Lettera 15 (Prima Serie)

Agli amici

Cari amici,

nella lettera di dicembre vi daremo notizie dell’incontro che si è svolto domenica 15 novembre u.s. a S. Gregorio al Celio e riporteremo il testo della conversazione tenuta da Tommaso Federici, così da rendere partecipi di quanto è stato fatto coloro che non hanno potuto essere presenti.

In questa lettera prendiamo lo spunto dalla giornata missionaria, celebratasi di recente, per tentare di mettere in chiaro i rapporti tra la nostra Chiesa locale e le Chiese c.d. di missione, rapporti che sono stati sovente messi in una luce poco autentica, favorendo in tal modo un atteggiamento dei cristiani infantile e superficiale.

Rendiamo, inoltre, nota la vicenda di S. Luca al Prenestino, che ci sembra sia passata sotto silenzio, malgrado gli elementi di estrema gravità che presenta.

Abbiamo cercato di accompagnare le nostre considerazioni alla viva voce della comunità che si è vista privata di un sacerdote, senza conoscerne il motivo e senza che le sia stato concesso di far valere le sue ragioni su un fatto così vitale per la sua stessa esistenza.

Riprendiamo su questa lettera, infine, l’esame del fenomeno del sottosviluppo urbano a Roma, sulla traccia delle ricerche fatte da un amico particolarmente sensibile al problema degli insediamenti sotto-umani ed al suo evolversi nella nostra città.

Fraterni saluti. Gli amici de ‘la tenda’

Chiesa Locale Di Roma E Chiese Di Misssione

Quando suor A., a ventidue anni, finì di raccontare la sua storia si mise a piangere. Sei anni fa era analfabeta e viveva nella foresta del Brasile; vicino a poche capanne si era stabilita una piccola stazione missionaria di tre suore,

una maestra, una infermiera e una cuoca. In breve vivendo con loro A. aveva

imparato vangelo e catechismo e visto in quelle tre donne il dono migliore che la Provvidenza avesse potuto fare a lei ed ai poveri come lei. Pensò di fare lo stesso. Da qualche parte dovevano aver imparato, sarebbe tornata anche lei capace di aiutare la sua gente: sentiva che poteva già offrire per loro la sua vita. Fu così che A. a sedici anni si mise per la prima volta le scarpe e partì per Roma. Imparò a leggere e scrivere in italiano e dopo qualche esame entrò in ospedale. Due anni fa era infermiera. Quando la camera era per lei troppo stretta, l’abito soffocante, lo studio difficile, l’orario pesante, una sola cosa l’aveva sorretta: il pensiero di quelli che aspettavano. Ma suor A. non è ancora tornata in Brasile.

La casa di Roma ha bisogno di personale. Una villetta situata in un buon quartiere fa da casa di passaggio e di incontro per lo stato maggiore della congregazione, nei tempi vuoti ospita pellegrini in visita alla città eterna, coppie di sposi in viaggio di nozze presentati dal parroco. L’obbedienza ( oggi

Si preferisce dire docilità) ha fermato a Roma suor A.

Questa storia si ferma ad un anno fa. Sarebbe facile conoscere come siano ora le cose, ma dobbiamo ammettere che non siamo più andati a vedere se è ancora là.

Noi intanto abbiamo celebrato in ottobre la giornata missionaria. Abbiamo sentito di luoghi dove eccetera eccetera, abbiamo dato una offerta più sostanziosa del solito e siamo rimasti da un lato contenti del pur piccolo contributo, dall’altra desiderosi di approfondire un po meglio il fatto missionario nel rapporto con la nostra Chiesa locale.

Alla base di ciò che generalmente si dice abbiamo riconosciuto un tacito presupposto: noi-chiesa adulta, loro-chiese giovani; noi-vecchia comunità cristiana consolidata, loro –nuove incerte commoventi comunità nascenti.

Ebbene ci permetteremo di insinuare che questo presupposto, se giudicato sulla base dell’attuale momento storico e sui reali scambi tra chiesa locale di Roma e di altrove, non regge all’esame più grossolano.

Cominciamo col dire, ed è solo l’inizio pur se già gravissimo, che la nostra chiesa locale è del tutto dipendente per la sua sopravvivenza dalle altre diocesi.

Il clero romano non esiste quasi più ( triste ritornello sulle nostre pagine queste del clero di Roma, ma è il problema capitale ).All’acquisizione di singoli preti da aggregare alle parrocchie diocesane romane ( meno della metà del totale, v. “La Tenda” 1 pag. 10) si è ormai sostituita la cessione di intere parrocchie al clero di altre diocesi. Le comunità dei monasteri e conventi sono formate da componenti straniere o di altre città italiane perché dalla chiesa locale romana non maturano che rarissime vocazioni alla vita monastica o contemplativa. Servizi di supplenza esistenti nell’ambito della città e più o meno opportunamente ancora gestiti da ordini religiosi, come scuole, servizio ospedaliero, collegi, convitti, case per pellegrini, librerie, laboratori ecc., sono quasi totalmente affidati a congregazioni con membri provenienti da altrove che neppure dopo decenni di permanenza a Roma riescono ad avere percentuali apprezzabili di membri romani.

Se dovessimo restare nel modulo usuale di “chiese adulte-chiese immature” Roma dovrebbe essere ormai catalogata tra le diocesi più immature del mondo, una vera terra di missione da nutrire come un bambino.

Ma questo semplice capovolgimento di valutazione non dà sufficiente ragione della situazione di Roma. Non si può liquidare la nostra pachidermia diocesi ponendola semplicemente a fianco di diocesi neonate, che potrebbero magari dolersi del confronto.

Per quanto riguarda globalmente la situazione della diocesi ci sembra di poter introdurre l’ipotesi di un nuovo concetto classificatorio. Il concetto di “ chiesa anziana”.

Roma fu una volta chiesa immatura, giovane, ma fu cosa di poca durata, il momento di Pietro e Paolo. Erano tempi difficili, ognuno doveva rapidamente rendersi autonomo: o crescere o morire. Non poche chiese fondate dagli apostoli morirono. Roma crebbe. Divenne comunità adulta, cioè autosufficiente: suoi i cristiani, i diaconi, i presbiteri, i vescovi; tipicamente suoi il patrimonio liturgico e giuridico-strutturale. Uomini, prassi e idee da vendere, da esportare.

Ma non durò. Ricerche storiche potrebbero dirci quando e perché avvennero le crisi, saremmo avidi di queste ricerche sulla chiesa locale, che forse esistono già, ma non giungono fino a noi, grosso pubblico.

Ma la situazione odierna ci sta sotto gli occhi. La diocesi non ha più missionari, non può neppure sostituire i suoi preti e ne chiama da ogni dove.

Non può sostenere i suoi impegni diaconali, papa Paolo in vista all’India… si portò a casa alcune suore da dedicare ai poveri di Roma!

Come dicevamo, per classificare la nostra diocesi ci serviremo del paragone con una persona anziana. Ha superato l’equilibrio tra ciò di cui ha bisogno e la capacità di procurarselo da sé. Le esigenze restano le stesse di prima, ma qualcun’ altro deve lavorare per lei. In gioventù bastava a sé e provvedeva per altri. In vecchiaia il rapporto è invertito. E se il vecchio ha dietro di sé una vita trascorsa con ampiezza di disponibilità le sue esigenze saranno grandi anche in vecchiaia. La vita ha però i suoi meccanismi dolorosi per ridimensionare gli uomini. I giovani della famiglia sviluppano la loro propria vita e non seguono l’anziano in ogni pretesa.

Così, fuor di metafora, la diocesi vecchia ma pretenziosa cercherà di appoggiarsi sulle altre, ma sempre più sarà chiamata a ridimensionare le esigenze alla misura delle proprie capacità produttive. Un albero potato, ma che forse avrà una nuova primavera. Quante diocesi nel mondo sono oggi in queste condizioni: antiche comunità arricchite nei secoli di tradizioni liturgiche, di istituzioni, di opere di supplenza, con complicate strutture gerarchiche, ma oggi incapaci di autosostenersi. E tutte avviate con maggiore o minore consapevolezza ad assumere dimensioni e forme realmente corrispondenti alla quantità di Spirito presente.

Tutte meno una. Perché potrebbe darsi il caso che l’anziano di cui sopra si trovi in una posizione tale da poter saltare le leggi di natura. Che, per esempio, abbia conservato le chiavi della borsa ed i figli adulti debbano ricorrere a lui per i soldi della spesa. Che (supponiamo si tratti di un antico principe) possa distribuire lui solo titoli di barone e relativo territorio. Allora alla sua poltrona non mancheranno nipoti, e non solo le sue esigenze saranno sempre soddisfatte, ma ci si toglierà il pane di bocca per conservarsi la benevolenza dell’avo e garantirsi la parte di eredità che è troppo incerta per non essere coltivata.

Questa diocesi è Roma. (I nostri amici tolgano ogni ironia dalle immagini che usiamo, sapendo la nostra necessità di esprimerci in breve e lo spirito di amore e partecipazione col quale vogliamo parlare della nostra chiesa locale).

Roma non manca di nulla.

Per molte colpe nostre, ma anche per un dono della Provvidenza che dovremmo raccogliere in ginocchio, nella nostra città vengono a maturazione con decenni di anticipo problemi di tutte le chiese: diocesi senza campagna, città di servizi terziari, città cosmopolita, mentalità anticlericale, scarsità assoluta di clero, fallimento delle forme religiose associative (un solo esempio l’Azione Cattolica crolla a Roma venti anni prima che nel resto d’Italia). Avremmo ancora la vocazione ad essere all’avanguardia di nuove sperimentazioni. E avverrebbero nell’ambito delle ricchissime tradizioni romane, con un presbiterio che presenta ancora elementi formati fuori delle livellanti matrici dei seminari, accanto al presbiterio sensibilissimo della curia romana, con la possibilità di correlarsi con presbiteri di centinaia di diocesi venuti proprio in vista del contatto con la chiesa romana, con centinaia di responsabili di ordini religiosi continuamente a Roma e in viaggio a portare polline da chiesa a chiesa. La chiesa locale di Roma per la sua attuale configurazione (e lasciamo stare teologia e Primato, che pure contano qualcosa) ha tutte le carte in regola per affrontare da par suo la realtà moderna (e quindi il dovere di farlo).

E invece no. Roma viene mantenuta fuori della mischia perché la sua struttura primaziale la rende oggetto di cure servili alle quali da parte sua non manca di appellare, ma con le quali maschera le sue difficoltà che sarebbero la sua grazia, illude la sua pigrizia e viene meno al suo dovere di guida.

Nei film di guerra i soldati sono col fango alle ginocchia ma nel bunker il feldmaresciallo trova sempre a colazione burro e biscotti. E’ in questo spirito che vescovi italiani trovano opportuno lasciare quattro paesi di montagna senza prete per coprire una parrocchia di Roma; che una superiora trasforma una infermiera della foresta del Brasile in una domestica di città; che (mea culpa) i cristiani di Roma domandano scuole di suore e scuola di ballo alle scuole di suore.

Queste righe le abbiamo scritte per chiarificare alcuni aspetti patologici del rapporto chiesa di Roma-altre chiese. Ci pare che quando vogliamo parlare degli altri dobbiamo cominciare con un sincero e giustissimo atto di penitenza, che il problema missionario vada rivisto soprattutto correggendo la nostra mentalità sfruttatrice. E’ tempo di assumere in prima persona (laicale) non diciamo il peso della missione, ma almeno la gestione degli affari nostri. Eliminando quel che non possiamo o vogliamo sostenere.

E’ ora anche che i fratelli di altre chiese ospiti di Roma rivedano la loro presenza tra noi in funzione della loro chiesa di provenienza, o di una sollecitazione nei nostri confronti, e non per soddisfare pseudonecessità lievitate dalle cattive abitudini.

Non è nostro uso invitare al disfattismo o all’insubordinazione, ma se qualcuno decidesse che per aiutarci la cosa migliore è non aiutarci affatto, anche questo prenderemo come un aiuto fraterno. Non poche leggi sono state emanate per tutta la chiesa solo quando divennero attuali a Roma. Da decenni i missionari chiedevano il cambio della disciplina sul digiuno eucaristico e la messa vespertina, ma è stato necessario il week-end italiano; da secoli la modifica dell’astinenza del venerdì finchè non è giunto il rapido self-service del mezzogiorno nei nostri uffici. Il latino è caduto di schianto dopo più di un millennio di resistenza quando le scuole italiane hanno rinunciato a mantenerlo nei programmi di base.

Può essere un bene per i soldati delle trincee più lontane, può essere anche la fine della guerra, se un giorno il maresciallo viene lasciato senza biscotti.

Il Sottosviluppo Urbano A Roma (3)

Come abbiamo visto (parte II vedi “La Tenda” n° 11 giugno 1970) la politica fascista condizionò in modo negativo l’assetto urbanistico ed economico della città, aggravando sensibilmente le condizioni di vita della classe lavoratrice romana.

Caduto il fascismo sorse nuovamente il problema relativo al tipo di assetto da dare alla città. Le alternative erano diverse, tutte però riconducibili a due scelte di fondo: la prima diretta a spezzare la situazione di oligopolio dei terreni edificabili, in modo da riportare il controllo della espansione della città nelle mani del potere politico, sottraendola al gioco degli speculatori; l’altra diretta invece a mantenere lo statu quo, abdicando ad ogni tentativo democratico di controllo dello sviluppo cittadino.

I nuovi amministratori imboccarono decisamente la seconda strada, alleandosi con le stesse forze favorite dal regime fascista. L’amministrazione Rebecchini (1948-1956) e quelle che la seguirono furono lucidi esempi di un potere politico completamente asservito ai grandi proprietari fondiari. Qualche esempio potrà farci meglio comprendere i legami esistenti. Abbiamo visto come, dal momento della unificazione alla caduta del fascismo, un numero estremamente ristretto di persone controllasse una percentuale determinante del terreno edificabile della città. Costoro erano in grado di “attirare” i nuovi insediamenti (con tecniche ampiamente sperimentate, come donazioni di terreni a congregazioni religiose, costruzione di piccoli insediamenti nella parte della loro proprietà più distante dal centro abitato, in modo da “valorizzare” i terreni intermedi, e così via) nella direzione voluta, in modo da moltiplicare il valore delle loro proprietà di cento, duecento, mille volte, senza sborsare un centesimo. In questo modo, essi determinavano non solo le scelte “qualitative” sul tipo di insediamento, e quelle “quantitative” sulla densità degli insediamenti stessi, ma erano addirittura in grado di trasformare tutta la città in una gigantesca macchina da sfruttare con delle iniziative ben calcolate, a loro esclusivo profitto. Per ostacolare questa azione di spoliazione metodica si poteva ricorrere ad iniziative politiche di natura diversa. La prima, forse l’unica veramente efficace fino in fondo, consisteva nell’esproprio generalizzato di tutti i terreni investiti direttamente o indirettamente dallo sviluppo urbano, attuato a prezzo agricolo, e tenendo eventualmente conto delle variazioni di valore della moneta.

Questa scelta implicitamente riconosce il carattere predatorio della rendita urbana (l’incremento di valore che deriva ai terreni per il solo fatto di essere dichiarati edificabili). Anzi identifica addirittura la relazione diretta che esiste tra costo che la collettività sostiene per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria (strade, fogne,elettricità, gas, acqua, ecc.) ed incremento del valore dei terreni, e riconosce il diritto della collettività di vedersi restituito quanto ha di fatto speso. Ma questa soluzione non rientrava in quelle accettabili da una amministrazione particolarmente preoccupata di tutelare il diritto di proprietà

(anche se ciò veniva a ledere gli altrettanto sacrosanti diritti della collettività).

Un’amministrazione moderata poteva però imboccare un’altra strada, seguita da diverse altre amministrazioni locali di altri paesi europei.

Questa seconda consisteva nel rastrellare sul mercato una certa estensione di terreno da aggiungere a quella, già abbastanza ampia, posseduta dal Comune, per poi favorire, nell’ambito di queste zone, una serie di insediamenti qualitativamente ed economicamente migliori di quelli posti in essere dagli speculatori edilizi. In questo modo, almeno entro certi limiti, si sarebbe potuto, forse, avere un adeguamento dei prezzi delle aree e degli edifici allo standard imposto negli insediamenti pubblici, con una rilevante riduzione della rendita, la quale poteva essere colpita ulteriormente da una imposta fortemente progressiva sugli incrementi di valore delle aree edificabili.

Infine, anche se non si voleva colpire così duramente la rendita fondiaria, si poteva pretendere il rispetto del piano regolatore vigente, realizzando nel contempo qualche insediamento pubblico, con funzione di calmiere, sui terreni già di proprietà comunale.

Vista la relazione esistente tra oligopolio fondiario, prezzi dei terreni, sviluppo delle città, prezzi degli alloggi, disponibilità finanziarie dei potenziali inquilini

ed estensione delle borgate e dei borghetti, operando le prime due scelte si sarebbe permesso, seppure in misura diversa, uno sviluppo urbanisticamente più razionale della città, limitando allo stesso tempo l’estendersi delle abitazioni precarie a Roma.

L’amministrazione Rebecchini si guardò bene dal realizzare una delle tre scelte sopra indicate, creando così i presupposti per la bancarotta comunale e per l’esplosione delle borgate e dei borghetti, senza contare l’assurdo scempio del patrimonio artistico di Roma. Come abbiamo visto (I parte, “La Tenda” n° 9 –marzo 1970), il piano regolatore fu violato migliaia e migliaia di volte (vedi Insolera e Cederna perun esame accurato), le imposte di legge non furono mai prelevate (rinunciando così ad un introito di 30-60 miliardi l’anno), ma quel che fu più grave e indicativo della complicità dell’amministrazione comunale fu la svendita dei terreni di proprietà comunale effettuata sottobanco, con una riduzione della superficie di proprietà pubblica stimata intorno al 35-40%. Non

solo si rinunciava al tentativo di acquistare nuove armi nella battaglia contro gli oligopolisti fondiari, ma addirittura ci si privava scientemente dell’unica arma di cui si disponeva (1).

Non ci si può stupire, date le premesse, che il censimento del 1951 rivelasse l’esistenza a Roma di 105.004 baraccati, e cioè che una persona su tredici vivesse in baracca (2).

Il 1951 è indubbiamente il momento più triste nello sviluppo della città, ed è anche quello in cui le bidonville romane raggiungono la loro massima estensione. Dal 1951 il numero assoluto e quello relativo degli abitanti costretti a vivere in baracche comincia a decrescere, e non già perché si sia avviato a soluzione il problema, ma piuttosto perché nasce allora un nuovo tipo di insediamento di rifugio: la borgata abusiva.

Nel giro di venti anni, dal 1950 al 1970, questo tipo di insediamento vede la propria popolazione salire da poche migliaia di persone a più di 700.000 abitanti. Anche in questo caso si tratta di una operazione chiaramente illegale: la legge 17 agosto 1942 n° 1150, modificata nel 1965, vieta espressamente la lottizzazione di zone incluse nel piano regolatore e considerate agricole. Nonostante ciò, i grandi proprietari come Talenti, Gianni, Vaselli ed i piccoli proprietari come Pinci, Parmeggiani, Sardella, Romalli ecc. hanno lucrato cifre favolose offrendo ai lavoratori un misero pezzo di terra su cui costruire a prezzi venti, trenta volte superiori a quelli che si sarebbero determinati se il piano regolatore fosse stato rispettato (3). Vedremo la prossima volta la

localizzazione ed alcuni degli aspetti della vita di questi insediamenti.

NOTE

  1. L’amministrazione Rebecchini è tristemente nota per tutta una serie di favoreggiamenti nei confronti di grandi proprietari fondiari: la costruzione dell’albergo Hilton, al posto di un parco pubblico sulle cime di Monte Mario, anche se approvata dal Consiglio Comunale dopo la caduta di Rebecchini, fu uno degli atti più gravi da parte del sindaco che, nell’ultima seduta utile del 1956, presentò il progetto Hilton, rigettato poi grazie all’ostruzionismo dei consiglieri della sinistra; l’urbanizzazione massiccia di tante zone di Roma vincolate a parco o previste ad insediamento estensivo (Monte Mario, Monte Sacro, Vigna Clara, ecc.). Per ampi dettagli vedi Verbali Consiglio Comunale di tutto il periodo.L’estensione delle alienazioni di terreni comunali è ricavata da una risposta scritta del Sindaco ad una interrogazione del consigliere Gigliotti il 6 marzo 1956. Nel 1948 il Cmune possedeva ben 5 milioni e mezzo di mq di terreno, otto anni più tardi possedeva poco più di 3 milioni di mq. Dalla lunga serie di operazioni era stato ricavato poco più di 2 miliardi di lire (vedi verbali consiglio comunale seduta 6 marzo).
  2. Dati ISTAT censimento 1951.
  3. Per un elenco (sommario) di violazioni di questo tipo vedi Ferrarotti “Roma da capitale a periferia” pag. 27-30.

 

Speranze Tradite A S. Luca Al Prenestino

Premettiamo alle nostre considerazioni il testo della lettera inviata dal Consiglio Pastorale della Parrocchia di S. Luca al Cardinale Vicario in data 21 settembre 1970.

A S.E. il Card. Vicario Angelo Dell’Acqua

E p.c. al Vicegerente Mons. Ugo Poletti

Ai Vescovi Ausiliari Mons. Canestri e Mons. Trabalzini

Eminenza Reverendissima,

il momento difficile che sta vivendo la nostra comunità e in particolare il Consiglio Pastorale della Parrocchia (voluto dal Vescovo Ausiliare Mons. Canestri in occasione della recente visita pastorale e nominato dal Parroco) ci spinge a rivolgere l’attenzione a Lei, che più volte in diocesi ha dato prova di dialogo e di lealtà nei confronti di ognuno. Le vicende che hanno caratterizzato finora i tentativi di allontanamento dalla Parrocchia del sacerdote don Francesco Dell’Uomo, ci lasciano per lo meno sconcertati, come Vostra Eminenza potrà constatare.

Martedì 15 settembre u.s. don Francesco venne a conoscenza del suo trasferimento non da parte dei suoi superiori, ma tramite un sacerdote che avrebbe dovuto sostituirlo. Da quel momento lo spirito sacerdotale di don Francesco gli impose di uscire di scena: il suo senso dell’obbedienza e la sua volontà di non conflitto furono esemplari e confermarono la stima di tutti nei suoi confronti. Successivamente Mons. Poletti, convocato don Francesco gli confessò che l’unico motivo del trasferimento risiedeva nella scarsa compatibilità di carattere e nella difficoltà di convivenza col parroco.

Ma noi del Consiglio Pastorale non potevamo sopportare per norma di giustizia evangelica che un sacerdote venisse allontanato senza motivi e in un certo senso condannato agli occhi del popolo senza che il parroco manifestasse le sue autentiche intenzioni.

“Nessun presbitero – scrive S. Paolo nella prima lettera a Timoteo – può essere accusato se non alla presenza di due o tre testimoni” (5,19). Fu pertanto convocata d’urgenza la riunione del Consiglio Pastorale (della quale accludiamo il verbale) durante la quale impiegammo molto tempo per giungere a quella chiarezza evangelica del “ si si – no no”. Per ammissione del parroco, come risulta dal verbale della riunione da lui stesso e da tutti noi firmato, la difficile convivenza in seno alla comunità sacerdotale era l’unico motivo del trasferimento del SOLO don Francesco, come se il pensiero della Chiesa imponesse alle famiglie cristiane, quale rimedio dei loro momenti di incomprensione, un immediato divorzio. Coloro che fra noi sono coniugi attendono dalle comunità sacerdotali, oltre le esortazioni, anche una autentica testimonianza di reciproca accoglienza e di sereno perdono.

Ma c’è di più. Dopo aver palesato il proprio rincrescimento per non aver convocato il Consiglio Pastorale per questione così importante, e dopo aver sottoscritto il verbale, il Parroco inviava al Vicegerente , attraverso noi – nel colloquio che avemmo con quest’ultimo sabato 19 settembre – una lettera di ripensamento. Analogo gesto compiva l’altro viceparroco. Il nostro incontro con il Vicegerente, mentre all’inizio ci lasciò perplessi poiché venivano presentati come determinanti del trasferimento motivi di carattere diocesano, che noi sapevamo del tutto infondati, raggiunse il momento della verità quando il Vicegerente ebbe tra le mani il verbale firmato e le due lettere. A quel punto il nostro dolore fu grande: gli stessi nostri Vescovi venivano traditi e costretti a non mostrarsi più maestri di chiarezza e giustizia evangelica.

Il disagio del Vicegerente si univa a quello di tutti noi nel vedere un sacerdote ingiustamente allontanato, quando attualmente si presenta come il garante di larga parte del lavoro pastorale fra i giovani e gli adulti; un sacerdote che con le sue doti di intelligenza ha posto le premesse per un serio lavoro di rinnovamento mediante il Consiglio Pastorale, come risulta dall’abbozzo di documento maturato in sei mesi di riflessione; un sacerdote che ci ha sempre e mai come adesso inculcato la comunione con la diocesi e in particolare con Vostra Eminenza che, unico, lo scorso anno ebbe a capire tutto ciò, in un colloquio con lo stesso don Francesco, in occasione analoga. Non vorremmo tralasciare che la nostra parrocchia all’avvento dell’attuale Parroco

godeva già di una autentica comunità sacerdotale e di un serio lavoro di linea pastorale mediante l’opera del precedente parroco Mons. Trabalzini. Abbiamo visto via via allontanati o costretti a trasferirsi, per analogo debole motivo, altri due sacerdoti i quali oltre a godere la nostra fiducia andavano svolgendo un’opera di cui ancora godiamo l’efficacia.

Mons. Poletti ci congedò assicurando di far luce su tutto venendo fra noi, specie dopo gli ultimi avvenimenti e i documenti firmati, che sono tuttora in sua mano. Veniamo ora a sapere che il Parroco avrebbe di nuovo assunto un atteggiamento polemico e rigido, dopo averci più volte chiesto scusa e manifestato la propria disponibilità. Se il pensiero di non voler disturbare Vostra Eminenza, preso da mille cure diocesane, ci ha trattenuto finora, crediamo di rompere ogni indugio e di affidarci al suo lineare senso della giustizia. Non siamo i soliti contestatori o il gruppo di persone che manifestano scontento per l’allontanamento di un sacerdote. Finora infatti crediamo di aver agito in modo responsabile come Consiglio Pastorale, senza rendere palesi le incresciose vicende per non turbare la pace del nostro popolo.

Ciò che spinge la nostra coscienza è l’amore a Gesùe alla Chiesa che non vorremmo vedere lacerata con i soliti giochi mondani di doppiezza e di oppressione dell’innocente. Allo stato attuale tutto è ancora componibile: siamo sicuri che potremo non solo riacquistare ma rafforzare quella fiducia nella Chiesa, fortemente scossa nei giorni scorsi.

Per aver modo di manifestare con maggiore accuratezza ciò che alberga nel nostro animo e in quello di centinaia di fedeli, chiediamo a Vostra Eminenza un colloquio, che speriamo vorrà concederci al più presto, magari con la presenza del Parroco.

Certi che un organo come il Consiglio Parrocchiale non sarà mai ignorato dalla coerenza pastorale del nostro Vescovo esprimiamo i sentimenti di più profonda stima.

Il Consiglio Pastorale della Parrocchia di

San Luca al Prenestino

Seguono le 15 firme dei componenti il Consiglio Pastorale.

La lettera che abbiamo offerto alla vostra attenzione ci induce a fare una serie di considerazioni che vi sottoponiamo.

Premettiamo che la vicenda si è definitivamente conclusa con il trasferimento del sacerdote in questione ad altra parrocchia.

In primo luogo non riusciamo a comprendere perché a tutt’oggi non si accetti, da parte del Vescovo, che due preti che hanno orientamenti pastorali diversi possano convivere nello stesso presbiterio. Probabilmente, ad una visione burocratica dell’utilizzo dei sacerdoti sfugge completamente il fatto che un provvedimento di trasferimento ancor prima di riguardare la persona direttamente interessata, colpisce la parte della comunità parrocchiale nella quale questi è incarnato, che si viene a trovare decapitata. Nel nostro caso, poi, è avvenuto addirittura che l’intera comunità parrocchiale è stata sacrificata al concetto di gerarchia, dal momento che il consiglio pastorale della parrocchia si era unanimemente pronunciato perché don Francesco potesse continuare a svolgere la sua missione a S. Luca. E qui viene da chiedersi con amarezza, quale reale funzione possano esercitare i consigli pastorali quando vengono ignorati o mortificati da parte di quegli stessi Vescovi che hanno raccomandato e incoraggiato la loro costituzione.

Tra le conseguenze più gravi di tale chiusura troviamo allora l’incapacità di questi vescovi a pronunciare una parola saggia che possa illuminare una situazione e favorirne l’evoluzione nella giustizia e nella carità.

Essi infatti, rifugiandosi nella prassi burocratica e rifiutandosi di ascoltare con disponibilità ed apertura tutti quelli che avrebbero qualcosa da dire loro, mantengono se stessi nell’oscurità e si ritrovano costretti a barcamenarsi tra piccoli artifizi, tatticismi, sottigliezze dialettiche e pretestuosità. E proprio nel momento in cui al Vescovo si richiede di essere il garante di una comunione sostanziale, il fautore e lo stimolatore del dialogo, il padre che restaura la pace e la serenità nella famiglia, siamo costretti a prender atto, con dolore, che le nostre attese rimangono senza risposta.

E ci troviamo di fronte un Vescovo che ci conduce nei meandri delle esigenze burocratiche, che maschera la sua distanza dalla realtà su cui è chiamato a pronunciarsi con frasi fatte, che continua a ripetere meccanicamente esortazioni alla docilità a coloro che attendono da lui un magistero di sapienza luminosa e di paterna carità. E ci si trova, per giunta dinanzi ad una complessa struttura episcopale che lascia sgomenti, che costringe ad avere rapporti con Vescovi che si succedono ad ondate, che mortifica l’idea stessa che ciascuno di noi ha della figura del Vescovo, così estranea ad ogni principio di stratificazione burocratica.

In tutto questo ci sarebbe umanamente motivo di che scoraggiarsi. Il modo stesso in cui si è sviluppata e si conclusa la vicenda di S. Luca (come tante altre, come quella della parrocchia della SS. Trinità a Villa Chigi, ove dinanzi alla decisione immotivata di trasferire un sacerdote, p.Vittorino Santi, in altra città il Vescovo si dichiara…..incompetente, trattandosi di un religioso) ci riempie l’animo di tristezza.

Resta la speranza, quella speranza cristiana che ci fa continuare a credere nella Chiesa locale malgrado tutto, quella speranza che, nella parrocchia di S. Luca, aiuta un consiglio pastorale tradito a rimanere al suo posto, a continuare ad operare contro ogni tentazione di fuga.

Il Centro Di Documentazione Pastorale Del Vicariato Di Roma

Il Centro di Documentazione Pastorale è stato recentemente istituito dal Cardinale Angelo Dell’Acqua, su proposta di alcuni laici e sacerdoti impegnati nei diversi campi dell’attività pastorale di Roma.

Il Centro si propone di ricercare, selezionare e conservare tutti quei documenti che si riferiscono alle esperienze pastorali più significative, a studi e ricerche particolari su Roma, nonché ogni studio o documentazione utile per l’attività pastorale stessa.

Il pubblico può prendere visione di tutti i documenti che verranno raccolti. Sarà anche informato soprattutto attraverso dibattiti mensili su argomenti specifici. L’iniziativa di tali dibattiti potrà essere presa, oltre che dal centro stesso, intorno a temi su cui si è potuto ricercare una documentazione, anche dagli altri operatori pastorali e dal pubblico, sugli argomenti di attualità che verranno segnalati.

Nel compiere questa attività, il Centro si avvale della collaborazione di esperti nelle diverse discipline teologiche e scientifiche e dell’apporto di quanti operano nelle varie forme di ministero e di apostolato.

Il Centro sarà grato verso quanti vorranno offrire la loro collaborazione nel segnalare esperienze ed altri documenti particolarmente utili, nell’intento di rendere sempre più efficiente e proficuo il suo servizio alla Chiesa locale di Roma.

Per il 1970-71 il Centro ha programmato i seguenti dibattiti: lunedì 16/9/70 ore 21.15 Risultati della ricerca sulle dimensioni della religiosità in Roma, 1969/1970.

Lunedì 14/12/70 I consigli pastorali parrocchiali

Lunedì 25/1/71 Preparazione remota al matrimonio e educazione sessuale degli adolescenti.

Lunedì 22/2/71 Strutture civili della città di Roma e problemi pastorali connessi.

Lunedì 29/3/71 Preparazione prossima al matrimonio e pastorale del fidanzamento.

Lunedì 3/5/71 Spiritualità matrimoniale.

I dibattiti si svolgeranno normalmente nella sede del Centro di Documentazione Pastorale – Vicariato di Roma, Piazza S. Giovanni in Laterano 6 A . Tel. 6986271.