Lettera 151 (Prima Serie)

Proseguendo il discorso sul volontariato a Roma, avviato nel n. 149 della Tenda, pubblichiamo una nota informativa e critica di un’assistente sociale, che ci aiuta a percepire la situazione attuale dei servizi sociali a Roma, e il ruolo che il volontariato viene a svolgere in questo contesto.

Servizio Sociale E Volontariato A Roma

Nei giorni scorsi mi è stato “passato” il n. 149 del vostro trimestrale “La Tenda”.

Mi ha molto sollecitata la nota “Per una riflessione critica sul volontariato a Roma” e la convergenza riscontrata tra una riflessione che trae spunto da un impegno cristiano ed ecclesiale e la mia riflessione, legata alla professionalità e all’esperienza di lavoro nel servizio pubblico. Sono, infatti, un’assistente sociale che da trent’anni lavora con i minori, ragazze madri, famiglie di carcerati, disadattati, malati psichici.

Mi è stato chiesto di fornire per iscritto le mie tesi: vi faccio avere una nota che avrei voluto esporre al Convegno sui servizi sociali di Roma Metropoli, organizzato dalla CISL nella scorsa primavera, ma che mi sembra di viva attualità dato che il 27 novembre il TG 3 ha fatto presenziare all’inaugurazione di una nuova mensa Caritas a Primavalle.

“La Tenda” per il dialogo nella Chiesa locale di Roma. Direttore responsabile Paolo Paramucchi. Segreteria presso Monime e Francesco Cagnetti, Via G. Vestri, 45 00151 Roma (tel. 06/5345312). CCP 73211005 intestato a Cagnetti Francesco. Si consente la pubblicazione di quanto contenuto nel ciclostilato citando “La Tenda”.

Ciclostilato in proprio

Vale la pena di riflettere su queste scelte – della solidarietà organizzata dalla Chiesa cattolica e dalla Pubblica Amministrazione e sul modello culturale che ci viene proposto per il concreto esercizio della solidarietà sul piano umano, religioso e civile.

Vale la pena di cercare di capire : per questo è importante che si apra un dibattito tra tutti coloro che sentono questi temi come vitali e vogliono partecipare, tecnici e non tecnici, accomunati dal desiderio di impegnarsi a realizzare una maggiore giustizia sociale.

Vi ringrazio per avermi dato l’occasione di esprimermi.

Paola Rossi Gatti

Da un anno circa abbiamo a Roma un Assessorato preposto ai servizi sociali e, se in precedenza gli operatori avevano atteso dall’Assessorato al Coordinamento delle UUSSLL un serio discorso d’integrazione , dal nuovo Assessorato si attendevano una attenzione e una tensione al rilancio di quell’intervento socio-assistenziale che comunque, anche rispetto alle mille carenze e alla disorganizzazione dell’assistenza sanitaria, appare rare fatto, occasionale, deficitario perdente in assoluto. L’aspettativa più diffusa era che almeno si procedesse ad una riorganizzazione del settore, ad un rilancio, ad una valorizzazione dell’esistente, in vista di una seria integrazione tra sociale e sanitario che, almeno agli occhi degli operatori, sembra un appuntamento irrinunciabile per i prossimi anni.

I segnali che giungono sono invece abbastanza contraddittori e generano concrete perplessità. Nei giorni scorsi è comparsa sulla stampa la notizia che a Tor Bella Monaca, quartiere residenziale che avrebbe dovuto costruire un modello di corretto insediamento urbano e che presenta invece le caratteristiche di un quartiere ghetto, si aprirà una mensa Caritas. La terza mensa Caritas di Roma, dopo quella di colle Oppio e quella di Ostia Nuova.

Dice un collega che opera nella zona : “La Caritas è qui una risorsa importante: fa fronte ai bisogni immediati, aiuta concretamente, in tempi brevi: io sono spesso impotente. Un sussidio ha tempi burocratici assurdi, arriva a distanza di mesi, anche a distanza di un anno dall’istruttoria della pratica; a fronte di un insediamento così massiccio i servizi presenti in zona non sono stati adeguatamente potenziati, né dotati di strumenti d’intervento adeguati. Il sussidio economico alle famiglie, insufficiente spesso, ma soprattutto inattendibile per aleatorietà e lungaggini che si frappongono alla sua sollecita erogazione, non costituisce uno strumento efficace per combattere l’imperversante richiesta di istituzionalizzazione soprattutto di bambini, ma anche di anziani.

Le famiglie che sono state sollecitate a riprendersi i bambini a casa, perché giudicate affettivamente ed educativamente capaci, in termine di un anno ripropongono domanda di ricovero”.

Questa drammatica denuncia di impreparazione, assenteismo, disorganizzazione dei servizi sociali, sembrerebbe assurdamente confrontarsi con la notizia di cui si è detto.

Nessun giudizio sulla Caritas che, con propri fini, principi e metodi, con propri criteri, interviene a fronteggiare bisogni impellenti e reali in una comunità, che come si è formata e per l’abbandono cui sembra lasciata, appare soprattutto come un coacervo di problematiche umane e un intrigo di problemi sociali. Il giudizio invece non può non essere formulato sull’Assessorato Comunale ai Servizi sociali e sull’Assessorato Regionale agli Enti Locali e ai servizi sociali, che non sembrano nell’occasione aver formulato una serie di diagnosi della situazione e avallano un intervento che tende a semplificare; che ignorano i servizi del territorio, servizi che dovrebbero accortamente gestire nell’interesse della popolazione, e delegano l’intervento ad un organismo privato; che, invece di predisporre una seria politica di intervento con i propri strumenti – i servizi sociali del territorio – accettano o promuovono un intervento “esterno”, atto a risolvere problemi contingenti, ma che propone un modello di intervento che relega l’individuo ad un ruolo passivo e gli trasmette un messaggio di immodificabilità della situazione.

Due tipi di considerazioni vengono alla mente dell’Assistente Sociale di fronte a questi fatti: il primo riguarda il ruolo dei servizi sociali nella società attuale, l’altro riguarda il ruolo tecnico, del professionista del servizio sociale. Ambedue le considerazioni nascono dal disagio dell’Assistente Sociale di riconoscersi in questa proposta d’intervento francamente terzomodista, che presuppone una linea politica in cui non può riconoscersi.

Gli abitanti di Tor Bella Monaca sono cittadini cui si è assicurato un tetto, fanno parte di nuclei familiari cui si è dato un focolare, sinonimo di vita e di organizzazione familiare e civile, base indispensabile per recuperare una dimensione umana e sociale, una capacità e un diritto di costituirsi ed esistere come famiglia. Alle difficoltà economiche, ma non solo economiche, di queste famiglie di costituirsi e organizzarsi come tali si risponde espropriandole della spinta ad organizzarsi, a gestirsi, a rispondere ai propri bisogni attivando le proprie risorse.

Se l’apertura di una mensa al Colle Oppio ha destato qualche preoccupazione, in quanto reminiscenza di arcaici modelli d’assistenza (1), mitigata dalla constatazione che la presenza di stranieri e sradicati gravitanti in zona offriva una giustificazione, ben più allarmante è parsa l’iniziativa a Ostia, zona in cui tuttavia si registrano forti presenze straniere (russi, iraniani) e dove peraltro la popolazione residente non ha accettato la proposta della mensa, a quanto si sa. Rinnovare l’esperienza, senza alcun ripensamento critico, a Tor Bella Monaca fa riflettere sulle capacità di reale comprensione delle problematiche sul modello d’intervento che essi ci proporranno in futuro. Si sta operando con uno strumento arcaico, destrutturante e destabilizzante rispetto ai nuclei familiari e ai rapporti di solidarietà che andrebbero sollecitati e sostenuti tra i cittadini, un intervento massiccio di controllo e di massificante risposta ai bisogni di cui, ad onta degli strumenti esistenti e degli operatori “sul campo” non sembra essersi fatta un’analisi. Gli abitanti di Tor Bella Monaca non sono forse cittadini a tutti gli effetti, dal momento che si è data loro una casa? Quanti e quali sono i loro bisogni? E’ stato possibile agli operatori presenti nei servizi di zona condurre uno studio, analizzare quantificare, ipotizzare risposte, indicare strumenti prima di indurre questa massiccia colonizzazione che ha il senso di relegare i cittadini del quartiere in un ghetto di assistibili a vita? Su un buono-pasto non si fanno programmi, non si edificano rapporti, non si progetta, si può solo consumare giorno per giorno.

Non c’è avvenire per questa comunità insediata da poco e con ambiziosi progetti? Perché il Comune, che pure pagherà i buoni-pasto, non dà un’onesta, corretta assistenza economica alle famiglie e alle persone in difficoltà? Su un intervento di assistenza economica concordato, progettato con l’utente, può passare un progetto di riorganizzazione di vita, di modelli di comportamento, su un buono-pasto, no.

  1. Riferimenti storici: 1925: Ammissione gratuita ai refettori materni delle gestanti dal sesto mese di gravidanza (un pasto giornaliero da consumarsi presso gli stessi refettori, concessione condizionata alla frequenza del consultorio ostetrico, onde rendere possibile il controllo dei sanitari sulle condizioni della gestante) – Legge istitutiva dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia.

1937: Erogazione di sussidi in denaro o in natura, distribuzione di viveri, gestione eventuale di “ristoranti economici” agli iscritti all’elenco dei poveri, aventi titolo all’assistenza sanitaria gratuita (Legge 3.VI.1937 n° 847).

Molti di noi conoscono i nuclei familiari che si sono trasferiti a Tor Bella Monaca dalle pensioni lager del Centro storico, dopo anni di permanenza in situazioni deresponsabilizzanti, in un limbo spesso sordido e sovraffollato, in cui tutti i problemi erano rappresentati e con il tempo incancrenivano. Il passaggio sognato all’abitazione propria è stato un trauma: la scadenza mensile del fitto, gli allacci dei servizi essenziali, il pagamento delle utenze, la perdita di riferimenti nei servizi di cui i nuovi venuti venivano a costituire solo una parte dell’utenza, mentre nei loro luoghi di provenienza era loro possibile ricevere materialmente di più, e anche ottenere più attenzione e più spazio, rispetto ai servizi sovraccarichi della nuova zona d’insediamento: tutto ciò ha dato origine a difficoltà molto gravi. I servizi di zona, oberati da un numero di richieste esorbitanti, non sono stati adeguatamente potenziati né dotati di un’adeguata strumentazione.

La situazione è grave, come lo fu e lo è quella di Ostia Nuova. Sembrava che Tor Bella Monaca dovesse porre fine alla prassi di un insediamento massiccio, effettuato senza costituire strutture adeguate, senza analizzare e tenere saldamente sotto controllo (queste si) le problematiche che ne sarebbero scaturite. Invece, a quel che sembra, si è realizzato un nuovo ghetto, e la Pubblica Amministrazione rifiuta ancora di analizzare, di capire, di progettare, di programmare; dà una risposta di comodo, delegando.

Una difficile realtà esistenziale diventa solo una voce di bilancio e non un confronto concreto con una reale problematica da assumere in termini politici reali. Eppure non si tratta di innovare: si tratta di rendere efficienti i servizi già previsti dal Comune, di assumere corretti criteri di gestione.

All’Assistente sociale spetta di segnalare i rischi dell’operazione e suggerire tutti quegli strumenti che non snaturano, se correttamente usati da operatori attenti e preparati, i rapporti tra le persone e ne consentono la crescita, valorizzando quei momenti della vita sociale che possono essere utilizzati anche per rispondere a bisogni primari senza alterare rapporti: la mensa scolastica gestita da genitori costituiti in cooperativa, per fare esempio, costituirebbe un momento molto importante di esplicitazione e uso di risorse della comunità per rispondere a bisogni propri; così pure il Centro anziani che organizzi un servizio mensa, come ce ne sono stati in giro per l’Italia; ed anche una corretta politica di assegni economici che non passi per via burocratica ma sia gestita all’interno di un servizio sociale professionale ben presente in zona e in grado di mantenere e sviluppare con l’utenza un rapporto di sostegno reale, di recupero di capacità e risorse.

Il modello dell’assistenza come strumento di controllo sociale destinato a consentire la sussistenza e, al più, a garantire minimi livelli di tutela della salute fisica, è chiaro e precisamente datato.

A distanza di 60 anni, dall’istituzione dell’O.N.M.I. l’Italia democratica che in zone e occasioni felici ha progettato, dibattuto, sperimentato modelli di servizio sociale avanzatissimi, che parla di tutela della salute psicofisica del cittadino, che si preoccupa di una spesa sociale che spesso viene imputata ad un’eccessiva tutela dello stesso, l’Italia in cui si ripete quotidianamente che l’eccesso di spesa pubblica è legato all’”assistenza” (senza peraltro analizzare a fondo e rendere accessibili al cittadino i reali termini del problema, gli sprechi, le disorganizzazioni, la mancanza di riferimenti normativi chiari, la incapacità progettuale e programmatoria legata all’incopetenza degli organi direttivi, il collegato clientelismo, ecc.); in cui si fa paventare i catastrofici danni di un welfare state di cui, nel nostro paese, si è soprattutto, appunto, “sentito parlare”, dal momento che nessun cittadino, neppure se appartenente a categorie privilegiate, si sente sufficientemente garantiti rispetto agli eventi traumatici della propria esistenza; questa Italia e questa capitale assistono al proliferare di “mense” destinate ai “poveri”, gestite dal Privato cattolico ma i cui costi sono fatti gravare sul contribuente.

Paola Rossi Gatti

Ancora Sul Prossimo Sinodo Romano (Ovvero: Cerchiamo Di Partire Col Piede Giusto…….)

Che Roma sia diventata da lungo tempo “terra di missione” è ormai generalmente riconosciuto dai cristiani di questa città, al di là delle immagini rassicuranti di folle acclamati, che la TV incessantemente ci somministra, nonché delle statistiche degli studenti che si “avvalgono” dell’ora di religione.

Il papa, il cardinal vicario, i vescovi ausiliari della nostra diocesi sono ben consapevoli della diffusissima indifferenza religiosa che si riscontra ormai non più soltanto in determinati ambienti e categorie sociali “emancipate”, ma come vero e proprio fenomeno di massa.

Si parla quindi sempre di più della necessità di una nuova evangelizzazione, e il prossimo sinodo pastorale diocesano non mancherà di dare spazio e risalto adeguato a questo problema.

Come evangelizzare oggi? La risposta non è facile. Senz’altro essa non può consistere in un semplice appello al coraggio, all’impegno, alla coerenza apostolica del cristiano, né in una serie di proposte di maggiore efficienza organizzativa; e neppure soltanto in iniziative volte a suscitare e coltivare nei credenti una nuova sensibilità missionaria.

Il nodo da sciogliere preliminarmente è quello del rapporto della Chiesa col mondo contemporaneo, o, più esattamente, del Vangelo con l’uomo d’oggi. Il Vangelo è una proposta di vita sempre identica e sempre diversa; è un seme che cresce col crescere dell’uomo, o che comunque germoglia in profonda simbiosi con le più varie culture.

A queste considerazioni, se si vuole largamente scontate, fa seguito la conseguenza, non meno ovvia, che l’evangelizzazione è compito che può si trovare nel passato una somma di esperienze nonché di motivi aggiuntivi di speranza, ma mai modelli da adottare. Occorre ogni volta ricominciare da capo. E ciò vale tanto più per l’oggi che è tempo di vaste, profonde e rapide transizioni.

Pertanto non ci sembra eludibile una domanda preliminare: allo stato attuale siamo noi, cristiani di Roma, popolo e clero, in grado di leggere la realtà in cui viviamo?

Che noi siamo inseriti più o meno nella vita della nostra città (e quindi nel nostro paese) nei suoi veri livelli (familiare, produttivo, sociale, politico, religioso) non c’è dubbio. Che ciascuno di noi risenta e registri, nella sua esperienza quotidiana, i condizionamenti di un contesto sociale così e così caratterizzato, è parimenti evidente.

Ma siamo altrettanto capaci di interpretare in profondità questo mondo di cui facciamo parte? Possediamo le chiavi di lettura, gli strumenti concettuali che ci consentono di orientarci e di dare un senso al nostro parlare e al nostro agire?

Esiste almeno una ricerca, un dibattito in questa direzione nella nostra chiesa locale? Gli esiti del recente convegno unitario diocesano testimoniano che se una ricerca comunitaria è stata avviata, essa si trova ancora allo stato embrionale, e non ci è dato di vedere che i problemi di fondo siano stati adeguatamente impostati e articolati. Grande spazio, invece, sembra essere stato riservato agli aspetti organizzativi.

Stando così le cose (e il resoconto di Roma sette nell’Avvenire del 30 nov. Conferma la nostra impressione, la proposta di Comunione e Liberazione per Roma (pubblicata in Il Sabato, 18-24 ott. 1986, pag. 13) ha per lo meno il pregio di sollecitare un dibattito, contrapponendo al corso ufficiale della diocesi una proposta pastorale alternativa.

Si dirà che la proposta di CL non costituisce una base adeguata di discussione, che essa ha piuttosto il carattere di un cartello di sfida, di un proclama. Tant’è: per ora è l’unica iniziativa che conferisce a questa fase preparatoria del sinodo romano un minimo di articolazione dialogica non circoscritta al livello di dettagli.

Vediamo ora di quali enunciazioni di principio e di quali concettualizzazioni si serve il documento di CL per interpretare in ordine al problema dell’evangelizzazione lo stato attuale della diocesi di Roma e indicare la via da seguire.

Scrive CL : “In un momento in cui, venuto meno il fascino dell’ideologia marxista (……) si diffonde sempre più un’ideologia illuminista-massonica che riduce l’avvenimento cristiano a valori etici-umanitari, è essenziale, per una nuova evangelizzazione, riscoprire “l’assenza del Vangelo: Cristo è l’unico salvatore, poiché “in nessun altro c’è salvezza: non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati “(Discorso del Santo Padre, 23 dicembre 1982)”.

I termini di una radicale antitesi sono qui chiaramente definiti: da un lato il Vangelo, dall’altro un’”ideologia illuminista-massonica”. La Chiesa di Roma viene chiamata da CL a schierarsi senza cedimenti per il Vangelo; e la chiamata è pressante, perché “abbiamo assistito, in questi ultimi decenni, soprattutto negli anni ’70, a posizioni assolutamente ingiustificate: dall’autolesionismo di chi pensava che per dialogare con ogni uomo si dovesse trasmettere tra parentesi “l’essenza del Vangelo: Cristo è l’unico salvatore dell’uomo”, all’autoaccusa sul proprio passato e presente”.

A quest’ultimo proposito, precisa CL, “accenti di questo tipo non sono mancati in relazione ad interventi del cosiddetto Convegno sui mali di Roma del febbraio 1974”.

Più espliciti di così…..CL, infatti, è persuasa che la nostra diocesi si sia lasciata influenzare, per l’appunto, da “quel pensiero non-cattolico che abbiamo chiamato illuminista-massonico”, com’è possibile costatare “in alcuni aspetti dell’attuale pratica pastorale”: ottimismo ideologico (invece di speranza cristiana), moralismo (invece di apertura alla Grazia), cristianesimo borghese (e quindi trascinato e coinvolto nella crisi del modello borghese di vita).

Per finire, CL suggerisce due proposte: una meditazione delle encicliche trinitarie di Giovanni Paolo II, “in particolare della Redenptor Hominis che indica lo scopo, contenuto e metodo della nuova evangelizzazione”, e la riproposta della dottrina sociale della Chiesa (con particolare riferimento all’Istruzione Libertà cristiana e liberazione della Sacra Congregazione per la Dottrina della fede) per evitare sia un diffuso spiritualismo sia una riduzione dell’impegno culturale, sociale e politico dei cristiani a forme, pur buone e significative, di volontariato”.

. . . . . . .

Il testo di CL si presta a diverse considerazioni, ma quello che a noi interessa ora è comprendere bene quell’antitesi tra Cristo-Vangelo da un lato e cultura “illuminista-massonica” dall’altro, antitesi che ci sembra la chiave di volta del documento niellino.

Cultura illuminista-massonica: l’adozione di questa categoria, ci sembra, predetermina essenzialmente e definitivamente il carattere che CL intende dare alla “nuova evangelizzazione” essa si configura di primo acchito come una crociata. I due termini uniti dal trattino definiscono e situano lo schieramento avverso in un’area di compresenza e di intreccio di tratti culturali, ideologici e, implicitamente, socio-politici: non è difficile vedere in trasparenza, sotto la denominazione di “illuminista-massonica”, l’area “laica” del mondo politico italiano; diciamo, per intenderci meglio, i fautori delle leggi sul divorzio e sull’aborto.

Ma l’aggettivazione composita sprigiona effluvi ben altrimenti inquietanti. Chi di noi ha superato la cinquantina non mancherà di avvertire l’affinità con certe formule della propaganda fascista (che agitava lo spettro del pericolo demo-pluto-giudo-massonico) e si chiederà se sia soltanto casuale: anche “allora” si trattava di mobilitare la gente sotto il vessillo di slogan perentori, dotati di un’apparente dignità “culturale”, attraverso cui la verità, che per sua natura è sempre complessa e sfuggente, si fa come per miracolo tangibile come una cosa che è lì, a portata di mano, sempre pronta ad esimerci dalla fatica di pensare , a coprire di vapori alienanti le nostre paure e le nostre frustrazioni.

E ancora una conseguenza, che procede dall’ambiguità della categoria adottata: quei cristiani che si lasciano adescare dalla sirena illuminista-massonica, non solo sono autolesionisti a livello di fede, ma anche sul piano delle scelte politiche. Immemore della distinzione giovannea (troppo profetica!) tra matrici ideologiche e concreta evoluzione storica dei movimenti politici, CL dispensa il cristiano da ogni imbarazzo nella sua vita di cittadino: da un lato ci sono le ideologie “immanentistiche e materialistiche” (da quella marxista che ha perso il suo fascino a quella illuminista-massonica che ancora lo conserva, ma per poco), dall’altro la dottrina sociale della Chiesa, e coloro che la fanno propria e la mettono in pratica. A buon intenditore, poche parole!

Quello che soprattutto ci trova dissenzienti nei confronti di questa visione ciellina è l’assoluta incapacità di cogliere nella loro complessità e plurivalenza, nonché nel loro divenire, le culture del mondo contemporaneo; e quindi, in definitiva, il carattere mistificatorio che viene ad assumere di riflesso lo stesso richiamo al “Cristo, unico salvatore”.

Adottare la chiave interpretativa ciellina significa precludersi in partenza la possibilità di comprendere l’uomo contemporaneo, e quindi di instaurare un effettivo dialogo con esso; significa di conseguenza rafforzare le barriere ideologiche, restaurare steccati che sono in realtà non strumenti di lotta e di vittoria, ma povere, meschine difese che ci costruiamo dentro per proteggere la nostra pigrizia e la nostra viltà; significa ridurre il Vangelo a ideologia; significa infine presumere di poter cancellare d’un tratto di penna una lunga tradizione di cristianesimo aperto e attento al mondo contemporaneo, che s’inizia nel settecento e che attraverso un Manzoni, un Rosmini e un Lambruschini fa capo ad un Giovanni XXIII e ad un Paolo VI.

Francamente, non riusciamo a trovare altro termine per definire l’atteggiamento di CL se non quello che è l’opposto dell’illuminismo: l’oscurantismo.

. . . . . . .

Non riteniamo che il testo da cui prendere le mosse per una corretta impostazione della “nuova evangelizzazione” sia ancora oggi la Gaudium et Spes: ad oltre vent’anni dalla sua pubblicazione, questo documento del Concilio vaticano II serba intatta la sua profonda forza di suggestione e la sua funzione di orientamento e di stimolo. Anzi, diremmo che la sua rilettura (o, per moltissimi, la sua prima lettura) è tanto più raccomandabile in quanto nel corso di questi ultimi anni lo spirito che lo informa si è andato smarrendo attraverso una ricezione riduttiva e fuorviante.

Ora, come imposta questo documento il rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo? Partendo dalla considerazione della condizione esistenziale degli uomini d’oggi. Credenti e non credenti, cristiani e non, cattolici e non, tutti gli uomini sono considerati come un’unica famiglia, che ha in comune problemi, aspirazioni, contraddizioni, smarrimenti; che in diverso modo cerca di dare risposte a questi problemi, onde la cultura si articola nelle culture; ma che attraverso le differenze tende sempre più nettamente all’unità: “Lo sviluppo dei rapporti tra le varie stirpi e classi sociali (apre) più ampiamente a tutti e a ciascuno i tesori delle diverse forme di culture, e così a poco a poco si prepara una forma più universale di cultura umana, che tanto più promuove ed esprime l’unità del genere umano, quanto meglio rispetta le particolarità delle diverse culture”: Ciò non significa che non ci siano tensioni, contrasti ecc.; ma che tutto ciò va visto all’interno di una comune condizione umana, e di una comune contraddizione esistenziale; come momento di un cammino; dell’umanità che ci coinvolge tutti. Si veda allora ad esempio come viene affrontato il problema dell’ateismo. Certamente l’ateismo viene “riprovato”, ma l’intera trattazione del fenomeno è dedicata non alla sua condanna, né alla sua confutazione, ma alla comprensione delle sue “ragioni”.

Senza dilungarci oltre, concludiamo dicendo che questo è lo spirito cui vorremmo che s’ispirasse la chiesa locale di Roma nel ricercare nuove vie di evangelizzazione. Saremo fedeli al Vangelo non se giudicheremo, ma se comprenderemo. Certamente noi dobbiamo esprimere una valutazione evangelica dei fatti, le idee, i comportamenti, ma questa valutazione non può scaturire da una meccanica applicazione di tavole precostituite; essa può essere veramente d’aiuto all’umanità contemporanea solo se risulta da un profondo sforzo di comprensione. L’esperienza di tanti anatemi, drastici e senz’appello, che noi cattolici abbiamo distribuito con dovizia, e poi ci siamo dovuti in gran parte rimangiare, dovrebbero pure una buona volta insegnarci qualcosa.

Tanto ci sentivamo di dover dire, e fraternamente, a CL di Roma. Vorremmo soltanto aggiungere, a mo’ di appendice, un brano d’autore illuminista, che si legge spesso nei licei, e che ci piace particolarmente (a parte un piccolo “neo” maschilista).

Appendice:

“L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è quella minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E’ questo il motto dell’illuminismo.

La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes) rimangono ciò non dimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. Ed è così comodo essere minorenni! Se io ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero per me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. A persuadere la grande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) che il passaggio allo stato di maturità è difficile e anche pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra i loro simili minorenni. Dopo di averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e di avere con ogni cura impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori della carrozzella da bambini in cui li hanno imprigionati, in un secondo tempo mostrano ad essi il pericolo che li minaccia qualora cercassero di camminare da soli. Ora questo pericolo non è poi così grande come loro si fa credere, poiché, a prezzo di qualche caduta, essi imparerebbero finalmente a camminare….” (I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Torino, U.T.E.T., 1956).

__________________________________