Lettera 15 (Seconda Serie)

La necessità del confronto nella Chiesa , tra i cristiani, é sempre più evidente, ma dove i cristiani possono confrontarsi?

Quali sono i luoghi previsti perché i cristiani, le singole comunità cristiane, il popolo di Dio, possano incontrarsi per crescere in un confronto stabile e responsabile?

L’Eucaristia domenicale può restare a lungo così blindata nella sua struttura da impedire che le questioni nodali dell’esistenza vengano portate a comunione, per un autentico esercizio del discernimento, in ascolto dell’Evangelo? “Nessuno ha avuto da sé solo il dono della verità, essa è stata promessa come il frutto dell’intero processo di comunicazione-comunione orizzontale e verticale” (La Tenda – 1a serie – lettera 24,7)

Nessun convegno potrà mai sostituire il luogo “naturale” e stabile del confronto-comunione. In attesa che vengano riattivati gli ambiti preposti ad una ricerca responsabile comunitaria, cerchiamo di pensare e attivare luoghi che facciano crescere e coagulare i doni già presenti.

Questa è la ragione che ci spinge ad insistere nell’incontrarci, a scambiarci queste pagine e a invitare a giornate di riflessione comune. Eppure non vogliamo perdere di vista ciò a cui dobbiamo tendere, cioè ridare all’Eucaristia domenicale la possibilità di essere fonte e culmine della vita cristiana.

Sommario della 15° lettera: resoconto dell’incontro avvenuto il 31 gennaio sul tema: E’ possibile una morale condivisa? :

– Quattro interventi iniziali che hanno presentato alcune problematiche partendo da realtà quotidiane

– Relazione di Carlo Casalone ( il l testo è una trascrizione della registrazione, non rivisto dall’autore).

– Domande e osservazioni dai partecipanti;

– Risposte di Casalone.

Con questa lettera vi invitiamo poi al prossimo convegno del “La Tenda”:

Sabato 29 maggio 2010 dalle 8,45 alle 13,00

presso la Parrocchia di Santa Monica a Ostia

Piazza di Santa Monica, 1- Ostia Lido, Roma

 

Ghislain Lafont

monaco benedettino e teologo

(insegnante alla Gregoriana, a s. Anselmo, alla Pierre-qui-vire e … _______________________________________________________________________________________________________________________________per i quattro continenti)

commenterà:

Paolo VI: “Edificare la Chiesa della carità”

La Tenda n° 15 – febbraio 2010

1. 1 Storia di Alessandra

di Chiara Flamini

Vi racconto un pezzo della storia di Alessandra, che mi ha cambiato.

Alessandra, 14 anni, figlia di tossicodipendenti, confida a Francesca, una mia amica e sua insegnante che è incinta. La mia amica non riesce da sola a portare il peso di quello che le è stato raccontato e me ne fa partecipe. Così inizia un lungo e denso cammino con Alessandra prima attraverso un dialogo difficile e serrato per accompagnarla nella scelta di ricorrere ad un consultorio, poi attraverso i mille passi che condurranno all’interruzione di gravidanza. Il cammino è durato un mese e mezzo: poco per riaversi dallo choc della notizia e decidere che cosa fare. Ma i tempi sono strettissimi perché una minore che non vuole dire ai genitori che è incinta deve passare attraverso un iter complicato in cui diversi adulti si assumono le responsabilità di ogni passo. Prima l’ecografia: l’accompagna la mia amica e poi firmiamo io e Francesca per ritirare il referto. Poi il riconoscimento della minore, che non ha i documenti, per cui è necessaria la firma di due adulti: io e un’altra insegnante. Poi i colloqui con l’assistente sociale e la psicologa, la visita ginecologica, il colloquio con il giudice tutelare che si assumerà la responsabilità della decisione, poi gli esami in ospedale e infine l’interruzione di gravidanza. La scansione così rapida dei passi da fare non dà il tempo ad Alessandra di fermarsi a riflettere. Ma, soprattutto, l’assistente sociale, presa dalla fretta dell’iter non permette ad Alessandra di maturare una decisione sua: il consultorio, dal primo incontro con la ragazza, ha deciso per l’interruzione di gravidanza. Cerchiamo, io e Francesca, di aiutare Alessandra a prendere una decisione autonoma presentandole le diverse possibilità… Anche se poco a poco ci rendiamo conto che la ragazza non ha molte possibilità: la situazione familiare non le permetterebbe di allevare un bambino, darlo in adozione appena partorito richiederebbe l’accoglienza in una casa famiglia, che a Roma è difficilissimo trovare, con in più i tempi strettissimi che abbiamo (se la decisione non viene presa entro le 12 settimane, non si tratterà di una decisione ma di un cammino obbligato). In più non sappiamo come reagirebbero i genitori, poco presenti nella vita di Alessandra e nello stesso tempo molto gelosi. Di fatto Alessandra vive una solitudine grandissima: noi due siamo le uniche persone adulte con cui ha voluto parlare.

Nel mese e mezzo in cui ho accompagnato Alessandra non mi sono mai chiesta che cosa fosse eticamente giusto… Quello che mi sono chiesta ogni giorno è che cosa fosse il bene per lei, passo dopo passo. Ma non si è trattato mai di una domanda teorica, astratta: il bene di Alessandra non poteva essere svincolato dalla realtà: la realtà familiare drammatica, quella della scuola che non se ne è voluta fare carico (Francesca ha agito in modo autonomo), quella dei servizi sociali che non hanno mai risposto alle sollecitazioni della scuola, quella del consultorio che prospettava solo una strada, quella dei servizi presenti a Roma, che avrebbero potuto farsi carico della situazione ma che sono pressoché inesistenti. Il bene che intravedevo era quello di accompagnarla a prendere una decisione che fosse sua e non di altri: solo così avrebbe forse potuto farsene carico durante tutta la sua vita. E poi quello della vicinanza in un momento così drammatico, dell’affetto. Una vicinanza e un affetto che non sarebbero venuti meno, qualsiasi decisione avesse preso.

L’altra domanda che mi sono fatta all’inizio, appena saputa la notizia, era se fosse giusto che i genitori non sapessero. Se io fossi madre, vorrei sapere ciò che mia figlia sta attraversando, vorrei esserle accanto. Abbiamo parlato a lungo con Alessandra della possibilità di dirlo alla mamma: è stata irremovibile, non ha mai vacillato rispetto a

questa decisione. Qual è il bene? Non si poteva non rispettare la decisione così ferma di Alessandra.

In questa ricerca del bene per Alessandra non siamo state sole: un gruppo di persone si sono confrontate durante il mese e mezzo, cercando di capire che cosa fare, quale strada percorrere, passo dopo passo. Poi i passi li abbiamo fatti noi tre, ma sono stati cercati da tante persone. Dunque un bene comune, un etica comune?, non solo nel senso di accettato/a da tutti, ma accettato/a perché ricercato/a insieme, passo dopo passo. Ma non basta questo cercare insieme: è necessario poi portare insieme i pesi che il bene comune comporta, oltre a condividerne le ricchezze. In questa storia tanti amici si sono confrontati, mi e ci hanno sostenuto durante il cammino, hanno fatto tutto quello che potevano con generosità. In questa storia un amico ha passato un pomeriggio accompagnando un’insegnante con il braccio rotto a fare il riconoscimento di Alessandra e aspettando fuori dal consultorio, non sapendo quasi niente di quello che stava accadendo, per pura amicizia e solidarietà. Anche questo è stato un bene per Alessandra che ha sperimentato il bene gratuito di una persona che non la conosceva e che l’ha riaccompagnata in macchina a casa, rischiando, perché di nascosto dai genitori… Un altro amico, che non la conosceva, ha aiutato a portarle una bicicletta, quando tutto era ormai passato, segno di un bene che è andato oltre la tragedia e il male di un’interruzione di gravidanza vissuta a soli 14 anni.

Suicida per il permesso di soggiorno

di Luigi Mochi Sismondi

(dall’Independent del 10/05/2005)

Un padre che sacrifica la propria vita per salvare quella del figlio: una scelta atroce, un gesto coraggioso e al tempo stesso disperato. Ma la scelta di Manuel Bravo, 35 anni, un angolano immigrato illegalmente in Gran Bretagna quattro anni fa insieme alla famiglia, è stata ancora più atroce, coraggiosa e disperata per le circostanze in cui si è svolta. Manuel era in un centro di detenzione per clandestini di Leeds, insieme al figlio l3enne Antonio, entrambi in attesa di essere deportati in Angola in base alle severi leggi britanniche su immigrazione e asilo politico. Comprendendo che non c’era più nessun modo legale di fermare il provvedimento, l’uomo avrebbe intravisto un’estrema soluzione: togliersi la vita.

Suicidandosi. avrebbe abbandonato a se stesso il figlio, ma lo avrebbe salvato dalla deportazione: in quanto minorenne, il ragazzo ha diritto di rimanere nel Regno Unito fino alla maggiore età e successivamente avrà buone possibilità di ottenere l’asilo che ora gli viene rifiutato. Così è avvenuto. Manuel Bravo si è tolto la vita, impiccandosi nella stessa cella che condivideva con Antonio, il quale ha assistito alla scena e non la scorderà finché campa. Scoperto il fatto, le autorità britanniche hanno sospeso il provvedimento di deportazione nei confronti di Antonio e lo hanno affidato a un’associazione religiosa che gli cercherà temporaneamente una famiglia adottiva. Il “sacrificio” ha ottenuto l’effetto desiderato.

Le risposte:

Di fronte ad una notizia come questa l’atteggiamento che vediamo più frequentemente intorno a noi è quello della completa chiusura, non si vuole vedere, non ci si crede, il PRE-GIUDIZIO porta ad una completa CECITA’, per non interrogarsi sulla sofferenza dell’altro la si nega. In questo modo si rifiuta di mettere in discussione la propria giustizia e quindi di fatto si rende impossibile ogni etica.

In questa riflessione non prendiamo in considerazione questo atteggiamento pure così comune cercando di confrontare degli atteggiamenti che abbiano in un certo modo “fatto i conti” con l’etica.

Una seconda risposta è quella di chi prende in considerazione la notizia, ci pensa, la elabora, se ne fa carico, questo può portare a due atteggiamenti diversi:

  1. Il primo atteggiamento è quello di chi di fronte a questa notizia si trincea dietro la regola, la legge, ad esempio dice “possiamo accettare gli immigrati regolari ma non i clandestini”, sceglie così di non approfondire, di non fare la fatica di vedere il singolo caso, di non entrare in relazione con le persone. E’ l’atteggiamento dichiarato del nostro governo attuale, sì all’integrazione ma nella legge, con il corollario inevitabile di gommoni, di morte, di respingimenti, di prigioni in Libia e C.P.T. in Italia. Quanto questo riferimento alla legalità sia sincero o nasconda una vera paura dello straniero e un semplice interesse elettorale a sollecitare i peggiori interessi egoistici non è il caso di approfondirlo adesso.
  2. Il secondo atteggiamento è quello di chi invece vedendo la sofferenza dell’altro ne vede anche il volto, unico e personale, se ne fa carico nell’amore e sceglie la fatica del discernimento, del distinguere caso da caso. Chi dà questa risposta non si rassegna all’irrilevanza e quindi ad una oggettiva complicità e decide di agire nella concretezza per aiutare l’altro, magari partecipando all’elaborazione di leggi meno ingiuste, o aiutando chi è nella condizione di quel padre a resistere o cercando di cambiare la situazione nei modi in cui questo gli è possibile.

Facilmente possiamo capire che potevamo sostituire la notizia con cui abbiamo aperto con molte altre, dalla morte del “barbone” a Piazza Vittorio due giorni fa (che poi era un immigrato da anni impegnato in una organizzazione di Pakistani per i diritti degli immigrati), alla morte scelta da Welbi o scelta per Eluana. Di fronte a tutto questo possiamo trincerarci dietro la legge, a delle regole morali “naturali” o a una pretesa etica cristiana, oppure possiamo sforzarci di vivere facendoci carico della sofferenza dell’altro e con questa responsabilità decidere di agire concretamente anche assumendoci il rischio dell’errore.

Caratteristiche del comportamento etico:

  1. La libertà e l’evoluzione. Un comportamento etico non si rifà ad un codice né ad un insieme di regole, è un libero orizzonte vitale in cui muoversi sulla base dell’amore per l’altro e, per i credenti, sull’esempio di Gesù. Ne consegue che esso non è dato per sempre ma è determinato dal tempo e dal luogo, ed in continua evoluzione (io credo verso la compiutezza). Quello che valeva nei secoli passati è oggi superato, vedi l’accettazione della schiavitù o della sovranità data da Dio al re o la condanna della democrazia o la necessità del potere temporale della chiesa e così probabilmente quello che oggi appare immutabile sarà sorpassato domani. Quello che rimane è proprio l’orizzonte di riferimento dato dall’amore e dalla profonda accettazione dell’altro.
  2. Discernimento e responsabilità. Un comportamento etico assume la fatica del distinguere, del capire, del vedere in ogni situazione la persona, assume su di sé la responsabilità dell’altro nell’amore, e, da questa responsabilità, accetta il rischio dell’azione concreta per cambiare le cose.
  3. Ricerca comunitaria. Un comportamento etico non è frutto della sola riflessione personale, né della conservazione della tradizione o della legge, è una elaborazione che deve coinvolgere la comunità, dentro e fuori la chiesa, in un vitale interscambio col mondo. (Ad esempio di ciò che i cristiani debbono alla riflessione laica vediamo la grande attenzione che anche la chiesa ha assunto sulla difesa dell’ambiente e la responsabilità che in questo abbiamo verso la terra e i nostri discendenti.)

Una esperienza personale

di Maria Dominica Giuliani

Negli ultimi giorni di mia madre pensavamo che l’edema polmonare fosse l’effetto di una reazione alla chemio. Alla proposta del personale sanitario di farla entrare in “terapia intensiva” eravamo convinti che potesse essere utile per superare la fase di emergenza.

Una volta giunta al reparto – abbiamo saputo in seguito – lei aveva cercato di opporsi con tutte le sue forze all’intubazione. È sempre stata una donna combattiva.

I medici chiedevano a me se continuare i trattamenti e io dicevo sempre si, proprio perché sapevo del suo attaccamento alla vita, fino a quando, una decina di giorni dopo, non mi hanno detto che il cancro era arrivato all’interno del “santuario”, come viene chiamata la parte più protetta del midollo cerebrale, allora ho detto di non stimolarla più inutilmente.

Così, un pomeriggio di domenica, poco dopo la nostra breve visita quotidiana, ha avuto una crisi cardiaca finale.

Oggi, con la consapevolezza successiva, ritengo che i medici già sapessero che per lei erano gli ultimi giorni di vita. Era proprio necessario quel trattamento intensivo ed invasivo in quel reparto, nel quale, fra l’altro, non poteva avere noi vicini se non pochi minuti al giorno?

Solidarietà all’Africa

di Caterina Monticone

Ho partecipato a quattro campi estivi di lavoro tra il 2004 e il 2008, tutti in Africa: Etiopia 2004, Camerun 2005, Repubblica Democratica del Congo, per due anni di seguito, 2007/2008.

Sono entrata in contatto con centinaia di persone: moltissimi bambini, adulti, qualche anziano, parecchi cooperanti, religiosi o meno.

Tutti abitanti, stabili o temporanei, di una realtà estremamente povera in paesi messi duramente alla prova da condizioni di vita impossibili: storie di guerra, di carestie, di malattie devastanti.

Tutte queste persone facevano parte, oltre che delle cronache e dei reportage letti su libri e sui giornali o visti in televisione, del mio personale panorama di ‘solidarietà internazionale’, nel quale mi andavo misurando insieme ad un piccolo gruppo di amici.

Alcune figure particolari:

1) Sister Jan Mary, infermiera, suora di origine olandese, dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta, attiva in un orfanatrofio alla periferia di Adis Abeba, circa 250 bambini sieropositivi, privati dei genitori a causa dell’AIDS, spesso abbandonati dai pochi familiari superstiti.

Una donna energica, abituata a trattare con il dolore e con i bambini anche molto piccoli, determinata nelle cure, meno nel progettare il ‘dopodomani’ di quei bambini.

Dopo quindici giorni di collaborazione e di vita in comune volevamo partire con la promessa di non finire lì il nostro rapporto: ci tassiamo e vi finanziamo un medico per un giorno alla settimana, per tutto l’anno. Vi procuriamo farmaci antiretrovirali per i bambini.

La risposta è stata no: “quando il governo vorrà curare i bambini, daremo loro le medicine. Non possiamo curare solo i nostri, e tutti quelli che sono fuori da queste mura? E niente medico, non ci servono soldi”.

Non abbiamo capito, qualcuno si è anche innervosito…………

2) Padre Francesco, a Kinshasa, è responsabile per la congregazione dei concezionisti di alcune strutture di accoglienza per orfani e ragazzi di strada, talvolta sieropositivi. I bambini sono spesso abbandonati perché ritenuti ‘stregoni’ ovvero invasi da una maledizione che fa abbattere sulla famiglia di origine immani sciagure. Molti sono soli perché dieci anni di guerra hanno distrutto ogni relazione familiare.

Qui l’emergenza è educativa, affettiva e formativa, per dare un futuro a questi ragazzi. E i concezionisti lavorano sodo.

Lavoriamo con loro attraverso il gioco, l’espressività, la didattica. Quindici giorni sono poco o nulla, ma bastano a farci conoscere la loro grande sofferenza emotiva.

Anche qui, prima di partire, decidiamo di impegnarci economicamente per continuare a sostenerli. Proponiamo di comprare coperte e lenzuola nuove per i letti, qualche gioco comune da mettere nello spazio esterno; vorremmo finanziare l’intervento di uno psicologo che lavori con i ragazzi più sofferenti per un certo periodo.

Va bene per le lenzuola e per i giochi, ma i soldi dello psicologo andranno quasi sicuramente a pagare un nuovo serbatoio per l’acqua presso il seminario locale dei giovani sacerdoti.

Non abbiamo capito, qualcuno si è anche innervosito…………

3) Suor Renata ed Alberto collaborano nella Parrocchia di Mont ‘Ngafula, nella periferia di Kinshasa. Li abbiamo conosciuti il primo anno che siamo stati in Congo ed il secondo anno siamo loro ospiti presso la struttura di una casa di accoglienza per ragazze abbandonate. Alberto è un ex militare congolese, vissuto a lungo in Italia e sposato con Stefania, di Firenze. Lui ha tremila attività di cui si capisce poco. Si capisce che Suor Renata, missionaria dalla Brianza, donna energica ed esperta, con una grande umanità e trent’anni di Africa sulle spalle, guerra compresa, si fida molto di lui.

Alberto e Stefania si prendono cura di noi e cercano di aiutarci nel nostro lavoro, concordato con Suor Renata.

Nella parrocchia vengono portate avanti molte attività di sostegno alla gente povera del territorio, soprattutto interventi di carattere sanitario gratuito. Si va anche a portare aiuto nelle carceri di Makala, una sorta di girone infernale dentro la città.

Ovunque ti giri, c’è qualcosa da fare, qualcuno da aiutare e loro sono lì, su tanti fronti, troppi, forse, tanto da sembrare a volte dispersivi.

Poi ci portano a casa dei loro sostenitori locali, due ricchissime ville, dotate di ogni comfort e di sorveglianza, gruppo elettrogeno e filo spinato. Uno dei due è un politico.

Dal primo ci chiedono di celebrare la messa, dal secondo ci chiedono di pregare nella cappellina interna alla casa, visto che con noi c’è il sacerdote; poi si cena abbondantemente.

Il politico è presidente dell’organizzazione non governativa legata alla parrocchia, che raccoglie aiuti anche in Italia.

Anche a Roma conosciamo persone ricche, ma lì ci è sembrato diverso.

Non abbiamo capito, qualcuno si è anche innervosito…………

Noi che discendiamo da una cultura europea colonialista e la mettiamo ferocemente in discussione, su quale base etica formuliamo i nostri giudizi, in casi come questi? Riusciamo a modificarli e a farli crescere nella condivisione e nel servizio?

C’è una gradualità, per esempio ‘pedagogica’, nell’etica della giustizia?

Infine viene da pensare che ‘cooperazione allo sviluppo’ e ‘solidarietà internazionale’ siano irrinunciabili priorità, ma allo stesso tempo entrino in circuiti che assomigliano molto al business. Quale etica?

  1. Carlo Casalone: Relazione:

Ho cambiato mestiere dai tempi in cui scrivevo su Aggiornamenti sociali, ero a Milano e mi interessavo di temi di etica in particolare collegati con la medicina dato il mio precedente lavoro: prima di entrare nei gesuiti infatti facevo il medico. Quando sono entrato nella Compagnia i miei superiori mi hanno detto, visto che avevo questa competenza e una certa sensibilità per le problematiche, di studiare morale e etica teologica. Così si sono collegati vari fili della mia vita finché l’anno scorso ho cambiato servizio e mi è stato affidato l’incarico di seguire i gesuiti in Italia e Albania, perché la provincia italiana dei gesuiti include anche l’Albania.

La mia idea è che noi siamo chiamati ad ascoltare cosa avviene nella nostra coscienza e nella coscienza degli altri. L’etica è un universo che ha molte dimensioni, molte componenti: c’è un’etica normativa che ha a che fare con le regole, con le norme ma questo non è il centro dell’etica. Quello che è qualificante nel discorso e nell’esperienza soprattutto dell’etica è piuttosto l’esperienza della coscienza. Per cui al cuore di tutto il discorso etico c’è il vissuto della coscienza morale. La coscienza morale è quella che poi elabora delle norme nella storia, nella tradizione, nel tempo attraverso uno sforzo comune che si concretizza storicamente in alcune formule ma le norme sono frutto delle coscienze. Ciò che viene prima, di fatto, è l’esperienza della coscienza che elabora il proprio vissuto e cerca di mettere in luce quello che consente alla vita di svilupparsi e cerca di negare e quindi di proibire quello che è distruttivo per la vita. Questo è il processo della formazione delle norme. Questo conflitto tra legge e coscienza è un conflitto che noi sperimentiamo, ma che non va alla radice del problema: innanzitutto perché le norme sono frutto delle coscienze, in secondo luogo perché il modo in cui la coscienza legge le norme è un modo che riconosce nelle norme un valore che viene indicato nella norma. “Non uccidere”, che valore esprime? Proteggi la vita. “Non mentire”? Proteggi il valore della verità. Significa anche proteggere la vita, perché non mentire all’epoca del decalogo significava non rendere falsa testimonianza in un tribunale in cui c’è la pena di morte: alla fine è sempre la vita, ma la vita è mediata attraverso questi diversi valori che la norma indica. La norma indica dei valori, ma sono valori che la coscienza ha sperimentato come validi, come qualcosa che ha un valore, perché vede che protegge la vita. E la coscienza matura cosa fa? Legge le norme e i valori che queste indicano e di fatto è quella che assume la norma rifacendone il processo di elaborazione: non lo prende come un dato di fatto, astratto e dogmatico. La coscienza dice: “Come mai la storia dell’umanità alla fine è arrivata a dire che questo è proibito altrimenti distruggi la convivenza umana?”. Cerca di appropriarsi della norma in termini di valore: rifà in prima persona quel processo di elaborazione della norma che indica il valore che gli altri hanno fatto prima e ne esamina la validità, la consistenza. L’appartenenza alla comunità nazionale è un valore perché consente al gruppo umano di organizzare la vita sociale, ma oggi non si esprime più in termini di culto alla bandiera, per esempio; meglio, lo si fa ancora ma è molto contestabile. Piuttosto si cerca di riflettere su cosa voglia dire abitare in un contesto nazionale: se sia il sangue o il suolo che fanno i diritti della cittadinanza. Siamo sollecitati a ricomprendere cosa significa appartenere a una comunità umana che vive in un Paese, in una cultura. Quindi c’è un’evoluzione storica nella comprensione del valore, il quale valore però è lì e la forza della tradizione è quella di indicarci quelli che sono i riferimenti attraverso i quali la convivenza umana si sviluppa e si mantiene. Al cuore di tutto questo c’è l’esperienza della coscienza. Prima di darvi un riscontro puntuale sui vari casi che sono stati enunciati, vorrei dire che tali casi nella loro drammaticità mettono in luce la conflittualità, le contraddizioni più profonde che ci capita di incontrare, mettono in luce dei conflitti di valore che appunto sono un’esperienza quotidiana di una coscienza sensibile, tutto questo mi lascia ben sperare: il fatto che ci siano persone che si accorgono della contraddizione che la coscienza è chiamata a vivere, significa che siamo in presenza di una coscienza ben avviata. Perché ogni giorno viviamo ogni tipo di conflitto di valore, ma neppure ce ne accorgiamo. Se qualcuno comincia ad accorgersi dei conflitti di valore vuol dire che ha una sensibilità profonda e una prospettiva seria.

Conflitto di valore è il pane quotidiano della vita etica perché le norme sono tante ma non possiamo promuovere contemporaneamente tutti i valori perché abbiamo un limite, siamo limitati.

Poiché siamo in cerca di vie più che di risposte, proviamo a enunciare qualche criterio, qualche spunto che ci permetta di avere in mano qualche strumento per leggere eticamente, per interpretare nella prospettiva dell’etica, le situazioni che ci capitano.

Nel momento centrale del discorso dell’etica c’è la coscienza. Qual è il momento cruciale dell’esperienza etica? Provo a esprimere l’esperienza della coscienza facendovi questa differenza: che differenza c’è tra il rapporto con le cose e il rapporto con le persone? Per quanto riguarda il primo, quando incontriamo delle realtà nel mondo imprimiamo loro il significato che ci torna più comodo nella situazione in cui siamo per affermare ed espandere il nostro progetto di vita. Se incontro un sasso, delle pietre, posso affilarle per andare a caccia perché ho fame, o posso farne una casa perché ho freddo. La pietra non reagisce, si lascia lavorare in funzione di quello che è il mio bisogno e si rende entro certi limiti strumento disponibile al mio progetto di vita: la caccia, la casa.

Quando incontro una persona non avviene la stessa cosa: mi trovo di fronte qualcuno che non si lascia imporre un significato passivamente così come fanno le cose. La presenza dell’altro nel mio orizzonte trasforma la relazione che io ho rispetto alle cose. Perché la persona reagisce. I filosofi dicono: quando io tocco una persona ne sono toccato, quando guardo una persona negli occhi, sono guardato. Viviamo nell’incontro con l’altro un momento di reciprocità, di interazione, molto diverso da quello che avviene quando incontro un albero, una pietra, o un’altra realtà materiale. Questa reciprocità che noi percepiamo fin dai suoi aspetti più sensibili cosa dice? Dice che l’altra persona è in qualche modo uguale a me, come me in quanto è portatrice di un progetto di vita che ha lo stesso spessore del mio. Non solo io posso interpretare l’altra persona ma anche lei mi interpreta. Non solo: se le impongo un’interpretazione non è detto che a lei stia bene, può reagire. Qual è il momento critico? Che cosa succede? Succede che io a questa persona che incontro sono costretto a rispondere e il contenuto della risposta che io do, cioè come la considero, dipende da tanti fattori: ti considero

bene, ti considero male, non ti considero. Ma tutte le opzioni hanno come denominatore comune il fatto di essere già una risposta a cui la presenza dell’altro mi costringe. Non posso non rispondere. La parola rispondere è molto importante perché è la parola che è nella radice della parola responsabilità che è la parola chiave dell’etica. Quindi se le cose posso usarle liberamente, quindi sono libero, nell’incontro con l’altro la mia libertà diventa responsabilità. Non perché io decida di essere responsabile ma il semplice fatto

che l’altro sia davanti a me mi vincola a essere responsabile, a dare necessariamente una risposta anche se il contenuto di questa risposta dipende da me.

Quindi l’istanza della responsabilità è un’istanza di cui l’altro è portatore ed è in qualche modo assoluta, dove assoluta vuol dire che io non posso sfuggire: sono responsabile di fronte all’altro. Questo punto è fondamentale. Cosa mi chiede l’altro per diventare responsabile: mi chiede il pane se ha fame, le medicine se è ammalato, l’acqua se ha sete. Ma prima di tutto, ed è questo il punto qualificante del discorso, mi chiede di rivedere il progetto che sto portando avanti alla luce del fatto che lui è presente nel mio orizzonte e di sospenderlo per riconsiderarlo tenendo conto del fatto che lui è lì. Come poi venga rielaborato è un altro discorso, ma il punto cruciale è che mi si chiede questa disponibilità fondamentale di abbandonare il progetto che io sto portando avanti e di consegnarlo per riconsiderarlo alla luce della sua presenza: è una sorta di espropriazione di sé.

Questo è il punto in cui la libertà diventa effettivamente responsabile e io accolgo l’istanza dell’altro con il fatto di essere presente lì davanti a me. Faccio un esempio: se vado in Africa e incontro una suora di Madre Teresa che dice ‘noi ci prendiamo cura dei bambini’, la prima cosa che faccio è dire: beh prima di fare le vacanze a Ibiza, riconsidero il mio progetto di vacanze. Alla luce di questa presenza sospendo il mio progetto e lo riconsidero, dicendo: ho un mese di vacanza, le prime due settimane vado a dare una mano. E questo è un primo passaggio. Magari ho la mamma malata e non potrò andare in Africa, perciò quelle settimane che ho a disposizione me le gioco diversamente. Trascuro il fatto di andare in Africa. Scegliere è preferire: i valori sono sempre in concorrenza. Se faccio una cosa ne trascuro un’altra. Per dire un sì devo dire molti no, sofferti. Ma in realtà cosa è successo? È successo che prendendo questa decisione ho consegnato il mio progetto di vacanza, l’ho sospeso e in questo ho fatto un atto di apertura a quello che l’altro mi fa presente irrompendo nel mio orizzonte e ho modificato, con la libertà di cui sono capace, con la comprensione che ho, il mio piano. Può anche darsi che la presenza dell’altro non significhi che io risponda immediatamente ai suoi bisogni, però il punto determinante è che è un’esperienza interiore, fuori non si vede niente, è un passaggio interiore della coscienza. È questo il passo dalla libertà alla responsabilità che implica una sospensione del mio progetto per riconsiderarlo alla luce della presenza dell’altro. La presenza dell’altro, prima del pane e dell’acqua, mi chiede la mia disponibilità ad essere veramente responsabile: mi chiede un atto di attenzione, di consegna di me. Questo è il passaggio determinante. In questo passaggio si coglie il contributo che l’altro realizza alla mia vita rendendomi responsabile, cioè pienamente umano. Nella Bibbia c’è l’esempio di Caino e Abele: Caino era fratello maggiore e figlio unico. Viveva in un mondo in cui poteva affermare se stesso nei confronti dei genitori: chi lo rende fratello? La nascita di Abele. È l’arrivo di Abele che lo costringe a tutta una revisione di vita che lui non sopporta per cui alla fine dice ‘lo faccio fuori’. Non sopporta la sua presenza nel suo orizzonte. Non sopporta di essere reso fratello in un modo di cui lui non è più capace di disporre. Abele scompagina gli equilibri della sua esistenza. Dio gli chiede perché sei abbattuto e irritato? Dio cerca di portare alla consapevolezza di Caino quello che sta vivendo e il

cammino interiore che si sta realizzando dentro di lui. “Perché sei abbattuto?”, cioè depresso e “irritato”, cioè arrabbiato, aggressivo. Sono le due forme della rabbia: contro se stessi o contro l’altro che poi diventano, se passano all’azione, eliminazione dell’altro. Perché non consegna il suo progetto, perché non riesce a rivedere la sua vita all’interno di questa nuova situazione che l’arrivo di Abele ha determinato.

Le cose di cui parlavamo prima, cosa diventano? Il luogo in cui si media la mia relazione con gli altri: dal modo in cui uso le cose, si vede che immagine ho degli altri.

Se io consumo tutta l’acqua sul pianeta, la vita degli altri non è possibile. La questione climatica ci fa vedere molto chiaramente come i beni materiali sono i luoghi della mediazione delle relazioni con gli altri. Quindi le cose hanno un valore soprattutto nella misura in cui sono i luoghi concreti in cui si articola la relazione con le altre persone.

Per sintetizzare: la presenza dell’altro pone una novità di significato rispetto al mio modo di essere al mondo. La presenza dell’altro non introduce una nuova possibilità tra le altre, ma è un senso nuovo di possibilità che noi già abbiamo. Questo mi sembra proprio lo specifico dell’esperienza etica: io sono chiamato a rispondere di cosa faccio della presenza dell’altro dichiarandolo soggetto come me, libero, responsabile, portatore di un progetto di interpretazione del mondo come lo sono io o negandolo come soggetto e in questo modo io dichiaro il senso del mio vivere, sono responsabile di quello che io sono e divento.

Questo è il nucleo dell’esperienza della coscienza ed è un nucleo unitario, la coscienza è un’esperienza unitaria che definirei in due modi, due grandi momenti di unità. Uno è quello tra conoscere e decidere, nel senso che la dimensione della conoscenza della realtà e del volere vanno insieme e sono strettamente connessi. Non è possibile decidere senza conoscere la situazione. Se non riconosco la presenza dell’altro, non mi accorgo della sua presenza non sono neanche in grado di prendere decisioni a questo proposito. Il volere e il decidere non possono arrivare, se non attraverso un processo di conoscenza.

L’altra cosa che è molto importante, è che quando ho un contenuto su cui decidere, ad esempio andare in Africa o andare a Ibiza, non sto decidendo solo sulle cose ma anche su di me perché quelle decisioni spostano la mia presenza nella rete di relazioni in cui sono. È come decidere di fare un passo: se faccio un passo, io vi vedo da un’altra prospettiva. E cambia anche il modo in cui voi mi vedete: quindi gli equilibri sociali si spostano. Decidere è decidersi. Questa è una cosa fondamentale che qualifica l’etica rispetto a tutti gli altri saperi: perché i saperi tecnici e i saperi scientifici riguardano le cose. Il conoscere etico riguarda e implica la persona. Il modo con cui comprendo l’altro dipende molto dal modo in cui io comprendo me stesso: faccio un esempio, mi è capitato di vedere un film o leggere un libro a molti anni di distanza, l’effetto è stato molto diverso. Libro e film non sono cambiati, ma il modo in cui lo leggo è completamente diverso, quello che ci trovo è diverso. Vale anche per la Bibbia: i padri dicono “la Scrittura cresce con chi la legge”. E questo è un punto fondamentale per l’etica: il modo in cui comprendo l’altro è sempre sullo sfondo di quello che io comprendo di me. Comprendere è comprendersi. E questa è una diffusione progressiva che costruisce il tessuto delle relazioni umane: qualunque decisione prendiamo si diffonde nel tessuto sociale e nel nostro modo di stare in relazione, in un modo inavvertito ma molto incisivo. A me fa ridere quando sento ‘questa è una scelta eticamente sensibile’: non ci siamo! Perché tutto è eticamente sensibile, tutto dice il senso della vita che sto cercando di perseguire e tutto avviene nelle relazioni con gli altri e qualunque decisione è una decisione su di me anche se piccola. Fumare o non fumare, divertirsi o lavorare: tutto questo ha un significato etico, perché lì dentro si

gioca il mondo delle mie relazioni nel senso finora detto. Allora verrebbe da dire: se tutto è etica siamo sempre sotto pressione, perché dire che alcuni aspetti sono eticamente sensibili significa dire che alcuni sono eticamente insensibili, e che rispetto a questi si può fare qualunque cosa. Ma non è vero. Il rischio che ci troviamo di fronte è che tutto è etica e non possiamo fare niente che è fuori dalla nostra responsabilità. Da qui la necessità di discernimento: perché la nostra conoscenza, libertà e responsabilità sono limitate. È vero: qualunque cosa facciamo è nel raggio della nostra responsabilità ma noi non siamo responsabili di tutto perché siamo esseri finiti. Siamo creature, non

creatori. Possiamo capire, scegliere, essere responsabili di alcune cose ma di molte che ci sono nel mondo noi non possiamo farlo. Possiamo fare qualcosa. Questo è il primo discernimento: il riconoscimento del limite. Quello che è effettivamente possibile per me, qui e ora. Per cui il Concilio di Trento diceva ad impossibilia nemo tenetur. Cioè là dove comincia l’impossibile per me finisce l’etica perché ci sono degli spazi in cui non sono più libero, in cui non conosco, che non capisco, che quindi non posso ritenere sotto la mia responsabilità. Dove finisce la mia possibilità di capire, di essere libero, e responsabile, finisce l’etica. Anche la tradizione conosce delle espressioni come ignoranza invincibile. Primo luogo di discernimento: il possibile. Si sta delineando il criterio fondamentale dell’etica cioè di compiere il maggior bene concretamente possibile per me, qui e ora, compreso come bene e compreso come possibile. Questo è un criterio, le vie come dicevamo prima, fondamentale. Io sono chiamato a giocarmi radicalmente nel maggior bene concretamente possibile per me o per noi, se siamo una società, qui e ora, compreso come bene – cioè facendo uno sforzo per comprendere quello che è bene – e compreso come possibile – cioè quello che è nelle mie possibilità di azione. Primo luogo di discernimento: la consapevolezza del limite. Quindi giocarsi radicalmente in quel limite. Non in chissà quale altro ambito.

Il secondo luogo di discernimento è la molteplicità dei valori. Io, essere limitato, posso promuovere alcuni valori ma non altri: da qui la necessità di fare una gerarchia di valori sulla base dell’importanza, dell’urgenza delle circostanze concrete. Perché i valori sono in concorrenza: non posso promuoverli tutti simultaneamente. La norma me ne dice uno per uno nei diversi ambiti della vita: nell’ambito sociale il bene comune, nella medicina la vita e la salute. Ma non posso promuoverli tutti: ne derivano le scelte di vita. Se faccio il medico avrò particolarmente a cuore la questione della salute, se faccio il politico il bene comune, anche se forse bisognerebbe precisare cosa significa visto che sembra particolarmente in disuso.

I casi che ci sono stati esposti all’inizio, mostrano situazioni in cui sono presenti conflitti di valori.

  1. Domande ed interventi dei partecipanti:

Antonella – Nel campo della sessualità, c’è un comportamento unico tra cristiani e laici(vedi nel campo del controllo delle nascite, rapporti prematrimoniali). La parrocchia ha molta attenzione alla morale sessuale, poca alla giustizia

Lorenzo – 1Sam 17,38-39 David contro Golia. David rifiuta l’armatura, fatta per proteggerlo ma che lo paralizza per il suo peso e affronta Golia con la fionda ed i sassi, con quegli strumenti che valorizzano le sue forze; così nel campo etico, ciò che è utile a molti, può essere dannoso per alcuni.

Occorre partecipare o creare luoghi di confronto stabili tra cristiani, perché solo nell’abitudine al confronto, cresce una coscienza responsabile.

La regola d’oro “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”. Si può omettere il soccorso quando vediamo qualcuno investito da una macchina? Si può omettere il soccorso in mare(vedi i gommoni degli immigrati)?

Giuseppe – C’è una responsabilità che è capacità di dare risposta e che a volte ci trova paralizzati, incapaci di risposta.

A proposito di responsabilità, cioè capacità di dare risposta, di cercare una risposta, vedi Hannah Arendt, La banalità del male (Eichmann a Gerusalemme)

M.Dominica Un’etica condivisa, dove e quando è possibile?

Occorre intendersi sui termini usati, per poi potersi intendere sulle azioni, altrimenti, come spesso capita, si hanno priorità diverse, anche nelle stesse realtà ecclesiali

Massimiliano – Occorre costruire insieme una nuova base etica; non possiamo solo vivere di rendita, delle conquiste del passato; esiste una frammentazione delle ideologie e questo mi

spinge a rinunciare a quela sicurezza che è solo un rifugiarsi nel passato ed a cercare invece nel confronto una nuova base etica che è anche una riscoperta profonda di sé.

  1. Risposta di Casalone:

Mi sembra che le domande vertano intorno a quello che è poi il tema della giornata, l’etica condivisa. E quindi: come è possibile entrare in dialogo e cosa si può trovare di comune? Io vedo questa domanda collegata strettamente alla categoria di laicità. Da quanto ho cercato di esporre si vede abbastanza chiaramente che l’esperienza di coscienza e l’esperienza etica, che alcuni chiamano eticità che è diversa dall’etica del discorso che si fa sull’esperienza, l’esperienza etica è un fatto delle coscienze che ha a che fare con la relazione, quindi con l’incontro con l’altro, e con quello che succede dentro di sé nella trasformazione di quello che uno comprende e di quello che uno è capace di decidere liberamente e la responsabilità che nasce in quest’ambito. Questo è un fatto che io chiamerei laico: cioè io sto riflettendo attorno ad una visione della laicità che non è sullo stesso piano del credente, per cui si può fare una specie di contrapposizione tra laici e credenti. Ma c’è un’esperienza laica, cioè del laos, del popolo, che riguarda tutti, che è universale, che è l’esperienza di coscienza così come l’abbiamo descritta e che viene interpretata secondo tradizioni di pensiero e attraverso linguaggi differenti, di cui uno è il linguaggio delle religioni, l’altro è il linguaggio delle ragioni, culture, filosofie. Si è parlato di vita autentica: vita autentica, viene da Heidegger, è uno dei modi per parlare di una tradizione che interpreta quella che è l’esperienza di coscienza comune a tutti. Per cui sto dicendo che il fondamento dell’etica non è né la religione né la ragione ma è un’esperienza, un’esperienza che va descritta, che volendo ha il suo fondamento in Dio, per chi lo riconosce, ma non in quell’apparato religioso che è la traduzione linguistica, l’espressione verbale, l’insieme di mediazioni culturali, rituali, liturgiche, normative che riguardano poi una tradizione che dà forma all’esperienza di coscienza. La distinzione che cerco di fare, ed è lì che trovo un luogo di possibile base di condivisione dell’etica, è quella che si tende a chiamare la nuova laicità: il nuovo modo di intendere la laicità che è proprio questa esperienza della coscienza che è comune a tutti e che è l’anima di ogni religione. Per cui ci sono dei religiosi che vivono un’etica molto deficitaria: la fede non garantisce la correttezza etica. Ci sono dei non credenti, difficile usare questa parola, diciamo dei diversamente credenti perché è impossibile vivere senza fede, impossibile non credere. Nella Bibbia l’ateo non esiste: si dice crederai in un falso Dio, ma sei credente in un falso Dio. Esiste l’idolatra ma non esiste il non credente. L’ateo è un’invenzione contemporanea molto difficile da sostenere teoricamente come ha ben compreso il card. Martini quando ha detto facciamo una cattedra dei non credenti, perché è difficile sostenere, sia praticamente che teoricamente, la posizione del non credente perché in qualcosa tutti crediamo: la fede è un fatto antropologico non un fatto religioso. Tutti siamo chiamati a vivere un riconoscimento di questa esperienza profonda che facciamo della nostra coscienza e che ci porta a essere responsabili degli altri. È un fatto che riguarda tutti,

credenti e non, anche se poi ciascuno rende conto di questa esperienza con linguaggi e secondo modalità differenziate. Uno di questi linguaggi è quello della rivelazione, della tradizione giudaico-cristiana, in cui questa voce della coscienza, che tutti sentono, prende il nome di voce di Dio. Questo lo dice il Vaticano II quando dice: ogni persona ha dentro di sé una voce che è la voce della propria coscienza, ascoltando la quale si gioca la sua umanità. È la voce che tutti siamo chiamati a riconoscere e rispettare. La tradizione religiosa ci mostra come si può custodire quest’esperienza, darle una

formulazione, un’interpretazione di questa esperienza. Il soggetto etico è strutturalmente anteriore alla distinzione tra coscienza fondata sulla fede e coscienza

fondata sulla ragione. Per cui l’esperienza etica è l’anima della religione, è il luogo in cui scopro che c’è un Dio che mi chiama alla responsabilità. Ma questa è la rivelazione biblica: prima c’è l’Esodo, la chiamata del popolo alla liberazione della libertà, il cammino del deserto in cui viene data la legge, che ha una sua importanza, ma viene seconda la legge. Prima c’è l’indicativo della liberazione: Dio libera, esperienza fondamentale. Poi c’è l’imperativo: “Se vuoi custodire questa libertà segui la legge”. La legge custodisce la libertà: perché così ti metti in grado di accogliere la promessa che è il dono ricevuto. In un certo senso il nostro Dio genera la coscienza e poi si scopre che è un Dio creatore. La creazione è la proiezione sul cosmo di quel processo di umanizzazione che è l’emersione della coscienza del soggetto.

La parabola del samaritano esprime bene questa cosa: è la storia di uno che oggi chiameremmo diversamente credente, laico, miscredente, non fa parte della tradizione dell’ortodossia religiosa. Passa il sacerdote e non fa niente, passa il levita e non fa niente, hanno i loro progetti da portare avanti. Passa il samaritano: lo vede, si commuove e si prende cura di lui. Lo vede: conoscenza. Senza conoscenza non c’è modo di riconoscere l’altro. Si ferma: sospende il suo progetto, lo riassume tenendo presente il ferito che trova sulla sua strada e se ne prende cura con l’olio e il vino, con gli strumenti che ha nel suo tempo.

Che cosa si dice di questo samaritano? Che l’ha fatto perché Dio gliel’ha comandato? Che l’ha fatto perché in quel corpo ha visto Gesù? No. Si dice solo che era un “malamente” credente, perché i samaritani erano screditati. Questa è un’esperienza laica. Se poi andiamo al contesto di questa parabola, cosa vediamo? Vediamo che tutto nasce dalla domanda di uno scriba che aveva chiesto: “Maestro, cosa devo fare per ottenere la vita eterna?”. E finisce con questa indicazione di Gesù: “Vai e fa’ lo stesso”.

“Ama Dio e ama il prossimo”. “Chi è il mio prossimo?”. Prossimo, avverbio: chi mi è vicino. Gesù racconta la parabola del samaritano che crede in un Dio che non è il nostro. Gesù dice: “Chi si è fatto prossimo?”. Gesù trasforma la domanda: il problema non è amare il prossimo, non devi amare il prossimo, il prossimo è connaturale, fa parte della tua cultura, del tuo gruppo, del tuo sistema di difesa verso gli stranieri. Quello non devi amarlo. Devi amare l’altro, devi farti vicino a chi è completamente diverso. Il comandamento, forzando un po’ i termini, non è “ama il prossimo” ma è “farsi prossimo”: è amare l’altro laddove è diverso da te. Perché amare l’altro che è uguale a te lo fanno anche i pagani. Non c’è bisogno di nessuna fede. Però Gesù ci dice che quest’esperienza è un’esperienza che non fanno i credenti in quanto credenti ma che fanno tutti. Ma ci dice che il quadro di riferimento che aiuta a custodire la comprensione di questa voce è un quadro che assume il linguaggio religioso. È un’esperienza di Dio, è un incontro con Gesù Cristo. Come dire che il momento etico è all’interno dell’esperienza di fede e la fede e il linguaggio religioso ci aiutano a custodirlo, riconoscerlo e svilupparlo. Ma non è l’unico modo per custodire quest’esperienza fondamentale che io chiamo della nuova laicità e che è di tutti, di tutto il popolo. Poi ci sono diversi modi di rendere conto di questa esperienza. Questa mi sembra la base, come e dove, qui si tratta di istituire un dialogo tra le coscienze, di andare a quel livello che ci consente di pescare in quest’esperienza che poi in ogni tradizione religiosa assume dei connotati particolari: tutta la vicenda del rispetto della vita così come la concepiscono in Oriente è diversa da quella dell’Occidente ma anche noi abbiamo da imparare da loro.

Dentro la tradizione biblica mi sembra ci siano molti spunti. Ad esempio Matteo 25 il punto in cui al giudizio non si dirà “Tu hai conosciuto il Signore, oppure no?”. Questo è

irrilevante: se l’hai conosciuto nella pratica, tu ti sei fatto vicino a chi è nudo, affamato, prigioniero, ammalato. Il luogo del riconoscimento. Ma non solo: anche il famoso

giovane ricco (Matteo 19) che chiede cosa deve fare per avere la vita eterna. La risposta è segui i comandamenti. Quali? Quelli che riguardano il prossimo, non quelli che riguardano Dio, dice Gesù. E lui dice: “Ma questi li ho sempre seguiti”. Allora vendi

La Tenda n° 15 – febbraio 2010

quello che hai, dallo ai poveri e seguimi. Aggiunge un comandamento? No. Aggiunge una prospettiva di vita da cui quei comandamenti possono essere ulteriormente riconosciuti e approfonditi. Non dice che ci sono altri comandamenti in più che devi seguire. No: sono gli stessi ma si tratta di comprenderli in modo nuovo, più radicale, vedere come ti interpellano e questo lo fai seguendo Gesù. Cioè mettendoti nella prospettiva sul mondo che ha avuto lui, che ha dato la vita per gli altri, che ha sospeso completamente il suo progetto di vita consegnando se stesso sulla croce. Per quello Gesù non trasgredisce i comandamenti, Gesù compie i comandamenti: è vero che è sovversivo però non vorrei che questa sovversione fosse male interpretata. Non è il tutto della faccenda, perché Gesù trasgredisce alcuni comandamenti nel modo in cui allora erano compresi per ripristinarne una comprensione più profonda, più autentica. Trasgredisce il sabato? Sì. Ma vi obbedisce anche, perché è lui il sabato, il sabato di Dio: è lui che fa entrare l’umanità nel riposo di Dio.

Qualcuno potrebbe dire: ci hai detto che l’esperienza di coscienza è un’esperienza laica e che l’esperienza di fede non fa che interpretare, dare un linguaggio a questa esperienza di fondo. Allora perché crediamo, a cosa serve credere? Questo emerge anche dal libro di Enzo Bianchi, Per un’etica condivisa. A me sembra che la relazione con Dio in Gesù Cristo è una relazione fondamentale nel senso che ci aiuta a comprendere, come dicevo prima citando Matteo 19, non formula altri comandamenti ma ci mette in una posizione per cui possiamo comprendere di più l’uomo. La fede è l’orizzonte in cui avviene la nostra riflessione che non è un cortocircuito del pensiero per cui noi deduciamo dei dogmi contenuti della morale. Non è così. La fede fornisce una specie di luce se effettivamente seguiamo Gesù Cristo: vediamo quello che è più autenticamente umano, ciò che è più proprio dell’uomo e possiamo accompagnare meglio il nostro ragionare. Ci fa vedere quali sono i problemi etici e intensifica le nostre motivazioni nell’agire in questa linea. Ma questo avviene in un linguaggio che o è comunicabile per tutti oppure è un ghetto, una sacrestia, irrilevante, non cattolica detto in altre parole.

Io non so se dobbiamo “discontinuarci” dalla tradizione, non possiamo sradicarci dalla storia da cui veniamo. Tuttavia la linfa che circola in quelle radici va investita perché nuovi frutti emergano. Io credo che la tradizione sia una grande ricchezza, tuttavia la tradizione stessa ci dice che non dobbiamo leggere san Tommaso ma fare quello che ha fatto san Tommaso con gli autori che erano suoi contemporanei, che per noi sono alcuni secoli fa e che quindi non vanno bene, dobbiamo fare con gli autori di oggi quel processo che ha fatto san Tommaso. Rifare il processo, non mutuare i contenuti.

Ora, la comunicazione etica non è una comunicazione facile perché non si possono spiegare i contenuti, i valori non si possono dimostrare. Si possono indicare, testimoniare, ed è quello che fa Gesù con Zaccheo. Zaccheo continua a fare quello che faceva, non segue Gesù, non è chiamato a questo, ma i criteri che lui ha utilizzato

attraverso la testimonianza dei valori che Gesù gli ha offerto incontrandolo in quel modo inusuale, destabilizzante e sconveniente per Gesù, ha illuminato Zaccheo. Questa è una bella forma di comunicazione di valori, io non posso imporre i miei valori: posso dire perché sono validi, testimoniarli, rendere ragione del desiderio che ho di viverli e che anche gli altri li vivano. Imponendo dei valori, oltre al fatto che sono per loro natura non imponibili dato che non faccio che trasmettere non posso costringere con la forza qualcosa che ha a che fare con la libertà, che testimonianza do? Che i valori sono

sgradevoli e deboli, perché se li impongo vuol dire che non ho fiducia che si possano affermare da sé. È una testimonianza intrinsecamente contraddittoria quella di volerli

imporre perché i valori sono tali, valgono, e quindi attraggono. Se cerco di imporli, innanzitutto ti considero minus habens, e comunque ritengo che non possono essere apprezzati.

Io posso accompagnare la coscienza nei percorsi più drammatici: accompagnare significa che mi metto di fianco e comunico con la coscienza, per quello che la coscienza può cogliere, testimoniando ciò che vale, e ascoltando radicalmente, mettendo in sospeso il mio progetto. Mi sembra che il dialogo possa avvenire su queste basi, altrimenti è un dialogo strategico: io so già qual è la verità e vedo di capire come importela. Richiede una grande capacità di kenosis, di svuotamento interiore per accogliere l’altro, di sospensione delle proprie visioni per fare spazio, ospitare, consegnare se stessi avendo fiducia che se la verità è vera ha una sua forza. Non devo supplire alla debolezze di una verità con la forza, che se ritengo debole ritengo non sia vera. Nel dialogo devo anzitutto ascoltare la posizione dell’altro, coglierne le ricchezze e poi però approfondirne i limiti; solo così sarà possibile mettersi insieme per una ricerca capace di migliorare gli sforzi.

Per quanto riguarda l’etica sessuale è chiaro che è un grosso nodo dibattuto. Ci sono molteplici voci il problema è dove avviene questo: dove è possibile istituire dei luoghi di comunicazione sincera all’interno della comunità dei credenti, che siamo noi. Sta a noi, popolo di Dio, trovare i modi. Per quanto riguarda la fecondazione in vitro la Chiesa fa bene a vigilare perché le forme originarie del nascere, del vivere e del morire, al di là dei fatti normativi il vivere, sono fatti antropologicamente determinanti perché come si nasce e come si muore dice qual è il senso della vita in quanto ricevuta come dono da un Padre buono. Se noi ne facciamo un fatto semplicemente tecnico è chiaro che corriamo dei rischi. Se mettiamo gli embrioni nelle banche è chiaro che siamo a una deriva, come linguaggio stesso, economicista. C’è un’ambiguità. Fa bene la Chiesa a essere vigilante sulle forme originarie dei passaggi fondamentali dell’esistenza però ci sono molteplici opinioni nel popolo di Dio: ci sono università cattoliche nel mondo che fanno la fecondazione in vitro. Perché ci stiamo ancora pensando: c’è un’indicazione di problematicità. La vera domanda secondo me è dove troviamo i luoghi in cui elaborare questi temi.

  1. Domande ed interventi dei partecipanti:

Micaela – Un padre aveva una figlia, che stava perdendo la fede musulmana e si stava mettendo con un ragazzo europeo; il padre “per amore” della figlia l’ha uccisa; la madre della ragazza affranta dal dolore, condivideva però la scelta del marito. Devo sospendere ogni giudizio, quando mi trovo di fronte ad un modo di amare così diverso dal mio?

È possibile continuare il dialogo?

Francesco – Il dialogo è la strada da percorrere nei rapporti interpersonali; ma nei rapporti politici non ci troviamo di fronte al dialogo, bensì alla contrapposizione.

Occorre che la chiesa nel suo insieme e non solo i singoli credenti, la chiesa come istituzione, possa dialogare realmente e impegnarsi comunitariamente in un confronto.

Fino a che punto può arrivare il potere dello stato? Può uno stato che non vuole essere totalitario, decidere sulla liceità giuridica dell’eutanasia?

Gigi – La scelta della coscienza é in un ambito che precede la scelta religiosa. La nostra adesione di fede a Gesù, può essere intesa anche come mezzo ulteriore per conoscere meglio? La sequela di Gesù é un aiuto per conoscere meglio l’altro?

Gianluca – La nostra apertura verso tutto e tutti, non rischia di dar vita ad un’etica generalista?

Maurizio – Un neonato non ha la coscienza, un adulto sì e la crescita di tale coscienza è favorita dalle religioni; anche se vedo il limite nelle pratiche religiose, quali altri ambiti favoriscono la crescita delle coscienze?

Caterina – per la crescita della coscienza è stato citato il discernimento e la conoscenza, forse è necessario aggiungere il coraggio e la pazienza? Occorre saper lasciare nella propria ricerca uno “spazio bianco”, e perché questo approfondimento sia possibile,è necessario aggiungere coraggio e pazienza.

Stefano – Occorre dare sempre una priorità all’uomo e alla donna rispetto alla legge.

  1. Risposte di Casalone:

– Sulla questione dell’amore:

Occorre sempre saper ripartire dalle ragioni dell’altro, ma non sempre è possibile condividerle.

– Sulla questione dello stato:

Quando le ragioni dell’altro e le testimonianze apportate mi convincono della serietà della posizione dell’altro, devo tenerne conto. Lo stato “laico” deve regolamentare le posizioni di quei cittadini non in quanto valore universale, ma valore di una fetta di popolazione che deve essere rispettata. C’è uno stato che si orienta avendo come principio il “male minore”; cioè un comportamento può essere un male, ma va tollerato altrimenti ne viene un male maggiore. compito dello stato è regolamentare in base ad un ethos condiviso, qui e ora.

– A proposito del fondamento dell’etica:

1° Non la religione è fondamento dell’etica, ma Dio è fondamento dell’etica, perché è la voce di Dio che fa si che il suo popolo diventi popolo, dà una possibilità di esistere, di prendere coscienza di se stesso. Come fa Dio a portare al mondo, all’esistenza, persone libere e responsabili? Persone a cui promette qualcosa?

2° La stessa fede è un atto di Dio. La risposta dell’uomo, è risposta ad una chiamata che Dio mi fa; il nostro sì alla chiamata, alla fede, è un atto di Dio. La risposta dell’uomo, è risposta alla chiamata, alla fede, è un atto di coscienza responsabile.

– A proposito di un’etica generalista:

Quando parliamo di coscienza autonoma non ci riferiamo alla possibilità di fare tutto ciò che mi passa per la testa, ma è l’adesione personale alla coscienza che abilita in me, quella trascendenza che è già nel mio profondo ed alla quale sono invitato ad aderire; è una coscienza responsabile da cui io mi trovo abilitato, riempito e che germoglia con il mio sì, che non può essere ridotta al mio io, ma è appunto trascendenza che può essere chiamata voce di Dio in me, di cui io non ne dispongo pienamente , ma che mi trovo dentro e che non coincide necessariamente con ciò che mi piace… quindi con coraggio e pazienza andiamo avanti.

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