Lettera 13 (Prima Serie)

A Cento Anni Da Porta Pia.

Ci sono molti modi per celebrare l’anniversario di una data storica. Spesso, specie da parte dei detentori del pubblico potere, si usa fare, in queste occasioni, molto clamore, allo scopo di spostare l’attenzione popolare dal presente al passato, così da poter beneficiare in qualche modo di quella riconoscenza che altri hanno meritato in epoche lontane, facendosene interpreti o pretendendo per se la veste di eredi o il ruolo di continuatori. Se c’è, poi, da denigrare fatti o persone del passato, le celebrazioni anniversarie possono servire egregiamente allo scopo, specie se, con tale pretesto, si può sparlare di realtà attuali. Non di rado, infine, simili celebrazioni si traducono in dispendiose quanto ampollose ed inutili erezioni di monumenti di vario genere che, si pensa, servano a sdebitarsi con la storia, anche a costo di indebitare le finanze pubbliche.

Presi da questi furori celebrativi, si tralascia generalmente l’unico modo serio di esaltare quanto di autentico c’è stato nella storia di un popolo, cercando cioè di testimoniare una maggiore fedeltà al proprio presente ed alle esigenze che esso pone. In questo senso, anche il ricordo di una data storica dovrebbe avere un valore sostanziale, aiutando la comunità civile a ritornare con animo sereno ad avvenimenti che hanno generalmente tramandato una immagine di se falsata dalle passioni e dalle lotte del tempo. Questo renderebbe possibile valutare la reale portata di tali fatti, l’influsso ideale che essi continuano ad esercitare sulla vita contemporanea e l’incidenza che hanno sugli attuali assetti istituzionali.

Proprio uno dei tanti anniversari ricorrenti, cioè il centenario della breccia di Porta Pia che cade in questi giorni, ci offre lo spunto per le considerazioni che andiamo facendo ed induce anche noi de “La Tenda” ad una piccola celebrazione dell’avvenimento, cui ci sforzeremo di dare quel significato costruttivo di cui dicevamo poc’anzi.

E’ stata spesso e da più parti osannata la positività dell’evento che, da una parte, portò a compimento l’unità del Paese e, dall’altra, liberò la S. Sede dai gravami di ordine temporale. L’accentuazione ottimistica della portata della presa di Roma può senz’altro, in una prima approssimazione, apparire convincente. Laddove, tuttavia, si proceda ad una più attenta indagine storica, seppure sommaria, ci si accorge, invece, quando sia parziale il valore di un tale evento, al di là di un significato puramente ideale.

Quanto al compimento dell’unità italiana, resta da vedere se si possa considerare predominante il valore dell’unificazione territoriale, laddove questo venne perseguito in un equivoco contesto di sottosviluppo culturale diffuso, di sfruttamento del proletariato urbano e dei ceti contadini, di monopolio oligarchico del potere e di conduzione pesantemente accentrata della cosa pubblica. Roma, anzi, in quest’ultima direzione darà subito il suo grosso contributo alla burocratizzazione ed al malcostume (vedi “La Tenda” n. 11 giugno 1970 pp. 6-7, il sottosviluppo urbano di Roma).

Quanto poi alla nuova condizione in cui la S. Sede venne a trovarsi all’indomani della conquista di Roma da parte delle truppe del gen. R. Cadorna, essa non venne certo sentita come liberazione dal giogo del potere temporale e ciò, storicamente parlando, può anche essere comprensibile. Non è però comprensibile il così scarso senso storico dimostrato dal papato e dalla parte più responsabile della cristianità italiana che, ad evento ormai consumato, perpetueranno così a lungo un atteggiamento di chiusura al dialogo, impedendo per tanto tempo la crescita politica di una larga parte delle forze popolari e recedendo da tale atteggiamento solo quando riterranno di poter controllare ed indirizzare l’impegno politico dei cattolici.

Quanto, infine, alla perdita, da parte del romano Pontefice, del potere temporale, si tratta di un’affermazione che troppi fanno a cuor leggero e che resta tutta da dimostrare. Forse in senso giuridico-astratto, tale concetto può avere una sua validità. Lo stesso staterello in miniatura, uscito dal trattato del Laterano, difficilmente può rientrare nella logica di un potere statuale e presentarne i connotati tipici. In senso territoriale si può sicuramente affermare, insomma, che non vi è più potere temporale dei Papi. Ma noi, a Roma, possiamo accontentarci di questo? Non ci sembra! Anzi, pensiamo che la fine del potere temporale in un certo senso abbia reso un servizio al Vaticano, permettendogli, allorché il valore del territorio è andato perdendo, per vari aspetti, molto del suo significato, di trovare più facilmente la via, ben più moderna e produttiva, degli affari, delle partecipazioni azionarie e delle influenze politiche.

Di conseguenza, per noi romani, il potere temporale ha solo cambiato volto.

Tanto per cominciare, la presenza della città del Vaticano pota con se l’esistenza di una zona franca per le merci di ogni genere, in particolare per quelle voluttuarie, creando automaticamente una casta privilegiata, beneficiaria di tale situazione.

Ancora, il sottosviluppo urbano di Roma, che oggi ha assunto proporzioni drammatiche, vede come responsabili principali le grandi imprese immobiliari, in seno alle quali il Vaticano ha avuto, almeno fino a poco tempo fa, una larga partecipazione azionaria.

Né si può negare il pesante condizionamento esercitato dalla Curia sulla situazione politico-amministrativa della città. In proposito, basterà ricordare, fra i tanti episodi, il tentativo di favorire l’alleanza Democrazia Cristiana-Mov. Sociale nel 1953 per la conquista del Campidoglio, come, di recente il ruolo svolto nelle elezioni regionali di giugno per favorire l’affermazione dei candidati più immobilisti all’interno della D.C. (vedi “La Tenda” n. 11 giugno 1970 pp. 9-14).

E che dire della massiccia attività economica esercitata dagli istituti religiosi a Roma, attraverso la loro rete conventizio-alberghiera?

Se lo spazio lo permettesse, ci sarebbe ancora da parlare diffusamente della imponente presenza degli ordini religiosi nel settore scolastico della Capitale (vedi dati statistici ne “La Tenda” n. 6 dicembre 1969, pag. 6), a quasi esclusivo beneficio delle classi abbienti e, per di più, con il sostegno finanziario dello Stato.

Ma su questi ed altri fatti preferiamo, com’è nostro costume, non soffermarci ora, a livello di enunciazione, bensì rifletterci sopra con calma, documentando seriamente quanto andiamo affermando.

Dal quadro, pur sommario, che abbiamo tratteggiato emerge, comunque, abbastanza nitidamente l’immagine di una struttura che ha solo cambiato i connotati del potere. Nella nostra chiesa locale abbiamo perciò la sensazione che la breccia di Porta Pia si avvenuta su un piano giuridico e territoriale per lo Stato Italiano ma non davvero a Roma nella sostanza.

Nel senso da noi inteso, s’altra parte, la breccia di porta Pia non può avvenire una volta per tutte. La tentazione del potere continuerà a manifestarsi permanentemente, sotto forme sempre nuove e più sottili. Contro di essa, ovunque si annidi, dovremo perciò lottare giorno per giorno, con una vigilanza ed una azione senza quartiere.

In questo senso, ovviamente, dobbiamo cominciare da noi stessi, verificando seriamente a che punto è la nostra liberazione da ogni forma di potere.

Resta da vedere, a questo punto, se nella pericolosa propensione che abbiamo a risolvere sempre tutto limitandoci a pronunciare giudizi sugli altri siamo capaci di aprire la nostra “breccia di Porta Pia”. C’è da sperarlo, perché si tratta della breccia più grossa e più importante.

Il gruppo “La Tenda”

Un Dialogo Ancora Cifrato

Presentiamo: 1) la lettera consegnata la Papa il 25/12/69 dai giovani della Unione Baraccati e conosciuta in aprile-maggio attraverso i giornali; “) la seconda metà del discorso di Paolo VI all’udienza generale del 24/6/1970 (Osserv. Romano, 25/6/70).

1) Messaggio di Natale al Papa dalle borgate di Roma.

Tra lei e noi esiste una barriera insormontabile che è ben rappresentata dalla polizia e dalle transenne che il Comune di Roma si è così servilmente affrettato a mettere lungo il suo cammino, per dividerlo dal popolo.

Lei viene tra noi a dir messa. Per un cristiano la messa è la cerimonia con sui si ricorda la comunione di Gesù con gli uomini e il suo sacrificio sulla croce. Lei, venendo tra noi, vuol dimostrare una volontà di comunione con i diseredati, con i poveri. L’unità che si stabilisce con la comunione non è però un atto fuggevole, non è un rapido discorso, né una visita occasionale. Noi sapremo presto se lei, venendo tra noi oggi, ha commesso un grave sacrilegio od ha agito da buon cristiano. Noi sapremo presto se la distanza tra la sua sia del trono e le nostre baracche resterà incolmabile come lo è adesso. Le diciamo tutto ciò perché la responsabilità della Chiesa è grave. I finanzieri vaticani, speculando sulle aree e pagando agli operai salari da fame, contribuiscono materialmente alla creazione dei ghetti di Roma.

Non si può pretendere di essere in comunione con i poveri, se si autorizza il loro sfruttamento nel proprio nome. Certo la sua visita non è cominciata in modo cristiano.

Là dove fino ad oggi aveva regnato l’indifferenza e l’abbandono lavorano ora affannosamente trattori e camion. E’ triste vedere che ciò che non viene fatto per la nostra vita di ogni giorno, per la nostra salute, viene fatto invece per una sua fugace passeggiata, per addolcire la vista dei suoi occhi non è per portare i suoi sfarzi e i suoi lussi che il capo della chiesa deve venire tra noi. Cristo non è andato re tra i re, ma povero tra i poveri; chi agisce nel suo nome non deve andare potente tra i poveri.

Rimane un unico modo per comunicare con noi: denunci apertamente quanti, in seno alla chiesa, e spesso nel suo stesso nome, ci costringono a restare qua dentro.

Gruppo Borghetto Prenestino

  1. Discorso di Paolo VI durante l’udienza generale del 24 giugno 1970. (seconda parte)

Accettiamo piuttosto l’istanza che gli uomini d’oggi, specialmente quelli che guardano la Chiesa dal di fuori, fanno affinché la Chiesa si manifesti quale dev’essere, non certo una potenza economica, non rivestita di apparenze agiate, non dedita a speculazioni finanziarie, non insensibile ai bisogni delle persone, delle categorie, delle nazioni nell’indigenza. Né vogliamo ora esplorare questo campo immenso del costume ecclesiastico. Vi accenniamo appena, affinché sappiate che noi lo abbiamo presente e che già vi stiamo lavorando con graduali, ma non timide riforme.

Noi notiamo con vigile attenzione come in un periodo come il nostro, tutto assorbito nella conquista, nel possesso, nel godimento dei beni economici, si avverta nell’opinione pubblica, dentro e fuori della Chiesa, il desiderio, quasi il bisogno, di vedere la povertà del Vangelo e la si voglia ravvisare maggiormente là dove il Vangelo è predicato, è rappresentato; diciamo pure: nella Chiesa ufficiale, nella nostra stessa Sede Apostolica. Siamo consapevoli di questa esigenza, interna ed esterna, del nostro ministero; e, con la grazia del Signore, come già molte cose sono state compiute in ordine alle rinunce temporali e alle riforme dello stile ecclesiale, così proseguiremo, col rispetto dovuto a legittime situazioni di fatto, ma con la fiducia d’essere compresi e aiutati dal popolo fedele, nel nostro sforzo di superare situazioni non conformi allo spirito e al bene della Chiesa autentica. La necessità dei “mezzi” economici e materiali, con le conseguenze ch’essa comporta: di cercarli, di richiederli, di amministrarli, non soverchi mai il concetto dei “fini”, a cui essi devono servire e di cui deve sentire il freno del limite, la generosità dell’impiego, la spiritualità del significato.

E alla scuola del divino Maestro ricorderemo tutti di amare simultaneamente la povertà ed i Poveri; la prima per farne austera norma di vita cristiana, i secondi per farne oggetto di particolare interesse, siano essi persone, classi, nazioni bisognose di amore e di aiuto. Anche di questo ci ha parlato il Concilio. Abbiamo cercato e cercheremo di ascoltarne la voce. Ma il discorso sulla Chiesa dei Poveri dovrà continuare; per noi e per voi tutti, con la grazia del Signore. E con la nostra Apostolica Benedizione.

Il ritardo con il quale le nostre pagine danno notizia di posizioni pur rilevanti nella vita ecclesiale della diocesi ci ha permesso di mettere fianco a fianco due documenti che, separati di sei mesi nella data di pubblicazione, si richiamano l’un l’altro nella sostanza.

Non vogliamo turbare lo sviluppo delle riflessioni che la duplice lettura provoca certamente in ogni lettore attento.

Non faremo commenti esplicativi a discorsi nei quali ogni frase rivela un mondo, e si tratta di mondi ancora distanti anni-luce.

Per quel che sta più a cuore al nostro gruppo, lo sviluppo della chiesa locale, ci pare che una certa attenzione meriti la ecclesiologia che caratterizza la interpretazione della eucaristia nella prima lettera. Ci pare che potrebbe portare ad approfondimenti reali nella concezione della chiesa locale, della comunione col vescovo, della comunione del vescovo con la sua chiesa o con parte di essa, ecc.

Ed in più, una sola considerazione. La coincidenza di date (sei mesi esatti tra i due documenti: 25 dicembre e 24-25 giugno) e qualche pallida possibilità di collegamento tra i testi fanno in modo che non ci vada via dalla mente l’idea che tra i due discorsi ci sia qualcosa di più che il legame della unità di argomento. Quasi che il secondo sia stato scritto mentre il primo era ancora sul tavolo (e diceva: “noi sapremo presto”…) . Se questo è vero, tra chiesa locale di Roma e Vescovo c’è stato un momento di dialogo, come un rapido messaggio cifrato destinato a sorpassare le linee del nemico ed a non essere intercettato.

Non ci togliete la speranza che sia stato proprio così.

Il Sacramento Del Matrimonio A Roma (4)

Abbiamo considerato (“La Tenda” n. 10, pag. 2 e seg.) le prime due componenti di fondo della grave situazione esistente in materia di prassi nuziale a Roma, e cioè l’incidenza della presenza di religiosi e la burocratizzazione a-comunitaria delle strutture ecclesiali.

Ma fin dall’inizio (cfr. “La Tenda” n. 7, pag. 4) ritenemmo che con il dilungarsi nella considerazione degli aspetti più capitali, quelli che provengono dalla sfera interiore delle persone partecipanti al rapporto matrimoniale cristiano (sposi, sacerdote e comunità familiare, religiosa, civile). In questo ambito dobbiamo finalmente addentrarci, dove si realizzano (o no) contenuti di fede, e se ne postulano di tanto pregnanti che si attinge tramite essi il livello ecclesiale e sacramentale. Dinnanzi a queste considerazioni passano in seconda linea gli aspetti finora esaminati con le annesse questioni finanziarie, dai quali aspetti abbiamo pure ricavato utili riflessioni di sostanza e non solo giudizi di carattere amministrativo.

Eccoci dunque ad affrontare c) lo stato attuale della religiosità dei “cristiani” che chiedono a Roma il matrimonio religioso e, d) lo stato della teologia e del diritto che sottostanno alla sua celebrazione.

c) Stato attuale della religiosità dei “cristiani” di Roma, in particolare di quelli che chiedono la celebrazione del matrimonio religioso. Sondaggi. Anzitutto due preliminari: 1) riteniamo presuntuosa anche la modesta parola “sondaggi”, consapevoli che per mettere sulla carta qualcosa che possa pretendere d’essere un pur minimo inizio di conoscenza riflessa dello stato di religiosità di una città occorrono studi e studi. Sappiamo di una poderosa inchiesta sociologica scientificamente condotta nella città e già in fase di elaborazione; appena possibile ne daremo informazione pur dovendo lamentare che il rilevamento dei dati è già vecchio di due anni mentre siamo in materia con continue profonde modificazioni. Noi con qualche piccola nota ci proponiamo solo di risvegliare nella mente degli amici quella conoscenza di situazioni nelle quali ciascuno ogni giorno si trova a vivere e sulle quali è costretto dalla sua natura razionale ad esercitare una personale riflessione unificatrice che supponiamo sempre in esercizio. Proprio perché rinunciamo ad ogni pretesa didattica o di completezza espositiva ci permettiamo le rapide enunciazioni che seguiranno, rivolte, come ripetiamo, a far risuonare corde che già vibrano nella coscienza di ogni attento cristiano di Roma.

Secondo preliminare: attingere la sfera della interiorità è un problema per tutti, e soprattutto per chi ha accettato il comando “non giudicate”; dobbiamo dare per certo che in ogni persona che incontriamo sono presenti impulsi cristiani e forse risposte cristiane. E dove queste non ci fossero, togliere la zizzania di mezzo al grano non è affare per gente inesperta come noi. Conosciamo il dogma della volontà salvifica universale, o meglio la verità biblica della Paternità di Dio. Quando dunque esponiamo la situazione con rilievi e giudizi di fatto che sono necessariamente meno sfumati del reale, ci capita sempre il sapiente (sacerdote o vescovo, in genere) che con fare paterno e definitivo ammonisce: “ma nel nostro popolo sono presenti tante e tali ricchezze cristiane che … ecc. ecc.”. Di questo atteggiamento paternalistico che taglia corto ad ogni dialogo obiettando all’interlocutore la sua incapacità a dar conto del fenomeno religioso parleremo ancora con maggior approfondimento sostanziale. In questa sede ci limitiamo ad osservare che, pur con tutte le limitazioni di cui siamo portatori (e che condividiamo con ogni mortale), noi ci porremo sul piano delle valutazioni di fatto. Queste possono ricevere correzione, devono ricevere correzione, desideriamo anzi che vengano corrette, ma con argomenti nel merito e non con patenti di incompetenza o insensibilità.

Con le limitazioni obiettivamente riconosciute addentriamoci dunque nei nostri sondaggi cercando di riassumere in poche righe le impressioni che si formano in noi quando esaminiamo la religiosità degli uomini di Roma, nostri fratelli, al cui fianco viviamo le nostre giornate.

Disordinatamente, come disordinata è la realtà.

Se si interroga un “cristiano”, ma solo se lo si interroga esplicitamente, poniamo, sull’esistenza di Dio, la risposta è generalmente affermativa in senso razionalistico, cioè Dio c’è perché il mondo è stato pur creato da qualcuno. Probabilmente ci troviamo dinanzi all’unico residuo delle cinque vie di S. Tommaso spiegate al popolo, quasi sempre al tempo della prima Comunione. Conoscenza, o addirittura confessione, di ciò che significano Padre, Figlio e Spirito Santo, che hanno reso inutilizzabile ogni altro concetto di Dio, sono al di là della immaginazione del nomale popolo cristiano. La “precisazione” trinitaria che abbiamo nominato apparirebbe a ben più di qualche catechista una inutile complicazione di quanto si può dedurre dall’ottimo (per lui e per Aristotele) principio di causalità: c’è il mondo – quindi c’è Dio. Se si pensa che la confessione trinitaria con il suo contenuto di Amore – realtà intradivina e creatrice e interumana è l’elemento necessario e sufficiente per il battesimo (“cosa dunque impedisce che io sia battezzato? … Se credi… Credo che Gesù è il figlio di Dio”, Atti, 8,36-37) riceve ben triste risposta la domanda “quanti battezzati hanno quel minimo di fede e di conoscenza del mistero cristiano che avrebbe permesso il loro ingresso nella comunità primitiva”. Sta di fatto invece che coloro che esprimono fede (?) nel Dio razionale pensano di aver titolo sufficiente alla denominazione cristiana ed alla partecipazione ai sacramenti. Se si approfondisce il resto del patrimonio teologico si scopre che esso è formulato nei termini della catechesi dell’asilo infantile dal quale normalmente proviene: paradisi con porte, angeli con ali, Sanpietri con chiavi e registri, diavoli che pungono e santi che benedicono. Di questo elevato patrimonio intellettuale in fondo ci si vergogna, si evita di parlarne, e assai spesso più o meno esplicitamente lo si rifiuta.

Mancando fede e conoscenza dell’Amore trinitario e interumano una vita ecclesiale è impossibile. Tutto ciò che comporta aspetti comunitari è estraneo o positivamente combattuto. Sconosciuto le liturgie a livello di incontro umano, messe domenicali ad ingresso continuato, legalistiche (“è ancora buona?”), in chiese a forma di teatro per centinaia di persone. Che in una riunione liturgica si rivedano con spirito penitenziale i comportamenti dei singoli e si tentino interpretazioni e collegamenti (= comunioni) con i problemi e le risposte di altre comunità (compito di tutti, e particolarissimo delle chiese di Roma!) è cosa che sa di fantascienza, e quel che diremo più appresso mostrerà ad abbondanza perché clero e popolo cristiano di Roma sfuggano ben a ragione da chiarificazioni intraliturgiche.

Un certo numero di azioni parasacre resta ancora seppure in misura diversa da luogo a luogo e decrescente dovunque, ed in più con dimensioni fortemente equivoche: rispetto del prete – suo aspetto magico, festa del santo – affari di quartiere, battesimi matrimoni funerali – tempi cruciali e fortemente misteriosi dell’esistenza umana. Azioni che vanno trattate con ogni delicatezza da chi vuol trarre giudizio sull’interiorità che le accompagna, e da chi vuol farne inizio di una pastorale di recupero, ma che si realizzano appunto con caratteri così evidenti di azioni sociologiche da non potersi considerare automaticamente come segni di adesione reale ai contenuti minimi della fede di una comunità cristiana.

Certo le abitudini del popolo (come la toponomastica stradale) sono segnate da duemila anni di cristianesimo. Esempi. Si va in vacanza a Natale e Pasqua e molti si recano “al paese” per la festa estiva del relativo santo. Ma c’è poco da godere per queste coincidenze se si pensa che sono state le feste cristiane a tentare di guadagnare usi precedenti. Oggi il paganesimo si riprende il maltolto. Le storielle ambientate sulla porta del paradiso sono di gran lunga più numerose di quelle ambientate nel Nirvana. Ogni frequentatore dello stadio sa come “il nostro popolo” viva in perfetta dimestichezza con tutti i santi del calendario, anche declassati, con una particolare aggiornata competenza nei dogmi mariani, gloria e vanto delle tradizioni romani. Chi si contenta gode.

La morale familiare e sessuale è ormai a livelli quasi pari quelli di città moderne non tanto sacre come la nostra.

I rapporti di lavoro, a Roma, colpevolmente arretrati e concentrati nei campi del paternalismo oppressivo (edilizia, alberghieri, imprese di piccole dimensioni), realizzano nello sfruttamento da un lato e nel continuo tentativo di evitare il peso del lavoro dall’altro, il rapporto tra datore di lavoro e prestatore d’opera.

Ma la perla è senz’altro la morale professionale della città capitale e burocratico. Disonestà, favoritismi autopromozioni, pensionamenti di favore, diritti casuali, evasioni fiscali, gettoni di presenza, cumuli di cariche, stipendi riscossi senza lavorare, son cose che avvengono ogni giorno intorno a noi negli uffici pubblici e privati e che suscitano con il loro ordinato groviglio la stupita ammirazione di ogni cittadino italiano che con una conoscenza più attenta supera lo sgomento del primo impatto.

E “questo nostro popolo”, compatto su tante cose, su queste poi non transige: il bambino va battezzato, il funerale dietro al prete, il matrimonio in chiesa.

Noi siamo dell’idea che la comunità cristiana di Roma stia attraversando una crisi senza precedenti. Su questo argomento della situazione della fede a Roma torneremo ancora. Ne abbiamo parlato quel tanto che serve ad illuminare i due personaggi che un mese prima della celebrazione, a data già fissata, si presentano al tavolo di una sacrestia a chiedere il matrimonio. Si presentano con l’idea che quanto verrà richiesto dal prete è da trascriversi nel quaderno dei preparativi sotto la voce “fastidi inerenti alla celebrazione del matrimonio in un paese burocratico e complicato come il nostro”.

Sanno nulla di sacramenti, di concordati, di fede, di uffici, di carte. Vogliono sposarsi e basta; vogliono sposarsi con vestiti e fiori, con pranzo e organo, con fotografo e prete. Il contenuto del matrimonio lo hanno già stabilito loro due. Col prete c’è solo da discutere sull’ora, sul prezzo, i più esigenti sui pezzi d’organo. E sul tempo minimo che può intercorrere tra “Padre, quali documenti di vogliono?” e “Si” (la formula breve è preferita). Il prete? Dovremo sentire qualche “buona parola”, per sorriderne appena usciti.

A questo punto la prassi nuziale romana da noi esaminata (cfr. “La Tenda” nn. 6,7,10) appare come la perfetta espressione della situazione interiore della popolazione della città. L’aver avvertito qualche intoppo e l’esser intervenuti con una legislazione diocesana era segno che si era focalizzata la situazione di fondo della religiosità cittadina? Non sembra, se il contenuto della legislazione è risultato tutto nel campo amministrativo. Quel che è giunto dalla base è stato il lamento di “quei” cristiani che tra tante seccature non tolleravano che ce ne fosse una (il costo della chiesa e del cosiddetto sacramento) che presentava sorprese ad ogni passo.

Si è realizzata così una rispondenza perfetta tra la situazione interiore di quegli stessi “cristiani”, che è vuota di cristianesimo, ed il tipo di cerimonia configurato nella nuova normativa. Tra l’altro, una volta soddisfatto il bisogno di chiarezza, a molti non è dispiaciuto affatto che si sia mantenuta una gradazione nelle tariffe, così utile a creare occasioni di distinzione sociale.

Quindi la nuova legge si è dimostrata idonea, in pratica, a portare ancor meglio la gente così com’è, a prescindere da qualsiasi motivazione cristiana, a celebrare in chiesa il matrimonio.

Non risulta che a Roma sia mai stato negato il matrimonio in chiesa a qualcuno per il motivo che i richiedenti non davano sufficiente segno di appartenenza ecclesiale o di conoscenza e pratica della fede. Questa incredibile realtà è il gradino per il quale scenderemo al quarto girone, popolato da “ecclesiastici”, dove un’oscurità ancor più profonda ci attende: d) lo stato della teologia, del diritto, della pastorale che soprassiedono alla celebrazione del matrimonio.