Lettera 53 (Seconda Serie)

Lettera introduttiva

E se Pasqua cadesse nell’emergenza?

Carissime amiche e carissimi amici,

questa volta pubblichiamo il numero solo on line perché le poste sono semi bloccate; a chi ce ne farà richiesta manderemo in seguito il cartaceo.

Ci pare utile rileggere con calma la meditazione che Papa Francesco ha pronunciato durante la benedizione Urbi et Orbi del 27 marzo: è un messaggio importante per un nuovo inizio quando “le tenebre” saranno passate.

Presentiamo poi la lettera di un parroco milanese che fa una proposta per vivere ugualmente il triduo pasquale, risvegliando il potenziale di ciascuno. Ci pare una grande opportunità passare da spettatori televisivi a uomini e donne attivi nel cammino di fede personale e comunitario. Se decidiamo di celebrare il triduo pasquale nelle nostre case, può essere utile leggere, oltre a un brano del Vangelo, una parte della meditazione di papa Francesco.

Auguriamo a tutti gli amici e le amiche una settimana santa, che ci aiuti a riflettere e lodare per ciò che è veramente prioritario per noi, per l’umanità intera e per il creato tutto.

Chiediamo a tutti voi di condividere ciò che andiamo vivendo e riflettendo in questa pandemia e in questa quaresima e Pasqua e avremo così l’opportunità di pubblicare i vari contributi nei prossimi numeri.

Il testo integrale dell’omelia del Papa in tempo di epidemia

Di seguito il testo integrale della meditazione pronunciata da Papa Francesco durante il momento di preghiera straordinario in tempo di epidemia:

«Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.

È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40).

Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati.

La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità.

Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai.

Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza.

Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, e di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pt 5,7)

 

E se Pasqua cadesse nell’emergenza?

di  Antonio Torresin

Non è improbabile che anche la Settimana Santa e la Pasqua ci trovino in preda alla pandemia. Si può pensare a celebrazioni “domestiche”?

Non è per fare del terrorismo, ma per un esercizio di immaginazione che credo possa essere utile. Se l’emergenza non terminasse a breve e ci costringesse a vivere i giorni di Pasqua in questa condizione, come dovremmo vivere questa circostanza così inedita? La domanda vale anche se tutto questo – e lo speriamo – non dovesse capitare, anche se le chiese potranno per quei giorni tornare a celebrare. Vale perché nell’“emergenza” “emerge” qualcosa che forse ha un significato che interroga l’essenziale della vita, anche della vita di fede.

Se non potessimo celebrare la Pasqua insieme, nelle nostre chiese aperte, dovremmo in ogni caso “celebrare la Pasqua”. Ma come? E che significato assumerebbe?

La celebreremmo nelle case. Come il popolo di Israele in esilio – quando appunto era senza tempio, senza sacerdoti – ha iscritto la celebrazione della Pasqua nella ritualità familiare, così dovremmo imparare a celebrare nelle case. Lo faremmo ponendo al centro la Parola di Dio, come le Scritture del Primo Testamento si sono fissate nel tempo dell’esilio, della diaspora.

La Scrittura è sorta come un codice identificativo, che permette al popolo di non perdersi nella dispersione. La memoria della Pasqua è al cuore delle Scritture, è il momento culmine della vita di Gesù: la celebra perché i suoi discepoli non si perdano nella prova, e questo è drammaticamente vero per noi oggi.

Le case

Celebriamo la Pasqua “restando a casa”. Lo spazio della casa è chiamato a diventare luogo del culto spirituale, dove «offrire i vostri corpi» (Rm 12,1), come dice Paolo. Le relazioni più intime, se vere, se vissute in Cristo, diventano «tempio dello Spirito» (1Cor 6,19).  Accade già, ogni giorno, nella cura del cibo, nella cura del corpo, nella malattia, nell’amore… ma ora tutto questo deve essere celebrato in memoria della Pasqua di Gesù.

Ogni famiglia deve inventarsi uno spazio con dei segni che richiamino la fede: un cero, un crocifisso, una tovaglia particolare che viene messa sulla tavola nei momenti celebrativi… Tutto questo poi potrebbe rimanere come un’esperienza che si può sempre ripetere: possiamo celebrare la fede nelle case, nella vita quotidiana, in ogni giorno.

E chi è solo? Chi nella casa vive isolato? Certo sarebbe bello se le nostre case, nel piccolo, si aprissero per momenti di preghiera condivisi. Accade già: qualcuno va dalla amica vicina a recitare il rosario… ora non potrebbe anche celebrare la Pasqua? E se si rimane soli si celebra lo stesso, perché «il Padre vede nel segreto» (Mt 6,6) della tua stanza e ascolta le tue preghiere forse ancora di più perché segrete!

Le chiese

E le chiese? Rimangono aperte. Perché rappresentano il segno che la fede non mai un fatto individualistico e neppure “familistico”.

C’è una famiglia più grande, nella quale ciascuno è inserito, di cui sentirsi parte, fratelli e sorelle e tutti insieme figli e figlie. Per questo serve una parola che venga dalla Chiesa. Quale e come? Ascoltare la predicazione del papa ci fa sentire parte di una Chiesa universale, ascoltare la parola del Vescovo ci inserisce nella Chiesa particolare di cui siamo parte; poter ascoltare anche una parola che viene dalla nostra parrocchia, richiama il legame più prossimo con una concreta comunità di credenti. Per questo è utile che i mezzi di comunicazione rendano possibile ascoltare, restando a casa la parola della Chiesa.

Questa parola non sostituisce, però, la celebrazione, vuole aiutarla, renderla possibile, metterla in moto. Se fossi un Vescovo (mi permetto questo assurdo e subito ne chiedo scusa….) non mi preoccuperei solo di mandare in onda in televisione un bel «pontificale» come se tutto fosse come prima (ma senza il popolo di Dio nulla è come prima!).

Mi rivolgerei con una parola alla diocesi, parlerei come un padre che immagina i suoi figli raccolti attorno a un tavolo di casa per pregare, e proverei ad aiutarli a celebrare la Pasqua nell’emergenza, lì dove sono, ma anche in comunione con tutta la Chiesa particolare di cui sono parte.

Il popolo di Dio

Forse questa “emergenza” è l’occasione perché «emerga» il popolo di Dio come soggetto vivo della fede. Non come soggetto passivo, che assiste ad un rito che altri per lui celebrano, ma che si scopre «popolo sacerdotale», in grado di celebrare. È un’occasione unica, non avremo – speriamo – molte altre opportunità che ci costringano a compiere quel salto di qualità che il Concilio ci ha indicato ma che fatichiamo così tanto a mettere in opera.

Tutta l’assemblea è soggetto celebrante, ovvero ogni credente deve imparare non ad “assistere” ma a celebrare attivamente. Ora può e deve farlo, altrimenti rimane un vuoto incolmabile. Questo in realtà è vero sempre: in ogni celebrazione, anche in quelle che normalmente facevamo nelle nostre chiese, anche in quelle solenni nelle cattedrali, il soggetto celebrante è tutta l’assemblea!

E i ministri, chi presiede in particolare, vive il suo servizio non per sostituire il popolo di Dio, ma per aiutarlo a sentirsi parte attiva della celebrazione. E se questo vale per ogni domenica, vale anche per la Pasqua.

 

I preti

In questi giorni di emergenza i preti vivono in modo strano e spesso disarticolato il loro ministero. Qualcuno è preso da un’ansia compulsiva di fare qualcosa. Si moltiplicano le messe via web, i messaggi vocali, i gruppi whatsApp che scambiano forsennatamente altri messaggi altri video… mi sembra che tutto questo provochi una cacofonia che manca di misura. Troppe parole, per nascondere silenzi imbarazzanti.

Forse i preti si sentono inutili, impotenti, privi del ruolo che prima sembrava (siamo sicuri?) certo. Credo che sia importante trovare una misura tra il desiderio di stare vicini alla gente – sacrosanto – e la capacità di accettare un vuoto, un’impotenza, un tempo “inoperoso”. Solo se si ha la fede per entrare in questo tempo sospeso, in questa mancanza, forse si potranno regalare parole che nascono dal profondo, che sgorgano da un silenzio pieno di ascolto.

Immaginando…

Ma allora che suggerimenti potremmo dare per celebrare il Triduo pasquale nelle case? Qui provo solo a dare qualche spunto minimo, nella certezza che non manchino al popolo di Dio e ai preti, la creatività per sostenere tutti i credenti nel vivere in modo «eccezionale» questa Pasqua 2020.

Giovedì Santo

Giovanni nel suo Vangelo non riporta l’ultima cena ma la lavanda dei piedi. Potrebbe questo essere un rito che in casa ogni componente può ripetere l’un l’altro, per ricordare che l’eucaristia è celebrata quando ci mettiamo a servizio gli uni degli altri.

Poi si potrebbero rileggere i testi che istituiscono il memoriale (dal libro dell’Esodo, dalla prima lettera di Paolo ai Corinti, dai Sinottici). Non possiamo celebrare l’Eucaristia in casa, ma spezzare un pane e condividerlo può rimandare al senso di quello che ogni domenica viviamo con tutti i credenti.

Venerdì Santo

Al centro del Venerdì Santo c’è la croce di Gesù e il racconto della sua morte. Diventa importante scegliere una croce da mettere al centro, che sia quella che poi ogni volta ci invita a pregare. Davanti alla croce tre momenti potrebbero essere celebrati: il racconto della passione e morte del Signore; il bacio alla croce (che diventa intimo, familiare, passando il crocifisso di mano in mano); e una preghiera universale, perché la croce ci raccoglie tutti (e in questi momenti con particolare riferimento a chi soffre per il contagio e a chi opera per la cura dei malati).

Sabato Santo

Questo è un giorno particolare dove regnano il silenzio e l’assenza di celebrazioni. Abbiamo vissuto tutta la quaresima come un lungo Sabato Santo di silenzio e senza riti. Allora questo giorno lo si potrebbe consacrare al silenzio. Si pongono i segni (una candela spenta, un crocifisso coperto, una tavola spoglia) ma sono segni dell’assenza.

Vivere la mancanza come grembo del desiderio, come tempo nel quale prepararsi all’incontro. In casa si potrebbe preparare tutto quello che poi nel giorno successivo, vuole essere motivo di festa: il cibo, i fiori, un disegno…

 Domenica di Pasqua

La domenica di Pasqua la si vive come ogni domenica senza la celebrazione della messa in chiesa. Una celebrazione della Parola – non mancano i sussidi che ogni chiesa cerca di offrire per il suo popolo – che si conclude con una festa, un pranzo condiviso, un momento di gioia.

Senza dimenticare chi è solo: si potrebbe decidere di telefonare a amici e parenti, a chi sappiamo essere solo per uno scambio di auguri, per dare una parola di vicinanza e di speranza. Lo dobbiamo fare spesso, ma forse ancor più in un giorno come questo.

Sono solo suggerimenti di gesti minimi. Ma offrono l’occasione per iscrivere la fede e la sua celebrazione nella vita quotidiana, tra le mura di casa. Ora, un Triduo strano come questo, va preparato. «Dove vuoi che prepariamo per celebrare la Pasqua?» (Mt 26,17) chiedono i discepoli a Gesù.

Scopriamo anche questo: non si celebra la Pasqua se non la prepariamo. Non è come andare al cinema che basta recarsi nelle sale, pagare un biglietto e poi assistere. La Pasqua non la si assiste, la si celebra e quindi ci si prepara, forse questa volta come mai prima.