Lettera 42 (Seconda Serie)

Care amiche e cari amici, il 29 aprile abbiamo avuto l’incontro sul tema: “FEDE CRISTIANA E GESTIONE DEL SACRO”. Ancora una volta frère Ghislain Lafont ci ha aiutati con una relazione stimolante, lungimirante… con grande mitezza e umiltà. Nel dibattito, che ne è seguito, sono emersi sguardi sul tema molto diversificati, come spesso succede: l’incontrarsi, l’ascoltarsi reciprocamente, permette una ricchezza molto maggiore della somma dei singoli contributi.

 

Abbiamo riportato la relazione iniziale integralmente mentre i vari interventi, per motivi di spazio, sono stati sintetizzati. Rinviamo, per un approfondimento dell’intervento di frère Ghislain, al suo libro “Piccolo saggio sul tempo di Francesco” Ed. Dehoniane, che uscirà in autunno.

Cominciamo a intravedere in alcune parrocchie e in alcune diocesi, finalmente, un cammino “sinodale”; speriamo che questo possa essere possibile per tutte le comunità cristiane: solo il coinvolgimento di tutto il popolo di Dio permette di leggere gli avvenimenti con speranza, di discernere ed agire sapendo condividere le gioie e le speranze degli uomini e delle donne, in particolare degli ultimi. Anche nell’ambito politico dobbiamo superare la banalizzazione, ma anche quella contrapposizione sterile che impedisce la costruzione della “casa comune”.

Buona lettura e buone vacanze!

P.S. Stiamo riaprendo il sito de La Tenda e questo comporta qualche piccola spesa. Ringraziamo chi ha già contribuito e chi potrà farlo. Per chi vuole il nostro c.c. postale è 45238177 intestato a Francesco Battista.

Fede Cristiana E Gestione Del Sacro Incontro Del 29 Aprile 2017

GIANFRANCO SOLINAS – All’incontro di oggi giungiamo, come gruppo “La Tenda”, a partire da una riflessione e da una sedimentazione di esperienze che, nel corso del 2016, ci hanno spinto a mettere a fuoco il tema dell’esercizio della responsabilità a livello personale e comunitario. La dipendenza da un sacro che opprime e rende dipendenti ci appare un modo di rimanere in uno stadio di permanente minorità, assai lontano dall’annuncio di liberazione di Gesù. Questa convinzione ci ha spinto a dare priorità al tema del rapporto tra fede e gestione del sacro, rispetto ad altri che svilupperemo in seguito.

La questione che poniamo all’attenzione di questo incontro è legata al nostro considerare la fede “anche come risveglio di responsabilità e convivialità con tutti, a partire dagli ultimi, mentre nel sacro che insegue un Dio tappabuchi, onnipotente e che soffoca non c’è l’impegno ad una liberazione totale dell’uomo”, per dirla con Lorenzo.

Sulle pagine de “La Tenda” questo tema di straordinaria rilevanza non è nuovo. Già 37 anni fa d. Nicola Barra, che è stato l’animatore storico del gruppo, sviluppò un’appassionata e profetica riflessione dal titolo significativo “Una nuova tappa dell’Esodo, dare autonomia alla sfera del sacro” (nn. 105 e 106 de “La Tenda”, aprile e maggio-giugno 1980).

Nicola, nella sua ricca e argomentata ricerca, spiegava che nella Chiesa, “non solo si accetta che sacro e fede, religioso e Chiesa siano prosecuzione uno dell’altro, ma sullo slancio si teorizza ancora che esse sono cose in fondo intime una all’altra, che convivono e non possono se non convivere”. La questione cruciale che egli poneva è la seguente: “Cosa succederebbe se la nostra Chiesa rinunciasse alla gestione del sacro?” È proprio tale domanda che legittima il termine “Esodo” scelto per dare pregnanza alla prospettiva indicata come necessaria.

Nella riflessione del nostro gruppo viene da più parti indicata come decisiva la scelta, più evidente nel basso, di continuare a sperimentare percorsi di vita comunitaria che, a partire dall’ascolto della Parola di Dio, indichino la possibilità di strade diverse dalla sacramentalizzazione di massa e dalla configurazione delle parrocchie come agenzie di servizi religiosi, tra l’altro accessibili a tutti, persino agli uomini delle mafie, nella logica della gestione del sacro. E’ incoraggiante, in questo senso, l’ampia gamma di esperienze ecclesiali, collocate nel basso, che rimettono al centro l’umile sequela del Signore. Allo stesso tempo, un contributo prezioso può venire da quelle persone che fanno un cammino di fede purificato, per concorrere all’evoluzione dell’etica civile dello Stato rispetto alla legislazione, specie su alcuni temi, operando allo stesso tempo per liberarla dai condizionamenti confessionali del passato.

Dopo il Concilio Vaticano II e le resistenze che ci sono state nei decenni successivi, un orizzonte nuovo si è aperto, in questa fase, per le Chiese ed oltre esse, con l’annuncio liberante dell’Evangelo e con la testimonianza di vita di Papa Francesco. Il suo profetico messaggio chiama tutti a fare la propria parte. Rispondendo a tale appello, vogliamo oggi offrire il nostro contributo di esperienza e di riflessione, a partire dalla relazione che terrà p. Ghislain Lafont, benedettino, che da diversi anni ci accompagna e che ringraziamo affettuosamente per essere oggi qui con noi.

GHISLAIN LAFONT – Leggendo le vostre riflessioni di quest’anno ho pensato che le domande giravano intorno a tre argomenti: il primo era l’accoglienza dei migranti, con l’impegno che non annullino le loro usanze, le loro religioni, la loro vita, il loro sacro, e come noi possiamo avere un incontro, uno scambio, un’accoglienza di queste persone straniere e anche estranee: uno dei punti che mi è sembrato emergere dai vostri incontri.

Il secondo argomento che ho visto, è il problema del sacro cristiano, oppure il posto della sacramentalità nella fede, nella vita della chiesa. Questo è veramente un problema importante, un po’ centrale, perché il sacro cristiano è il meno frequentato, almeno nel mio paese, i bambini non battezzati sono numerosi, la gente va raramente alla messa, non si confessa mai, dunque la sacramentalità è in crisi….Allora che cosa significa questa crisi, come possiamo rispondere non soltanto cercando di moltiplicare i battesimi, le messe, ecc., ma cercando il senso di questa disaffezione del sacro cristiano, il quale è stato centrale quando noi eravamo bambini: i problemi erano soprattutto sacramentali, andare a messa.

Il terzo: che cos’è il sacro in generale, specialmente in una società che sembra secolarizzata. Sono questi tre i capitoli che vorrei toccare per rispondere alla vostra ricerca.

1. Il sacro in generale

Cominciamo, se volete, col sacro in generale. E tratterò tre punti: primo punto: che cosa è il sacro? Qual è la provenienza di questa parola? Perché c’è il sacro? Che significa?

Il secondo punto sarà il rapporto tra il sacro e il potere, il sacro e i simboli. Dopo direi due parole sulla crisi del sacro di oggi: come possiamo noi cristiani trovare un atteggiamento giusto. Tutto ciò lo conoscete bene, ma è bene ripensarlo insieme.

Qualcosa in più. Da dove viene il sacro? Mi sembra che provenga dal fatto che in qualsiasi uomo, o donna, naturalmente, c’è qualcosa di più dell’uomo, e qualcosa di meno. In altre parole, essere uomo suppone essere più che uomo e meno di un uomo e non sappiamo come situare questo più e questo meno. Più: di fronte a qualsiasi creatura del mondo, qualsiasi persona, se avremo un po’ di sensibilità soltanto umana siamo confrontati a un certo mistero naturale, interiore a tutto ciò che è. Mi ricordo una volta, era in un incontro in Italia, ho fatto una conferenza (la sola cosa che so fare: i monaci fanno delle cose, io faccio delle parole!), e dopo la conferenza sono andato a sedermi in un prato, e c’erano delle piccole piante, ma bellissime, piante selvatiche e ho fatto veramente una contemplazione di questa piccola pianta, come una fragola del bosco, e, dato che questa pianta stava per morire forse in quella stessa giornata, c’era un carico che non posso definire, che mi ha colpito: mi serve questa fragola di bosco? Questa fragola non è solo qualcosa che posso mangiare, è qualcosa d i più. Per dire che ogni attività nostra contiene più della cosa stessa. Il cibo, il sesso non sono soltanto delle funzioni naturali, c’è qualcosa che va oltre. Il sacro sarebbe definire questo qualcosa di più. Terra, acqua, fuoco, aria: tutti questi elementi contengono più che se stessi. E l’attenzione al sacro è una sensibilità a questo di più. Un atteggiamento di vicinanza, di rispetto nei confronti del sacro nel suo valore positivo… una dimensione nello stesso tempo interiore e trascendente. È molto conosciuta da Rudolph Otto questa idea che il sacro ha un fascino, a qualsiasi livello ci dà qualcosa di più. Non basta nascere, si deve essere iniziati. In tutte le religioni ci sono riti di iniziazione. e perché? Per aggiungere qualcosa nell’uomo, il sacro sarebbe la tensione tra il naturale e l’iniziazione. Anche come ha ricordato Gianfranco, le liturgie fasciste, naziste avevano delle iniziazioni, e in Africa c’è l’iniziazione, nella rivoluzione francese era stata soppressa la religione cattolica, ma facevano il battesimo repubblicano. Noi dobbiamo essere attenti a questo e vedere un po’. Ritornerò sui simboli sacri del nostro tempo. Qualcosa di più: non basta essere uomo, per essere uomo bisogna essere più che uomo.

Qualcosa di meno Ma c’è anche qualche cosa di meno, paragonato alla definizione dell’uomo: animale intelligente, che parla, c’è una mancanza, un vuoto, un buco, un campo incomprensibile, negativo: ciò che dovrebbe essere e che non c’è. Il luogo e il simbolo fondamentale di questo di meno è naturalmente la morte. Siamo tutti mortali. Perché morire? Che significa la morte? Questa riduzione allo zero? Anche se noi crediamo alla resurrezione, sappiamo che dobbiamo passare tra le ultime sofferenze e la partenza. La partenza fa parte del nostro essere adesso: se io non faccio i conti con la morte, non posso essere uomo. L’uomo deve affrontare la morte dall’inizio della sua vita. Dobbiamo affrontare qualcosa di più, l’iniziazione è qualcosa di più, e affrontare qualcosa di meno e non è chiaro, e questa è la sfida del sacro che non è chiara. A noi piacciono le cose chiare e distinte, noi francesi siamo cartesiani invece no, non è chiaro e distinto: non si può definire.

Come trovare l’atteggiamento giusto di fronte a questo più e meno che accompagna sempre la nostra vita?

Nei rapporti con gli altri, in ogni nazione, situazione c’è qualcosa di sacro, c’è qualcosa di più e qualcosa di meno. Dobbiamo essere attenti, intelligenti nel senso profondo della parola, sentire un po’ questo elemento misterioso, positivo o negativo e che è in tutte le società. Bisogna fare i conti con queste cose che non sono concetti.

Sacro e potere Il sacro è molto legato al potere. Perché? Perché il sacro non è facile capirlo e non sappiamo come fare, come discernere e come comportarci. Allora naturalmente abbiamo l’idea di affidare questo campo sacrale a chi è capace di gestirlo e di fare vedere ciò che questa cosa misteriosa significa e di cui non possiamo appropriarci da soli. Ma che cos’è il potere? Una persona, un gruppo, un’istituzione umana, divina, demonica, che può aiutarci a gestire questo sacro. Il potere che può essere invisibile: tanti spiriti che sono nel mondo, che sono invisibili, le forze, le idee, gli ideali. Il mondo, per gli antichi, erano i demoni, gli spiriti, gli angeli…Per noi sarebbero forse le forze, le ideologie, delle cose sulle quali non è possibile mettere la mano, ma che invece possono mettere la mano su di noi. Il sacro è molto legato in questo senso ai poteri visibili, ai poteri gerarchici. Gerarchia significa sacro. Gerarchia viene dal greco hieros che significa il sacro, il tempio e sta a significare il principio, la persona gerarchica o il sacerdote, come sono io. La persona gerarchica ha una capacità di gestire il sacro che voi non avete.

Automaticamente si ricorre alle persone gerarchiche, sacre: i preti per noi cattolici. Tante persone che hanno il potere del sacro. Il sacro, quando facciamo attenzione, ci mette in una dipendenza di fronte a queste persone. Questa è una domanda: è necessario per gestire questo sacro più o meno, ricorrere a persone sacre, oppure lo possiamo fare da noi stessi? Il sacro è inoltre legato ai simboli. Il simbolo è qualcosa che stabilisce una relazione. Il simbolo, in greco, è gettare un ponte tra, su, con…I simboli sono importanti per collegare la persona naturale che siamo, o il gruppo che siamo, con l’al di la sacrale, il più e il meno. Dunque le persone gerarchiche, o i poteri visibili, sono raggiungibili medianti dei simboli, oppure fanno dei simboli nei quali siamo invitati a entrare per trovare questa relazione che è indicibile, ma necessaria con il più e il meno. La gestione del sacro comporta un riferimento necessario con una gerarchia che ci aiuti a gestire questo sacro.

Crisi del sacro Il sacro di oggi, il sacro tradizionale, diciamo, il sacro delle religioni, delle culture è oggi in crisi. La responsabilità di questa crisi è nella secolarità. Nell’ambiente pubblico, o sociale, nella politica e nella società, gli elementi simbolici abituali non funzionano più. Tante cose che appartengono al di più e al di meno oggi diventano accessibili, senza ricorso a elementi fuori del nostro potere, e gli enormi progressi che abbiamo fatto nella gestione del reale e tante cose che nel passato erano affidate al simbolo e al sacro oggi possiamo gestirle da noi stessi. Questo è il risultato del progresso scientifico. Lo abbiamo vissuto quelli della nostra generazione in un modo veramente straordinario. Ciò che abbiamo “ammaestrato” è il tempo e lo spazio. Quando sono venuto in Italia la prima volta ho preso il treno da Parigi a Roma: 14 ore. Ma era quasi niente di fronte a mio nonno che impiegava due o tre giorni. Oggi ci vogliono due ore di aereo. Il tempo non ha più la sua funzione di dare un po’ di spazio e anche di mistero. Oggi il tempo è molto più breve. L’informazione circola in maniera enorme e l’informatizzazione ancora di più. Ricordo la prima volta che ho usato il fax. Il fax per noi è una cosa del passato, preistorico, ma in Francia è cominciato forse trent’anni fa. Nel primo scambio con un indefinito americano, ero stupito del fatto che in due ore abbiamo, da New York al mio monastero, potuto scrivere e rispondere. Oggi è veramente una cosa preistorica, perché internet ci permette di fare le cose in due secondi…Lo spazio e il tempo spariscono. Lo spazio e il tempo sono il sostrato del mistero e del sacro: ci vuole tempo! Molte cose che erano un di più oggi sono naturali. Di modo che non c’è più necessità di gerarchia perché possiamo fare le cose senza ricorrere a degli intermediari. Quando ero “novizio dell’inchino” , quando ricevevo una lettera l’abate apriva la busta e mi dava la lettera, e io dovevo chiedere il permesso per scrivere una lettera; oggi l’abate, un abate anche se molto autoritario, non può controllare i monaci, perché se voglio scrivere, l’abate non può controllare che io scrivo a Chiara: questo si fa in due minuti. Questo non vuol dire che non abbia un rapporto simbolico con l’abate, ma la gestione è molto diversa. E dunque tante cose che creavano dei legami un po’ misteriosi, sono sparite. In questo senso tanti simboli non sono più e tante autorità spariscono. Però altri simboli nascono. Faccio un esempio che è molto familiare a voi, a me: il calcio. Il calcio è il luogo nuovo della simbolica del sacro moderno. La prova: parliamo di idoli. Cinque o dieci anni fa c’era il famoso Zidane. Non si conosce più Gesù Cristo ma Zidane sì! Quando Zidane sarà sparito ce ne sarà un altro. Zidane era l’idolo della gioventù, era coperto d’oro; gli idoli di legno erano coperti d’oro, oggi gli idoli del calcio sono coperti d’oro, ma nondimeno sono degli schiavi, perché per passare da una squadra all’altra ci vuole uno scambio di milioni di euro. La partita di calcio è veramente simbolica. L’anno scorso, quando c’era il mondiale in Brasile, io volevo molto che i brasiliani vincessero, perché è un Paese in difficoltà, e una vittoria simbolica avrebbe dato loro uno slancio nuovo, ma sono stati cacciati molto presto e vincitori sono stati i tedeschi, e questo è il contrario del simbolo, perché i tedeschi hanno tutto, sono forti in tutti i campi. Non hanno bisogno di una vittoria simbolica, perché hanno la vittoria reale. Dunque i simboli esistono e anche i simboli della guerra. Che cos’è il calcio? Una piccola guerra, una guerra simbolica, chi vincerà? Chi ucciderà l’altro? Interessante sarebbe vedere quali sono i simboli che funzionano nella nostra cultura. Il potere gerarchico non c’è più, ma c’è il potere scientifico, del sapere: il sapere dà dei poteri.Tutti noi usiamo internet, ma quasi nessuno di noi sa come funziona. Siamo dipendenti da scienziati, da tutte le persone che sono capaci di pensare gli ingranaggi, di pensare tutte le conseguenze che sono al di là della nostra comprensione. Come possiamo situarci di fronte a questa simbolica nuova, a questo potere nuovo? Come trovare il giusto di più e il giusto di meno? Come gestire questo?

Fede e sacro Che ci porta la fede su questo ambiente del sacro? La fede ci mette in un atteggiamento all’inizio diverso. Di fronte al di più e al di meno, di fronte ai simboli, di fronte al potere, la fede, prima di tutto questo, ci mette in un atteggiamento di ascolto e questo mi sembra fondamentale. Il di più della mia vita o il di meno non lo so, non lo so gestire. Riguardo al sacro più che fare dei gesti, o scrivere alle autorità. Io mi metto in una situazione di ascolto, non cerco di esercitare il mio potere, non cerco di rivolgermi a delle persone che possono, prima di tutto cerco di ascoltarmi… il istero dell’ascolto. La risposta ai problemi, la loro soluzione mi sarà data attraverso l’orecchio, da persone che diranno le cose giuste, che riveleranno il senso e il luogo…Agli studenti, quando ero professore dicevo: “Chiudete gli occhi!”, chiudevano gli occhi, “chiudete le mani!”, chiudevano le mani. “Aprite le mani!”. “Smettete di respirare!”. “Aprite la bocca!”. Poi dico : “Chiudete le orecchie!”. Allora la gente dice: ”No! Posso chiudere gli occhi, le mani, la bocca, ma chiudere le orecchie, non posso. L’orecchio funziona sempre. Il nostro corpo è ascoltante, si potrebbe dire. Per me è profondo l’ascolto. Ascoltare, ascoltarci, essere in attenzione di ciò che sarà detto. Ascolto dice parola. La parola è qualcosa che dà la soluzione al sacro, questo di più e di meno, non so. Non so neanche localizzare, ma posso ascoltare. Se ascolto in profondità la parola si farà sentire in un modo misterioso ma liberante, e questo è il senso fondamentale della fede cristiana. Perché noi crediamo al Verbo incarnato, ma Verbo che parla se noi l’ascoltiamo. Una vita che è all’ascolto, è una vita che troverà non dei concetti, delle soluzioni teoriche, ma la sensibilità giusta perché era in ascolto, ha collaborato. I simboli cristiani sono legati alla parola, non sono simboli frutto delle religioni, delle civiltà, ecc. Facciamo ciò che il Signore ha detto e che noi ascoltiamo nello Spirito. “Andate e battezzate tutte le nazioni…” Il battesimo non è solo una iniziazione sacra: è un simbolo dato da Gesù. Ascoltando questo comandamento, il simbolo allora rivela la sua profondità. Lo stesso “Prendete e mangiate! Questo è il mio corpo”. Il mangiare insieme è una simbolica molto importante. Ma anche questa simbolica umana, come il battesimo, noi la facciamo come Lui ha detto. Anche la preghiera, come Tu hai detto: noi diciamo il Padre nostro. Quindi tutto è legato ad un ascolto della Parola, la Parola ci racconta delle cose che non sono tra il cielo e la terra e ci invita a comunicare mediante i simboli. Il potere, se c’è un potere, è definito dall’ascolto, dalla narrazione, dal simbolo, dall’alleanza.

2. Sacramentalità cristiana

A questo punto potrei passare al problema della sacramentalità, di cui abbiamo parlato. Il problema della sacramentalità è proprio questo: di articolare la sacramentalità e l’ascolto della Parola. La sacramentalità, come noi l’abbiamo conosciuta, noi, i più anziani, era molto legata a un elemento del sacro che è negativo che è il peccato. Avevamo bisogno di praticare la sacramentalità che era molto legata al peccato e alla remissione dei peccati. Il battesimo era concepito, come è veramente, come remissione dei peccati, del peccato originale. Si diceva: se tu non sei battezzato e muori, se sei adulto vai all’inferno, se sei bambino vai nel limbo. La messa era considerata come il “santo sacrificio della messa”, legata all’idea del sacrificio di Cristo come redenzione dai peccati. Tutto questo è vero. Una realtà come la religione cristiana può essere presa da diversi punti di vista, e questo era il punto di vista della redenzione dai peccati. La confessione sacramentale: essendo monaco ho fatto molte confessioni e a volte mi è capitato di fare il confessore nella vigilia della Pasqua, del Natale. Durante tutta la giornata la gente veniva a confessarsi. Oggi non più, o molto meno, almeno in Francia. In certo senso è un guaio perché dire della propria realtà umana al Cristo è una cosa bellissima, non parlare più, non avere più questo rapporto: parlare per essere ascoltati. Il guaio però era che non andavamo per parlare, essere ascoltati e ascoltare, andavamo per essere lavati dal peccato mortale. Questa mentalità è divenuta estranea al nostro secolo, era nata in un ambiente che non aveva niente da fare o poco da fare con la vita quotidiana. Mi ricordo che nella mia comunità la sera, nella liturgia della sera, si faceva l’esame di coscienza, si recitava il confiteor. Ho detto all’abate: durante la giornata non ho fatto soltanto dei peccati, ho fatto anche qualche azione buona. Dunque la sera si dovrebbe fare un ringraziamento. Perché cominciare coi peccati? Arrivati anche oggi alla messa che cosa sentirete prima di tutto? Sentirete: “Prima di celebrare riconosciamo i nostri peccati”. Va bene, ma se fossi il parroco direi ai parrocchiani: “Abbiamo passato una settimana, in una settimana ci sono tante cose belle, tante cose che veramente sono conformi al Vangelo, nascoste, non delle cose straordinarie, ma sono state delle cose giuste. Dunque, possiamo ringraziare e offrire. Però ci sono state anche delle cose di cui non siamo orgogliosi, abbiamo fatto male a uno o all’altro e di questo dobbiamo chiedere perdono a Dio e anche agli altri. Così saremo disposti a rendere grazie e a ricevere grazia; troppo spesso invece questo legame tra sacramento e peccato rimane ancora forte. La nostra sensibilità sacramentale non è prima di tutto una cosa di ascolto e di ringraziamento e questo è molto importante perché se io mi rivolgo a Dio in termini di peccato, di fronte agli altri è lo stesso: agli altri cui ho fatto male e che hanno fatto male. Ma in una settimana, quante persone mi hanno aiutato? Quando io vengo in aereo a Roma sono stato aiutato da tante persone, sia a livello personale che istituzionale. Assistenti di volo mi hanno aiutato…non avevo nessun bisogno, ma se avessi avuto bisogno mi avrebbero aiutato. Invece mi sembra un lavoro da fare quello di rendere il sacramentale cristiano tale da creare un legame, approfondire un legame sia con Dio, sia con Cristo, sia con gli altri. Tutte queste dimensioni devono entrare in un modo ponderato nella sacramentalità. Pensavo questo quando Paolo fa questo immenso affresco della redenzione dal capitolo primo al capitolo undici della Lettera ai Romani, poi, nel capitolo dodici, Paolo dice: “Che dovete fare?” Non dice: andate a messa, dice: “Offrite voi a Dio!”: è il sacrificio spirituale della vostra vita, che è offerta a Dio come è offerta agli altri. E continua dicendo finalmente: “Amatevi gli uni gli altri! Fate attenzione.” Poi fa tutta una descrizione delle virtù sociali. E questo è conforme al corpo di Cristo, perché siamo credenti inseriti nel Cristo. In questo simbolismo sacramentale, sono i simboli che mettono in valore il dono di Dio in Gesù Cristo e il nostro dono a Gesù Cristo e agli altri. Andate a messa, sì, ma come luogo dove è fatto presente insieme il dono di Cristo a Dio, il dono degli uomini a Dio, e soprattutto il dono di Dio agli uomini, sia Cristo sia la Chiesa, e gli uomini in generale. Il simbolismo cristiano è la Messa. Questo simbolismo dice il rapporto essenziale tra l’amore di Cristo e l’amore degli uomini. A partire da questo simbolo usciamo dalla chiesa e possiamo immediatamente dopo ricominciare un sacrificio che è la nostra vita. C’è un legame essenziale: occorre essere disponibile ad una parola che dovremmo ascoltare. Il sacrificio di Cristo che cos’è? Il telefono squilla; “Hallo, pronto!”, non aspetto che la gente mi dica: “Oh, come tu sei bello, buono e gentile”, ma piuttosto: “potresti fare questo?” Una domanda per definizione comporta che io esca da me stesso per rispondere alla domanda. Pensavo di avere un po’ di tempo libero e devo spostare la mia attività per darmi alla persona che mi chiede. Questo è sacrificio. Uscire da se stessi è un di più, ed è anche un di meno. Di più perché mi interesso a ciò che sta per dire l’altro, e di meno perché non posso fare quello che volevo fare…Siamo sempre in una situazione di ascolto di parola che ci mette in una situazione di sacrificio, che a volte è gravoso e a volte molto gradevole. Ad esempio: “Vieni a Roma?”, “Oh, alla mia età! No! Quando sarai vicino ai novant’anni capirai.” Questo è negativo, ma è positivo quando Lorenzo mi chiede di venire e ho ancora qualcosa forse da proporre ed è un piacere; e nello stesso tempo è uscire, andare all’aeroporto, non rompere le mie gambe, ecc., perché tutto è possibile, ma il sacrificio non è una cosa dolorosa, è soltanto la legge della vita. Sono dei simboli concreti.

Alla Chiesa di oggi, quella che dura da sempre in sintonia col Concilio Vaticano II, spetta il compito di mettere la sacramentalità in comunione con l’ascolto della Parola, e praticare i sacramenti per entrare nella la nostra vita personale, in comunione con il mistero di Cristo. Il sacramento cristiano non sia un sacro, sia piuttosto un sacramento, cioè inserirsi, essere inserito nel mistero di Cristo e questo suppone delle riforme mentali che non sono ancora fatte. Nel testo del Concilio Vaticano II c’è scritto, ma ci vogliono forse tre o quattro generazioni per uscire da comportamenti sacri nel senso un po’ negativo della parola, per ritrovare il sacramentale. Faccio l’esempio del mio monastero: in tutti i monasteri c’è la messa ogni giorno. Ma perché la messa ogni giorno? Perché la messa è il sacrificio della comunità; nella vera messa i fratelli si vogliono bene gli uni agli altri, vivono dello Spirito di Cristo, soffrono e fanno soffrire, ma vivono tutto questo nell’ascolto della Parola evangelica, allora non è necessario ogni giorno fare memoria della vita di Cristo, perché la memoria della vita di Cristo è la nostra vita. Ogni domenica la comunità si riunisce e tutti portano ciò che hanno vissuto e ricevono lo Spirito e rendono presente questo sacrificio. Il sacramento è per la vita. Non voglio scandalizzare, ma quando ero bambino, quando ho cominciato a pensare ad essere prete o religioso, spontaneamente sono andato a messa ogni giorno, e nessuno mi ha detto: verifica la tua vita concreta, perché la tua messa concreta è il tuo rapporto con tutti. Se vai a messa ogni giorno, è per aiutarti perché la tua vita sia una messa, un sacrificio. Se tu vai a messa e non cambi la tua sacramentalità quotidiana, non serve a niente. Questo è un cambiamento di sensibilità spirituale che è difficile da fare, forse il popolo cristiano non è stato ancora abbastanza educato a questo.

A questo punto sarebbe bene fare tutt’altro discorso e parlare della gerarchia cattolica, che non è una gerarchia del sacro pagano: è un servizio della sacramentalità vera della Chiesa, cioè della vita di carità. Gesù ha detto: “Amare Dio e il tuo prossimo come te stesso”: questa è la vita cristiana, questo è il comandamento fondamentale….In questo senso la gerarchia è questo servizio della carità sacrificale della Chiesa. Questo suppone di ripensare in modo totale l’economia sacramentale vissuta nella Chiesa. Ci vuole tempo e un ripensamento anche teologico. Io credo che da quarant’anni si sono fatti molti progressi in questa direzione. Almeno, questa è una cosa che bisogna fare per rispondere un po’ alla domanda di sacramentalità cristiana. Questo, veramente, è un pensiero molto tradizionale, che si ritrova già in sant’Agostino, che dice che il sacrificio che Dio chiede da noi è la carità fraterna, che si vede a livello del lavoro, della famiglia, delle relazioni, dell’interesse per gli uomini, ecc. Abbiamo recentemente eletto nella nostra congregazione italiana a Subiaco, un abate colombiano, che ci ha scritto di recente una lettera dicendo che oggi dobbiamo pensare molto ai muri: tra la Palestina e Israele, tra il Messico e gli Stati Uniti e che dobbiamo pensare a tutti quelli che sono così imprigionati in questi muri; dobbiamo anche fare attenzione a tutti quelli che vogliono uscire dai muri, quindi parlo dei migranti. Noi monaci che stiamo dentro le mura – siamo in clausura – dobbiamo pensare, stare attenti, non abituarci, fare quello che possiamo per i migranti, ma soprattutto distruggere i muri. E diceva: “non siamo nella comunità dei muri, non siamo nella famiglia dei muri.” Questa è la sacramentalità cristiana. I riti sono istituiti per ricordarci che la sacramentalità è fondata sull’unica persona che ha abbattuto tutte le mura: Gesù Cristo. Che cos’è un sacerdote, un vescovo? Un banditore della carità, dello scambio interiore dei gruppi cristiani e un servitore dell’apertura di tutti i cristiani a tutti gli uomini. Dei giovani mi hanno chiesto di venire da loro ancora una volta in Italia, per parlare un po’ della Chiesa di domani, una cosa che mi fa pensare molto; ma prima di pensare alla Chiesa di domani dobbiamo pensare all’umanità di domani. Che sarà l’umanità di domani e quale sarà il servizio che la Chiesa può dare a questa umanità?…. Pensare la Chiesa di domani senza pensare all’umanità di domani, è mancare un po’ la metà della cosa.

Chiara – Ho partecipato ad un funerale a Torre Angela. In piedi, in fondo alla sala, c’erano molte persone la cui presenza era dovuta solo alla loro conoscenza del defunto, ma senza partecipazione alla messa. Inoltre solo poche persone hanno preso la parola per ricordare il defunto e infine la presenza del parroco si è limitata a una breve apparizione durante la distribuzione dell’eucaristia. Mi sono sentita estranea a questo senso del sacro. Allora mi sono chiesta: che cosa si può salvare? Penso che quello che si deve e si può salvare è la relazione personale col Signore.

Ghislain – Mi sembra che nei funerali, l’importante è che ci sia un gruppo di cristiani incaricati dell’accoglienza delle persone, prima che il parroco venga a fare delle cose. Che la comunità possa introdurre le persone, anche quelle che sono in fondo alla chiesa, ci deve essere questo tipo di accoglienza verso la famiglia, verso gli amici. Dunque la funzione liturgica anche in questo caso, non è soltanto compito del parroco, è compito di una comunità, di una comunità accogliente. Il compito del parroco è di suscitare queste comunità: comunità per funerali, comunità per accoglienza al catechismo, e finalmente questa è ancora l’idea di papa Francesco sulla piramide rovesciata. Una parrocchia è anche una piramide rovesciata. Tutti i gruppi di persone che hanno questo o quel carisma sono piccole comunità nella grande comunità. Il parroco ha come missione di suscitare, ammaestrare, e di vedere l’ordine giusto – l’ordine è una bella parola liturgica -, perché tutta la comunità sia veramente impegnata. Non è qualcosa che deve fare il parroco stesso, ma prima del funerale avere sempre una comunità accogliente. Da noi in tante parrocchie non ci sono più preti, quindi il tutto è affidato a degli anziani formati.

Angela – In una comunità di religiose la gestione del più e del meno è puntualmente organizzata. Ciò mi ha indotto a riflettere su come io possa affrontare personalmente questo di più e di meno. Non credo che sia solo un fatto comunitario, ma anche un fatto individuale, perché è il modo in cui l’affrontiamo noi con la nostra creatività che si riflette sugli altri.

Gladiola – Nei funerali in cui molti rimangono in fondo e in piedi mostrando che non intendono partecipare al rito, ma fare solo atto di presenza, l’approccio amichevole della comunità non è un espediente “diplomatico”, ma un vero atteggiamento di amore cristiano. L’amicizia è un sacramento, non c’è bisogno di dire: vieni a pregare, basta questo segno di amicizia. La ricerca personale scatta in base alla coscienza di non essere autosufficiente.

Antonio – Quello che noi ascoltiamo deve essere confrontato con le categorie che abbiamo dentro la testa. La domanda è questa: dentro la testa, con il cammino dei tempi, l’evoluzione, noi abbiamo da una parte la parola da aggiornare ma, complementare a questo, abbiamo anche quella che il cardinale Martini chiamava la cattedra dei non credenti, cioè tutti gli stimoli che ci vengono dai non credenti per distruggere tutte le scorie che abbiamo a causa dell’abitudine o a qualche cosa di comodo; la cattedra dei non credenti per Martini ma anche per noi è la verifica continua di questo più e di questo meno che dicevi.

Maurizio – Sacro: è tutto ciò che è dedicato a Dio oppure riservato a Dio oppure segno della presenza di Dio.

Nella “Lettera a Diogneto”: I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. (1) Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. (2) Vivendo e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile .(4) Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. (6) Mettono in comune la mensa, ma non il letto. (7) Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. (10). Nella lettera viene posto in evidenza come non esistano cibi, abiti, luoghi, giorni che significhino la presenza di Dio. L’unico elemento sacro è la Comunità che, con la propria vita, testimonia la presenza di Dio e la propria fede in Lui.

Altro testo fondamentale per cogliere il senso del sacro è il Vangelo di Matteo al capitolo 25, ove Gesù parla del Giudizio Finale. Il giudizio verterà esclusivamente sulle cosiddette opere di misericordia corporale.

Ma poi, andando a scorrere la dottrina, troviamo: Sacramenti – momenti sacri e gesti sacri nei quali è sensibile la presenza di Dio.

Non posso immaginare una Comunità cristiana che non abbia: un punto in cui conservare l’eucaristia: tabernacolo; una sala dove riunire l’assemblea: tempio.

Ghislain – Vorrei rispondere su due punti. Non c’è pietà senza eucaristia perché l’eucarestia è il mistero che ci rende presenti al sacrificio di Cristo e rende presente il sacrificio di Cristo a noi. Cioè, rende presenti a noi l’atto di amore perfetto di Cristo, a noi e a tutte le genti e ci permette di offrirci in Cristo in questo rito che viene celebrato, ci rende contemporanei all’azione di Cristo e ci comunica lo Spirito di Cristo. Dunque non vedo che una chiesa sia possibile in qualche parte del mondo, concretamente nel tempo e nello spazio, senza che il mistero di Cristo sia reso presente. Veniva fatto cenno alla lettera di Diogneto nella quale si dice che i cristiani non hanno niente di speciale, è vero, però i loro simboli sono un po’ diversi dai simboli degli altri, e dunque possiamo pensare il Cristianesimo unito alla vita dei singoli laici, ma anche in rapporto significativo, simbolico col mistero di Cristo. Allora le modalità possono essere molto varie: non c’è un unico modo di fare, questo si evince dal fatto che l’eucarestia non è stata celebrata nello stesso modo in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Il legame concreto con Cristo che si rende presente, io credo che è indispensabile. Questo lascia ancora alla discussione chi sarà il ministro dell’eucaristia. Tutto questo può essere pensato. Ma l’obbedienza al comandamento di Cristo: “Mangiate e bevete in memoria di me”, la memoria, è una cosa essenziale. Questo sarebbe un piccolo abbozzo su quello che lei ha detto.

Alla questione di Antonio: io credo che la Parola che noi ascoltiamo, l’ascoltiamo dentro una cultura nostra, e questa cultura nostra non è universale. Dunque siamo confrontati con delle persone che vivono in ambienti culturali e religiosi diversi. Questo è stato forse illustrato in questi ultimi giorni da un film che non ho ancora visto ma ho letto attentamente: “il Silenzio” di Scorsese, che pone la questione del martirio da una parte, ma anche del significato della missione, cioè perché andare?

Le domande sono forti, almeno nel libro e mi sembra che la risposta alla questione sarebbe forse doppia. La prima sarebbe il rispetto delle altre mentalità, delle altre parole, delle altre culture, delle altre religioni. Dunque ascoltare, cercare forse i punti di comunicazione, non proprio d’identità ma di comunicazione. Nello stesso tempo, e questo forse è più difficile, custodire la convinzione della superiorità della Parola cristiana, perché la Parola cristiana è la Parola di Dio rivelata in Gesù Cristo: quella chiave che deve aprire tutte le serrature. Ma aprire le serrature non significa, farla saltare, rompendo la chiave e la serratura! Però, compresa come è veramente, la parola di Dio dovrebbe potere raggiungere qualsiasi cultura e riconoscere nelle culture i segni del verbo un atteggiamento delicato perché dobbiamo rispettare i diversi valori, ma nello stesso tempo non possiamo rinunciare al fatto che Dio si è espresso in modo definitivo nella nascita, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Allora ogni piccola comunità è responsabile di questo gioco della Parola e dell’ascolto. Poi, rispondendo a Gladiola: noi non possiamo avere comportamenti amichevoli con gli altri se non abbiamo un comportamento amichevole con Cristo, e questa è la nostra preghiera. Non vedo la possibilità di una carità fraterna nel senso più ampio, più umano, più ricco della parola senza uno scambio se possibile costante col Signore. Anche adesso possiamo fare un piccolo segno con gli occhi: io parlo a tuo nome, voglio essere in relazione con Lui, senza la quale non posso fare niente, perché la preghiera è il luogo nel quale lo Spirito ci spinge a capire, a fare, ad essere amichevoli.

Lorenzo – Da un anno vivo con Adam, un ragazzo del Niger e passati i primi mesi in cui c’è stato tutto un suo raccontare: dei suoi cinque anni in Libia, della terribile traversata del Mediterraneo, dei cinque anni nei vari centri del mondo musulmano… poi sono venute fuori tante differenze e abbiamo riflettuto del più e del meno di ogni cultura fede, di quel più che l’altro ha e porta e di quel meno necessario per lasciar germogliare il Mistero dell’esistenza. Questo più o meno non è anche un avvicinarsi tra culture diverse? Tutto questo vasto mondo dei migranti quali opportunità sta offrendo?

Ghislain – Sono stato molte volte in Africa e notavo il grande peso che su quelle popolazioni ha la tv europea, in cui tutte le donne sono molto belle, gli uomini appaiono molto sicuri, forti… ma poi quando vengono qui si accorgono che quel mondo televisivo era fuorviante. Un’altra grande differenza è il diverso approccio verso i morti.. Quello che posso dire: e essere aperti verso le altre culture, ma con grande discernimento, saper accogliere ciò che c’è di prezioso, ma anche vedere ciò che deve essere liberato. Discernimento, una parola che il papa usa molto, vuol dire che non dobbiamo applicare delle regole precise, ma vere un po’ di fiuto per capire di volta in volta: ascoltare, riflettere, accogliere, ma a volte anche rifiutare… e la preghiera allo Spirito Santo è molto importante. Questo discernimento è vero in tutti i campi: tra le culture, ma anche per capire la direzione della Chiesa futura. Dobbiamo lasciarci aiutare dalla storia: nel quarto e quinto secolo sapendo che ci sono state nell’impero romano molte migrazioni da sud a nord… nel secolo scorso dall’Italia sono partiti molti migranti per le varie parti del mondo, che hanno dato all’America un taglio latino che non c’era: Costruire mura, respingere, è assurdo perché le migrazioni ci saranno, mentre accogliere significa anche una certa rinuncia, ma ci sono cose che possono arricchire il nostro essere, la nostra cultura.

Maria Dominica –  Il papa a ieri parlato in Egitto del bisogno di smascherare la sacralità del potere nelle varie religioni, per poter arrivare al cuore della fede; di un Dio di misericordia, di Pace, per poter accogliere il patrimonio comune alle varie fedi. Nell’esperienza di accoglienza, che stiamo facendo nella Cripta delle Suore Battistine a circonvallazione Cornelia, ci stiamo accorgendo che il modo di vivere la fede nelle altre religioni ci interroga ed è un’opportunità per approfondire la nostra.

Beatrice – Abitiamo in una comunità di famiglie con Moussa da cinque anni, un ragazzo della Guinea, all’inizio i suoi orari ci creavano una grossi problemi poi ci siamo resi conto che la vita comunitaria era possibile se mettevamo a fuoco l’essenziale: cioè ci vogliamo, bene siamo presenti nei bisogni reciproci, viviamo come una grande famiglia… il resto se c’è è una sorpresa… e Moussa, ad esempio nel lavoro comune ci ha dato delle lezioni di vita molto importanti. Le cinque famiglie che compongono questa comunità, hanno dei cammini di fede molto diversificati e la domenica mettiamo in comune con il nostro parroco i vari cammini.

Gianfranco Buttarazzi –  Io vivo i vari funerali preoccupato soprattutto della situazione che si viene a creare a causa di quella “partenza”, cioè come sostenere e aiutare chi ha investito da quel lutto. A proposito del più e del meno, il più è un maggiore spazio e responsabilità per ogni singola persona, il meno e meno chiacchiere.

Micaela – A proposito di quest’ultimo intervento sento crescere in me il desiderio di parlare meno e di ascoltare di più, perché spesso le troppe parole invece di chiarire, offuscano la vita. Un grande aiuto verso il sacro, mi viene dalla partenza per il cielo di mio padre, la sua vita attuale fa crescere in me ciò che c’è di più sacro.

Paola Carbone – Ciò che amo sempre più è proprio questa capacità di ascoltare e sto rileggendo un libro: “Ascoltate la voce” e parla del profeta Geremia. Quello che ho ascoltato più volte, anche quest’oggi e la responsabilità personale di ciascuno, senza demandare ad altri l’inizio di questo cammino. Anche quando ci troviamo di fronte ad una persona in grave difficoltà, la vicinanza sia innanzitutto un risvegliare il potenziale di quella persona. A proposito del patrimonio comune ai vari uomini e donne, credo che la rivoluzione francese ha toccato il cuore: libertà, uguaglianza e fraternità.

Gilda – C’è una sacralità, quella ad esempio di certi abiti e cerimonie, che offusca il sacro e soprattutto offusca il Vangelo, ma c’è una sacralità, che è ad esempio la lavanda dei piedi, la Via Crucis, che ci aiuta a giungere al cuore della fede.

Marina –  Questa spoletta tra il più è il meno, ambedue necessari, danno un nuovo senso alla vita e alla morte, non come due fasi successive dell’esistenza, ma come un illuminarsi reciproco. Mi pare molto bello quello che è stato detto: una sacralità, un sacramento, ma vissuto dentro la convivialità. L’altra cosa che riporterò in famiglia e in comunità, è questa sottolineatura del primato dell’ascolto, dentro la vita è dentro l’Eucaristia. Non una comunione che viene data a prescindere, ma un ascolto della Parola che mi permette di vivere la comunione.

Marta –  Dopo anni di fede, ho vissuto anni non di ateismo, ma di lontananza, di attesa, di ricerca. Vivo un tempo di oscillazione tra desiderio di liberazione da un sacro che soffoca e un desiderio di più fede. A volte partecipo a celebrazioni in cui mi accorgo che c’è spazio per tutto e per tutti, ma forse proprio questo stare accanto senza comunione, è la ragione per cui la terza figlia non la battezzo. non mi ci ritrovo.

Luca – La parola sacro-santo ha significato di appartenenza, relazione, ma anche di rottura, non nel senso di separazione, ma nel senso di rompere gli schemi, l’ordinario ,i luoghi comuni… Gesù è stato l’uomo della rottura.

Marco – Don Nicola nell’unica parrocchia in cui è stato parroco, a San Vincenzo ad Ostia ha mostrato una pastorale libera dal sacro: si leggeva il Vangelo in piccoli gruppi nelle case, la preparazione alla comunione dei bambini veniva fatta anche questa in una casa, la chiesa è un locale a piano terra di un palazzo di case popolari. Il successore di Nicola in due settimane ha azzerato tutta la pastorale precedente e il vescovo ci ha risposto: “Chi ha in mano il manico scopa dove vuole”, oggi a distanza di 17 anni il nuovo parroco sta riavviando la pastorale sulle indicazioni di Nicola. Ciò che viene ben seminato rifiorirà.

Ghislain –  Michel de Certeau parlava di: “Rottura instauratrice”, altre rotture invece sono distruttive. Dobbiamo pensare alle rotture come ripresa di dialogo, come capacità di un nuovo regime della nostra vita; la rottura in qualche modo la distruzione dell’io, ciò che dice l’altro in un certo modo distrugge il mio pensiero, e il nuovo che sorge dal noi; quindi genera una relazione, una situazione nuova. Questo vale a livello personale, comunitario, e anche della politica. Una rottura instauratrice, potremmo intenderla come definizione del sacrificio. La capacità di guardare le cose così come sono, ci aiuterebbe a interrogarci intorno alla riforma liturgica, alla riforma eucaristica, e questo confronto è necessario a tutti i livelli, partendo dalle singole parrocchie. Contro i semi di lotta, di separazione, il papa sta mostrando molti semi di bene anche verso il mondo islamico. Per poter giungere ad un buon dialogo, occorre vedere con chiarezza la posizione propria e quella altrui, senza banalizzare le differenze e senza esasperarle; l’atteggiamento giusto ci permetterà di cogliere il sentiero che possiamo percorrere assieme. In Francia ci siamo liberati da tanti simboli del passato (statue, canti in latino…) ma senza interrogarci su ciò che significavano e questo ha creato un vuoto pericoloso per i giovani.

A proposito dell’ adorazione eucaristica siamo figli di una confusione teologica, cioè quando diciamo che la presenza di Cristo è “reale ma non locale”, otteniamo delle scappatoie linguistiche, ma aumentiamo la confusione. Così nel termine transustanziazione mettiamo insieme sostanza e trans, cioè qualcosa che va oltre la sostanza, diciamo una cosa e la neghiamo. Usiamo dei termini che non aiutano. Spesso diciamo: “Abbiamo la Verità”, sì è vero, ma non sappiamo ciò che diciamo. Dobbiamo continuare una lotta per chiarire questa sensibilità simbolica.

Di fronte a ciò che ascoltiamo e rispondiamo, anche nella Chiesa, è necessaria una responsabilità personale, a cui papa Francesco rimanda sempre, la nostra obbedienza non è militare, ma un’obbedienza responsabile. Impegnarsi ad un discernimento profondo è più difficile che obbedire e il papa ci spinge a questo continuo discernimento. Obbedire, è la responsabilità di ascoltare in profondità l’altro e la propria coscienza.

Interventi Del Pomeriggio

Chiara – In una chiesa durante un funerale, c’erano tante persone che io ho sentito estranee rispetto a quello che stava avvenendo, e mi sono chiesta se questo saluto finale, non può essere fatto in maniera più libera per chi non è credente, che non sia una celebrazione eucaristica. Io mi chiedevo se di sottofondo a questo non ci sia ancora il pensiero nel clero e nei laici che senza la chiesa non c’è salvezza.

Luigi – Penso che normalmente nella vita eterna creda forse un credente su 10 e un cittadino su 100; ma non credo che ci sia una questione di salvezza post mortem, penso che la questione sia proprio che non c’è un’altra forma di ritualità buona, bella, piacevole. Tutto sommato la chiesa ti da quella ritualità a cui siamo abituati che è anche rassicurante, ma anche “entro certi limiti” bella: la messa, la celebrazione, la benedizione della salma tutte queste cose che ci aiutano a salutare una persona a cui hai voluto bene a seppellirla con attenzione. Questo penso che bisognerebbe provare a separarlo. Veramente per Nicola Barra la nuova tappa dell’esodo voleva essere: “dare una autonomia al sacro” e per dare una autonomia al sacro, occorre creare una sacralità che non sia legata alla chiesa cattolica.

Penso che sia qualcosa che verrà, perché già adesso rispetto a quando mi sono sposato io 29 anni fa, la comunità civile è molto cresciuta, si è evoluta. Forse la speranza è che si crei una sacralità, ritualità civile non in contraddizione, non in rapporto di contrapposizione ma in rapporto di creazione.

Franco – Riguardo ai funerali vorrei raccontare un episodio che mi è successo la settimana passata. Il giorno di Pasqua, in una famiglia di amici, uno dei fratelli di 51 anni si è sentito male: un ictus ed è morto. Potete immaginare quello che è successo dentro quella casa. Nel frattempo la mamma che aveva 84 anni anche lei presente, si è andata a mettere sul divano, si è distesa. Tutti quanti in attenzione al figlio. Più tardi, si sono accorti che la madre dormiva, in realtà era morta anche lei.

Terminata la celebrazione i parenti si sono riuniti intorno alle bare con la chitarra in mano, e hanno detto: “Penso che il Signore non ce ne vorrà” e hanno cantato “I migliori anni della nostra vita” di Renato Zero. Ecco in quel momento c’è stata una apertura, una gioia, un commiato partecipato da tantissime persone. A me questa cosa ha dato un grande senso di sollievo, insomma non quella morte cupa dell’abbandono, ma un arrivederci, ci rivedremo ancora.

Gilda – Mia madre è stata in America e mi raccontava che durante i funerali c’è questo coinvolgimento della comunità, così anche durante i matrimoni. Il fatto di celebrare il matrimonio all’esterno della chiesa, non lo rende meno bello, meno significativo, anche perché apparecchiano tavole, oppure altari all’interno di un parco pieno di fiori. Anch’io volevo sposarmi all’aperto, e l’ho chiesto al sacerdote che mi ha risposto: “Non è concesso, perché occorre la chiesa, deve essere un luogo sacro riconosciuto dalla chiesa”. Oggi mi sono domandata: “Ma ciò che è importante è il sacramento, non potremmo semplicemente proporre di viverlo diversamente?” Non vorrei che ci sia un business intorno al matrimonio o a questi eventi.

Luigi – Da cui la chiesa non è estranea.

Antonella – Il problema delle celebrazioni, lo allargherei a tutte le celebrazioni eucaristiche: c’è un prete ogni 20.000 persone. C’è la possibilità di fare una celebrazione inerente alla vita con un gruppo così vasto? Tante persone, troppe persone. La Chiesa non può prevedere piccoli gruppi, con magari una guida diversa da quella del sacerdote?

Ghislain – dipende dai paesi: in Brasile, Africa, Asia, c’erano soltanto missionari, pochi preti, i catechisti facevano tante cose. Dove i preti sono meno numerosi, come nel mio paese, allora si preoccupano di formare i laici per diverse cose, per la catechesi, per i funerali, per i matrimoni. In Francia i matrimoni civili sono molto più numerosi, anzi i ragazzi si mettono insieme, poi un bel giorno se funziona fanno matrimonio Pax o Dico. Una civiltà secolarizzata deve trovare i suoi simboli.

Antonella – È possibile l’eucarestia con tante persone che non si conoscono?

Ghislain – Sull’eucarestia non si possono dare delle risposte univoche.

Bisognerebbe non pensare al passato, ma vedere le cose che sono ciò che sono. Che possiamo fare per celebrare il mistero di Cristo senza troppi sguardi sul passato e cercando di trovare delle soluzioni per il presente? D’altra parte cerco di vedere le cose che sorgono se ci sono, quelle giuste. Dobbiamo dare un po’ di fiducia alla provvidenza e impegnarci a vedere ciò che il Signore vede fra noi. Il discorso che facevo stamattina: si può pensare un sistema sacramentale ma non in modo universale, che possa essere un sistema sacramentale all’interno di una diocesi, di una parrocchia. Portavo come esempio ciò di cui si parla, molto di ordinare preti, come si dice di uomini probati. Per ordinare degli uomini probati, occorre fare le cose a livello della diocesi e non universale. Fare un incontro tra le persone, tra i gruppi, scegliendo una persona matura, sposata, con bambini, questo cambia la figura. Occorre la volontà dei preti di dire sì: lo vogliamo, siamo d’accordo. Quando questa consultazione sarà finita, quando 1, 2, 3, 4 persone saranno disposte ad avere questo incarico, allora non si deve aspettare una decisione della Santa Sede, un vescovo deve andare dal papa e dire: “Si adesso è maturo, dobbiamo farlo”. Proviamo se funziona, forse è un esempio un po’ straordinario, ma forse fra 10 anni sarà ordinario. Ho un po’ paura perché la nostra Chiesa cattolica è sempre molto centralizzata, aspettiamo sempre una enciclica del papa, che dica alle diocesi che tutti gli uomini probi possono essere ordinati. Sarebbe un disastro, perché ci sono paesi che non hanno voluto il diaconato, come la Polonia. Quindi imporre un sacerdozio sposato sarebbe stupido. Ci dobbiamo preparare, bisogna fare degli esperimenti, pensare piccole cose, non c’è una risposta univoca a ogni problema di sacramenti, di vita, di catechesi, e dobbiamo imparare piuttosto a condividere, ad esempio se degli uomini probi sono stati ordinati in una diocesi, alla diocesi vicina si dice: “Vediamo un po’ se non funziona lasciamo perdere, se funziona andiamo avanti”. Questo significa che troviamo un modo decentralizzato di fare. Si è fatto per tante cose finalmente. Questo dovrebbe essere pensato ancor più a livello di sacramenti. Ad esempio in Francia non abbiamo quasi nessun prete in ospedale, i cappellani negli ospedali sono tutti laici. Allora dico supponendo che un cappellano, una cappellana visita la persona malata e questa fa tutto un cammino spirituale durante la sua malattia, ritorna al Signore oppure incontra il Signore per la prima volta. Oggi si deve chiamare il prete per dare i sacramenti. Io non vedo nessuna obiezione teologica perché il laico incaricato, sul quale avranno imposto le mani per questa missione particolare, lui è veramente Cristo presente in questo ospedale, per assicurare una vita di fede, che il suo carisma sia riconosciuto, forse è utile una piccola preghiera che sarebbe il riconoscimento del dono dello Spirito, quindi questa persona potrebbe dare i sacramenti. Non dico che un laico possa dare un sacramento in generale, ma forse i laici mandati, benedetti per l’aiuto dei malati possono fare tutto il necessario. Non vedo nessuna obiezione, ma tutto questo suppone un grande lavoro teologico e anche molta prudenza, ma per andare avanti. Si dice che sono 7 sacramenti, io ci credo, ma questi 7 sacramenti sono una sistemazione del medioevo, tutti somministrati dal sacerdote. Si deve pensare: “È necessario che siano somministrati dal sacerdote oppure no?” Questo suppone un lavoro molto lungo e superare anche delle resistenze sicuramente. Possiamo vedere da dove siamo partiti dove siamo oggi, e quando abbiamo esaminato tutti i passi che sono stati fatti, occorre sperare e osare per tutto quello che c’è da fare. È un lungo lavoro, fino a papa Francesco non penso che sarebbe stato possibile fare, ma con Francesco almeno si può pensare ad un futuro diverso. Naturalmente noi non lo vedremo, lo vedremo dal cielo, ma dobbiamo avere una certa Immaginazione teologica per così dire. Per me il punto essenziale è riscoprire i carismi, perché quando leggiamo le lettere di Paolo, si parla di carismi: il carisma del sacramento che insegni ed il carisma del servizio che presieda, ma lui non dice: ” al di sopra di tutto c’è un carisma che presiede”, certo è molto importante, ma è un carisma, e a mio avviso tutte le ordinazioni sacramentali sono consacrazioni di carismi precedenti. Per esempio quando ero professore a Roma vedevo dei ragazzi che volevano a tutti i costi diventare preti, ma questa volontà non è necessariamente una vocazione. A Roma c’erano tanti vescovi, e quei ragazzi facevano il necessario per avere lettere di raccomandazione di una persona e poi l’altra, ma se non hai la vocazione, se lo Spirito non ti spinge, sì il sacramento sarà sicuramente valido agli atti, ma sarai veramente un prete di Gesù Cristo? L’ordinazione suppone carisma, e quando c’è carisma e non ordinazione si può chiedere l’ordinazione. Spero di non scandalizzare nessuno. Se ciò scandalizza qualcuno, lo dica io non sono il papa. Ma possiamo immaginare le cose in modo molto diverso, mi sembra, secondo me il dovere del teologo – e sono veramente un teologo vecchio, della vecchia scuola – il teologo deve immaginare delle soluzioni possibili e poi è la concretezza della vita che si incarica di tutte le sfumature. Ma dobbiamo esaminare il rapporto essenziale tra carisma e sacramento, per tutti i sacramenti, anche per il battesimo. Dobbiamo battezzare dei bambini? Mi sembra di si, in un ambiente dove il battesimo è la grazia di Cristo ma in una chiesa che può educare il bambino. Se si da il battesimo senza carisma forse è valido, ma sarà fruttuoso quando ci sarà una conversione. Occorre pensare questa relazione tra il carisma e il sacramento, e pensare che puoi avere carisma autentico non ancora consacrato e invece si può avere un sacramento valido ma senza carisma, perché si separa il Verbo incarnato dallo Spirito. Si devono mettere le due insieme, io penso. È una mentalità da cambiare. Dico questo oggi, 2017, non l’avrei mai detto 40 anni fa. Ho visto che la Chiesa ha fatto passi che permettono di cambiare un po’ le cose.

Maria Dominica – Alcune cose nuove stanno entrando nella nostra realtà ecclesiale, ma troviamo una grande opposizione. Ad esempio, c’è in scadenza il Cardinal vicario. Il papa ha chiesto al consiglio presbiterale diocesano di mandare delle indicazioni, soprattutto dei suggerimenti sulle caratteristiche del nuovo eletto. Ha detto di allargare questa richiesta anche ai laici. Tutto è stato così riservato che non lo ha saputo quasi nessuno. Quello che poteva essere un coinvolgimento, quindi una responsabilizzazione dei laici romani, della chiesa di Roma, non c’è stata. Questo per dire che papa Francesco sta dando spazio e lo richiede, come per il discorso sulla famiglia, vuole che sia la chiesa locale a prendere la responsabilità di gestire le situazioni difficili.

Volevo anche aggiungere una esperienza fatta quest’anno a S. Leone. Una nostra amica, che ha capacità teatrali, molto esperta, ha proposto ad alcune di noi di “fare qualcosa” sul percorso della riconciliazione e del perdono. Ci siamo interrogate a partire da alcune esperienze personali di dolore, abbiamo cercato un filo conduttore, un filo che aiutasse a rammendare l’anima, a rammendare il dolore. Abbiamo preparato una azione scenica, piccola, circa 40 minuti, con musiche, con le nostre esperienze personali o molto vicine a noi, un po’ faticose da tirare fuori. L’abbiamo rappresentata la sera del venerdì santo, quando sono terminate tutte le funzioni, la via crucis eccetera. Quello che mi ha colpito e mi ha fatto pensare, è stata la cappa di silenzio che ci avvolgeva, una grande tensione e partecipazione, la necessità di trovare la strada per esprimere i dolori, ripartire dai dolori, dalle perdite, per trovare una via. Questo mi ha fatto pensare alla religiosità popolare, alla ricerca di senso nelle cose che ci capitano. Si parlava del dolore di madri che perdono i figli. Come comunicare questo dolore tremendo? Si parlava di situazioni di perdita totale, di perdita di senso, di violenza e come superarle? Questa è una esigenza che c’è nel mondo occidentale, altrimenti rimane tutto compresso dentro.

Lorenzo – Accenno una cosa che raccontava Ghislain: durante la celebrazione del giovedì santo, l’abate ricordava che la lavanda dei piedi è l’unico comandamento che troviamo nel vangelo. Si, l’unico comando è amatevi l’un l’altro come io vi ho amato, insieme all’imparare da me che sono mite ed umile. È vero, le nostre celebrazioni malgrado tutto, mantengono una grossa ricchezza, ma perché certi preti e parlo di persone che stimo, quando fanno le celebrazioni, quasi i più in gamba, hanno il bisogno di spiegare ogni passaggio? Che vuol dire? Che c’è qualcosa che non passa più. C’è un simbolo che non è più simbolo.

Gladiola – C’è l’esempio di un funerale a cui io ho assistito nella mia parrocchia. Il funerale di una signora o non credente o diversamente credente, non so. Io quello che ho capito da quello che dicevano figli e amici, è che questa signora si era aperta in un modo generico ad un trascendente. Il rito si è svolto bene, correttamente come sempre, con semplicità, efficacia, rispetto di tutti, non sovrabbondanza di niente. Alla fine il prete non è andato via, ma si è seduto da una parte, era lì presente e attento e ha permesso a tutti gli altri fuori dal rito di parlare, di dire quello che volevano di questa persona, della loro esperienza. Ha accolto questa esperienza. è stato presente, accogliente. Questo rende gli altri partecipi di una cosa che non è piccola.

Luigi – Vorrei dire una cosa che Ghislain ha ripetuto in questi anni e che mi rimane profondamente dentro: che il compito del cristiano non è conservare la verità, ma trovare la verità che sta davanti a noi, e questo è un compito che richiede fatica, fatica personale, come chiesa, come crescita psicologica, teologica, ma è compito che non possiamo fare a meno di assolvere. Per un cristiano conservare è un qualcosa di importante ma solo se si vive nella disposizione a trovare… Perchè Se uno conserva il vangelo, ma non cerca di trovare il vangelo che va ancora scritto non vive la fede come la deve vivere.

Gianfranco – Come continuare questo nostro cammino! Trovo molto saggio accompagnare e vivere nel basso delle esperienze che sono chiarificanti, liberanti, senza creare rotture con le istituzioni, intanto si tratta di giocarci la nostra responsabilità nel partecipare ad esempio ad un gruppo di ascolto della Parola, per crescere insieme. Questi sono dei germogli dall’interno della chiesa, dobbiamo avere il coraggio di starci dentro e favorirne la maturazione.

E poi credo anche che bisogna da Cristiani seri cominciare a purificare il linguaggio.

Ad esempio i cristiani sono tutti sacerdoti, re e profeti. Il prete o presbitero che presiede l’eucarestia. Altrimenti questo continuare a rinforzare questa dimensione di separatezza, di superiorità sulla comunità, non aiuta loro e non aiuta noi. Da cristiani sappiamo quando abbiamo il compito anche di educare, si anche noi, nel nome del Signore.

L’ultima cosa che volevo dire è pregare lo Spirito che aiuti a superare i seminari. Il seminario è un luogo comunitario non autentico e contribuisce ad una divisione dal popolo di Dio. Si cresce nell’eucarestia. Certo che occorre una preparazione, certo che occorre un cammino biblico per qualsiasi ministero ma si cresce nell’eucarestia, non nella professionalizzazione, mi sembra molto interessante la legittimità di sperimentare in una singola diocesi. Che sia possibile sperimentare, che ci sia l’ordinazione di adulti coniugati o no. Ma attenti al pericolo che c’è incombente di cooptazione da parte dei preti. Quei laici sono più preti dei preti, Dio ci scampi!! Diverso sarebbe in quelle diocesi in cui ci sono già dei segni seri di cammino, lì sì che è legittimo sperimentare l’ordinazione di adulti. È necessario che si creino luoghi dell’eucarestia a dimensione umana.

Antonietta – Per me una cosa importante nelle chiese, nella comunità, è l’ascolto. Per esempio in un assemblea se tu dai la possibilità che ognuno dica il suo parere, a casa continui a riflettere. Se ti accorgi che nessuno capisce la fatica che fai, allora sai che ti dico: io me ne vado e ti saluto. Parlando, discutendo, capisco se ciò che penso è sbagliato o giusto e scopro cose nuove. Gesù s’è servito di pastori, mica di un avvocato, il vangelo ci dice questo.

E poi l’esempio della messa. La messa nella chiesa si è importantissima, ma a volte occorre la messa nei campi per aiutare le persone che cominciano un cammino di crescita. Chi dice si deve fare così, punto e basta, per me che sono una persona che interroga sempre, la vedo come una cosa negativa.

Micaela – Nella nostra parrocchia siamo fortunati. Quest’anno è iniziato un sinodo. Il prete ci ha detto: Sinodo vuol dire cammino insieme, siete invitati tutti, a piccoli gruppi ci siamo iscritti. Ogni primo lunedì del mese ci si dà appuntamento per riflettere su cosa cambiare nella pratica della spiritualità che si vive in chiesa. Io tutta entusiasta, mi sono iscritta, ma poi ho partecipato a solo due incontri. Personalmente dovrò cogliere queste fortune che mi capitano.

Lorenzo – Credo in questo momento storico, ci sia l’urgenza oltre che di trasmettere un messaggio che ho ricevuto, di imparare a cogliere quello che di grande c’è nella storia di ogni persona che incontro, non di alcune persone, ma di ogni persona che incontro, essere capace di cogliere il dono che Dio ha fatto unico a quella persona, e in alcuni casi aiutarlo ad accorgersene e spingere alla comunione fra le varie persone.

Chiara – Ero a Cuba un giovedì santo e il prete si era scordato di venire. Il mio vicino di casa Peppe è un uomo che per il vangelo è stato in carcere e ha anche rischiato di tornarci perché non ha accettato alcune posizioni della dittatura. Era una persona di grande coerenza, guidava un gruppo del vangelo ed era ministro straordinario della Parola. A volte, quando non c’era il prete, si faceva la celebrazione della Parola con lui. Quel giovedì santo, vedendo che il prete non arrivava, Peppe ha detto: “Facciamo la celebrazione del giovedì santo”. Hanno preso il pane, Peppe lo ha benedetto, spezzato e lo ha distribuito. Uno si potrebbe scandalizzare e dire, ma questa non è l’eucarestia, forse non lo è. Ma è più lontano questo da quello che avvenuto con Gesù prima che morisse, oppure la messa del giovedì santo in cui la gente non partecipa, non ha nessuno spazio per partecipare? C’è troppa enfasi sul sacro, sul gesto, sul rito. Che cos’è più vicino a quello che è accaduto, cos’è più memoriale di quello che è accaduto?

Ho avuto la fortuna di partecipare al gruppo del Vangelo a Cuba, un gruppo di colleghe di lavoro, io ero l’unica bianca, le altre erano tutte nere o mulatte, poi qui a Torre Angela. Occorre ripartire da una rilettura del Vangelo e ciò forse ci permetterà tra 10, 20 anni di modificare piano piano il rito per renderlo più vicino alla vita delle persone, che sia una celebrazione veramente memoriale, ma anche celebrazione della vita delle persone.

Franco – Mi piace ricordare che Gesù è stato il maestro, ha insegnato tanto, tutto, qualche volta con le parole, ma soprattutto con la vita. È compito nostro come cristiani favorire il vangelo del Signore, soprattutto con le opere e poi anche con le parole.

Ghislain: Amore è una missione, amore per Gesù è dare vita per altri, amore è capacità di sentire gli altri, capire i loro motivi, è fatto anche di pazienza, è fatto anche di silenzio, perchè ci sono delle cose che non puoi capire se non c’è silenzio. Questo criterio dell’amore vero, si potrebbe dire amore misericordioso, è un amore in eccesso, è solo la teoria del troppo, non è equilibrio giusto, è sempre eccesso d’amore.

Vi ringrazio di avermi chiamato, di avermi ascoltato, di avermi comunicato le vostre ricchezze, i vostri impegni.

Tra Nicola Barra e papa Francesco c’è una grande comunione che ci incoraggia a continuare con decisione, con umiltà, perché come diceva Paolo VI tutti siamo chiamati a edificare la Chiesa dell’amore, al di la del sacerdozio, delle discussioni. Tutti noi possiamo costruire al di là del sacerdozio, nel nostro piccolo una Chiesa di Amore. Cerco di farlo con i fratelli nel nostro monastero. Lorenzo si è trovato bene da noi, e questa rete di amore positiva in posti diversi, questo io credo, sarà la salvezza del mondo.