propri doni.

La fedeltà del cattolico

Tuttavia, penso che oggi vi sia una leadership che, in realtà, mette in discussione esattamente la nozione di sussidiarietà, in quanto i minimi dettagli della vita e della pratica della Chiesa “al livello più basso” sono soggetti all’analisi e alla certificazione di un “livello più alto”, che è in verità il livello più alto, come ad esempio accade con l’autorizzazio-ne della traduzione dei testi liturgici, laddove uno dei principi chiave del Concilio Vaticano II, la collegialità nel processo decisionale, è virtualmente inesistente. L’illustre arcivescovo emerito di Vienna, il card. Franz König, nel 1999 – quasi 35 anni dopo il Concilio Vaticano II – scriveva quanto segue: “In verità, de facto e non de jure, intenzionalmente o meno, le autorità della curia romana, lavorando insieme al papa, si sono appropriate dei compiti del collegio episcopale. Sono loro che fanno quasi tutto” (“La mia visione della Chiesa del futuro”, The Tablet, 27 marzo 1999, p. 434).

Ciò che ha portato a questo, secondo me, è la mistica che ha avvolto in misura crescente la persona del papa negli ultimi 30 anni, di modo che qualunque critica o rilievo nei confronti delle sue politiche, del suo modo di pensare, del suo esercizio dell’autorità ecc. vengono considerati come un tradimento. A causa di questa mistica, si ritiene che l’obbedienza inconfutabile dei fedeli al papa sia necessaria e sia segno della fedeltà di un vero cattolico. Quando l’autorità del papa è estesa intenzionalmente alla curia vaticana, esiste la possibilità reale che l’inconfutabile obbedienza alle decisioni umane adottate dai dipartimenti curiali e dai cardinali su una gamma di questioni diventi il segno della fedeltà di un cattolico e che al di fuori di questa tutto venga interpretato come una slealtà nei confronti del papa, che è il responsabile della direzione della barca di Pietro.

Per questo, è diventato sempre più difficile nel corso degli anni, per tutto il collegio dei vescovi, o in un particolare territorio, esercitare una leadership basata sul servizio, discernere risposte appropriate in relazione alla propria realtà e alle sue necessità socioeconomiche, culturali, liturgiche, spirituali e pastorali e ancor meno discordare in qualcosa e cercare alternative alle politiche e alle decisioni adottate a Roma. E quella che si impone sempre più come la politica di designare vescovi “sicuri”, incontestabili, ortodossi e finanche molto conservatori a capo di diocesi vacanti negli ultimi 30 anni ha come unico risultato il fatto che il collegio dei vescovi – anche in conferenze potenti come quella degli Stati Uniti – ponga sempre meno in discussione ciò che esce da Roma, e di sicuro non pubblicamente. Al contrario, si impiegherà ogni sforzo per cercare di conformarsi a quelli che sono al potere, il che significa che la posizione romana finirà per prevalere. E, procedendo oltre, quando un unico vescovo rivolgerà qualche critica, specialmente in pubblico, l’impressione o il giudizio sarà che egli sta “mancando di rispetto alla gerarchia” in relazione agli altri vescovi e creando confusione tra i fedeli laici – così si dice – poiché farà sembrare che i vescovi non siano uniti riguardo agli insegnamenti e alla propria leadership. La pressione, pertanto, che ciascuno subirà è di conformarsi, di non creare o suscitare polemiche.

Un’unità viva

La Chiesa che dovremmo avere, a mio modo di vedere, è quella in cui i vertici riconoscano e incoraggino l’assunzione di decisioni ai livelli appropriati delle Chiese locali; in cui la leadership locale ascolti e discerna insieme al popolo di Dio quello che “lo Spirito dice alla Chiesa” e articoli il risultato come il consenso della comunità di fede e di preghiera al cui servizio si trova. Abbiamo bisogno di fede in Dio e di fiducia nel popolo di Dio per fare quello che ad alcuni, o a molti, può sembrare un rischio. La Chiesa potrebbe arricchirsi con una diversità che integri veramente i valori socioculturali e con la percezione di una fede viva e in cammino, insieme al discernimento su come tale diversità possa promuovere unità all’interno della Chiesa, non essendoci pertanto bisogno di uniformità perché essa sia veramente autentica.

La diversità nella vita e nella pratica come un’espressione del principio di sussidiarietà è stata soppressa nelle Chiese locali di ogni luogo dalla centralizzazione del processo decisionale al livello

del Vaticano. Oltre a ciò, l’ortodossia viene sempre più identificata con le opinioni e le visioni del mondo conservatrici, giudicando tutto ciò che è visto come “liberale” tanto sospetto quanto non ortodosso e pertanto da respingere come un pericolo per la fede del popolo.

Esiste un cammino che ci porti avanti? Come riconciliare tali visioni o modelli di Chiesa così diversi? Io non ho altra risposta che questa: che da qualche parte si debba trovare un atteggiamento

di rispetto e di riverenza nei confronti della diversità nella ricerca di un’unità viva nella Chiesa; che le persone siano autorizzate, e realmente preparate, a trovare o creare il tipo di comunità che sia

espressione della loro fede e delle loro aspirazioni in relazione alla loro vita cristiana e cattolica e all’impegno nei riguardi della Chiesa e del mondo e che si sforzi di mantenere in una tensione legittima e costruttiva le incertezze e le ambiguità che tutto ciò comporta, confidando nella presenza dello Spirito Santo.

Al cuore di tutto ciò c’è la questione della coscienza. Come cattolici, dobbiamo essere sufficientemente affidabili da assumere decisioni consapevoli riguardo alla nostra vita, alla nostra testimonianza, alle nostre espressioni di fede, di spiritualità, di preghiera e al nostro coinvolgimento con il mondo, sulla base di una coscienza matura.

E, come invito ad una valorizzazione della coscienza e delle decisioni consapevoli riguardo alle nostre vite e alla partecipazione ad una Chiesa molto umana, concludo con la formulazione o comprensione offerta niente di meno che dal teologo Josef Ratzinger, ora papa, quando era perito al Concilio Vaticano II: “Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica. L’enfasi sull’individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo e ultimo tribunale, e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un principio che si oppone al crescente totalitarismo”. (Joseph Ratzinger in: Commento sul Documento del Vaticano II, Vol. V., p. 134 (Ed) H. Vorgrimler, New York, Herder and Herder, 1967).

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