Lettera 43 (Seconda Serie)

Care amiche e cari amici, cercando di restare fedeli alla storia di questa lettera e a un’attenzione costante al sociale, vogliamo presentarvi un contributo di grande interesse, la relazione tenuta da Giorgio Marcello, amico de La Tenda e ricercatore all’università della Calabria, al convegno “Accoglienza e Sicurezza” tenutosi quest’estate a Quaresima. E’ una riflessione che cerca di spiegare in semplici parole la crisi che tutti vediamo e tutti colpisce, crisi economica ma molto di più crisi di valori e di speranza.

Abbiamo per anni preso per buono il sogno di una crescita senza limiti, un sogno in cui l’arricchimento del “padrone”, in un meccanismo automatico a discesa, avrebbe portato a una situazione migliore anche per i più poveri.

La crisi ci ha svegliato? Purtroppo non credo. Restiamo prigionieri dei vecchi schemi legati all’incremento del Pil, al mito della crescita che non tiene conto delle reali possibilità del pianeta.

Prigionieri di un gioco perverso, abbiamo dimenticato che il denaro è solo un sistema di scambio di merci (non sempre di beni), ma in sé non è che bit in un computer o carta più o meno colorata. Questa riflessione cerca di riportarci alla realtà.

E questa realtà è molto dura, i poveri si scagliano non contro chi li ha impoveriti ma contro chi, più povero di loro, potrebbe sottrargli qualche infimo privilegio. Le nostre città diventano in questo modo arena di scontri drammatici tra impoveriti che non sanno più chi è il nemico.

Sicurezza invocano tutti, ma chi era abituato a pensare alla “sicurezza” come un lavoro in condizioni umane di “non pericolo”, oppure alla “sicurezza” come possibilità di programmare la propria vita con un lavoro sicuro, o infine alla “sicurezza” come un sistema sanitario che permetta la cura indipendentemente dal reddito…ecco che è fuori strada, la sicurezza invocata è contro i poveri, anzi gli impoveriti. Questi sono i nuovi nemici che minacciano i confini di quella misera normalità che ci è rimasta.

Ma questa riflessione non è senza speranza, dice Giorgio Marcello: “…è urgente portare avanti un impegno educativo, che favorisca la maturazione di una coscienza politica popolare e diffusa, in grado di alimentare scelte personali e comunitarie di apertura all’accoglienza, e non di chiusura a difesa dei privilegi acquisiti. Un impegno del genere diventa credibile nella misura in cui è espressione di una ricerca comunitaria di ascolto profondo, della Parola e del grido dei poveri, e di una consuetudine di vita con i più fragili, ai quali occorre sempre guardare perché le nostre comunità apprendano a camminare con il passo degli ultimi.”

E’ questo il nostro compito per i prossimi anni.

Sarà, come sempre, gradito il contributo degli amici, contributi che ci riproponiamo di pubblicare nelle prossime lettere.

Cosa vuol dire oggi promuovere la sicurezza?

Riflessione di Giorgio Marcello (Università della Calabria)

43

Premessa

Nella Evangelii Gaudium (EG), Papa Francesco affronta la questione dell’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo. Egli afferma che una Chiesa “in uscita” non può ignorare le questioni che provocano nel mondo disuguaglianze profondissime e sofferenze inaudite, a carico della stragrande maggioranza delle persone che abitano il pianeta. Rispetto a tali questioni, la riflessione del Papa non ha la pretesa di abbracciare tutta la realtà e di spiegarla, ma si colloca “nella linea di un discernimento evangelico”, capace di cogliere e interpretare i segni dei tempi, invitando tutte le comunità ad assumere la responsabilità di questa fatica (n. 51).

Non è vero che la crescita economica favorita dal libero mercato migliori la condizione dei più poveri. Al contrario, accade che “mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice.”

Tra le sfide più urgenti con cui fare i conti, c’è quella rappresentata dalla economia dell’esclusione e della disuguaglianza, poiché “questa economia uccide” (n. 53). Non è vero, egli afferma, che la crescita economica favorita dal libero mercato migliori la condizione dei più poveri. Al contrario, accade che “mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole. Inoltre, il debito e i suoi interessi allontanano i Paesi dalle possibilità praticabili della loro economia e i cittadini dal loro reale potere d’acquisto” (n. 56).

In una situazione del genere, cresce il bisogno di sicurezza, soprattutto da parte dei gruppi umani che hanno paura di perdere i propri privilegi, e avvertono la minaccia di una violenza crescente. Tuttavia, la violenza non può essere sradicata se le disuguaglianze non vengono eliminate. Questa ondata securitaria alimenta la spirale del risentimento, ovvero del rancore di quanti avvertono la propria posizione nel mondo come declinante contro gli ultimi della scala sociale

In una situazione del genere, cresce il bisogno di sicurezza, soprattutto da parte dei gruppi umani che hanno paura di perdere i propri privilegi, e avvertono la minaccia di una violenza crescente. Tuttavia, la violenza non può essere sradicata se le disuguaglianze non vengono eliminate. “Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé” – si dice al n. 59 dell’EG – “non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità”.

Nelle pagine che seguono, vediamo di fare qualche ulteriore affondo proprio sul termine “sicurezza”, nel tentativo di capire in che modo è cambiato ultimamente il suo significato. Se nel corso dei “trent’anni gloriosi” (1945-1975) la sicurezza sociale era sinonimo di protezione sociale assicurata dai governi a tutti i cittadini in quanto tali, oggi si tende a far coincidere la sicurezza con l’ordine pubblico, con il bisogno di preservare i privilegi acquisiti, e con la criminalizzazione dei poveri, su cui viene scaricata la responsabilità della loro condizione. Questa ondata securitaria alimenta la spirale del risentimento, ovvero del rancore (di quanti avvertono la propria posizione nel mondo come declinante) contro gli ultimi della scala sociale. Questo slittamento semantico interroga ognuno di noi, e sollecita anche la comunità cristiana ad irrobustire il suo impegno di discernimento su temi così delicati.

Sicurezza e stato sociale

I tre decenni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, sono quelli in cui lo stato sociale si impianta e si sviluppa pienamente in tutto l’occidente. Le prime esperienze di protezione sociale pubblica sono più antiche, e risalgono agli ultimi due decenni del IXX secolo. Tuttavia, è solo dopo l’immane tragedia del duplice conflitto mondiale che lo stato sociale si consolida e raggiunge i suoi massimi livelli di espansione. Art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Lo stato sociale è il frutto del superamento dello stato liberale, e della democrazia intesa come garanzia di una uguaglianza puramente formale. Infatti, lo stato è sociale quando non si limita ad assicurare ai cittadini l’esercizio delle libertà civili e dei diritti politici; ma si propone di porre un argine alla violenza intrinseca del sistema economico e finanziario, in modo da realizzare l’uguaglianza sostanziale dei cittadini stessi.

Il documento che in tutta Europa viene preso come riferimento per questa ri-definizione delle politiche pubbliche è il Piano approntato in Inghilterra, nel 1942, da Lord Beveridge, per esplorare le principali cause della povertà nel suo paese, e per individuare le possibili strategie di fronteggiamento. Questo testo determina il superamento della concezione della povertà come colpa individuale, e puntualizza che essa rappresenta un fenomeno multidimensionale, collegato alle dinamiche della società di mercato – quando quest’ultima è lasciata libera di funzionare senza ostacoli – e che la sua (della povertà) causa principale va individuata nella mancanza di lavoro. Questo è il motivo per cui, secondo Beveridge, la proprietà privata dei mezzi di produzione non può essere compresa nell’elenco delle libertà fondamentali del cittadino. In uno scritto del 1945, egli così afferma: “La proprietà privata dei mezzi di produzione può essere o meno un buon espediente economico, ma deve giudicarsi come un espediente. Essa non è in Gran Bretagna una libertà essenziale del cittadino, perché non è mai stata goduta che da una piccola parte del popolo britannico. Non può nemmeno dirsi che una parte considerevole della popolazione nutra una realistica speranza di arrivare in avvenire ad una tale proprietà” (Beveridge 1945). E conclude dicendo che “se la esperienza o la logica dimostrassero che l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione fosse necessaria per assicurare la piena occupazione, questa abolizione dovrebbe essere intrapresa” (Ibidem).

Nel corso del tempo, stato sociale in Italia ha voluto dire istruzione pubblica, rafforzamento progressivo delle tutele previdenziali, sanità per tutti. Tuttavia, le modalità attraverso cui il modello sociale europeo si è concretamente realizzato nel nostro paese non sono state prive di problemi e di contraddizioni, legati a difetti strutturali del nostro modello di stato sociale, oggi evidenziati, ad esempio, dalla differenziazione tra regioni del nord e del sud, o dalla mancanza di misure per il fronteggiamento delle povertà estreme.

Per la nostra ricerca, mi sembra interessante tenere conto delle perplessità che Dossetti, padre costituente, manifesta già agli albori della repubblica, circa la possibilità che una riforma radicale dello stato e delle sue istituzioni potesse effettivamente realizzarsi, in modo da produrre effetti stabili e duraturi di sicurezza In questa cornice, la sicurezza sociale indica il complesso degli interventi pubblici finalizzati a promuovere la liberazione delle persone dalla povertà, attraverso la rimozione delle disuguaglianze di partenza, e il raggiungimento dell’obiettivo della piena occupazione.

Negli anni considerati, lo stato sociale, e le relative politiche di sicurezza sociale, si affermano ovunque, ma non con lo stesso grado di intensità e di apertura universalistica.

In Italia, la nostra Costituzione pone le basi per una rifondazione dello stato in senso sociale. Basti pensare al contenuto degli artt. 2 e 3, per esempio[1].

sociale. In una relazione tenuta nel 1946, egli critica l’impostazione pragmatica della Dc, “volta al mantenimento degli assetti conservatori della società prebellica” (Lorefice 2011, 63). E in più occasioni denuncia il sostegno dei cattolici al liberalismo economico. A suo avviso, era come se i cattolici impegnati in politica non si rendessero conto della resistenza delle classi abbienti al cambiamento necessario, né della riorganizzazione degli interessi capitalistici, o dello spirito di speculazione degli industriali, “che cercano non profitto industriale ma addirittura profitto di speculazione” (Dossetti, Scritti politici—-). Questa analisi mette in risalto, con grande anticipo, le distorsioni che hanno ostacolato il processo riformatore auspicato, e che più tardi hanno contribuito ad innescare la crisi profonda della vita economica e sociale, in Italia e non solo.

Come ribadisce ripetutamente nei suoi interventi pubblici e dalle pagine di Cronache sociali, l’obiettivo della democrazia sostanziale richiede, secondo Dossetti, l’impegno dello stato nella economia, per superare le disuguaglianze generate dal mercato, e per promuovere attivamente i diritti dei lavoratori e dei cittadini più fragili.

Nel 1951, egli dichiara conclusa la sua esperienza. Il tentativo di promuovere una riforma radicale nello stato viene considerato esaurito. Come lui stesso chiarisce successivamente, a decretarne la conclusione vi furono due elementi bloccanti. Innanzitutto, la situazione politica internazionale, la divisione del mondo in due blocchi contrapposti e, dunque, l’utilizzo ideologico e strumentale del pericolo comunista. L’altro elemento bloccante “è stata la coscienza – è Dossetti che scrive – che la nostra cristianità, la cristianità italiana non consentiva le cose che io auspicavo nel mio cuore. Non le consentiva a me e non le avrebbe consentite a nessun altro in quei momenti, per considerazioni varie di politica internazionale e di politica interna. E non so se sia tanto evoluta la coscienza della cristianità italiana da poterle consentire oggi” (ivi, p. 16). La sua scelta è motivata, inoltre, dalla convinzione che la riforma dello stato in Italia non sarebbe stata possibile senza una riforma della Chiesa, per via del collegamento stretto esistente tra la fondamentale catastroficità della situazione civile e la criticità del mondo ecclesiale.

L’obiettivo della democrazia sostanziale richiede l’impegno dello stato nella economia, per superare le disuguaglianze generate dal mercato, e per promuovere attivamente i diritti dei lavoratori e dei cittadini più fragili.

La doppia crisi (economica ed ecologica), il debito pubblico e la crisi dello stato sociale. Quale sicurezza?

Dopo il trentennio di massima espansione, dalla fine degli anni Settanta prende inizio il declino del modello sociale europeo. Già da tempo, in tutto l’occidente lo stato sociale è sotto attacco. Più di recente, dopo lo scoppio della crisi globale, che ha avuto i suoi picchi più drammatici nel 2008 e nel 2010, i governi europei hanno messo in atto politiche di austerità che hanno determinato una progressiva contrazione della spesa sociale, allo scopo di contenere il disavanzo pubblico, considerato la principale causa della crisi. Secondo studiosi autorevoli come Gallino (2015), tali politiche – che hanno determinato un aumento vertiginoso delle disuguaglianze – si fondano su un presupposto sbagliato, e rappresentano l’equivalente di un vero e proprio colpo di stato, orchestrato da banche e istituzioni finanziarie, con la complicità delle istituzioni della UE. L’analisi che Gallino propone, non è molto distante dai ragionamenti sviluppati nella esortazione di Papa Francesco, e ci aiuta a comprendere meglio il senso della citazione della EG riportata in premessa, secondo cui quella attuale è una economia che uccide.

Nel paragrafo successivo, vedremo meglio in che senso il declino dello stato sociale, e l’aumento delle disuguaglianze, abbiano contribuito a modificare il modo di intendere la sicurezza.

L’ultima grande crisi, dunque, non è figlia di una spesa sociale ipertrofica. Secondo Gallino (2015), essa è stata determinata da una doppia crisi, quella del capitalismo e quella ecologica; ed è stata amplificata a dismisura dal processo di finanziarizzazione, che istituzioni finanziarie e governi hanno alimentato per rispondere alla crisi del capitalismo. In Europa, la struttura stessa del trattato UE, e gli orientamenti delle principali istituzioni comunitarie hanno facilitato l’instaurarsi della svolta dittatoriale in atto.

Nel 2008 e nel 2010, i governi europei hanno messo in atto politiche di austerità che hanno determinato una progressiva contrazione della spesa sociale, allo scopo di contenere il disavanzo pubblico, considerato la principale causa della crisi. Secondo studiosi autorevoli tali politiche hanno determinato un aumento vertiginoso delle disuguaglianze

Ma vediamo con ordine.

2.1 La crisi del capitalismo

Il capitalismo attuale, fondato sul dominio della finanza, sull’aumento continuo dei consumi (e della crescita), sul peggioramento delle condizioni di lavoro, sull’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza, vive una crisi profondissima. La prospettiva sembra essere quella di una stagnazione senza fine: mentre l’1 per cento della popolazione continua ad arricchirsi, il pil non cresce, i prezzi sono fermi o in calo, i salari e gli stipendi diminuiscono (in termini reali), le imprese chiudono.

Per Gallino, una delle principali cause di questa crisi è da individuare nella macroscopica contraddizione interna al capitalismo stesso: la pauperizzazione del consumatore, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. L’autore considerato così afferma: “il consumatore medio – l’impiegato, l’operaio, l’insegnante, l’infermiera, ecc. – non è diventato più povero per qualche misteriosa disfunzione dell’economia: è stato intenzionalmente impoverito da chi aveva il potere di farlo, al fine di trasferire ai profitti e alle rendite la maggior quota possibile dei redditi da lavoro” (Gallino 2015, 18). Si tratta della condizione di povertà relativa in cui versano milioni di lavoratori, e che rappresenta un esito metodicamente perseguito dalle imprese e dai governi. Una sorta di impazzimento del processo di accumulazione capitalistica. Questo spostamento di ricchezza dal basso verso l’alto (dove si concentra nelle mani di una ristrettissima oligarchia) è una contraddizione perché i lavoratori sono anche consumatori (ed esprimono il 70-80% della domanda di prodotti): se si impoveriscono, tutto il processo produttivo diventa stagnante. La crisi del 2008, e la successiva crisi del debito pubblico che si è aperta in Europa a partire dal 2010, sono effetti collaterali di questa crisi strutturale.

Il capitalismo attuale, fondato sul dominio della finanza, sull’aumento continuo dei consumi (e della crescita), sul peggioramento delle condizioni di lavoro, sull’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza, vive una crisi profondissima.

Una delle principali cause di questa crisi è dovuta alla pauperizzazione del consumatore, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta.

Il consumatore medio non è diventato più povero per qualche misteriosa disfunzione dell’economia: è stato intenzionalmente impoverito da chi aveva il potere di farlo, al fine di trasferire ai profitti e alle rendite la maggior quota possibile dei redditi da lavoro”.

Lo spostamento di ricchezza dai salari ai profitti è avvenuto attraverso la compressione dei salari e il peggioramento delle condizioni di lavoro. Di conseguenza, in tutti i paesi Ocse nel periodo 1976-2006 la percentuale dei salari sul Pil è scesa in media di 10 punti, che sono passati ai profitti dando origine a disuguaglianze di reddito e di ricchezza inaudite.

L’impoverimento dei lavoratori ha determinato la riduzione della domanda di beni e, di conseguenza, la contrazione progressiva delle vendite e della domanda di investimenti.

La diminuzione del lavoro umano, come effetto anche dello sviluppo tecnologico, ha incrementato la quantità dei lavoratori sovrannumerari, ed ha ulteriormente aggravato la crisi.

2.2 La crisi ecologica

La crisi del capitalismo innesca ed aggrava la crisi ecologica (questione ampiamente affrontata nella Laudato si’). Per sopravvivere alla crisi produttiva da esso stesso provocata, il capitalismo – attraverso sofisticate operazioni di marketing – mette in campo strategie che sollecitano a consumare sempre di più. Tali strategie prevedono l’obsolescenza programmata dei beni venduti e consumati, il lancio continuo di nuovi prodotti che fanno apparire superati i precedenti, la corruzione dei bambini e degli adulti per mezzo di una pubblicità onnipervasiva (la qual cosa è un problema politico oltre che economico, “poiché erode alla base la formazione del cittadino”), l’uso dei mezzi personali di comunicazione per trasformare ogni comunicazione in un veicolo pubblicitario.

Per sopravvivere alla crisi produttiva da esso stesso provocata, il capitalismo mette in campo strategie che sollecitano a consumare sempre di più. Tali strategie prevedono l’obsolescenza programmata dei beni venduti e consumati, il lancio continuo di nuovi prodotti che fanno apparire superati i precedenti, la corruzione dei bambini e degli adulti per mezzo di una pubblicità onnipervasiva (la qual cosa è un problema politico oltre che economico, “poiché erode alla base la formazione del cittadino”

Questo processo poggia sull’idea di un consumo senza limiti, senza tenere conto che le risorse che la terra è in grado di mettere a disposizione sono invece limitate.

Questo processo poggia sull’idea di un consumo senza limiti, senza tenere conto che le risorse che la terra è in grado di mettere a disposizione sono invece limitate. Tutto ciò si traduce in una dissipazione irresponsabile di risorse. Inoltre, i danni inferti al clima e agli altri sistemi che sorreggono la vita stanno per raggiungere un punto oltre il quale i danni alle condizioni di esistenza di gran parte dell’umanità potrebbero diventare irreversibili.

2.3 La finanziarizzazione

La finanziarizzazione rappresenta il tentativo di superare la stagnazione economica, e di continuare ad alimentare il processo di accumulazione capitalistica. Si tratta di “un gigantesco progetto per generare denaro mediante denaro, riducendo al minimo la fase intermedia della produzione di merce o, preferibilmente, saltandola per intero” (Gallino 2015, 34). Per questa via, dalla fine degli anni Settanta in poi, il capitalismo non si propone prioritariamente di produrre merci dotate di un tangibile valore d’uso, ma di produrre rendite.

Come avviene tutto questo? Mettendo in circolazione una quantità spropositata di denaro fittizio, a cui non corrisponde alcun bene reale. Durante la crisi del 2008, il crollo di questa costruzione ha determinato la scomparsa di decine di trilioni di denaro fittizio in poche ore.

Attraverso tale strategia, i centri finanziari Usa e UE, d’accordo con i rispettivi governi, hanno trasformato il futuro in merce e lo hanno messo in vendita, spingendo persone, famiglie ed istituzioni ad indebitarsi sempre di più. Il meccanismo è quello del credito bancario. Non si tratta del credito concesso a un soggetto che vuole avviare un’impresa, ma non ha il capitale. Ma del credito concesso per acquistare beni, oppure titoli o altri prodotti finanziari. Dal 1980 fino ai primi anni del nuovo secolo, il 70% circa dei prestiti è stato chiesto per queste ultime finalità. Per questa via, il futuro diventa merce: chi chiede i soldi, è motivato dalla convinzione che domani sarà meglio di oggi; e cioè, che il bene o il prodotto finanziario acquistato, nel futuro aumenterà di valore. Acquisto ora, con i soldi presi a prestito (e, dunque, utilizzando denaro creato ad hoc), per lucrare l’aumento di valore futuro. E così è accaduto che “negli anni precedenti la crisi del 2008 la vendita del futuro ha conosciuto, sotto la pressione dell’industria finanziaria e con l’appoggio dei governi e delle banche centrali, un’espansione smisurata” (ivi, 37).

Dalla fine degli anni Settanta in poi, il capitalismo non si propone prioritariamente di produrre merci dotate di un tangibile valore d’uso, ma di produrre rendite.

Come avviene tutto questo? Mettendo in circolazione una quantità spropositata di denaro fittizio, a cui non corrisponde alcun bene reale.

Un esempio è quello del settore immobiliare. Negli Usa, e poi in Europa, milioni di famiglie vengono convinte ad acquistare una casa, pur non avendone i mezzi, sulla base della promessa che l’aumento di valore dell’immobile avrebbe facilitato il pagamento delle rate del mutuo. Molte di queste famiglie accendono un secondo mutuo, per pagare le rate del primo, o per apportare miglioramenti all’immobile acquisito. All’improvviso, a partire dal 2006, il futuro non è più una merce vendibile. I prezzi delle abitazioni non crescono più, o addirittura cominciano a diminuire, e milioni di famiglie (impossibilitate a saldare i debiti contratti) subiscono il sequestro della casa, che ormai vale meno del mutuo o dei mutui sottoscritti.

Per un certo numero di anni, la finanziarizzazione dell’economia ha permesso di superare la stagnazione dell’economia reale, ma ha posto le basi del disastro futuro. Che è scoppiato quando ci si è resi conto che la stragrande maggioranza dei debitori non aveva le risorse per poter saldare i debiti contratti.

In tutto questo, la responsabilità dei governi è stata enorme. Innanzitutto, perché hanno autorizzato le banche private a creare denaro dal nulla.

Un altro esempio è rappresentato dalla proliferazione dei prodotti finanziari messi in circolazione nello stesso periodo, e scollegati da qualsiasi attività produttiva. Si calcola che nel 2010 il valore nominale dei titoli in circolazione fosse pari a venti volte la ricchezza prodotta dal mercato (1,2 quadrilioni di dollari, contro i 60 trilioni di dollari del pil mondiale dello stesso anno).

La finanziarizzazione ha aggravato anche la crisi ecologica, in quanto, dalla fine degli anni Novanta, perfino le emissioni di diossido di carbonio sono diventate oggetto di speculazione finanziaria, attraverso il commercio delle emissioni inquinanti tra un paese e l’altro (cioè, i paesi che sanno di superare i limiti delle emissioni consentite dal protocollo di Kyoto possono comprare la possibilità di sforare da paesi che inquinano di meno).

Per un certo numero di anni, la finanziarizzazione dell’economia ha permesso di superare la stagnazione dell’economia reale, ma ha posto le basi del disastro futuro. Che è scoppiato quando ci si è resi conto che la stragrande maggioranza dei debitori non aveva le risorse per poter saldare i debiti contratti.

In tutto questo, la responsabilità dei governi è stata enorme. Innanzitutto, perché hanno autorizzato le banche private a creare denaro dal nulla. Nei paesi occidentali, la percentuale di denaro creato dalle banche private va dal 90 al 97% del totale del denaro circolante.

La grande crisi del 2008 è stata innescata, dunque, dall’aumento eccessivo del debito privato, di famiglie e imprese; il successivo aumento dei bilanci pubblici non è stato causato dall’aumento della spesa sociale, ma dai pacchetti di salvataggio erogati dagli stati a favore delle banche.

2.4 La strategia del debito

Tutto ciò non è avvenuto in maniera casuale. Fare in modo che il maggior numero di soggetti economici, privati e pubblici, sia indebitato al limite delle sue possibilità, e oltre, fa parte della strategia globale del sistema finanziario. L’indebitamento consente a quest’ultimo di estrarre dagli indebitati un flusso continuo di denaro, generato da altro denaro, in gran parte fittizio perché creato dal nulla. Il tutto, senza produrre nulla di utile. Inoltre, più i soggetti sono indebitati, più è facile assoggettarli alla disciplina dei mercati. Per ottenere questi scopi, è necessario per il creditore che i debiti aperti nei suoi confronti non vengano mai saldati. Questo accade quando il debitore (un privato o uno stato) deve pagare interessi così elevati sul debito preesistente, da essere costretto a fare altri debiti per pagare gli interessi sugli interessi, senza mai riuscire a restituire quote di capitale.

La strategia del debito ha avuto un ruolo fondamentale nella crisi scoppiata in Europa a partire dal 2010, dopo quella americana.” (Gallino 2015, 64).

In Italia, la situazione del disavanzo pubblico è diventata insostenibile per ragioni analoghe. All’inizio degli anni Ottanta, il debito pubblico italiano era pari al 60% del pil. Nel 1981, il ministro del tesoro (Andreatta) e il governatore della Banca d’Italia (Ciampi) concordano di vietare alla Banca d’Italia di acquistare (con un basso tasso di interesse) i titoli del debito pubblico rimasti invenduti. Questa decisione determina un aumento notevole dei tassi di interesse che lo Stato si impegna a pagare per smerciarli più facilmente. La conseguenza è che in soli dieci anni, dal 1982 al 1993, il reddito pubblico raddoppia, raggiungendo la percentuale del 120% del pil. Tale incremento è determinato non da un aumento incontrollato della spesa sociale, come sostiene la narrazione dominante, ma dall’aumento degli interessi sui titoli emessi. Tutto ciò ha permesso alle banche ed ai risparmiatori di lucrare interessi vantaggiosi, ma ha reso impossibile che lo stato potesse rientrare dal proprio debito. Nel 2016, ad esempio, lo stato italiano ha risparmiato 25 miliardi di euro, ma il debito pubblico è cresciuto di altri 40 miliardi perché il risparmio non è arrivato a coprire la spesa per interessi. Dai primi anni Novanta il debito è passato da 850 a 2270 miliardi di euro, nonostante 768 miliardi di risparmi (Gesualdi 2017).

Nel momento in cui la crisi ha messo a rischio la sopravvivenza delle banche i governi UE hanno scelto intenzionalmente di salvare queste ultime, a danno dell’occupazione, della produzione, dei salari, delle condizioni di lavoro, dello stato sociale, dell’ambiente

2.5 I trattati UE

La crisi è anche figlia dei trattati UE. Essi prevedono una forte concentrazione di poteri privi di qualsiasi controllo in capo a poche istituzioni (commissione europea, consiglio europeo e banca centrale europea), non elette dal popolo. A queste istituzioni, i trattati hanno affidato il compito di portare avanti politiche economiche omogenee, con l’idea che questo avrebbe annullato le differenze di funzionamento tra i paesi, portando quelli più fragili ad assumere i caratteri delle economie di punta.

Tali istituzioni hanno ridotto considerevolmente la sovranità degli stati membri in campo economico. Dall’inizio del 2010, la commissione e il consiglio, con il sostegno della bce, hanno formalmente avviato un piano di trasferimento di poteri dagli stati membri alle principali istituzioni ue, “che per la sua ampiezza e gradi di dettaglio rappresenta una espropriazione inaudita della sovranità degli stati stessi” (ivi, 81). Gli interventi sui singoli stati si sono tradotti in una stretta sorveglianza dei bilanci pubblici, per cui i ministri delle finanze potrebbero essere tranquillamente eliminati. “Il culmine delle attività di sequestro della sovranità economica e politica dei nostri paesi da parte di queste due istituzioni ue è stato toccato nel 2012 con l’imposizione del trattato detto in breve fiscal compact, il quale prevede l’inserimento nella legislazione di ogni stato membro del pareggio del bilancio, preferibilmente per via costituzionale. I nostri parlamentari (…) hanno scelto compatti la strada del maggior danno – la modifica dell’art. 81 della costituzione per inserirvi il pareggio del bilancio” (ibidem).

Anomalo è anche il ruolo della bce. Storicamente, le banche centrali nascono come strumento degli stati per gestire l’economia. La bce è il primo caso di una banca centrale totalmente indipendente dai governi. Ad essa è vietato prestare denaro agli stati (che dovrebbe essere la sua funzione principale); può invece prestarlo alle banche, per accrescere il volume di crediti alle imprese, in modo che esse possano aumentare gli investimenti, la produzione e l’occupazione. Tutto ciò nel periodo della crisi non è però avvenuto. La bce ha messo a disposizione delle banche più di un trilione di euro, all’1% di interesse; solo una minima parte di questo denaro è però arrivata alle imprese, perché le banche lo hanno in larga misura utilizzato per ripianare i propri debiti, e per acquistare titoli di stato o effettuare altre operazioni sul mercato finanziario.

L’ incremento del debito pubblico è determinato non da un aumento incontrollato della spesa sociale, come sostiene la narrazione dominante, ma dall’aumento degli interessi sui titoli emessi. Tutto ciò ha permesso alle banche ed ai risparmiatori di lucrare interessi vantaggiosi

Quando la crisi economica scoppia, le istituzioni ue dicono che la causa va ravvisata nell’eccessivo debito pubblico, provocato da una spesa sociale ipertrofica, e dall’elevato costo del lavoro. La risposta si traduce nelle politiche di austerità. Le stesse istituzioni omettono di considerare che l’eccessivo debito pubblico è stato provocato soprattutto dal salvataggio delle banche, che tra il 2008 e il 2010 ha richiesto un impegno da parte degli stati dell’eurozona pari a circa 4,6 trilioni di euro.

Come si diceva poc’anzi, per autori come Gallino, le politiche di austerità rappresentano l’equivalente di un colpo di stato. Esse rispondono al dogma neoliberista per cui i governi e i cittadini devono essere disciplinati dai mercati, specie quelli finanziari.

Da alcuni anni a questa parte, tali politiche si stanno abbattendo sul lavoro e sullo stato sociale. Per quanto riguarda quest’ultimo, l’attacco non consiste solo nel diminuire le risorse finanziarie a sua disposizione, ma nel tentativo di canalizzarle verso il mercato. Nel complesso dei paesi ue, lo stato sociale costa in tutto 3000 miliardi all’anno, provenienti in parte dai contributi versati (dai lavoratori dipendenti, dagli autonomi e dalle aziende), in parte dalla fiscalità generale. La pressione che viene dai gruppi di potere finanziari va nella direzione di privatizzare una fetta consistente di queste risorse, a beneficio di banche e assicurazioni, fondi pensione e fondi d’investimento, cliniche private e case farmaceutiche.

Un certo numero di giuristi e associazioni internazionali sono concordi nel sostenere che le politiche di austerità, che scaricano sui più deboli (e non sui veri responsabili) i costi della crisi, rappresentano una clamorosa violazione dei diritti umani a carico di milioni di persone. “Disoccupazione, miseria, assenza di cure mediche adeguate, tagli spietati a salari e pensioni, denutrizione dei bambini, soprattutto in Grecia ma anche in Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda sono stati gli effetti concreti di tali violazioni” (ivi, 102).

La spirale del risentimento. Il bisogno di sicurezza come idolatria dell’utile proprio

Colpire duramente lo stato sociale ha voluto dire scaricare le conseguenze della crisi non su quanti l’hanno innescata, ma sui cittadini che ne hanno subito i principali effetti. Secondo Gallino (2015), tutto ciò non sarebbe potuto accadere, senza una dose massiccia di stupidità da parte dei governanti, ma anche di una porzione non irrilevante di tutti noi. In altri termini, la crisi e le sue conseguenze hanno messo in evidenza un vuoto clamoroso di coscienza politica, che non ha permesso finora una rielaborazione lucida di quello che è accaduto. A mano a mano che si percepiscono gli effetti della crisi, aumenta tra le persone la paura per il futuro, piuttosto che la consapevolezza delle ragioni del disastro.

Colpire duramente lo stato sociale ha voluto dire scaricare le conseguenze della crisi non su quanti l’hanno innescata, ma sui cittadini che ne hanno subito i principali effetti. La crisi e le sue conseguenze hanno messo in evidenza un vuoto clamoroso di coscienza politica, che non ha permesso finora una rielaborazione lucida di quello che è accaduto. A mano a mano che si percepiscono gli effetti della crisi, aumenta tra le persone la paura per il futuro, piuttosto che la consapevolezza delle ragioni del disastro.

Nel frattempo, anche in Italia aumenta a dismisura la percentuale di quanti sperimentano sulla propria pelle il carattere illusorio delle promesse di crescita. I numeri che segnalano l’aumento delle famiglie in povertà assoluta dicono “che allo ‘zoccolo duro’ della povertà ‘tradizionale’, per così dire, si è aggiunto un inedito esercito di ‘nuovi poveri’. Di donne e di uomini, fino a ieri censiti tra i ‘salvati’, e oggi precipitati fra i ‘sommersi’. Persone che si consideravano ‘normali’, che conducevano una vita non diversa dalla maggioranza dei loro vicini, che facevano progetti di vita, avevano stili di consumo, coltivavano reti di relazioni tipici di una società affluente, che di colpo si sono ritrovati nell’indigenza radicale. Cittadini per i quali l’orizzonte si è rovesciato di colpo, come avviene nei naufragi” (Revelli 2014).

In questa situazione, cambia radicalmente il modo di pensare la sicurezza. Essa si traduce in atteggiamenti, pratiche sociali e (ancora una volta) politiche che – più o meno apertamente – individuano nei gruppi umani più fragili non le vittime più esposte agli effetti della crisi globale, ma i principali responsabili di essa. La povertà dei più marginali ritorna ad essere una colpa ed una minaccia per l’ordine pubblico, o il decoro urbano.

In questa situazione, cambia radicalmente il modo di pensare la sicurezza. Essa si traduce in atteggiamenti, pratiche sociali che individuano nei gruppi umani più fragili non le vittime più esposte agli effetti della crisi globale, ma i principali responsabili di essa. La povertà dei più marginali ritorna ad essere una colpa ed una minaccia per l’ordine pubblico, o il decoro urbano.

Il risentimento diffuso verso le persone che migrano, verso i Rom, verso le persone senza dimora, costituisce il segno di una metamorfosi morale.

Il risentimento diffuso verso le persone che migrano, verso i Rom, verso le persone senza dimora, costituisce il segno di una metamorfosi morale. Ovvero, di una regressione civile connessa ad una regressione sociale (Revelli 2010). Il rancore che alimenta il comportamento pubblico di molti è l’indicatore eloquente di una sorta di “malessere da perdita”, provocato dalla percezione dello scarto tra aspettative di benessere e fragilità sperimentata. Tutto ciò è conseguenza di trasformazioni che hanno svelato l’illusione della crescita e la realtà di una progressiva decadenza.

Il risentimento dà luogo ad un conflitto orizzontale: non dei ricchi contro i poveri, ma degli impoveriti (o di chi teme l’impoverimento) contro altri poveri, più poveri, alla ricerca di un qualche risarcimento facile.

In questo quadro, la sicurezza non è più il complesso delle iniziative pubbliche per liberare i poveri e promuovere il pieno sviluppo di ogni persona, ma tende sempre più a coincidere con la difesa rancorosa dei propri privilegi, piccoli o grandi che siano.

È possibile evitare che questa slavina produca effetti ancora più rovinosi sui legami tra gli esseri umani? Nell’introduzione al testo più volte citato, che Gallino ha dedicato ai suoi nipoti, rivolgendosi proprio a loro, e, attraverso di loro a noi tutti, così si interroga: “che cosa possiamo fare noi, mi chiederete. Anzitutto dovete farvi un’idea solida del tipo di persona, di essere umano che ammirate, e che vorreste essere. La concezione dell’essere umano teorizzata e perseguita ai giorni nostri con drammatica efficacia dal pensiero neoliberale ha lo spessore morale e intellettuale di un orologio a cucù. In alternativa, nei vostri libri di scuola potete trovare quanto di meglio il pensiero occidentale ha espresso in venticinque secoli” (Gallino 2015, 8-9). Anche la EG, con un altro linguaggio, evidenzia che all’origine della crisi finanziaria, e delle sue conseguenze, vi è una profonda crisi antropologica, che si evidenzia nella negazione del primato dell’essere umano, e nella idolatria del denaro. Nella crisi mondiale che investe la economia e la finanza si manifesta “la grave mancanza di un orientamento antropologico che riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo. (…) In questo sistema, che tende a fagocitare tutto al fine di accrescere i benefici, qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta” (nn. 55-56).

Questa crisi profonda fa emergere la necessità di una conversione personale e comunitaria a ciò che è essenziale e che non passa, ovvero alla gioia dell’evangelo. È questo il fondamento che permette di affrontare la globalizzazione dell’indifferenza (n. 54), di sognare una Chiesa povera, disponibile ad impegnarsi per la liberazione dei poveri e dei sofferenti, nella misura in cui si converte alla povertà a cui il vangelo chiama. Per quanto riguarda l’Italia, è sempre più vero che senza una riforma della Chiesa non può esserci una riforma della politica, come Dossetti profetizzava più di mezzo secolo fa.

Conclusioni

La riflessione fatta fin qui, suggerisce almeno due spunti conclusivi, riguardanti i contesti in cui più siamo chiamati a vivere e ad operare.

è urgente portare avanti un impegno educativo, che favorisca la maturazione di una coscienza politica popolare e diffusa, in grado di alimentare scelte personali e comunitarie di apertura all’accoglienza, e non di chiusura a difesa dei privilegi acquisiti.

Un impegno del genere diventa credibile nella misura in cui è espressione di una ricerca comunitaria di ascolto profondo, della Parola e del grido dei poveri, e di una consuetudine di vita con i più fragili, ai quali occorre sempre guardare perché le nostre comunità apprendano a camminare con il passo degli ultimi.

Innanzitutto, ci aiuta a comprendere quanto sia urgente portare avanti un impegno educativo, che favorisca la maturazione di una coscienza politica popolare e diffusa, in grado di alimentare scelte personali e comunitarie di apertura all’accoglienza, e non di chiusura a difesa dei privilegi acquisiti. Si tratta di articolare un racconto di quello che sta accadendo, in Italia e nel mondo, con un linguaggio che tutti possano intendere. Un racconto che apra dei varchi nella cortina di fumo sotto la quale la realtà viene intenzionalmente nascosta, e che possa spezzare l’effetto ipnotico della narrazione dominante, veicolata dai grandi incantatori contemporanei. È necessario che questo lavoro sia capillare, rivolto a tutti, e che una attenzione particolare sia riservata alle generazioni più giovani. Un impegno del genere diventa credibile nella misura in cui è espressione di una ricerca comunitaria di ascolto profondo, della Parola e del grido dei poveri, e di una consuetudine di vita con i più fragili, ai quali occorre sempre guardare perché le nostre comunità apprendano a camminare con il passo degli ultimi.

Un secondo spunto riguarda la Chiesa nella sua espressione gerarchico istituzionale, che oggi appare in grande difficoltà nel compito di accompagnare il discernimento riguardante le questioni di cui si è detto nei paragrafi precedenti. È una difficoltà che riflette anche la scarsa maturità del laicato, talvolta mortificato dalla gerarchia, ma ancora più spesso troppo timido e non disponibile ad assumersi le responsabilità che gli competono. Una delle tante questioni su cui il discernimento è debole riguarda proprio l’idolatria del denaro, la cui capacità seduttiva sta producendo effetti nefasti nella vita concreta di tante realtà diocesane. Basti pensare, ad esempio, al modo in cui vengono gestiti i fondi dell’8 per mille. L’80% di queste risorse viene utilizzato per riprodurre l’apparato organizzativo della chiesa istituzione, e per interventi sul suo patrimonio immobiliare. Solo la quinta parte della grande quantità di denaro pubblico che di anno in anno viene riversata nelle casse delle nostre diocesi viene utilizzata per il finanziamento di interventi a carattere per lo più assistenziale, che fanno delle nostre chiese locali altrettanti partner impliciti di istituzioni pubbliche sempre più dimissionarie.

Si tratta allora di riscoprire la laicità come dimensione di tutta la Chiesa, in quanto, come sottolinea l’EG, “L’evangelizzazione è compito della Chiesa. Ma questo soggetto dell’evangelizzazione è ben più di una istituzione organica e gerarchica, poiché anzitutto è un popolo in cammino verso Dio. Si tratta di un mistero che affonda le sue radici nella Trinità, ma che ha la sua concretezza storica in un popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale (…)” (n. 111). Questo popolo è chiamato ad aderire al progetto d’amore del Padre, e questo implica essere il fermento di Dio in mezzo all’umanità, “il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo” (n. 114).

 

  1. Art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.Art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.