Lettera 16 (Seconda Serie)

Come già avveniva nella prima serie delle lettere de “La Tenda” vogliamo, prima della pausa estiva, affidare ai nostri amici e lettori un testo particolarmente significativo e pregnante: è la relazione introduttiva di Ghislain Lafont durante il convegno che abbiamo tenuto ad Ostia il 29 Maggio scorso dal titolo “Edificare la Chiesa dell’amore”

Nel rileggere questo bell’intervento ci è tornato in mente un racconto che avemmo modo di presentare già nella lettera n° 13 dedicata alla Speranza. Vorremmo rileggerlo insieme in quest’altro contesto perché ci pare dia un senso particolare al tema che affronta l’intervento di Ghislain Lafont.

Lafont ci presenta la possibilità, a partire dal Concilio Vaticano II, di costruire una Chiesa fondata sull’amore, per riscoprire, in senso più ampio una fede fondata sull’amore, nel quadro di una possibile rifondazione delle basi stesse della convivenza umana. Al periodo “Niceno” che ha avuto “la verità” come punto di riferimento deve seguire un periodo che, dal Concilio Vaticano II, Lafont chiama “Vaticano” che dovrà porre come punto di riferimento “l’amore”.

Dobbiamo però essere consapevoli che, pur senza nessun disprezzo o svalutazione della storia che ci ha portato fin qui, non si potrà andare avanti senza scegliere cosa dobbiamo portare fuori dal Tempio che brucia e cosa possiamo/dobbiamo abbandonare. Pensare di cominciare una strada nuova senza questa riflessione e senza porre in atto concreti passi in questo senso ci pare velleitario e sostanzialmente inutile.

Nel libro di Paolo De Benedetti, ”Ciò che tarda avverrà”, si parla di una storia legata alla distruzione del tempio a Gerusalemme: “Rabbi Jokanan secondo la leggenda, durante l’assedio del tempio si fece portare fuori dai suoi discepoli in un bara perché gli Zeloti non consentivano l’uscita se non ai morti. Rabbi Jokanan era uno studioso senza un incarico ufficiale, non aveva la residenza nel tempio e non era il Patriarca; egli fu il solo tuttavia a scorgere chiaramente quello che si poteva conservare e quello che bisognava abbandonare per conservare tutto. Egli agì senza troppe discussioni di metodo e di procedura e tuttavia non si può scorgere nel suo agire nulla di arbitrario o di autoritario, egli seppe leggere, come si direbbe oggi, i segni dei tempi ma  in quei segni non vedeva soltanto la storia, bensì la misteriosa volontà di Dio. Ai cristiani non è accaduto di dover compiere un mutamento così radicale come quello toccato all’ebraismo per rimanere se stessi, ma non si può dire che non sarebbe stato o che non sia altrettanto necessario. Infatti il grande tempio della cristianità tradizionale è già profondamente intaccato dal fuoco, ma questo incendio è, su scala umana, straordinariamente lento,  ed è quasi inavvertibile il crollo se non si guarda indietro, e tutto ciò rende più che mai difficile che sorga un uomo come Rabbi Jokanan  che decida di portare  fuori dal tempio, da quel tempio ciò che deve essere salvato.”

Se è vero quindi che per noi cristiani il Vaticano II ha innescato un processo che potrebbe portare ad un mutamento altrettanto radicale, per poterlo cogliere, occorre che ognuno di noi sposti la centralità dello sguardo dalle “curie” dei potenti a ciò che avviene nelle tante periferie del mondo. La relazione di Lafont e la lettera di De La Mora che le abbiamo voluto affiancare e che costituisce un concreto richiamo per i cristiani alla propria responsabilità verso i poveri e verso il creato e per noi cittadini italiani alla nostra di complici oggettivi, ci aiutano in questo compito mai compiuto

Sommario della 16° lettera:

– “La Speranza della Chiesa è nell’Amore”, relazione di Ghislain Lafont durante il convegno “Edificare la Chiesa dell’amore” del 29 maggio 2010

– “Il Momento di dire Basta” lettera di Mons. Luis Infanti De La Mora vescovo di Aysén, nella Patagonia cilena

La Tenda n° 16 – luglio 2010

La Speranza della Chiesa è nell’Amore Ghislain Lafont

Il Mondo e la Chiesa hanno sempre avuto bisogno di speranza. Oggi sembra che questo bisogno sia ancora cresciuto. Non perché gli uomini contemporanei siano più cattivi dei loro antenati, ma perché gli strumenti di cui dispongono per fare il male sono più potenti che nel passato, mentre la loro conoscenza di ciò che può provocare angoscia è moltiplicata dall’eccellenza e rapidità dei mezzi di comunicazione.. E oltre al male colpevole, fonte di disperazione, c’è il male innocente che ci assale ogni giorno e aumenta il nostro smarrimento. La tentazione di perdere la speranza è forte e non solo riguardo al mondo!

Non intendo riprendere qui di nuovo la domanda di Kant, che è anche la nostra: “Che cosa ci è permesso sperare?”[1] Piuttosto, vorrei fare un po’ di cammino verso una risposta ad un aspetto più limitato della questione: “Che cosa oggi è permesso sperare alla Chiesa cattolica ?“

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  1. Parallelo tra Concilio di Nicea (325) e il Concilio Vaticano II (1965)

Il Cardinale Lefebvre, nella sua critica al Concilio in nome della tradizione, scriveva nel 1976 a Paolo VI che pensava di essere un po’ come Atanasio che difendeva l’ortodossia contro tutti i vescovi ariani considerati eretici nel IV secolo. Paolo VI gli rispose «Il secondo Concilio Vaticano non è meno autorevole, anzi per taluni aspetti più importante del Concilio di Nicea»[2] se vuoi essere Atanasio, devi servire il Concilio Vaticano II.

Ora il Concilio di Nicea è la matrice del nostro cristianesimo. Si può dire che tutto il pensiero, la vita, l’organizzazione della Chiesa, l’evangelizzazione si sono fatti sotto il segno di Nicea. Dobbiamo a questi concili del passato le cose fondamentali della nostra fede. Il Concilio di Nicea ha detto chi è Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. Quello di Efeso: Cristo è veramente Figlio di Dio. Quello di Calcedonia: Cristo è veramente uomo. Queste sono cose fondamentali e la sostanza della nostra fede.

Ma allora il Vaticano II sarebbe così importante? Porterebbe delle verità, delle convinzioni basilari come quello di Nicea? Ci sarebbe un primo periodo per la Chiesa: da Nicea al Concilio Vaticano II e ora saremmo in un secondo periodo.

Questo non darebbe una soluzione ai problemi concreti di oggi, ma una prospettiva. Ora siamo in un periodo difficile: siamo alla fine di un’epoca e all’inizio di un’altra. Ma c’è una grande speranza: siamo all’inizio di una cosa bellissima, così come il passato è stato bellissimo. Non dobbiamo idealizzare il passato, perché alcuni principi cristologici sono il frutto di grossi scontri. Allo stesso modo anche l’oggi non è facile, ma stiamo costruendo qualcosa di grande.

Vorrei raccontarvi una piccola storia di quando ero bambino, lupetto negli Scout. Avevo una piccola rivista su cui c’era una storia che per me è stata di grande rilievo. C’erano tre operai che costruiscono una cattedrale. Sono praticamente dei manovali che devono portare le pietre in una carriola fino alla base del muro. Il primo operaio, a cui si chiede “cosa fai?” dice: “Porto queste pietre… E’ un lavoro faticoso, monotono, malpagato, ma lo faccio perché non posso fare nient’altro. Il secondo operaio risponde: “lo guadagno un po’ di denaro per allevare i miei bambini e posso anche mettere da parte qualcosa per costruire una casetta per la mia famiglia. E di questo sono contento”. Il terzo operaio dice: “Io faccio una cattedrale”. I tre danno interpretazioni diverse e vere dello stesso lavoro. Il primo dice cose vere, per il secondo la fatica viene trasfigurata dalla speranza. Il terzo anche ha ragione: la costruzione della cattedrale dipende anche da lui. Noi siamo nella vita della Chiesa un po’ come questi operai. Siamo limitati e quello che facciamo è difficile a volte. Si potrebbe sentire tutta la pesantezza del lavoro e chiederci che stiamo facendo?”, però possiamo dire che c’è una cattedrale la cui base è il Concilio Vaticano Il. Siamo all’inizio di un grande costruzione: quella del Regno di Dio.

La frase proposta da Paolo VI suggerisce peraltro un approfondimento della nostra visione cristiana del tempo. Se siamo all’inizio di una nuova epoca nel cristianesimo, vuoI dire che la durata cristiana, piuttosto che rivolgersi al passato, guarda in avanti. Possiamo allora concepirla,

La Tenda n° 16 – luglio 2010

riprendendo un’espressione di Lessing, come una nuova tappa nell’ “educazione del genere umano”[3] Gli uomini che hanno ricevuto il vangelo nei primi secoli del cristianesimo non potevano evangelizzare altro che la civiltà nella quale vivevano. Reciprocamente, per comprendere e dire il vangelo, non disponevano che di questa civiltà, per quanto ricca e multiforme fosse. L’immenso lavoro che hanno fatto, con i suoi progressi, i suoi limiti, talvolta con i suoi arresti o le sue insufficienze, è in fin dei conti una tappa positiva nel corso della quale il Regno è cresciuto, come lievito nella pasta. Questo lavoro si è esteso lungo tutta l’era cristiana, che andrebbe peraltro divisa in periodi per considerarli uno dopo l’altro e valutarne poi la dinamica globale. La svolta essenziale della nostra epoca non è la presa d’atto di un fallimento del passato, ma all’opposto il risultato di questo passato, una maturazione che, per continuare, ha bisogno di trasformarsi: è il futuro che dà senso al passato.

Questo modo di vedere, occorre riconoscerlo, è già di per sé un ingresso nella nuova tappa indicata da Paolo VI. A lungo infatti, praticamente durante tutto il periodo “niceno” cioè fino alla metà del secolo scorso, la Chiesa ha per lo più pensato se stessa volgendosi verso l’evento compiuto della Resurrezione e nell’attesa, non senza qualche spavento, del Giudizio Finale. Non è stato sufficientemente valorizzato il tempo intermedio. Infatti, se Gesù ha pienamente realizzato il disegno di Dio sugli uomini e annunciato la sua Venuta definitiva, il suo Giorno dovrebbe essere prossimo nel tempo. Se tutto è compiuto, perché tardare? A che serve dunque questo rinvio, che cosa costruisce? Dunque, che cosa aspetta Gesù per manifestarsi? A volte, se vediamo le cose come appaiono, avremmo piuttosto l’impressione di una rovina progressiva e irrimediabile; saremmo allora tentati di guardare indietro e, per quanto è possibile, di restaurare un certo passato: come se lo svolgimento del tempo avesse avuto per solo effetto la manifestazione del male che perviene al suo culmine, escludendo soltanto un piccolo numero di eletti che riesce a salvarsi in un’arca di Noè, la Chiesa “[4].

Giovanni XXIII morendo diceva: “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che iniziamo a capirlo meglio”. E’ come se fossimo all’inizio di un periodo in cui il Vangelo sarà capito meglio. Questa è la speranza: la speranza è che il Vangelo sia efficace. Ma questo avviene lentamente.

Forse il Cristo non verrà finché il Vangelo non sarà compreso nella sua pienezza, e ora sappiamo che occorrerà più tempo di quel che pensiamo. Allora, se siamo sulla traiettoria del Regno in direzione del futuro, possiamo valutare con benevolenza tutta la storia che ci ha condotti là dove siamo e, ad un tempo, impegnarci risolutamente secondo le indicazioni del presente, senza segnare il passo per conservare ad ogni costo un dato acquisito che non sopravvivrà, per l’appunto, se non modificandosi.

Saremmo quindi ad un punto di arrivo: il Cristianesimo secondo la tradizione del Concilio di Nicea, e, ad un punto di partenza: il Cristianesimo secondo il Concilio Vaticano Il, ma anche, ad un tempo: il mondo alla fine di un grande ciclo che è iniziato con la filosofia greca cinque secoli prima di Gesù Cristo, e il mondo quale comincia ora a cercare se stesso.

Se così è, vorrei sviluppare il mio discorso come segue: poiché la Speranza del futuro è ciò che attualmente ci viene indicato con forza, tenterò prima di tutto di delineare questo futuro. Anche per la Chiesa cattolica si pone la domanda: “Che cosa ci è permesso sperare?”. Muovendo da questo sguardo di Speranza, sarà possibile (ed è necessario) “rileggere” il periodo niceno che si conclude ora, apprezzarne le luci e denunciarne le ombre, – tutto ciò al fine di integrare il positivo del passato nella Speranza del futuro, anche per evitare la continuazione di certi errori che sono stati dannosi non solo per la Chiesa cattolica ma per tutta l’umanità

Questa interpretazione della storia cristiana come costituita da una prima e una seconda fase, corrisponde anche all’esperienza umana di oggi: questo è un momento di svolta. Un eccesso di tecnica, di virtuale, abbiamo mezzi efficacissimi, potentissimi, ma nello stesso tempo non riusciamo a utilizzare quello che abbiamo perché gli uomini siano più felici. E’ come se fossimo troppo potenti per usare bene le cose che abbiamo. C’è un certo numero di pensatori depressi, disperati. Non abbiamo un ideale, una spiritualità o semplicemente delle idee per capire dove stiamo andando. Con tutte le possibilità che abbiamo potremmo sconfiggere la povertà, la fame. Ma non ci riusciamo.

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Tutto sembra non funzionare più. Potremmo dire, di fronte a questa situazione, che siamo alla fine del mondo oppure che siamo alla nascita di un altro mondo. E noi cristiani che abbiamo la speranza del Regno, possiamo pensare a quale speranza portare.

Cerchiamo di pensare, noi cristiani, a quale potrebbe essere una prospettiva nuova in vista del Regno di Dio. Cerchiamo di immaginare come la Chiesa potrebbe funzionare .[5]

  1. Prospettive sul periodo vaticano

Certo non sappiamo come si creerà, si evolverà e si preciserà una tradizione futura di cui conosciamo solo la matrice, il Vaticano II, e non la storia, perché questa, anche se è cominciata, non ha ancora finito di dare tutti i suoi frutti.[6] Pertanto è legittimo fare, come si dice, uno sforzo d’immaginazione per orientare la riflessione e l’azione, pur sapendo che la realtà sarà differente a causa di tanti fattori tuttora ignoti che potranno intervenire. In altri termini: si può tentare di redigere un “capitolato” o un “preventivo”, lasciando agli eventi la cura di confermare o invalidare il progetto, o comunque di modificarlo consistentemente.

Vorrei allora indicare i poli intorno ai quali si potrebbero riformare l’intelligenza e la pratica del cristianesimo nella tradizione “vaticana” che sta iniziando. Per semplificare un’esposizione necessariamente schematica, propongo di definire questi poli mediante tre espressioni messe fortemente in evidenza da papa Benedetto XVI sin dall’inizio del suo pontificato: “Gesù Cristo” (titolo del volume pubblicato nell’aprile del 2007), “Deus caritas est” e “Spe salvi” (titoli delle prime due encicliche del Natale 2005 e del 30 novembre 2007). Sono termini molto forti e in definitiva molto nuovi, anche se sono antichi come il Cristianesimo.

“Gesù Cristo”

Fino al Concilio Vaticano II, si può dire che il Cristo era per lo più riconosciuto nella cornice fornita dal peccato e dalla redenzione: “O felice colpa che meritò di avere un così grande redentore!” cantiamo ancora nella Notte pasquale. Oggi, i testi del Concilio e la sensibilità che hanno generata ci fanno vedere il Cristo trasfigurato come il primo oggetto del Disegno amorevole di Dio, secondo le prospettive, per fare un esempio, dell’Epistola agli Efesini: è muovendo da ciò che dobbiamo pensare e vivere la nostra fede in Dio, nell’uomo, nella storia della creazione e della salvezza. All’inizio della Veglia pasquale, a cui ho appena accennato, il celebrante pronuncia oggi sul Cero pasquale le formule essenziali, prese dalla Scrittura: “Il Cristo, ieri e oggi, inizio e fine di tutte le cose, Alfa e Omega. A lui il tempo e l’eternità. A lui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli”.

Queste formule acquistano oggi un rilievo sorprendente, ora che da appena cento anni abbiamo una migliore conoscenza delle dimensioni inimmaginabili del tempo. Tutti hanno udito parlare di un evento che si può dire solo con una metafora non priva di ironia: Big Bang, la grande esplosione che sarebbe avvenuta tredici o quattordici miliardi d’anni fa, e che forse, peraltro, non sarebbe stata ‘il’ cominciamento, ma ‘un’ cominciamento del tempo. Quanto alla fine, una fine che porrebbe termine a tutto, totalmente, non ne abbiamo alcuna idea: ben sappiamo, ad esempio, che la terra vedrà un termine, connesso esso stesso alla storia del sole, ma terra e sole sono soltanto punte di spilli nella realtà totale del cosmo nel suo tempo e nel suo spazio. Più profondamente, l’idea stessa di fine non comporta necessariamente un senso: perché il movimento dell’Universo dovrebbe arrestarsi, invece di durare indefinitamente in balia a mutamenti successivi? E che cosa vuol dire “arrestarsi”? Giungere ad una immobilità in cui ogni elemento fosse definitivamente incastrato in un sistema, trovando in esso il suo posto? Che cosa può significare? Oppure arrestarsi vuol dire “scomparire”? L’ultima palpitazione del reale sarebbe allora un tuffo nel nulla, come la prima era stata un’uscita dal nulla?

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In altri termini, si può rilevare che l’uomo è sempre alla ricerca delle sue origini pur non potendo raggiungerle. Allo stesso modo, tutto ciò che egli fa implica che ci sia un fine, un senso, una ragione d’essere e di agire, dei risultati significativi, ma tutto ciò sfugge ad una comprensione soddisfacente. In fondo, durante la sua vita, e nella migliore delle ipotesi, sembra che l’uomo non realizzi altro che delle “sequenze” significative nel qui e nell’ora. Sono certo dei percorsi di lavoro, di incontro, di politica…ma, in fondo, non conducono in nessun luogo. Eternità del mondo, eterno ritorno…L’uomo sarebbe allora nel mondo come un trovatello, in cerca di un’identità…perché chi gliela potrebbe dare?

Il cristianesimo di oggi propone una risposta. Se il Dio vivente ed eterno crea, cioè se fa sì che ci sia essere laddove non c’era nulla, e se una storia comincia e continua, invece dell’immobilità del nulla, è perché egli vuole comunicare al massimo ciò che è e che possiede. Una volta dato inizio al reale, la meta progettata è una partecipazione quanto più possibile alla vita di Dio, e questa partecipazione ha un Nome: Gesù Cristo risuscitato.

San Paolo ci dice infatti: che egli è “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), che ha la “forma di Dio” e che è “eguale a Dio” (Fil 2, 5s.), e, dall’altra parte, che è il “primogenito di ogni creatura, per mezzo del quale tutto è stato creato” (Col 1,15-16), per cui il senso del tempo, di tutti i tempi, è di “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”(Ef 1, 10). Questa veduta di Paolo non dissolve ai nostri occhi il mistero delle origini né quello della fine. Trovandoci all’interno di questo mondo, non abbiamo a disposizione un concetto per dire un cominciamento assoluto, cioè un momento del tutto iniziale del tempo, e una dipendenza al livello stesso dell’esistenza. Abbiamo forse delle immagini – per esempio, quelle di Michelangelo sul soffitto della Sistina….Tuttavia ci è possibile affermare ciò di cui non siamo in grado di abbracciare le dimensioni: “Gesù Cristo è il Primogenito di ogni creatura”. Per quanto concerne la fine, c’è un po’ più di chiarezza: possiamo immaginare e perfino concepire uno stato di felicità che ponga totalmente in atto tutto ciò a cui non oseremmo neppure sperare. Ricordo qui con emozione ciò che , in una intervista concessa al termine della sua vita, Giulietta Masina diceva della sua vita coniugale con Federico Fellini: «Non voglio parlare per lui, sono fatti suoi, ma per me, per me è stata una così bella avventura che vorrei che non finisse mai». La vera felicità non stanca, perché ha attivato e attiva tutte le nostre capacità di essere, di dare, di ricevere – e in comunione con gli altri. Possiamo considerare, comprendere un po’, desiderare questa pienezza, ma non possiamo conoscerne il momento, il kairos . Quando e perché il tempo, in quanto successione e storia, giungerà al suo compimento? Su ciò, come sul Mistero del cominciamento, possiamo affidarci serenamente a Dio: « riunire l’intero universo sotto un solo Capo: Gesù Cristo».

Salvati dalla Speranza

Quindi, la nostra percezione contemporanea del cosmo ci fa presentire l’infinito della speranza. Essa è alla misura di questa storia immensa, i cui mutamenti spesso tragici ritmano un percorso che non verrà meno e che culminerà nella Venuta del Signore. Non professiamo un “catastrofismo illuminato”: sappiamo dove andiamo, e proprio questo dovrebbe aiutarci molto nell’ analizzare il mondo e intervenire in esso, dandoci il coraggio di contestualizzare il male immenso del mondo e la libertà peccatrice all’interno di una dinamica positiva di grazia e di desiderio amorevole. D’altronde, ricorrere oggi alla speranza globale ci permette di affrontare in modo diverso la questione della salvezza personale, che ha talmente paralizzato i nostri antenati, minati interiormente dal giansenismo. La speranza, lo sentiamo oggi, non può essere che per tutti, secondo le illuminanti spiegazioni di Urs von Balthasar[7]: la Scrittura ci rifiuta ogni “sapere” sul numero degli eletti, ma autorizza una “speranza universale”, che semplicemente si riassume in questo: se spero la salvezza da Dio, io che non ne sono più degno di un altro, come potrei non sperarla per tutti i miei fratelli? O, in termini negativi: se non spero per tutti, con che diritto spero per me? Anche questo avrà conseguenze sulla prassi e il pensiero cristiani.

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Dio è Amore”

La prima enciclica che ha scritto Benedetto XVI si intitola Deus Caritas Est. Mai un papa aveva fatto un’enciclica con questo titolo: Amore è il nome proprio di Dio. Questo sembra scontato ma non era ancora stato messo in rilievo nel modo più conveniente. Se tale è il nome proprio di Dio, che cosa ci accadrà ? Durante la messa si dice “Dio onnipotente ed eterno”. Dio per la preghiera della liturgia cristiana è un Dio onnipotente ed eterno. Il contrario di ciò che noi siamo. Di fronte ad una persona onnipotente ci inginocchiamo. Però se dicessimo “Padre pieno di amore…” oppure “Dio che ami gli uomini…”. Durante duemila anni, abbiamo messo al primo posto l’onnipotenza e l’eternità, se mettessimo l’amore, la bontà, ci sarebbe un’altra mentalità, un’altra atmosfera. Ora il papa dice “Dio è amore”. Allora riformiamo un po’ tutto a partire dall’idea dell’amore.

Dovremmo pensare l’amore più profondamente: vorrei indicarne qualche elemento, tentare cioè una piccola fenomenologia dell’amore.

L’amore tra l’uomo e la donna

Dove trovare la prima immagine dell’amore? Ma è chiaramente l’amore dell’uomo e della donna. La Bibbia comincia non dalla creazione dei monaci, ma con la creazione dell’uomo e della donna. La Bibbia finisce non in un monastero, ma con una fidanzata che scende dal cielo e che va ad unirsi al fidanzato che è Cristo. Si comincia con un uomo e una donna e si finisce con un uomo e una donna, anche se trasfigurati. Infine, il centro del Libro è il Cantico dei Cantici. Dalla Genesi all’Apocalisse, passando per il Cantico, c’è quindi un primato della figura delle nozze, che ha senso solo se non si disprezza la realtà umana, da cui si prende le mosse. Se perdiamo un riferimento effettivo a questo dato iniziale, in cui tutto è presente: la tenerezza, la sensibilità, il corpo, il dono, la morte e la resurrezione, possiamo dire di essere ancora all’interno della teologia? Ma, più profondamente, siamo ancora all’interno dell’umanità? Se andiamo al cinema, se leggiamo un romanzo o una tragedia, troviamo che tutto gira intorno al sesso, al nutrimento e alla morte; oserei dire: anche la liturgia. In altri termini, la teologia non esige forse, a titolo di fondamento essenziale, la realtà e i simboli dell’amore?

Mi chiedo se non ci sia in ciò un mutamento fondamentale, che è per l’appunto in corso di attuazione. La civiltà del Logos, nella quale viviamo dalle origini del Cristianesimo, privilegia il tema della Verità e quindi la figura del filosofo, amante non della donna ma della sapienza, cercatore della verità pura, al di là del sensibile e fuori da questo mondo. Nel cristianesimo, ciò ha prodotto il primato del monaco, un certo allontanamento dagli elementi anche buoni dell’immagine del mondo nella prospettiva di raggiungere l’aldilà, una percezione privilegiata degli elementi “gnostici” del Vangelo (sin da Clemente d’Alessandria : lo “gnostico”; in Giovanni Crisostomo: il vero ”filosofo”). Mi sembra tuttavia estremamente significativo che un san Tommaso d’Aquino, il teologo dell’essere e dello spirito, abbia chiesto prima di morire di mangiare “delle aringhe come ce n’erano a Parigi”, e che abbia allora cominciato il Cantico dei Cantici: così ha finalmente rivelato la sua umanità. Promuovere una teologia centrata sull’agape non sarebbe forse, di fatto, intravedere, alla luce della Rivelazione, una reinterpretazione di ogni cosa nella prospettiva di questo Mistero, che è grande, come dice san Paolo.

Se parliamo di Dio amore e se vogliamo essere concreti, allora la base che sarà trasfigurata è la base umana. E dunque le persone sposate non sono di seconda classe, perché sono all’inizio, forniscono un’immagine della fine e mostrano l’essenziale del rapporto. In questo senso il celibato, che pure ha il suo valore, non è uno stato superiore, non è la regola di vita. E’ uno stato di vita che corrisponde ad una certa intuizione di Dio

Ciò non ci dispenserà dal riprendere e serbare la riflessione speculativa su Dio, Padre Figlio e Spirito Santo, sul mondo e l’uomo, ma non si dovrebbe prendere in considerazione un cambiamento di paradigma? Volendo esprimere quest’ultimo col linguaggio dei sensi, potremmo dire che dobbiamo passare dal primato dell’occhio, organo della vista e segno del pensiero, a quello del tatto, collegato all’amore. Dal punto di vista della Chiesa, della sua natura e della sua istituzione, che cosa comporterebbe adottare il paradigma dell’amore tra uomo e donna?

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L’amore: ascolto e parola

Il paradigma dell’amore valorizza la parola, non in primo luogo come contenuto intellettuale, ma come mutuo riconoscimento: chiamare col suo nome qualcuno che si ama e udirlo pronunciare il proprio nome. Ho avuto altrove occasione di dire che la tappa finale dell’ominazione consiste probabilmente nell’avvento della parola amorevole: c’è stato ‘uomo’ quando un animale ha potuto pronunciare il nome di quella (di quello) ch’egli (ella) ama[8]. E riguardo alla conoscenza, il paradigma dell’amore pone in primo piano l’ascolto dell’altro, il rivolgersi all’altro: l’orecchio e la voce, organi dello scambio. Ne consegue che la verità vera, il Logos puro, non avviene che nel dialogo: ancor prima che si crei un consenso su una proposizione dipendente dal logos, la verità si manifesta e matura nella parola ascoltata e risposta. C’è quindi un primato della testimonianza, della proposta, del racconto, mentre d’altra parte la verità che vi è contenuta conferisce realtà e struttura allo scambio.

Sin da ora sperimentiamo segni di questa evoluzione della mentalità cristiana. Nell’ambito della teologia, siamo testimoni e attori di un riavvicinamento tra posizioni che si erano a poco a poco reciprocamente allontanate: così, non può darsi riflessione seria sulla fede dove manca la preghiera: teologia e invocazione procedono insieme. La liturgia, come racconto e celebrazione del dono di Dio e dell’ autentica risposta umana in Gesù Cristo, è il luogo, la fonte e il criterio dell’intelligenza della fede. La Sacra Scrittura, letta nella Chiesa e meditata nella lectio divina, è ineludibile, perché racconta l’avventura tra Dio e gli uomini, la nostra. Non per questo la ragione umana è svalutata, ma i suoi punti d’appoggio sono certo diversi da quello che erano: lo speculativo si aggancia al narrativo, non il contrario. Il primato va al lato poetico, sensibile, immaginativo dell’uomo, all’ampiezza della sua memoria.

È qui, io penso, che troviamo la radice dei dialoghi che perseguiamo oggi: ecumenico, interreligioso: si tratta di riconoscere l’interlocutore come una persona (o comunità) umana, cristiana, degna in tutto di rispetto; allora si ascoltano e si scambiano testimonianze, in primo luogo per arricchirsi del loro apporto, per offrire con generosità il nostro, e solo in secondo luogo per giungere eventualmente ad affermazioni comuni o simili, sulla fede, o sulla religiosità, o semplicemente sull’uomo. Per illustrare questa affermazione nell’ambito ecumenico, vorrei dire che forse la Chiesa unita e riconciliata alla quale aspiriamo somiglierà molto alla Chiesa attuale, nel senso che continuerà a trattarsi di comunità e di confessioni cristiane diverse, dai linguaggi diversi, ma in atteggiamento di mutua testimonianza e accettazione. Saranno riuscite a ridurre le opposizioni che le dividono, ma serberanno le loro diversità, in termini di linguaggio, di liturgia, di diritto. Potremmo chiederci peraltro se il primato dell’amore come riconoscimento e scambio non abbia a modificare un poco la metodologia dell’ecumenismo: già ci sono stati molti riavvicinamenti riguardo alla Scrittura e alla sua interpretazione. Dobbiamo forse attendere l’unanimità speculativa assoluta in materia di liturgia per poter celebrare insieme?

L’amore: dare e ricevere

Dovremmo meditare a lungo la dinamica dell’amore, fatta di ‘dare e ricevere ’. Questa dinamica è collegata alla parola: c’è, tra l’uomo e la donna, tra loro e Dio una domanda e una risposta. Amare è rispondere a questa domanda, dare quindi la propria vita perché l’amato, gli amati vivano, e ricevere da lui, da loro, la vita che a loro volta ci offrono: ‘morte’ a se stessi e ‘risurrezione’ insieme. L’amore è molto legato alla morte perché amare è dare la vita, è darsi. Non ogni ‘morte’ infatti è collegata al peccato; è in primo luogo connessa al dono, perché dare, in un primo momento, è perdere, ma il vangelo ci dice che «chi perde la propria vita la guadagnerà».

Quando un ragazzo inizia ad avvicinarsi ad una ragazza, le fa dei piccoli regali e ne aspetterà altri. Che cosa è un regalo? Il regalo è un simbolo che dice “la mia vita è tua”. Perché invitare un amico a pranzo? Un pranzo è la vita perché il cibo è vita. Invitare qualcuno a pranzo, preparargli un pranzo significa dirgli: “Ti do la vita”. Ti do la vita in tutto se sono sposato, ti do la vita in diversi modi se sono un amico, ti do la vita anche se non sono sposato né amico perché tu sei un

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essere umano e dunque tu hai diritto che la mia vita sia condivisa con la tua. L’amore non esiste senza la morte, cioè dare la vita. Guardando la nostra vita ci rendiamo conto che alcune volte siamo stati costretti ad andare al di là di quello che avremmo voluto: capiamo che la vita è fatta per essere data. Ma anche ricevuta. Accetto che la vita venga da un altro e non soltanto da me. Quando parliamo di sacrificio, non si tratta di spandere il sangue, ma è ciò che normalmente si fa: dare la vita. La radice di tutto questo è la Trinità: in Dio c’è sempre questo processo di dare e ricevere. Dio amore significa come un flusso immenso, eterno.

La morte a se stesso per dare e ricevere appartiene dunque alla condizione metafisica del reale, dal primo protozoo fino alla Santa Trinità. E nel mondo frantumato in cui siamo, non c’è solo da dare, ma da perdonare. C’è in questo una immensa pista per la reinterpretazione delle verità fondanti della fede: pista in cui peraltro siamo già oggi ampiamente entrati. C’è anche il principio di un’apertura positiva sul rapporto tra l’umanità e la Chiesa. Se è legittimo e vero discernere dove e come sussiste la vera Chiesa, potremmo chiederci se il Regno non è laddove c’è scambio di amore: da quando Gesù è morto e risuscitato ed ha mandato lo Spirito nel mondo, ogni amore è senz’altro trasfigurato a motivo della latenza cristica e del dono dello Spirito: il Regno è là dove c’è l’amore…e abbiamo tanti esempi di questa presenza dell’amore sotto tutti i cieli del mondo.

L’amore come storia

Perciò l’amore è essenzialmente storia. Ho notato prima che quando si guarda all’indietro la storia, verso il momento storico della Pasqua, non si conferisce alla durata un proprio spessore. Infatti, si afferma che con la Pasqua del Cristo tutto è stato compiuto; il solo valore rimanente sarebbe la vigilanza, e gli eventi salienti sarebbero soltanto quelli in cui siamo venuti meno a questa attesa. Se invece guardiamo verso la Venuta ultima del Cristo, la memoria essenziale è quella dell’amore dato e ricevuto e di ciò che è stato costruito per mezzo suo, sul piano sia umano che cristiano. La memoria non è solo drammatica, essa accompagna la crescita dell’uomo. L’amore nasce, cresce, decresce, riparte e finalmente approda.

Il futuro della Chiesa non sta nella ripetizione di verità che sono autentiche, ma un certo scambio, un certo dare e ricevere, una certa invocazione, una certa memoria, un raccontare, una vita comune, una vita scambiata. Tutte le istituzioni dovranno essere ripensate sotto questa luce della comunicazione dell’amore.

L’infinito dell’amore

In definitiva, l’amore è di per sé infinito: non ci sono limiti, né alla tenerezza, né alla sensibilità, né allo scambio, né al dono di sé. L’amore, come nuova e principale chiave di lettura, in primo luogo per pensare, per quanto ci è possibile, l’infinito dell’amore di Dio: nessuno sfugge ad esso e ogni cammino può condurvi, perché tutti partecipano in qualche modo al disegno cristiano di Dio. Ma anche per costruire un’antropologia, interpretare il Cristo, ideare istituzioni cristiane. Il campo è immenso. Possiamo evocare a questo proposito la coppia perfetto-imperfetto. Il perfetto appartiene al livello del logico (intellettuale, giuridico…); può provocare uno sforzo per raggiungerlo, ma anche generare un’angoscia nella misura in cui non lo si raggiunge personalmente, ma anche perché è, di fatto, escatologico: neppure la Verità è una, data una volta per tutte. All’opposto, l’imperfetto è apertura all’infinito del desiderio[9].

Il peccato alla luce dell’amore

Il peccato può essere anch’esso rivalutato alla luce dell’amore. Lo si può definire e catalogare, a partire dai mancamenti: trasgressione dei comandamenti di Dio; mancato profitto nell’esercizio delle virtù. E tale ricerca non è inutile, ma a condizione che venga inserita nella sua essenziale prospettiva: un’offesa all’amore di Dio e degli uomini. Tale è la prospettiva della Legge cristiana, come la definiscono lo scriba di buona volontà e Gesù stesso nel vangelo di san Marco, a mo’ di conclusione della missione del Signore (12,28-34). Per illustrare ciò con un esempio, mi richiamerò

La Tenda n° 16 – luglio 2010

al celebre dipinto di Rogier van der Weyden: il Giudizio finale, nell’Ospizio di Beaune, che illustra la parabola del vangelo di Matteo nel capitolo 25. Sotto lo sguardo del Cristo risuscitato seduto sul trono, l’Angelo pesa due uomini. Al di sopra della testa del più leggero, prossimo ad entrare nel Cielo, una piccola bandiera indica: “virtutes”, mentre, per il più pesante, votato all’inferno, si legge sulla bandiera “peccata”. Queste parole rimandano all’ammirevole costruzione della morale cristiana, edificata alla luce delle etiche aristotelica e stoica che il Nuovo Testamento qua e là riecheggia. E tuttavia, dovendo illustrare la parabola di Matteo del Giudizio finale, non sarebbe stato più pertinente mettere in qualche parte del dipinto la frase stessa del vangelo: «tutto ciò che avrete fatto al più piccolo dei miei, lo avrete fatto a me»? Questa essenziale didascalia è purtroppo assente anche nel Giudizio finale di Michelangelo alla Sistina o in quello di Signorelli nella cattedrale di Orvieto, e ciò rischia di indurre in errore i numerosi visitatori di queste opere straordinarie, che però sono prive del testo evangelico. La verità morale non perderebbe nulla con questa valorizzazione del comandamento dell’amore; difatti, noi ci induciamo più o meno facilmente a trasgredire una legge o a mancare di virtù: ma offendere l’amore è insopportabile a colui che ama. E non saremo giudicati sul perfetto equilibrio delle nostre virtù, ma sull’intensità dell’amore.

E che cosa diremo di Dio in se stesso, Padre, Figlio e Spirito Santo, in questa illuminazione dell’Amore?

In questa breve analisi dell’amore[10], collegata alla Speranza e visibile nella persona di Gesù Cristo, non ho fatto che riprendere alcuni grandi orientamenti attuali presenti un po’ ovunque nella teologia, la spiritualità e l’evangelizzazione, incentrati sulla relazione, l’incontro, il racconto,il simbolo. Ritengo infatti che il paradigma dell’amore consenta di raccogliere e di dare un senso a tutto un insieme di convincimenti, di prassi e di ricerche che sono già in opera nella Chiesa. Queste vanno proseguite, tradotte nella dottrina e nell’istituzione della Chiesa, e anche nell’orientamento della sua missione. Questa è già e sarà probabilmente sempre più la caratteristica peculiare del “periodo vaticano”, consentendo di costruire una Chiesa della Carità e di rendere in essa testimonianza a Gesù Cristo.

La Tenda n° 16 – luglio 2010

 

Il Momento Di Dire Basta Luis Infanti De La Mora

 

Sono Luis Infanti, vescovo di Aysén, nella Patagonia cilena, dove Hidroaysen (impresa di cui Enel possiede il 51% di azioni) porta avanti un progetto di costruzione di 5 grandi dighe per la produzione di energia elettrica e di una linea continua di trasmissione di 2.300 chilometri. Un progetto che potrebbe avere significativi effetti sul bilancio dell’Enel. Cent’anni fa la Patagonia era una terra quasi abbandonata, considerata inutile e abitata solo da pochi indigeni. Oggi, molti occhi ed interessi si volgono verso la regione, e molti sono gli investimenti che essa attrae. Gente di ogni parte del mondo compra terre in Patagonia. Perché?È una regione ancora vergine, ricchissima di acque dolci (superficiali e sotterranee, oltre a immensi ghiacciai), con una natura esuberante e gente tranquilla. È una terra di grande fascino e mistero, piacevole da abitare. E noi stiamo lavorando affinché venga riconosciuta “patrimonio dell’umanità”, in quanto riserva di vita del nostro pianeta.

Il debito ecologico dei Paesi ricchi

In tempi come i nostri, in cui ogni nazione è costretta a perseguire il fine di una significativa crescita annuale del Pil, per la quale le risorse naturali e l’energia costituiscono elementi decisivi e indispensabili, l’umanità si trova di fronte a una delle sfide più importanti della sua storia: quella del cambiamento climatico e della crisi ecologica.

Questa crescita sembra non avere limiti, soprattutto nei Paesi del primo mondo, in cui la sovrabbondanza, lo spreco, il consumo sono illimitati.

Il 20% della popolazione mondiale consuma infatti l’80% di tutti i beni disponibili del pianeta, mentre i poveri, i più vulnerabili, vivono nell’esclusione (tanto dai beni quanto dai processi decisionali). Sono le “eleganti” schiavitù moderne, con le vittime che ricevono a volte un po’ di carità (necessaria), ma sono messe a tacere quando chiedono giustizia e rivendicano un sistema economico mondiale giusto e solidale.

È preoccupante e ingiusto che tutti i Paesi del primo mondo (i Paesi cosiddetti sviluppati) abbiano contratto un debito ecologico: che, cioè, avendo i loro consumi di base (alimenti, acqua, energia…) superato le capacità rigenerative e produttive dei loro ecosistemi, essi attingano essenzialmente ai Paesi dell’Africa e dell’America Latina. I Trattati di Libero Commercio (Tlc) sono la chiave per sottrarre ai Paesi poveri i loro beni naturali, in maniera legale e democratica.

Siamo convinti che, in un pianeta limitato, lo sviluppo illimitato sia impossibile. Infatti, se gli attuali 7 miliardi di persone del pianeta consumassero quanto si consuma in Italia, in Spagna o negli Stati Uniti, avremmo bisogno, oggi, di tre pianeti terracquei. Ma ne abbiamo solo uno!

Quindi, chi determina le politiche dei Paesi ricchi ha la principale responsabilità, insieme alle élite dei Paesi poveri, di mantenere in vita una cultura consumistica che oltrepassa lungamente la sostenibilità del pianeta, saccheggiando ed esaurendo i beni naturali.

Fermare l’ecocidio

In tempi come i nostri, in cui ogni tipo d’energia scaturisce dalla natura – tanto le energie non rinnovabili e contaminanti quanto le energie rinnovabili e pulite – la principale causa della produzione di gas a effetto serra risiede nell’azione umana. Il 70% delle emissioni contaminanti dipende dai Paesi industrializzati dell’emisfero Nord (Usa, Canada, Europa, Cina), i maggiori responsabili del riscaldamento globale.

Chi soffre maggiormente del saccheggio energetico è la natura. La nostra terra e le nostre acque sono malate: gridano di dolore!

Pertanto, così come abbiamo detto “basta!” alle atroci violazioni dei diritti umani, oggi diciamo “basta!” all’ecocidio della terra, che consideriamo un organismo vivo.

Noi siamo gli esseri coscienti e intelligenti del pianeta, o almeno dovremmo esserlo: noi e la natura ci apparteniamo mutuamente, abbiamo un’origine e un destino comuni.

L’attuale crisi ecologica ci rende consapevoli di vivere una profonda crisi di civiltà, i cui segni più evidenti sono la crisi ecologica, la crisi energetica, la crisi alimentare, la crisi economico-finanziaria, la crisi etico-morale. In una parola, viviamo una crisi umanitaria globale, una crisi di civiltà.

La Tenda n° 16 – luglio 2010

Dalla Patagonia una svolta storica

L’attuale crisi di civiltà ci dovrebbe far capire che siamo a un punto di svolta nella storia dell’umanità, un punto in cui non possiamo più credere di essere i padroni – né di altri esseri umani né dei beni essenziali per la vita (terra, acqua, aria) – bensì i responsabili o, meglio, corresponsabili dei beni della terra, che sono di Dio, il quale li ha creati in beneficio di tutti, perché vengano condivisi equamente, soprattutto con i più poveri.

Giovanni Paolo II ci metteva in guardia dal delitto di appropriazione di questi beni: “Su ogni proprietà privata grava un’ipoteca sociale” (Messico, gennaio 1979).

Spogliare di questi beni i poveri significa attentare contro i loro diritti, renderli schiavi, togliere loro la vita.

Possiamo restarcene silenziosi e tranquilli se più dell’ 80% delle acque del Cile, il 96% delle nostre acque in Patagonia, è stato ceduto, a tempo indeterminato, a Endesa- Spagna, ora proprietà dell’Enel? Il nostro silenzio sarebbe una forma di complicità con questa ingiustizia, una nuova forma di colonizzazione che violerebbe la “sovranità” stessa del Cile, dal momento che il 32% dell’Enel appartiene allo Stato Italiano.

Endesa-Spagna è entrata prepotentemente in Patagonia, come moderno colonizzatore, imponendo il proprio potere economico e politico per realizzare megaprogetti distruttivi, anche comprando le coscienze delle persone attraverso una propaganda ipocrita e scorretta. Ci addolora che le persone vengano trattate come merci, vendute al miglior offerente: ieri agli spagnoli, oggi agli italiani,

domani a chissà chi. Da qui la ferrea opposizione della cittadinanza e dei politici “non venduti” nei confronti dei progetti di privatizzazione e commercializzazione dell’acqua della Patagonia, oggi per costruire dighe, domani per vendere acqua imbottigliata, ecc.

Oggi, quindi, lo Stato Italiano ha un potere considerevole sull’acqua del Cile, e potrebbe averlo anche sulla sua energia. Cosa direbbero il governo e il popolo italiani se la loro acqua fosse, per più dell’80%, di proprietà della Cina, del Giappone o degli Stati Uniti?

In Cile la proprietà, la distribuzione e la gestione dell’acqua sono in mano ai privati. Enel, avendo il monopolio sull’acqua, potrebbe fare nel nostro Paese ciò che vuole. Ci chiediamo se farebbe, oggi, in Italia (o in Europa), progetti come quelli ideati in Patagonia. Con questi megaprogetti distruttivi in Patagonia, Enel corre il rischio di presentarsi al mondo come un’impresa socialmente scorretta.

L’Enel e lo Stato Italiano hanno l’enorme occasione di facilitare una svolta storica, mostrando ad altri Stati e ad altre multinazionali come si possa e si debba considerare l’etica, e persino la spiritualità, per:

  • umanizzare l’economia;
  • creare rapporti di giustizia, solidarietà ed equità tra i popoli, anziché di “dolce” dominazione;
  • respingere l’uso dell’acqua come nuovo simbolo e mezzo di colonizzazione;
  • trattare la natura con un senso di rispetto, di protezione e di comunione, e non in maniera aggressiva e distruttiva;
  • dire “No” all’ecocidio della Patagonia, riserva di vita dell’umanità;
  • aiutare il Cile a crescere in democrazia, considerando che la Costituzione Politica dello Stato, approvata in forma antidemocratica nel 1980 dal generale Pinochet, sottrae al popolo cileno la parola e il diritto a partecipare alle decisioni importanti, per assicurare una struttura di potere centrata su un élite politica, economica e giudiziaria;
  • rispettare la sovranità dello Stato cileno sui beni vitali;
  • riconoscere agli stessi cileni il diritto ad amministrare i propri beni.

L’urgente bisogno di una conversione ecologica

In Cile, dove attualmente si registrano più di 25 importanti conflitti relazionati all’acqua, sta assumendo sempre più forza un movimento che riunisce settori sociali, politici, culturali, religiosi,

etnici, artistici, studenteschi, ecc., allo scopo di recuperare l’acqua come un bene comune, strategico, non privatizzabile né commercializzabile. Non vorremmo che un domani, forse non lontano, a causa dell’acqua si alterasse la pace sociale in Cile, come già successo in altri Paesi.

La Tenda n° 16 – luglio 2010

Per l’Enel, che dispone del potere economico e tecnologico adeguato, si apre quindi la vantaggiosa possibilità di promuovere e sviluppare, anche in Cile, energie pulite, come la solare, l’eolica, la mareomotrice, la geotermica, la mini- idroelettrica, ecc., tutte con enormi potenzialità. Sul nucleare, in Cile, vogliamo mettere una croce sopra.

Abbiamo fiducia nel fatto che l’Enel si assumerà la grande responsabilità etica, politica, tecnologica, ecologica, umana e morale di sviluppare una energia sostenibile in Cile e di assicurare la pace sociale nella Patagonia.

Questo è il motivo della nostra presenza qui: dare voce a oltre 60 organizzazioni che condividono queste preoccupazioni e questi ideali, perché questa voce arrivi alle menti e ai cuori dei cittadini dell’Italia e dell’Unione Europea, condizionando le decisioni del governo e dello Stato. Rispettate la Patagonia! E sviluppate anche qui, in Italia e in Europa, con forza e convinzione, una cultura della vita e della sobrietà: un maggiore rispetto e una più profonda solidarietà verso i poveri e i Paesi sottosviluppati, e un uso sostenibile dell’acqua, degli alimenti, dell’energia e di ogni bene del creato.

C’è urgente bisogno di una conversione ecologica, attraverso profondi cambiamenti negli stili di vita. Sarà per noi un onore e un piacere se ci farete visita in Patagonia per dare credito a ciò che abbiamo presentato. Consegnerò la mia Lettera pastorale su questo tema al presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Enel.

E pongo le seguenti questioni:

1. La partecipazione di Enel ai progetti in Patagonia deve essere considerata una nuova forma di colonizzazionedei Paesi poveri, anche nel caso tali progetti avessero il beneplacito del governo di turno, l’appoggio di capitali cileni e il favore delle leggi. Che ne è della coscienza etico-sociale ed ecologica dell’Enel in questo megaprogetto?

2. Il Cile è un Paese ad alto rischio, per terremoti, vulcani, prosciugamento di laghi, ecc, come abbiamo dolorosamente sperimentato anche ultimamente. Vorrei sapere perché nello studio d’impatto ambientale non appaiono gli elevati costi economici che si presenterebbero in caso di catastrofi, qualora venissero danneggiate le dighe in Patagonia o la linea elettrica di 2.300 chilometri che attraverserebbe più della metà del Cile, e se gli azionisti sono stati adeguatamente informati sul tema.

Il Gruppo “La Tenda” è formato da:

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Francesco Cagnetti, Monteverde Roma

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Lorenzo D’Amico, Torre Angela Roma

Maurizio Firmani, Monteverde Roma

Chiara Flamini, Torre Angela Roma

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Caterina Monticone Aurelio-Boccea Roma

Luigi Mochi Sismondi, Torre Angela Roma

Liliana Ninchi, Ostia Nuova Roma

Marco Noli, Ostia Nuova Roma

Solange Perruccio, Monteverde Roma

Umberto Sansovini, Ostia Nuova Roma

Gianfranco Solinas, Martina Franca Taranto

Antonella Sorressi, Ostia Nuova Roma

Micaela Sorressi, Ostia Nuova Roma

Daniele Trecca Ostia Nuova Roma

  1. Ho tentato recentemente di affrontare questa domanda ad un livello piuttosto ampio in un libro che ha per l’appunto questo titolo: Che cosa ci è permesso di sperare? Parigi, Cerf, 2009.
  2. Il testo è in Documentation catholique, 58 (1976), p34.
  3. Die Erziehung des Menschengeschlechfs (1780)
  4. C’è qualcosa di simile in sant’Agostino, per il quale “il tempo costituisce l’esperienza della lacerazione originaria del peccato”, e, potremmo aggiungere, della grazia riparatrice. Cf J.Lagouanère, ”Au commencement était la fin: approche de la notion de fin dans le livre XXII de la Cité de Dieu de saint Augustin”,in BLE, t.CX (2009), p.307
  5. In questo articolo tratterò solo la prima tappa, relativa al periodo che sta iniziando, che chiamo per questo motivo “periodo vaticano”, essendo quello precedente “periodo niceno”
  6. Di fatto, così come il Concilio di Nicea ha avuto luogo neI 325, solo dopo tre secoli di vita e di riflessione cristiane, il Concilio Vaticano II affonda anch’esso le sue radici in certe correnti di pensiero del passato più o meno recente che riprende e prolunga. L’immagine del futuro ne è già precisata. Non siamo all’interno di una congiuntura arbitraria.
  7. Espérer pour tous, trad. francese Parigi DDB, 1987.
  8. Que nous est-il permis d’espérer? op.cit. pp. 215-220.
  9. Ho parlato di questa coppia in La Sagesse et la Prophétie, Parigi, Cerf, 1999, pp.25 e 103.
  10. Ci sarebbero molte altre cose da dire, per esempio sul tema della povertà, sulle tracce di Maurice Zundel e di altri.