Lettera 97 (Prima Serie)

Cari amici,

in questo numero riportiamo il testo integrale di un intervento e presentiamo un libro che affrontano i problemi di Roma da un’angolazione sindacale. In passato l’intervento del sindacato si collocava strettamente all’interno delle aziende; risale all’ultimo decennio la presa di coscienza, che lentamente è andata maturando in seno alla classe lavoratrice, della stretta connessione tra fabbrica e società, tra lotta per modificare l’organizzazione del lavoro, l’assetto gerarchico aziendale, la struttura del salario da una parte e azione rivendicativa di riforme sociali e di strumenti di democrazia più sostanziali dall’altra. Questo faticoso processo di maturazione ha portato in questi ultimi tempi larghi strati di militanti e dirigenti sindaca1i a comprendere che sul territorio, nei centri urbani come nelle campagne e nelle zone montane, che va gestito l’intervento del sindacato, unificando obiettivi, sforzi, lotte. speranze, tra occupati, disoccupati, lavoratori precari, emarginati di tutti i tipi. E’ un processo assai difficile, che va portato avanti con coraggio e convinzione, tanto più che deve fare i conti con una crisi che spinge nella opposta direzione della disgregazione. I discorsi su Roma che proponiamo in queste pag1ne partono proprio da una volontà di cambiamento che sta maturando nel sindacato. Testimonia no che qualcosa si muove in direzione di nuove dimensioni della solidarietà e della lotta per la giustizia sociale. Allo stesso tempo sono il segno di uno sforzo in atto volto a riunificare, in ambiti territoriali più a misura d’uomo, realtà che vanno affrontate contestualmente quali l’occupazione, i luoghi di residenza, i servizi sociali, le strutture distributive, il tempo libero ecc. A Roma, per molteplici ragioni, il compito si presenta assai più complesso che altrove. Se siamo tra coloro che hanno speranza e che vogliono fare la loro parte, cominciamo intanto a documentarci più seriamente.

Fraterni saluti.

il gruppo ‘la tenda’

ECONOMIA,POLITICA E SOCIETA’ A ROMA -QUALE RINNOVAMENTO – Tavola rotonda nell’ambito del Seminario “Cultura e città” promosso dal Mov. Laureati Cattolici di Roma -Intervento di Franco Bentivogli, Segretario Generale del’ Sindacato metalmeccanici FIM- CISL -23/2/1979.

L’economia romana è un pianeta sconosciuto nel quale, solo negli anni recenti, si è potuto fare qualche esplorazione capace di uscire dal mondo delle supposizioni e dei luoghi comuni.

E’ stato indubbiamente un grosso merito, in questo senso, quello del Convegno del febbraio ’74 sui mali di Roma che ha permesso di alzare il velo su tanta parte delle realtà contraddittorie di questa città.

Nel mese scorso è stata presentata una ricerca del sindacato su Roma che contribuisce a demistificare opinioni scontate che definivano la città come burocratica e parassitaria. La struttura produttiva della città si può individuare in una composizione per settori, che enuclea, fra i comparti produttivi dell’industria, quello edile, chimico, tessile e metalmeccanico. Ma è il terziario, soprattutto, che costituisce il vero e più caratteristico elemento dinamico dell’economia.

Il terziario, il commercio, i grandi servizi direzionali della impresa pubblica e privata e, infine la pubblica amministrazione costituiscono quindi le maggiori fonti di lavoro e di occupazione. Accanto a queste realtà convivono però importanti fenomeni di sottocupazione e di disoccupazione e, soprattutto, di doppio lavoro; quest’ultimo è già stato messo in luce in efficacemente e costituisce un dato quantitativamente rilevante (il 46,3% nel P.I. e il 51,5% nell’industria) e qualitativamente problematico.

In questa situazione economica, così sommariamente richiamata si innesta l’azione e l’iniziativa di una forza sociale come il sindacato. Esso deve fare i conti, innanzitutto, con la situazione di oggettiva debolezza numerica della classe operaia a Roma. Gli operai sono pochi a Roma rispetto agli altri lavoratori e ciò determina non solo conseguenze politiche, sia sulla composizione dei partiti che del sindacato, ma anche effetti “culturali” sui quali sarebbero opportuna una riflessione accurata.

Ma assumere un’ipotesi di rinnovamento a Roma significa anche misurarsi necessariamente con l’insieme delle caratteristiche sociali e politiche della città, con i giganteschi problemi di un agglomerato urbano che intorno a sé ha il deserto, che ha conosciuto nel giro di un secolo ondate successive di fenomeni migratori, che ha visto stravolto il suo equilibrio urbano da una crescita disordinata di quartieri e borgate realizzati all’insegna della speculazione fondiaria e edilizia.

L’insieme di questi processi ha determinato lo svilupparsi di un ambiente di vita di cui veramente si può dire che è inabitabile e capace solo di favorire disgregazione, egoismo e violenza.

Oggi in Roma convivono un gran numero di città, spesso chiuse in se stesse e con caratteri distintivi assai netti. Lo stesso centro storico è frammentato di zone diverse: quelle già toccate dal consumismo e dal “risanamento” operatovi dalla borghesia, e altre in cui sopravvivono vincoli di solidarietà dettati dal bisogno. Intere zone della periferia assumono connotati di dormitori frammisti a zone commerciali mentre, nello stesso tempo, le tappe della violenza politica si incaricano di battezzare interi quartieri “rossi ” o “neri ” .

Le cause di questo punto d’arrivo sono note o comunque facilmente rintracciabili nella qualità e nelle modalità dello sviluppo economico nazionale che proprio a Roma hanno concentrato disordinatamente energie e sprechi di risorse giganteschi e disuguaglianze scandalose. Accanto ai centri del potere politico ed economico è cresciuta una generazione di “clienti” che ha costituito per anni l’immagine di una città parassitaria capace solo di alimentare il fiume degli scandali del malgoverno e della corruzione.

Per decenni e decenni si sono lasciati incancrenire i problemi: da quello della casa, a quelli dei trasporti, delle strutture sanitarie, dell’università che scoppia e in cui ogni anno confluiscono migliaia e migliaia di giovani in parcheggio rispetto alla ricerca di una futura occupazione. Questi giovani vengono dal Mezzogiorno, dall’Italia centrale, da altri paesi esteri e vi sono cinque o sei anni – nel migliore dei casi – nel disordine e nella diffidenza più assoluta, respinti dalla città che non ha strutture adeguate per accoglierli, spesso neppure una stanza in cui ospitarli. Questo quadro è sostanzialmente stabile nel tempo; il mutato equilibrio politico, nella direzione della città, ci ha dato un sindaco presentabile (non bisogna mai dimenticare che un suo predecessore era invece finito in galera), ma non mi pare che si siano ancora affrontati con sufficiente vigore i mali strutturali della città; lo stesso decentramento amministrativo langue e, anche se ha adottato qualche timida iniziativa concreta, è ancora troppo caratterizzato dal dibattito ideologico e dall’impotenza. Esso, soprattutto, non è riuscito a rompere il muro delle diffidenza della gente attivizzandola e promuovendone la partecipazione.

Una partecipazione che ha visto sulla nostra città momenti molto intensi, nei consigli di quartiere, o in tutte le iniziati ve di base – per fortuna non ancora morte – sul terreno sociale, culturale, ecc. ma che è stata ampiamente frustrata dal costante tentativo di proiettare nelle varie forme di aggregazione esigenze di equilibri politici che non partivano dai bisogni reali e immediati della gente.

La spiegazione sta certo nel fatto che non si può chiedere alla gente di partecipare se i poteri, la facoltà di decidere rimangono nelle mani di gruppi ristretti e di poche persone. I lavoratori, e tutti i cittadini, sono disponibili all’impegno per cambiare le cose, anche la vita a Roma, solo se avvertono di essere protagonisti di un processo e non oggetti passivi di manovre verticistiche e deresponsabilizzanti. Il compito più urgente, in questo senso, mi pare quello di cercare, sotto la crosta dell’indifferenza, della rassegnazione e dell’egoismo diffuso, le forze che potenzialmente costituiscono fattori di movimento e di rinnovamento. In questa ricerca si dovrà anche verificare se a Roma esistono, tra gli altri e con gli altri, dei cristiani disposti a rischiare e a mettere in discussione le loro certezze per dissotterrare i talenti e spenderli al servizio non di idee astratte o, peggio, dei tradizionali interessi costituiti, ma concretamente di chi ha bisogno di aiuto per sopravvivere e vivere in questa città così difficile.

Anche alla Chiesa e alle sue gerarchie dovremo chiedere meno documenti, meno connivenze e più azioni lineari; forse anche Roma, come la Parigi degli anni cinquanta, è una città da evangelizzare. Occorre però ricordare che, se si vuole fare ancora questo mestiere, gli interlocutori sono cambiati, le esigenze si sono fatte più radicali, patenti gratuite di credibilità non vengono più rilasciate a nessuno. C’è posto veramente per molti, per tutti c’è lavoro ma solo se, nella ricerca pur paziente e faticosa, viene rispettata la dignità dì tutti e l’autonomia di ognuno. E un’altra condizione, per aprire veramente a tutti, è di superare un’eccessiva passione per dibattiti astratti, come quelli ad esempio su materialismo e cristianesimo, che hanno infestato la nostra città contribuendo più a dividere che a creare solidarietà fra la gente, più ad allontanare dalla partecipazione che a coinvolgere. E’ semmai da quello che le singole forze hanno fatto per rispondere ai bisogni sociali e personali della popolazione romana che andranno giudicate le posizioni ideologiche, la loro attitudine a fare da sfondo a un processo di cambiamento. Come sempre, l’albero si giudica dai suoi frutti.

Vorrei a questo punto contribuire ad avviare la riflessione sulle forze che possono cambiare economia, politica e società a Roma, e dico subito che anche in una situazione così difficile e particolare, occorre partire dai bisogni e dalle aspirazioni dei lavoratori. C’è certamente il rischio che a Roma la classe operaia avverta la sua solitudine e l’inadeguatezza delle sue forze. Che non sia in grado di rompere il conformismo conservatore dagli impiegati ministeriali, la prepotenza dei commercianti, la sicurezza proterva dei liberi professionisti, il sapiente “mestiere” degli integrati nei luoghi del potere, lo sperpero immorale da “basso impero” delle migliaia di addetti all’industria del cinema, dello spettacolo e dei mass-media, così poco produttiva in termini culturali in rapporto alle risorse che ingoia.

Tuttavia, occorre sperimentare la possibilità di frantumare questo cerchio. Credo che occorra avere fiducia. Già in altre circostanze, e con continuità da almeno dieci anni a questa parte la città si è aperta ad un rapporto nuovo con i lavoratori e le loro lotte, con una disponibilità ed una partecipazione sempre convinta.

Più volte le sue strade e le sue piazze si sono lasciate coinvolgere da chi, venendo anche dall’insieme del Paese, poneva al centro dei propri obiettivi la lotta per il lavoro, per i giovani, per le donne, per gli emarginati, per il Mezzogiorno, la causa dell’emancipazione operaia. La crosta dell’incomprensione si è dunque rotta: io non so se questa rottura sia definitiva e abbia coinvolto in ugual misura tutte le forze che operano nella città.

Ampie falle si sono aperte nel conformismo sociale e nel qualunquismo politico che caratterizzavano i ceti medi romani. La violenza politica e non, riceve semmai risposte di manifestazioni democratiche e non comportamenti reazionari, le squadre fasciste non trovano più comprensione anche se sono sempre possibili pericoli di riflusso, rispetto ad un comportamento delle istituzioni non adeguato.

Personalmente propendo per una valutazione che consideri questo processo come l’apertura di una nuova, e potenzialmente feconda, contraddizione a Roma, certamente non stabilmente acquisita, ma soggetta agli sviluppi di un lavoro sociale, culturale e politico che deve coinvolgere più forze e più gruppi organizzati.

Tra questi il sindacato deve fare la sua parte, senza velleitarismi ma anche senza sottrarsi all’obbligo di fare i conti con la specificità della situazione romana. Il rischio più forte che corriamo è quello di concepire il nostro ruolo in modo subalterno all’esistente, accentuando e avallando atteggiamenti conformistici e passivi. Occorre discutere di più, e più a fondo, con i lavoratori, cogliere le grandi e piccole scadenze per creare coscienza critica su moduli di comportamento e modelli di consumo che poco o nulla hanno a che vedere con la dimensione etica che dovrebbe essere propria di un grande movimento di emancipazione. Bisogna scavare negli egoismi consolidati, nell’individualismo che la vita nelle grandi città provoca e coltiva atomizzando la gente sui luoghi di lavoro, nei quartieri, all’interno stesso delle famiglie.

Forse se sapessimo muoverci autocriticamente, e a fondo ,su questo terreno denunciando apertamente da un lato le occasioni in cui si distrugge la solidarietà interna alla classe lavoratrice (penso al rapporto tra la pubblica amministrazione e utenti o a quello tra infermieri e malati nelle strutture pubbliche e sanitarie e di assistenza); e dall’altro tutti gli espedienti con i quali si cerca una promozione o affermazione di tipo individuale, comprenderemmo meno superficialmente le ragioni della critica e del malessere con cui, ad esempio tra i giovani, viene considerata la vita associativa, in particolare in una grande città. Con che diritto infatti potremo meravigliarci del “rifiuto al lavoro” se spesso al sindacato è sufficiente la definizione di “lavoro dipendente” per tutelare alcuni ed escludere altri, per garantire chi poi con mille accorgimenti si “arrangia” sottraendo altro lavoro e altro reddito ad altri che non ne hanno alcuno? Oggi un lavoro ufficiale è sempre più un privilegio che conferisce dignità sociale a chi lo svolge: e non solo e non tanto perché è una fonte di reddito certo, ma perché si accompagna a una serie di altri riconoscimenti e certezze che, invece, non esistono in altri casi.

Se, quindi, il sindacato continuerà a muoversi assecondando processi e interessi che riguardano solo i garantiti subirà una trasformazione della sua vera natura: accentuerà fatalmente i suoi connotati di carattere istituzionale, tenderà sempre più a perdere i collegamenti con i bisogni più elementari che cercano tutela, con gli strati sociali che, non riconosciuti, cercano dignità e occasioni di uguaglianza. In altre parole, non è difficile prevedere che se il sindacato non saprà aprirsi fino a comprendere e ad organizzare i bisogni delle nuove generazioni, come invece si è sempre sforzato di fare nel passato restando modificato non solo nella sua politica rivendicativa, ma anche nella qualità della sua organizzazione, si interromperà un circuito vitale per la stessa vita della democrazia e si approfondirà un vuoto di prospettive e di speranze. Certo è più difficile oggi rispondere a questi problemi che nascono fuori dalla fabbrica e che richiedono interventi ed iniziative di tipo nuovo ed originale, ma è l’unica via per mantenere un collegamento reale contro la disgregazione sociale che determina la crisi in modo particolare in una città come Roma.

Ma se mi sono soffermato sulle carenze e sulle esigenze che investono l’esperienza del movimento sindacale a Roma, che però in al cune categorie dell’industria come quella dei metalmeccanici è fortemente impegnato a misurarsi col nuovo, per dare risposte ai bisogni di protagonismo e alle aspirazioni egualitarie, ciò non significa che altri siano più avanti su questa strada.

Al contrario, mi sembra che per dare risposte di rinnovamento altre forze e altre organizzazioni sono a Roma assai più arretrate.

Da quella degli imprenditori che hanno sempre concepito lo sviluppo come un effetto possibile, ma non necessario, delle loro manovre speculative; e si badi bene che questo giudizio non riguarda solo la scontata situazione in cui ha prosperato da sempre il padronato del settore edilizio legato alla rendita, ma anche quelle forze che si sono affacciate nel settore industriale solo per poter lucrare incentivi e aiuti pubblici, senza mai dar vita a solide iniziative produttive.

A questa imprenditoria di rapina e con fini prevalentemente speculativi è legata, non a caso, la stessa crescita del ceto politico dominante a Roma. Se le vicende politiche della città risultano costantemente in secondo piano rispetto a quelle di livello nazionale, ciononostante mi sembra che si possa dire che esse suscitano, anche ad un osservatore distratto, un’impressione di opacità e di scarsa trasparenza, di parassitismo codista e di grande acquiescenza ai centri di potere economico e burocratico. Commetteremmo di certo gravi errori se fossimo tentati di generalizzare giudizi, tuttavia mi sembra che mai come a Roma la vita nei partiti politici, soprattutto i maggiori si svolge nell’esercizio dell’ordinaria amministrazione, gestendo nel chiuso delle sedi istituzionali e senza alcun respiro ideale la quotidianità dei problemi che incalzano .

Quest’impressione grigia, di mancanza d’entusiasmo e di scarse tensioni al cambiamento allontana chiunque non sia un “professionista” della politica. Il linguaggio e le formule adoperate non hanno alcun rapporto con le esigenze avvertite dai cittadini e servono spesso solo a giustificare le manovre di schieramento che ritmano i tempi della lotta politica con l’alternarsi delle alleanze fra di versi gruppi .

Nella grande dimensione metropolitana, questi processi aggravano il senso di estraneità delle persone e ne riducono gli stimoli alla partecipazione e ad un impegno per il rinnovamento.

Ciascuno di noi infatti è disponibile ad un’ipotesi di lavoro collettivo purché gli sia riconosciuto il diritto di mettere allo Odg proposte (o frammenti di esse) legate alle dimensioni del proprio futuro, che affermino il principio di una verifica comune delle linee dei progetti sui quali si costruisce e si modifica la società civile.

Ed è questo che vorremmo offrire come sindacato, nel momento in cui sia le istituzioni che i partiti chiudono sempre di più le porte, aprirsi ai ceti emarginati, ai non garantiti in uno sforzo che superando i limiti del passato rilanci le esperienze più esaltanti di democrazia sindacale sul territorio, nel grande agglomerato urbano. La piattaforma della FLM offre grandi spazi in questa direzione, spazi che sta al sindacato ma anche alla società civile, ai cristiani, riempire con un rinnovato impegno nel sociale.

Il problema della partecipazione mi pare assolutamente centrale nella situazione romana; ma commetterebbe un grave errore chi ritenesse di risolvere in chiave sociologica questa domanda. Domanda di partecipazione è anche disponibilità all’assunzione di responsabilità domanda di partecipazione è quindi domanda di potere, di una sua nuova qualità democratica.

Rispetto all’insieme di questi processi, al contraddittorio affastellarsi di problemi non è, infine, superfluo domandarsi se i cristiani di Roma si collochino – sia nella sfera economica che in quella politica- sul versante del rinnovamento o su quello della conservazione. Non spetta a me esprimere valutazioni definitive, tuttavia almeno come parte infinitesimale in causa voglio esprimere la mia opinione.

Molto schematicamente, mi sembra che prevalga in molti centri e luoghi d’aggregazione religiosa la tendenza a ritenersi paghi delle legittimazioni raccolte nel passato e non ci sia il desiderio diffuso di interrogarsi, sul senso di certe presenze, sul significato di certe linee pastorali, sui segni – in definitiva – con i quali anche in questa città, che ci presenta sempre le tentazioni al trasformismo, sono presenti ed operano le comunità dei credenti.

Né le nuove aggregazioni come quelle della lista universitaria dei cattolici democratici mi sembrano andare al di là di questi limiti di passività e di legittimazione esterna. Molto più proficuo mi sembra invece il lavoro oscuro ma vasto che stanno facendo gruppi che si impegnano nel vivo dei problemi sociali al di là delle sigle confessionali o di partito. E’ solo da un discorso di questo tipo, di confronto concreto con le realtà sociali, che può nascere un ruolo, un’immagine, una funzione nuova per il mondo cattolico romano.

Complessivamente però c’è stata (o c’è ancora?) una grande ottusità nel comprendere che la storia, anche a Roma, ha camminato sulle gambe di migliaia e migliaia di persone senza volto e, probabilmente, fuori dalla Chiesa, piuttosto che su quelle degli imprenditori cristiani e del partito cristiano.

Questo è un grande scandalo, anche dal punto di vista evangelico, sul quale non abbiamo ancora riflettuto abbastanza; eppure abbiamo gli strumenti della ragione e gli insegnamenti della storia: ci manca forse la capacità di convertirci?

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PROBLEMI DEL CENTRO DI ROMA

La Camera confederale del lavoro di Roma ha pubblicato gli atti del Seminario promosso dalla zona Centro della Confederazione CGIL e dell’Ufficio Formazione della stessa CdL di Roma tenutosi a Roma il 24 maggio 1978.

Il volumetto di 106 pagine si intitola “Sindacato e territorio. Analisi e prospettive socio-economiche della prima circoscrizione”.

Si deve dare all’argomento, e soprattutto alla parte di città presa in esame, il giusto rilievo. La prima circoscrizione cittadina ha per confini le mura Aureliane, quanto dire tutta la Roma antica, il centro di Roma, la vecchia Roma, o come la si vuol chiamare. E’ tutto compreso la nella unica prima circoscrizione comunale (delle diciannove esistenti), a chiara ammissione di una sua natura e dimensione umana e civile di totale specificità (al che corrisponde, sul piano ecclesiale, l’attribuzione ad un unico vescovo ausiliare, responsabile del settore Centro. Sicché un solo vescovo per un’unica circoscrizione, mentre altri quattro vescovi si dedicano alle zone di Roma racchiuse nelle altre 18 circoscrizioni).

Evidente dunque la peculiarità, la specificità del territorio urbano considerato che, se si impone per una sua certa possibilità di essere visto come un tutt’uno, va naturalmente anche ben puntualizzato in base a divisioni interne di origini profonde e lontane.

In ogni caso, ed entriamo a dar conto del volume in esame, dobbiamo rilevare che il territorio in cui operiamo (La Camera del Lavoro della I^ circoscrizione n.d.r.) è abbastanza difficile e complesso, e questo per due motivi in particolare: è una zona che vede presente in gran parte categorie del terziario e del pubblico impiego …; il secondo è il grosso problema del risanamento e urbanistico e sociale del centro storico”. (pag.11). Quanto al primo motivo i problemi nascono dalla disgregazione e non funzionalità delle strutture e degli uffici in rapporto ai bisogni dell’utenza”, mentre per il secondo aspetto bisogna dire che la realtà produttiva della zona è il settore dell’artigianato (produttiva nel testo è tra virgolette, n.d.r.), con quel che di sfuggente e incerto il settore comporta, anche sul solo piano del rilevamento statistico (12) .”Un discorso va fatto anche per il settore terziario e del commercio …il centro storico è la zona più importante per il turismo nazionale e internazionale” (12)

“Un altro problema è quello dei servizi socio-sanitari: nel territorio esiste un forte concentramento di strutture sanitarie, e questo comporta la necessità di affrontare tutti i problemi inerenti alla trasformazione delle strutture per un utilizzo più efficiente, democratico, decentrato e quindi più vicino ai bisogni del la gente” (13). C’è poi il problema del risanamento urbanistico. Questo è forse il problema più difficile da affrontare. Nella zona scontiamo drammaticamente l’opera di sventramento, il meccanismo economico della sostituzione della popolazione che è derivato dal l’operazione speculativa di vastissime proporzioni che ha colpito il centro storico” ( 13) .

E qui si comprende, avverte Giacomo Guglielmi, estensore della prefazione al volumetto, la difficoltà politica del collegare persone e forze sociali in vista di un programma la cui configurazione è tanto complessa. Ci siamo fermati a citare quasi per intero i pensieri della introduzione, proprio per compiere il nostro dovere di presentazione del lavoro che ci viene offerto.

Il lavoro vero e proprio è là nelle sue 106 pagine, rese piacevoli da alcune foto significative di caratteri e di ambienti, per gli interessati. Diamo di seguito il sommario degli argomenti trattati.

A pag. 15 e segg. “la prima circoscrizione in cifre”. “Lo sviluppo della urbanistica nel centro storico” , di Giancarlo Micheli (18 e sgg.) ci ricorda tra l’altro fatti assai significativi. Il soffocamento del tessuto urbano-romano: il centro di Roma scende dai 300-400 mila abitanti del 1951 ai meno che 200 mila nel 1971. Negli anni ‘50 la speculazione edilizia di disinteressa del centro e i romani emigrano verso l’esterno della città. Si determina un tempo intermedio di attesa. Ma il centro storico di Roma si distacca per dimensione e importanza dagli altri centri storici, per il valore anche economico che rappresenta” che esercita profonda “attrazione per tutta una serie di attività e mire capitalistiche” (26). A questo punto non bastano più attese o “attegiamenti di tipo protezionistico, protettivo, di conservazione. Occorre assumere un atteggiamento spregiudicato per quello che riguarda lo sviluppo della città. Guai se non riusciamo anche noi a “comprendere l’enorme potenziale insito nel centro storico di Roma, che le forze capitalistiche hanno individuato, perché, rispetto ad una posizione dinamica, un atteggiamento di tipo protezionistico così come lo abbiamo sviluppato fino adesso non riuscirebbe comunque a far fronte ai problemi, alle spinte che le forze capitalistiche potrebbero invece realizzare”. In tal caso la capacità, la dinamica dell’imprenditorialità si farebbero beffe ancora una volta del valore monumentale in se e per se, e di ogni atteggiamento romantico, riuscendo comunque a piegare lo sviluppo della città ai suoi propri programmi.

E’ dunque una battaglia di popolo che deve farsi. Ed è buon segno che strutture sindacali cittadine si impegnino fin dal livello preliminare di studio, superando una concezione che lega sindacato a fabbrica, lasciando il territorio urbano, abitabile o turistico o commerciale o monumentale sprovvisto del presidio delle organizzazioni popolari.

“Occorre perciò un impegno fortissimo da parte delle organizzazioni sindacali a fare in modo che dal centro storico, proprio dalla sua natura stessa di città, si possa condurre un movimento, una capacità di lotta che punti al risanamento” (27).

Vito Di Terlizzi espone i problemi socio-sanitari del centro storico (31 sgg.). Egli pubblica le cifre dello spopolamento del centro storico, che sono davvero impressionanti. Ecco per esempio solo alcuni dei 14 rioni del centro storico.

Monti Campo Marzio S. Eustachio

1951 46.630 23.299 7.257

1961 31.727 13.836 4.457

1971 22.690 8.844 2.822

e gli altri anche peggio!

Raffaele Minelli espone la situazione occupazionale del centro storico (25 sgg.) dove moltissima gente viene a lavorare, soprattutto della pubblica amministrazione, e dove i pochi abitanti trovano sempre più difficilmente un lavoro in loco. A ciò si accompagna il progressivo invecchiamento della popolazione residente, che viene sostituita non dai propri figli, i quali emigrano nelle fasce esterne della città, ma piuttosto da uffici e attività terziarie, con il progressivo sgretolamento del tessuto cittadino umano.

L’artigianato, vera industria comunale di ogni città degna di questo nome, retaggio di secoli e secoli di evoluzione umana, merita un apposito discorso, per Roma come per qualunque altra città. Ad esso è dedicato il 1avoro da pag. 57 a 67.

Segue la sintesi del dibattito del Convegno. In allegato il piano del Comune per un intervento di restauro a Tor di Nona.

Un volumetto che raccomandiamo, utile nella sua semplicità, nell’entusiasmo del suo amore per la città.

Riportiamo infine la bibliografia posta in fondo al volume, che può tornare utile a tutti per un approfondimento di tematiche legate al centro storico di Roma.

– COSA LEGGERE sulle origini e le caratteristiche delle grandi città; C. Aymonino, Origini e sviluppo della città moderna, Padova, Cedam, 1971, 2^ edizione; P. Della Seta, Le campagne d’Italia, Bari, De Donato, 1978; C. Aymonino, Il significato della città, Bari, Laterza, 1976; F. Ferrarotti, La città come fenomeno di classe, Milano, Angeli, 1975.; A. Acquarone, Grandi città e aree metropolitane in Italia. Bologna, 1962.

– COSA LEGGERE su Roma e i suoi problemi: I. Insolera, Roma moderna, Torino, Einaudi, 1971; L. Benevolo, Roma da ieri a domani, Bari, Laterza, 1971; C. Caracciolo, Roma Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1974, 2.èdizione; G. Berlinguer – P. Della Seta, Borgate di Roma, Roma, Editori Riuniti, 1976, 2^ edizione; L. Quaroni, Immagini eli Roma, Bari Laterza, 1976; F. Ferrarotti, Roma da capitale a periferia, Bari, Laterza, 1973, 2^ edizione; G. Congi, L ‘altra Roma. Classe operaia e sviluppo industriale nella capitale, Bari, De Donato, 1977; L. Benevolo, Roma oggi, Bari, Laterza, 1977. Per una prima conoscenza del ruolo svolto dai lavoratori della capitale nella battaglia per la giustizia sociale e lo sviluppo della democrazia: AA.VV., Movimento operaio e organizzazione sindacale a Roma (1860-1960). Documenti per la storia della Camera del Lavoro, Roma Editrice Sindacale Italiana, 1976, 2 voll. Per un agile, riassuntivo e aggiornato quadro sulle caratteristiche demografiche e la loro distribuzione nella città: Roma: popolazione e struttura territoriale a cura del collettivo redazionale della rivista I quaderni di Roma del Centro di documentazione su Roma moderna. Ernesto Nathan, Roma. Editori del Centro di documentazione, n. 2, Marzo-ApriJe 1978.

– COSA LEGGERE sul Centro Storico, sui problemi del suo risanamento territoriale, edilizio, produttivo: i materiali e le relazioni presentate dal Comune di Roma in occasione della 1. Conferenza cittadina sui problemi urbanistici e in particolare la relazione presentata da Vittoria Ca1zolari, As- sessore per gli Interventi nel Centro Storico, Roma, Palazzo Branschi, 8-9 luglio 1977 – Tipografia Operaia Romana; gli studi condotti dall’Associazione Italia Nostra: – Roma sbagliata. Le conseguenze sul Centro storico, Roma Bulzoni, 1976 e il numero speciale del Notiziario dell’associazione dal titolo Italia Nostra per il Centro storico di Roma, anno 3 giugno 1976; gli articoli sull’argomento apparsi sulla rivista bimestrale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica Urbanistica Informazioni; si consiglia la lettura del periodico della C.C.d.L. di Roma e Provincia Impegno Sindacale in particolare il recente articolo di F. Steri, Il Centro storico tra abusivismo e degradazione, n. 123, maggio 1978, pp. 33-36.

– Relativamente ai documenti e materiali che a vario titolo interessano il Centro storico sono da segnalare in particolare: 1. Circoscrizione, Programma a breve termine, Roma 1977; Centro Studi Sindacato Costruzioni: Il ruolo del centro storico nella provincia e nella Regione come elemento del riequilibrio sociale, produttivo, territoriale, edilizio, nell’ambito della riconversione complessiva, Roma 1976; FL.C., Centro storico cantieri bloccati, Roma 1977; Assessorato per gli interventi nel Centro storico del Comune di Roma, Indagine sulla condizione abitativa di un settore del Centro storico di Roma ( prime indicazioni e risultati parziali di uno studio in corso), Roma 1978; il documento presentato dai Consigli d’Azienda della Sip, delle FF.SS., dell’Ospedale Regina Margherita, dell’Atac in occasione del Convegno promosso dalla 1^ Circoscrizione, Roma, febbraio 1976; Federazione Lavoratori Enti Locali Cgil, Cisl, Uil – Roma Coordinamento Unitario Servizi sociali -Relazione al Convegno promosso dal Comune di Roma del 30 aprile 1977 nella Promoteca Campidoglio; Federazione provinciale Cgil, Cisl, Uil, Note sui servizi sociali e sanitari a Roma, Roma, 6 aprile 1978.

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lettere

30. Primi giudizi sul nuovo papa. (la lettera qui riportata è in risposta a quella apparsa sullo scorso numero di gennaio-febbraio -n.29)

“Non riesco proprio a condividere il pessimismo di quel lettore della Tenda che teme per il futuro della Chiesa dopo l’arrivo di Giovanni Paolo II.

“Ho l’impressione -scrive- che i tempi cupi non sono finiti”. E perché, di grazia? Perché il papa abbraccia i bambini, riceve i medici della Cattolica, parla ai giovani e dei giovani, concede udienze secondo la più bieca tradizione?

Ma soprattutto è preoccupato perché Giovanni Paolo ha successo e rischia di perdere la testa in tanta euforia.

Per natura non sono un ottimista: il bicchiere riempito a metà per me è inesorabilmente mezzo vuoto, ma nonostante gli sforzi che faccio non riesco a preoccuparmi per papa Wojtyla.

Dunque, stando all’amico angosciato, il papa suscita “un interesse malsano”, è avvolto in una “spirale di successo” che per fortuna riesce a sostenere essendo giovane e infaticabile. La gente va dal papa come lui andava allo zoo: siamo sicuri? Non capisco perché la gente deve essere classificata sempre con tale sufficienza se non con disprezzo, quasi che stenti a distinguere un animale esotico da un papa.

La preoccupazione aumenta ancora: riuscirà il nostro povero eroe polacco a mantenere il suo equilibrio mentale, sottoposto com’è all’entusiasmo delle masse? Francamente un dubbio comincia ad assalirmi, soprattutto dopo quel paragone di gusto con il duce fondatore dell’impero: se perde la testa Giovanni Paolo una mattina crede di essere l’ayatollah e siamo fritti. Gradisce il rapporto con le masse; tra un po’, se non reagisce a questo abbraccio soffocante, è perduto. Che cosa aspetta a reagire, si chiede l’angosciato? Ma c’è una cosa che dovrebbe aprire gli augusti occhi del Pontefice: sembra addirittura che questo entusiasmo non sia guidato, ma cresca spontaneamente. Il che è peggio, per l’allarmato: Le masse si esaltano da sole, siamo alla fine! L’associazionismo cattolico (a proposito, ma esiste ancora? ) si rinfranca, il cardinale parla di “massa compatta”. Wojtyla, dove vuoi arrivare?

Ma su, tranquillizzati, amico preoccupato. Dove vuoi che voglia andare, ‘sto papa! Cercherà di fare il papa nel modo che a lui sembra. migliore: forse sbaglia, forse prende cantonate, forse, nonostante tutto, ha preso un abbaglio con la nomina di mons. Cè a Venezia. Sul rilievo riguardo a questa nomina siamo d’accordo, ma ci dovremmo intendere anche su che cosa significa interpretare la chiesa locale di Venezia: fare un referendum tra i battezzati o tra i cristiani che vanno a messa, sentire il consiglio pastorale o i comitati di quartiere, fare le consultazioni con la S. Vincenzo o con i cristiani per il socialismo?

Il discorso è aperto, ma non ce la possiamo cavare così, parlando della necessità di “sentire la diocesi di Venezia”: occorrerebbe formulare delle proposte ed invitare la chiesa a discutere su queste, sapendo benissimo peraltro che sarà dura intaccare il principio del centralismo democratico. Per la verità, all’inizio del pontificato di papa Wojtyla sono stato preoccupato anch’io per un po’ di tempo: nessuno lo attaccava! Poi finalmente è arrivato Franzoni, la Galli e Scalfari, sono arrivate le vignette di Forattini e quelle su Paese Sera, si è cominciato a parlare con una punta di disprezzo del “papa polacco” , quelli del Male lo chiamano il papa maschio, le femministe e i radicali hanno ritrovato le coordinate e hanno rimesso a fuoco il bersaglio.

Ora finalmente sono più tranquillo.

Non credi, amico preoccupato, che il papa passerà, oltre ai momenti di esaltazione, anche momenti di angoscia e di dramma nei tempi futuri che, siamo d’accordo, saranno sempre cupi? Non pensi che agli osanna dell’entrata in Gerusalemme seguirà il pianto dell’orto degli ulivi? Credi davvero che si monti la testa? Pensi che non si sia accorto che il mondo non è tutto quanto in piazza S. Pietro la domenica a mezzogiorno? Non ti viene infine il dubbio che il vento dello Spirito Santo sappia meglio di noi dove soffiare? Animo, non ti angosciare: ‘sto papa è forte!

N.B. Continuiamo la pubblicazione delle lettere che ci pervengono, dando ad esse una numerazione progressiva. Metteremo volentieri in comunicazione chi ce lo chiederà con coloro che hanno scritto le lettere qui pubblicate.