Lettera 95 (Prima Serie)

 

Cari amici

Dedichiamo la nostra attenzione ad una breve orazione contenuta nel canone della Messa cattolica, e precisamente alla preghiera o memoria dei, defunti. Alcune fluttuazioni che si possono rilevare tra le diverse stesure del testo susseguitesi negli ultimi anni, anni di avvio della riforma liturgica, danno modo di introdurre uno dei più gravi problemi, se non il principale, che una chiesa deve porre a se stessa: a che serve una chiesa?

Altre volte siamo giunti alle soglie di una domanda tanto radicale eppure, e proprio per questo, assolutamente obbligata.

Abbiamo spesso osservato che una chiesa è costretta a trovarsi un posto tra due realtà, il Padre e l’Umanità, che già sembrano esaurire tutto lo spazio disponibile. La Bibbia, p.e., indica ad ogni passo che tra i due partner, Dio e l’uomo, corre il rapporto fondamentale di amore‑tradimento‑conversione‑perdono…

Che posto c’è dunque per un terzo attore del dramma? Per introdursi a una soluzione la chiave concettuale è stata individuata da tempo e costantemente adoperata: fermo restando il ruolo basale dei due protagonisti principali si è assegnato al terzo il ruolo del servizio. In sostanza tra Dio e Uomo (leggi Umanità tutta e leggi anche ogni singolo uomo) resta un certo spazio solo per compiere il servizio dell’amico degli sposi (la figura è biblica e soprattutto evangelica) che ne affretta e ne favorisce l’incontro. Sia il Vecchio Testamento, sia Gesù, sia la Chiesa hanno rivendicato a sé il ruolo del servizio.

Ma in concreto? Il terzo protagonista resta fedele al suo compito essenzialmente collaterale, o una volta introdotto nella casa degli sposi tende a sostituirsi all’uno o all’altro e magari ad entrambi?

1) Nel popolo ebreo la scoperta dello schema amore tradimento ecc. che doveva essere appunto l’annuncio da dare gli uomini tutti, il messaggio alle nazioni, tende piuttosto ad essere applicato internamente al popolo ebreo stesso.

Il principio interpretativo della realtà di tutta l’umanità tende a perdere la sua portata generale per restringersi ad essere vissuto come fatto privilegiato riguardante il popolo della rivelazione. In altre parole ancora: l’amore universale del Padre, il tradimento dell’umanità ecc., rivelazione peculiare agli ebrei da ritrasmettere subito a tutti, vengono applicati solo al popolo che era stato invece prescelto per annunzirlo a tutti.

Il narcisismo sembra caratterizzare l’autocoscienza di Israele nei confronti di quella che riteniamo la più grande intuizione mai raggiunta dalla coscienza religiosa dell’umanità. Non bastano i potenti colpi di maglio dei profeti ad impedire che il rapporto dialogico Dio‑umanità si venga definitivamente a restringere ad un fatto interno al popolo ebraico, fallendo, lo notano gli stessi profeti, proprio la missione specifica di annuncio ai popoli a cui erano stati chiamati gli ebrei, i quali dunque sono ormai vicini all’abbandono da parte di Dio, e proprio nel momento in cui maggiormente credono di averlo acquisito a sé e ai propri figli.

La serva padrona non serve.

2) La realtà‑Gesù non abbisogna di approfondimenti. Il messaggio profetico, la derisione perfino nei confronti del la sicurezza ebrea circa la propria alleanza con Jahvè toccano il diapason. “Già la scure è alla radice”, ”non dite: siamo figli di Abramo, siamo figli di Abramo”, ”di questo tempio non resterà pietra su pietra”, ”il velo del tempio si strappò nel mezzo”, “andate e predicate a tutte le genti” e mille altre voci parlano con assoluta perentorietà.

Gesù muore perché “quest’uomo distrugge il tempio”.

3) Nelle chiese cristiane e nella cattolica in particolare sembra a noi che si sia ripresa la tendenza a riprodurre al proprio interno, di terzo appunto, quello schema di amore‑tradimento‑ecc. prima nominato e destinato a rivelare al mondo intero la sua natura di ”amato da Dio”. Si è ripetuto il processo narcisistico della storia biblica precristiana: ‘Dio è con noi e noi, modestamente, con Lui, i nostri riti infallibilmente suoi, eccetera. Se ad ogni confessione cristiana può farsi un merito specifico e un demerito altrettanto peculiare, è rilievo comune che alla chiesa cattolica spetti la palma nell’aver condotto alla maggior pienezza la identificazione tra salvezza e salvezza nella comunità (cfr. l’antico detto l’extra eccelesiam nulla salus”).

La coscienza ecclesiale cattolica subì a suo tempo, ma senza metterlo a frutto, il poderoso scisma protestante che in sostanza le rimproverava appunto una ormai troppo smaccata autocelebrazione. In casa nostra, a cui guardiamo non per compiaciuto autolesionismo ma per il dovere che segue al comando ”medico cura te stesso” il fenomeno ebbe sempre dimensioni eclatanti.

Nella chiesa cattolica hanno proliferato teologie fortemente riduttive della volontà salvifica universale (cfr. lo sforzo missionario volto a convertire anziché ad annunziare,) una prassi sacramentale assicurativa (il valore oggettivo, ex opere operato, dei sacramenti, almeno nella più comune interpretazione dei fedeli), il giuridismo (purché i segni siano stati posti a regola d’arte) ecc. che hanno favorito ed espresso una vera e propria riproposizione nel sedicesimo della chiesa del processo di amore infallibile (quello sì!) di Jahvè per l’uomo.

Quel che è avvenuto non viene da noi ricordato per fare colpe a questo o quello. Noi abbiamo appena riconosciuto un fatto estremamente ovvio, e ricorrente anzitutto al livello interiore di ciascuno di noi e solo conseguentemente al livello della rispettiva struttura comunitaria. E cioè che chi ad un certo punto della sua esistenza si sente dotato di un qualcosa da trasmettere sente contestualmente la voglia di sottolinearlo, la tentazione di staccare anzitutto per sé la cedola del beneficio.

E così chi doveva dire “o uomo, mi è stato riferito, o ho capito, che Dio ti vuol bene”, sarà tentato di sopravvalutare l’”io ho capito” o il “mi è stato riferito”, e facilmente si fermerà a pensare che in lui c’è dunque un che di privilegiato)e piano piano (approfittando magari della sordità dell’interlocutore umano, che gli apparirà evidente, e meritevole di ricevere piuttosto fuoco dal cielo, cfr Luca 9, 51 e Segg.) finirà per comunicare “o uomo, Dio mi vuole bene”. La riconoscenza, perfino doverosa, per il compito ricevuto tende a trasformarsi nella proposizione di sé come modello. Quando la sostituzione di persona è compiuta, non resta che organizzare il sistema teologico corrispondente: una teologia di salvezza nella chiesa, una missione per invitare ad entrarvi e non più a rivolgersi con attenzione al Padre, e via discorrendo.

Sul piano personale, mai da dimenticare, proliferano il “sono figlio di Abramo”, il ”Padre ti ringrazio perché non sono come quel pubblicano ma pago le decime” e così via. La teologia della chiesa sulla chiesa (come nel Vecchio Testamento la teologia di Israele su Israele, dalla quale la chiesa, nuovo Israele, attinge a piene mani) a questo punto dilaga senza più argini fino ad impregnare di sé tutti gli elementi del sistema religioso fino a rendere la comunità annunziante coestesa con la salvezza annunziata (e di nuovo ricordiamo il noto aforisma ”fuori della chiesa non c’è salvezza” che si mostra la formula più concisa e piena della autocelebrazione.

Resta solo il fastidioso incomodo di coloro che non entrano nella chiesa, che pure esistono e battono timidamente al portone del sistema teologico, ripetendo con la donna del Vangelo: “ci sarà anche per i cani una briciola sotto il tavolo” Mt 15, 21 sgg. -L’incontro di Gesù con la madre cananea o è un episodio sconcertante dal quale si passa oltre rapidamente e volentieri, o è uno dei vertici del Vangelo. Rappresenta il superamento che la coscienza di Gesù è costretta a fare nei confronti della sua propria dimensione di ebreo, richiamato dalla coscienza e dalla dimensione deIl’umanità. Altro che episodio oscuro, vale da solo mezzo Vangelo!)

Davanti all’umanità che non entra nella chiesa anche i teologi restano conturbati. Ma non più che tanto. ,Essi riprendono un momento la penna, per buttare giù, in ultima pagina, che, già, in fondo Dio vuol bene a tutti, e perciò ognuno, se proprio insiste, può coltivarsi la sua speranzella. E’ la cosiddetta “volontà salvifica universale” cui nella poderosa costruzione del trattato sulla chiesa viene preparata una nicchia posticcia, un’appendice, magari in caratteri più minuti, tra le questioni a margine dove ci si domanda, bontà nostra, “di come si salvano quelli che non appartengono alla chiesa” (che, poverini, sono in fondo appena i nove decimi dell’umanità. Ma è un caso increscioso, e fastidioso, il loro, che era. meglio non si fosse verificato, la simmetria del sistema teologico non ne avrebbe sofferto. Pazienza c’è sempre l’eccezione a guastare tutto. Meno male che conferma la regola).

E così, predisposto un enorme apparato di salvezza. la Chiesa, si deve poi indirizzare la maggior parte degli uomini allo sportello dei casi imprevisti.

Perdonate l’immagine, ma davvero la chiesa presentata nei libri finisce per assomigliare a quei grandi saloni dell’ufficio delle imposte dove nessuno si serve di cento sportelli regolarmente predisposti, ma tutti si accalcano ad un improvvisato tavolino sistemato in quattro e quattr’otto quando si è capito che ognuno aveva invece un caso suo da esporre, ”diverso”, e non contemplato preventivamente. Si potevano spendere meglio tempo e denaro impiegati per organizzare quel servizio! Con tutto il rispetto per i burocrati. E per i teologi.

Prima di procedere sottolineiamo ancora questo fatto: disponiamo di una interpretazione della chiesa come servizio alla salvezza. Ma l’interpretazione, ci spieghiamo ancora con immagini, propone più l’aspetto della chiesa come portone obbligato della casa del Padre che come servo sulla porta della misericordia di Dio. Costretti, poi, però a riconoscere che la gran parte degli uomini entra per la porta di servizio.

Ma non ci si avvede che l’apertura del passaggio ausiliare è un fatto che scuote dalle fondamenta tutto l’edificio teologico costruito? Quell’inciso in caratteri minuscoli “si, in fondo, c’è una salvezza anche per i non-cristiani”, invalida tutto il già scritto sulla chiesa e ne chiede una revisione totale. A noi pare in sostanza che sia ormai maturo il tempo di iniziare una lettura a rovescio del gran libro sulla chiesa. E ciò avverrà partendo appunto dalla affermazione della “volontà salvifica universale”, che deve diventare l’idea madre, il criterio illuminante. Il porre in capite libri la volontà salvifica universale determinerà una nuova e più corretta collocazione di ogni altra affermazione teologica sulla chiesa, e su ogni altra questione connessa. Fino a ricreare mentalità e vocabolario, prassi pastorale, liturgica, ecumenica, ecc.

A noi sembra che i tempi correnti, la presa di coscienza delle realtà umane a dimensioni planetarie e moltiplicate a miliardi, la crisi di rigetto generalizzato nei confronti delle chiese a struttura totalizzante facilitino, impongano ormai, una tale rilettura a rovescio della teologia della. chiesa. Anche la nostra esperienza quotidiana nell’incontro con non cristiani ed excristiani o excattolici ci spinge continuamente ad una parola che non sia la pura e semplice riproposta della (nostra) appartenenza ecclesiale ma piuttosto un aiuto affinché la loro vita si raccordi all’amore e al giudizio, anche negativo, di Dio. Ci viene chiesto, prima di tutto dalla nostra coscienza, il liberante servizio dell’amico dello sposo.

A guardare da questo nuovo punto di vista il Concilio Vaticano II, c’è da considerare meglio quale sia stato il più intimo valore di documenti quali la costituzione sulla chiesa, e il cosiddetto schema 13 sui rapporti chiesa-mondo. In essi c’è un meritorio, e fin troppo lodato, invito alla struttura ecclesiale affinché parta nuovamente in cerca del suo compito perduto: essere il popolo servo di Dio che annuncia al mondo la sua (del mondo) salvezza, possibile per tutti, realizzata in Cristo. Ma sono passati quindici anni dal concilio e ormai i due documenti vengono riletti in modo statico anziché essere sviluppati e dilatati (ancora e sempre l’autocelebrazione, la superbia è in agguato). Ci si bea per le citazioni bibliche, per l’abbandono di modelli monarchici secenteschi, inevitabile e per qualche tentativo faticoso di recuperare punti di contatto fra chiesa e mondo, pianeti ormai sconosciuti l’uno all’altro. Ma tutto ciò era solo l’inizio e meno che l’inizio. I due documenti dovevano condurci a riproporre alla chiesa la domanda che porta molto ma molto più in là: “ma io chi sono, che ci faccio tra questi due (il Padre e il mondo), a che servo?”.

I documenti potevano solo, e l’hanno fatto, portarci a rasentare l’orlo del precipizio, il problema radicale: in quale rapporto stanno Padre‑mondo‑chiesa, Essi hanno permesso a noi la sensazione vertiginosa di una possibile reinterpretazione della chiesa che ne rinnovi forme e coscienza. Colonne d’Ercole appena schiuse, a dire di aver passate le quali non basta qualche pur limpida singola affermazione sullo stato di servizio della chiesa ancora non luce sulla lanterne ad illuminare la via di un nuovo sviluppo della autocoscienza ecclesiale. Via ancora non percorsa, neppure proposta, neppure entrata nella sensibilità ecclesiale che di suo è intrisa di inguaribile provincialismo. (Se, per esempio, e per stare a fatti concreti, il pio transito di Paolo VI ci è stato descritto mentre egli recitando il credo ripeteva due volte la frase “Ecclesiam sanctam. Ecclesiam sanctam”, suscitando in noi il ricordo della morte di Alfonso XIII che, dicono le immaginette, spirava santamente mormorando: “España… España”)

Così neppure il Concilio è riuscito ancora ad avviare una seria revisione del concetto di Chiesa. E tanto più il riflusso post-conciliare che è proprio la angoscia di orizzonti troppo liberi e vasti.

Tale riflusso è molto più che l’operazione di settori retrogradi della Chiesa, come si usa dire con modi troppo manichei e semplicisti; è invece la forza di gravità di mentalità, ideologie, abitudini interiori dalle quali nessuno è immune e che tendono a ristabilire umani equilibri ogni volta che lo Spirito chiama a conversioni copernicane.

E se noi, umilissimamente, facessimo qualche tentativo di rileggere con nuovi strumenti interpretativi alcune realtà quotidiane?

Proviamo. C’è un avvenimento che, fra tanti altri simili, riguarda tutti gli uomini: la morte. Di fronte ad esso la liturgia (che è la fede nella sua espressione più nobile, cioè il momento in cui essa parla alla presenza del Padre) ha preso posizione da sempre, e anzi assai più che per tante altre situazioni della vita anch’esse di tutti gli uomini. Osserviamo dunque il comportamento della liturgia di fronte alla morte di tutti gli uomini, e vediamo come nel caso la comunità cristiana compie il suo servizio sacerdotale (rapportare gli uomini al Padre). Esaminiamo l’orazione dei defunti nel canone della Chiesa romana.

nota.

Il nostro lavoro era già completamente scritto quando al termine della seconda elezione papale di questo 1978, il nuovo vescovo di Roma Giovanni Paolo II, concludendo con la celebrazione eucaristica il conclave, diceva tra l’altro:

“Anzitutto, desideriamo insistere sulla permanente importanza del Concilio Ecumenico Vaticano II e ciò è per noi un formale impegno di dare ad esso la dovuta esecuzione. Non è forse il Concilio una pietra miliare nella storia bimillenaria della Chiesa e, di riflesso, nella storia religiosa ed anche culturale del mondo? Ma esso, come non è solo racchiuso nei documenti, così non è concluso nelle applicazioni, che si sono avute in questi anni cosiddetti del post-Concilio. Consideriamo, perciò, un compito primario quello di promuovere, con azione prudente e insieme stimolante, la più esatta esecuzione delle norme e degli orientamenti del medesimo Concilio, favorendo innanzitutto l’acquisizione di una adeguata mentalità. Intendiamo dire che occorre prima mettersi in sintonia col Concilio per attuare praticamente quel che esso ha enunciato per rendere esplicito, anche alla luce delle successive sperimentazioni ed in rapporto alle istanze emergenti ed alle nuove circostanze, ciò che in esso è implicito. Occorre, insomma, far maturare nel senso del movimento e della vita i semi fecondi che i Padri dell’Assise ecumenica, nutriti della parola di Dio, gettarono sul buon terreno, cioè i loro autorevoli insegnamenti e le loro scelte pastorali.”

“Questo criterio generale, della fedeltà al Vaticano II e di esplicito proposito, da parte nostra, per la completa sua applicazione potrà interessare più settori: da quello missionario a quello ecumenico, da quello disciplinare a quello organizzativo, ma uno specialmente dovrà essere il settore che richiederà le maggiori cure, cioè quello dell’ecclesiologia. E’ necessario, venerati fratelli e diletti figli del mondo cattolico, riprendere in mano la “Magna carta” conciliare, che è la costituzione dogmatica “Lumen gentium”, per una rinnovata e corroborante meditazione sulla funzione, sul modo di essere e di operare della Chiesa, non soltanto per realizzare sempre meglio quella comunione vitale, in Cristo, di tutti quanti in lui sperano e credono, ma anche al fine di contribuire ad una più ampia e più stretta unità dell’intera famiglia umana”.

“ ”Ecclesia Christi lumen gentium”, amava ripetere Papa Giovanni XXIII: la Chiesa – gli ha fatto eco il Concilio – è sacramento universale di salvezza e di unità per il genere umano.” (dai giornali di mercoledì 18 ottobre – sottolineatura nostra).

Il pensiero del Papa si indirizza poi in particolare verso la collegialità episcopale e altro. Non possiamo quindi attribuirgli i nostri stessi pensieri. Ma certo che frasi come quelle riportate si accompagnano assai bene con il discorso che abbiamo condotto e che abbiano intenzione di sviluppare ancora.

La Memoria Dei Defunti Nel Canone Della Messa Cattolica

Un ricordo dei defunti ha trovato posto stabile nelle anafore cristiane (o canoni, o preghiere eucaristiche. Per intenderci quella parte quasi fissa, o canonica, che va dal dopo offertorio al Padre nostro della Messa).

Vi si trova per lo più sotto forma deprecatoria (“ti preghiamo per”), ma nel canone romano classico in contesto più nobile di “comunicantes” (cioè piuttosto di “sentirsi in comunione con”).

Bloccata dalla legislazione ecclesiastica fin da tempi remoti la produzione di nuovi canoni e l’utilizzazione di tutti gli altri allora esistenti, il Canone Romano antico restò padrone unico del campo, nella redazione latina fino a pochi anni fa (1969), unica anafora di tutta la chiesa occidentale, codificata nel cosiddetto Messale di San Pio V (il “Messale Romano”, quello a cui si richiama Mons. Lefevre con la sua liturgia tradizionalista).

Una traduzione Italiana del Canone Romano venne ammessa all’uso già prima del 69, anno in cui con la riforma liturgica venne affiancata dalle preghiere eucaristiche II, III, e IV.

Nell’uso, queste ultime tre anafore hanno soppiantato progressivamente il canone romano, divenuto nel frattempo Canone I. La preferenza esercitata verso i nuovi canoni è stata favorita dalla brevità dei canoni II e III, e dall’impostazione biblica, oggi di moda, del canone IV.

Ma soprattutto dall’incapacità corrente di apprezzare un gioiello di equilibrio teologico, liturgico e culturale, ricchissimo di richiami ecclesiologici e comunitari persino avanzati quale è il canone romano. Una incapacità che è ormai da ascriversi anche al livello culturale di quelli che guidano la preghiera domenicale. Spiace che a difendere il canone romano (che è poi il canone antichissimo della nostra chiesa locale) sia rimasto il solo Lefevre.

I) Iniziamo dunque l’esame della preghiera dei defunti del canone romano, ora preghiera eucaristica I. Eccone le tre formulazioni, cioè l’originale latino e le due traduzioni ammesse successivamente all’uso (sottolineature nostre):

(A) memento etiam, Domine,

femulorum femularum

tuarum M. et M. qui nos

praecesserunt cum singo

fidei et dormiunt in

sommo pacis. Ipsis, Domine,

et omnibus in Christo

quiescentibus locum

refrigeri, lucis et pacis,

ut indulgeas deprecamur.

(B) (Edizione tipica confermata il 3.2.69)

Ricordati, o Signore, dei tuoi fedeli che

ci hanno preceduto con il segno

della fede e dormono il

sonno della pace N. N. Ad essi

e a quanti riposano in Cristo

concedi, o Signore, la luce

e la pace.

(C) (Edizione tipica del 27.9.72)

come la precedente, variando solo in:

Dona loro, Signore,

e a tutti quelli che riposano in Cristo …

Entriamo in un esame dettagliato e comparato delle tre redazioni. Procederemo per note successive:

a) Nella formulazione (A) (=latina) la preghiera dei defunti ha come termine (: le persone per le quali si prega):

– le persone determinate N. N. “che ci hanno preceduto sotto le insegne della fede”;

– tutti gli altri che riposano in Cristo.

b) la versione (B) conserva la stessa bipartizione ma l’inversione da “NN. – qui” a “i tuoi fedeli – N.N.” lascia diluire la concretezza tipica dell’originale latino che predilige e valorizza i nomi di persona. E’ procedimento costante in tutta la traduzione (B). Mentre il canone romano in latino comprendeva ben quattro elenchi nominativi di persone (gli apostoli, i vivi, i defunti, i martiri) per un totale di circa 20-25 nomi propri di persona, e chiamava in causa nominativamente il vescovo e il papa, e direttamente il popolo e il clero presenti, la traduzione (B) e le rubriche che l’accompagnano rendono evanescenti i contorni delle persone. Le rubriche avvertendo che la recita della lista dei nomi è facoltativa, e la traduzione stemperando la concretezza delle persone partecipanti o nominate nelle orazioni, come avviene nell’inversione di termini appena considerata. (Ecco un criterio da riprendere in sede di revisione delle formule liturgiche. Se la liturgia vuole avvicinarsi alla comunità concreta che sta pregando, tutto ciò che è già concreto e richiama i presenti va potenziato, e non indebolito).

c) Da parte sua la traduzione (C) non aggiunge sotto ogni aspetto alcun elemento degno di nota. Possiamo dunque trascurarla.

d) Per quanto riguarda il nostro specifico interesse balza immediatamente agli occhi che nelle due formulazioni (A) e (B) non c’è alcun riferimento a defunti non appartenenti alla nostra confessione. Tutti quelli che vengono richiamati alla memoria nominativamente o in genere, sono appartenenti la comunità. cristiana. Domanda: il concentrare la memoria ai soli cristiani quale senso ha sul piano teologico? E’ un disinteresse o addirittura una esclusione dalla preghiera della comunità operata nei confronti dei non battezzati e dei non comunicanti?

A prima vista sembrerebbe di dover irrimediabilmente ammettere una o l’altra delle due ipotesi, in ogni caso rivelatrici di ristrettezze di orizzonte: o i non cristiani non fanno notizia o addirittura vengono estromessi.

Ma forse tale dilemma non è completo e concludere in base ad esso è eccessivamente affrettato. Cercheremo di sostenere, forse con eccessiva generosità verso il canone romano, che il testo liturgico non esclude ma evita di pronunciarsi sui non cristiani, e diremo che ciò potrebbe essere avvenuto proprio a causa di un acuto senso del problema che li riguarda. Forse il problema pesa sull’estensore del canone, il quale però non è in grado di esprimersi meglio che tacendo. Sarà naturalmente difficile dare le prove palmari di queste affermazioni, per il noto principio interpretativo che “ex silentio nihil”, il silenzio non prova nulla. Ma questa è già un assioma che lascia liberi di procedere.

Dovremo accontentarci di esprimere sensazioni e, queste sì, appoggiarle per quanto possibile sul sicuro.

La riflessione sulla salvezza di chi non ha fede cristiana esplicita era già esistente quando venne scritto il canone romano?

Ecco una pertinente domanda di fondo. La risposta è: senza dubbio. Il problema della salvezza dei non cristiani è posto nella sua interezza già nelle fonti evangeliche Di fronte ad affermazioni di netto sapore aggregazionista (“chi crederà e sarà battezzato sarà salvo”, “il Signore aggregava ogni giorno alla comunità quelli che dovevano salvarsi” “chi mangia questo pane avrà la vita”, inteso quest’ultimo testo in senso ristretto al segno eucaristico) e così via lungamente stanno acquisizioni di largo respiro universalista (si staglia su tutti il poderoso cap. 25 di Matteo, vv. 31 sgg. sul giudizio finale del figlio dell’uomo, in cui aver riconosciuto esplicitamente Cristo non ha rilevanza per esser chiamati o meno alla destra del Padre).

Se dunque va anche ammesso che l’autocoscienza della Chiesa primitiva è già prevalentemente nel senso del “popolo dei salvati – che sono la Chiesa”, la coscienza di una salvezza più universale non è davvero liquidata.

Invero su altri punti di dottrina la riflessione teologica dei primi secoli giunse a sistemazioni definitive. Nel giro dei primi quattro secoli erano sostanzialmente risolte le questioni trinitarie (uno – tre) e cristologiche (Dio – uomo) e avviate le teologie sulla grazia (merito – dono). Queste ultime terranno però il campo aperto fino a tempi più recenti, vedi le controversie gianseniste del 1600).

Concetti e dizionari di tali questioni risolte dilagarono quindi senza risparmi nei testi liturgici (si veda solo il gusto delle conclusioni trinitarie ad ogni passo. Vere parole d’ordine; nella messa romana, ce ne erano circa venti. Purtroppo il problema della salvezza non ebbe uguale sviluppo, non giunse a formulazioni più esplicite se non sotto il già nominato aspetto della gratuità (grazia-merito, che difatti ha la sua massiccia corrispondenza liturgica negli innumerevoli incisi “per tua grazia”, “senza alcun nostro merito”, ecc.) quanto a Chiesa (dentro – fuori) non ci si applicò con pari fantasia a ricollegare i due poli estremi e apparentemente contraddittori. Non si ebbe dunque una soluzione, né i testi liturgici ebbero i dizionari dai quali attingere e le formulazioni canonizzate da adoperare.

Stando così le cose il silenzio del canone romano circa i defunti fuori della chiesa può anche essere interpretato come un segno di sensibilità al problema, o almeno può difendersi dall’accusa di aver trascurato o addirittura escluso i morti non cristiani dalla cena del regno. E’ un silenzio che può essere attribuito con buona verosimiglianza alla mancanza di terminologia piuttosto che alla mancanza di sensibilità per la sorte dei non appartenenti alla chiesa, o peggio ad una soluzione riduzionista.

Si può fare ancora qualche passo?

Si, ricordando per esempio che era già patrimonio acquisito dalla riflessione del tempo che almeno alcuni sono cristiani senza saperlo e pertanto in qualche modo definibili come inseriti “in Cristo”. Per vero tale teorizzazione pone ancora la chiesa in linea retta e gli altri in obliquo, destinando la maggioranza degli uomini ad una dislocazione collaterale, ed è quindi teorizzazione in se stessa assai insoddisfacente sul piano teologico. Ma, almeno per quanto ci interessa, l’idea dei cristiani-incogniti, se veramente presente anche nella mentalità corrente al tempo dello scrittore del canone romano, darebbe all’elaborato un contenuto più ampio che non riveli la prima lettura delle parole: si potrebbero ritenere inclusi tra gli “omnibus quiescentibus in Christo” anche quelli che lo erano senza saperlo, o almeno l’estensore del canone non li avrebbe esclusi, o almeno ancora non si sarebbe detto in disaccordo se qualcuno avesse chiesto di ritenerveli inclusi.

Aiuta in tal senso un ulteriore indizio. Il canone romano (senza che con ciò risulti negata la sua sostanziale concretezza, anzi!) si pone in un orizzonte fortemente escatologico (che come si sa è l’orizzonte reale pieno del cristiano). Con tutti i suoi elenchi di santi in cielo e in terra, rappresenta cioè plasticamente uno scenario da ultimo giorno. Come dicevamo più su, il tono, anche nelle orazioni deprecatorie, è assai più quello del “comunicantes” dello stare tutti insieme, partecipando appunto la cena finale, che non quello più ridotto del “ti preghiamo per”.

A quel punto, cioè alla fine del tempo, un solo ovile e una sola mensa, tutti saranno “in Cristo” e tra “salvo’” e “salvo nella Chiesa” ci sarà solo la nota differenza tra nudo e spogliato. Il carattere liturgico delle anafore e quindi (sottolineiamo il quindi) escatologico (cioè espresso in un orizzonte di realtà che nel presente verbale attingono la extra-temporalità definitiva, e purtroppo solo il canone romano raggiunge una intensità escatologica soddisfacente) toglie al silenzio dell’anafora romana circa i defunti il senso della esclusione dei non cristiani dalla memoria della comunità cristiana. Il canone romano non ha a disposizione un dizionario teologico da cui attingere denominazioni ufficiali per le varie categorie di provenienza dei salvati, ma ha una sua espressività vorremmo dire scenica che adopera per situarsi in un orizzonte escatologico, nel quale è possibile e forse doveroso ammettere che lo scrivente intenda inclusi anche i salvati fuori della chiesa visibile. Dato che nell’ultima giorno tra i salvati non ci saranno dei non-cristiani, è possibile che chi si è messo nel punto di osservazione che permette di descrivere quell’assemblea la esprima davvero tutta, pur mancando di classificazioni analitiche.

Ma forse questi tentativi di salvare il canone romano nella sua memoria dei defunti appaiono eccessivamente benevoli. Poco importa. E’ già più che sufficiente il rilievo negativo che in ogni caso resta acquisito: e cioè che in una celebrazione liturgica cristiana a carattere comunionale visibile non erano (e non sono ancora oggi!) disponibili teologia e vocabolario sufficientemente elaborati e adeguati agli extraecclesiali. E ciò mentre invece, come si diceva, la comunità cristiana dei primi secoli, nei riguardi di aspetti assai complicati sviluppa teologie e dogmi indubbiamente raffinati trascurando invece problemi che dovevano interessarla assi più pertinentemente.

Una teologia sufficiente riguardo alla salvezza dei non cristiani non si sviluppa (e scusate se è poco!).

Non è un limite del canone, il quale anzi vi pone riparo, se è vera la nostra impressione, saltando a piedi pari nella valle di Josafat (noi, almeno, abbiamo cercato di spingercelo) laddove la classificazione tornerà ad essere binaria (a destra o a sinistra, come in Matteo 25).

E’ un limite della riflessione teologica cristiana, la quale si applica di slancio alle cose di sopra (trinità, Incarnazione), di dentro alla comunità (sacramenti, struttura della chiesa), di dentro all’uomo (grazia, morale) e non a quelle di “fuori”: i non cristiani e la loro situazione, le quali cose erano quelle cui maggiormente doveva applicarsi.

Ma i tempi non si giudicano da un altro tempo e noi siamo qui piuttosto a recuperare un compito, che non ad accusare.

Gli antichi hanno fatto quel che hanno fatto e dove non arrivava la teologia, avendo pur necessità di esprimersi, una strada la trovavano ancora. Nel caso nostro, ancorandosi ad una visione escatologica essi si servivano di un silenzio che evitava le strette di una maturazione teologica incompiuta inglobando ugualmente i non-cristiani in una formulazione più generica e lasciando a noi il compito di procedere oltre.

II) Veniamo al Canone II. E’ l’anafora breve proposta per le celebrazioni di assemblee che per vari motivi si sono prolungate e che necessitano di una rapida conclusione. (Si avverta che infatti la consacrazione – il canone e comunione sono piuttosto la conclusione della liturgia che non la liturgia stessa. Ecco un altro capitale capovolgimento importato dalla recente riforma liturgica e di cui non si è fatto tesoro a dovere. Se prima si considerava la consacrazione come “ciò che vale” della Messa, ora si considera più positivamente di prima la parte che precede, liturgia della parola o offertorio o preghiera dei fedeli o sacre ordinazioni o altro, cui segue la conclusione eucaristica della consacrazione).

Quanto al canone II si noti ancora che la sua brevità è stata purtroppo causa dell’uso preponderante che se ne fa in confronto delle altre tre anafore. Le liturgie domenicali sentono ormai risuonare quasi sempre il solo canone II, indubbiamente più povero di esplicitazioni rispetto agli altri.

Disponiamo di 5 testi della preghiera dei defunti nel Canone II, due in latino con le due rispettive traduzioni, ed un quinto nel solo italiano. Li riportiamo di seguito (sottolineature nostre).

(A) Edizione tipica del 3.2.69 – Testo latino ed italiano:

Memento etia fratrum

nostrorum, qui in spe

resurrectionis dormierunt,

omniumque defunctorum

et eos in lumen vultus.

tui admitte.

Ricordati dei nostri fratelli che si sono addormentati nella speranza della resurrezione, e di tutti i defunti: ammettili a godere la luce del tuo volto.

(B) Altra edizione tipica del 27.9.e o a no e italiano:

Memento etiam fratrum

nostrorum, qui in spe

resurrectionis dormierunt

omniumque in tua miseratione defunctorum, et eos in lumen vultus tui admitte.

Ricordati dei nostri fratelli che si sono addormentati nella speranza della resurrezione, e di tutti quelli che sono morti in pace con te. Ammettili a godere la luce del tuo volto.

(C) Altra tipica del 29.11.72 ‑ Solo italiano:

Ricordati dei nostri fratelli che

si sono addormentati nella speranza

della resurrezione, e di tutti

i defunti che si affidano alla tua

clemenza – Ammettili a godere la

luce del tuo volto.

Note: 1) “Edizione tipica” significa che ogni eventuale pubblicazione del testo (messalino dei fedeli, ecc.) deve rispettare tassativamente il testo proposto, che è quindi ufficiale. Nella tipica (C) il testo latino è stato stampato su fascicolo a parte e ripete il testo latino precedente (B).

2) Si tenga presente nel corso delle note successive che non sappiamo se il testo latino, e ci riferiamo in particolare alle frasi che prendiamo in considerazione, sia di origine antica o sia il riferimento convenzionale moderno delle formulazioni in volgare, magari ricavate a posteriori da queste ultime.

3) Entriamo in argomento. Nella preghiera dei defunti del Canone II non si fa più menzione della possibilità di ricordare uno o l’altro dei defunti. Giunge così rapidamente alla sua conclusione la tendenza alla spersonalizzazione delle formule già osservata nelle traduzioni del canone I (stesso esito, a conferma, nei canoni III e IV, vedi il testo in fondo a questo articolo).

4) Si ripete anche la ripartizione dei defunti per i quali si prega in due categorie, e finalmente il problema teologico di cui si parlava in apertura di articolo si rivela in tutta la sua sostanza. Come si è detto sopra, la bipartizione era già presente nel canone romano dove si distinguevano: a) i defunti conosciuti e nominati espressamente, b) tutti i confratelli di fede defunti. Circa il senso, il valore della bipartizione prescelta, circa la portata dell’assenza dei non-cristiani dalla memoria della chiesa si è congetturato più sopra. Nel canone secondo, eliminata la categoria dei defunti noti alla comunità riunita, la bipartizione viene riproposta su altre basi. Iniziamo naturalmente dai testi (A) del 3.2.69. Le due categorie nominate sono: a) i fratelli di fede, b) tutti i defunti. C’è indubbiamente una novità: “tutti i defunti”.

Ricordiamoci del tempo in cui siamo. E’ il 1969, il primo dopo concilio. E’ stata da poco riproposta nei testi e nei primi commenti la funzione sacerdotale che il popolo cristiano compie a nome dell’umanità tutta. Sul piano concettuale è dunque pronto il retroterra perché alla prima occasione il popolo cristiano esprime la sua missione di portavoce cosciente di tutta l’umanità. Intanto è in preparazione una serie di canoni che a stretto giro di posta devono entrare in circolazione. C’è premura. La loro compilazione può non essere completamente sorvegliata, può esser frutto di quel che c’è nello spirito di coloro che scrivono o cercano negli archivi liturgici. Un senso ben vivo intorno alle reali dimensioni del mondo e della sua posizione davanti a Dio è ormai presente in tutti.

Altrettanto vivo è il senso della funzione del popolo cristiano. Il canone II dice poche righe più in alto: “Ti ringraziamo Padre per averci ammessi a compiere il servizio sacerdotale”. E subito dopo, al momento della preghiera per i defunti sboccia dunque il fiore nel deserto: “Ti preghiamo …. per tutti i defunti”! la chiesa ha ritrovato la sua funzione universale. Presta la sua voce ad una umanità che non sa nulla della resurrezione cui è destinata, e che non può quindi esprimere davanti al Padre una speranza. La Chiesa invece è a parte dei segreti di Gesù, Egli le ha fatto sentire tutto quello che a sua volta ha sentito dal Padre. La chiesa dunque sa, ed è in grado di pregare con cognizione di causa per quelli che non sanno. E’ il suo servizio.

Ma non possiamo fermarci a lungo sull’entusiasmo. Considerando più da vicino la formulazione che ci interessa viene immediato un rilievo. Il ricordo dei non-cristiani defunti è espresso nei termini verbali più comuni, vorremmo dire più scontati e banali: “e di tutti i defunti” (omniumque defunctorum).

E’ certo la formulazione più chiara e onnicomprensiva che si possa immaginare. Ma è anche una formulazione che non dà alcun colore particolare alle persone che include. E’, potremmo dire, una indicazione anagrafica, profana. Non dice per esempio tutti gli uomini tuoi figli, tutti quelli che hai voluto salvare ,o simili. Nessun rapporto con il Padre è indicato esplicitamente a sottolineare magari il legame di adozione piuttosto che quello creaturale. Neppure una eventuale indicazione che richiami una certa qualifica interiore, la fede, l’onestà di vita. Tutti i defunti, e basta.

Si avverte dunque, lo avverte un orecchio usato alle musiche di chiesa, e anche un orecchio capace di discernere le quantità di risonanze teologiche che si è usi richiedere alle parole liturgiche, che su quel generoso, spontaneo, immediato “tutti i defunti” si tornerà. C’è da attendersi che qualcuno penserà di dover arricchire di precisione teologica, di tono liturgico, da calore umano e filiale, una espressione molto generosa ma un po’ sotto tono. E anche un po’ pericolosa, penserà qualcun altro. Perché pregare per tutti i defunti può far credere che la chiesa cattolica ritenga che tutti i defunti sono in una situazione dinamica, passibile di sviluppi. Il che non è affatto vero (cioè non è vero che così pensi la chiesa cattolica). E’ infatti dottrina abituale di tutti i catechismi che almeno i defunti appartenenti a due categorie sono in situazione statica (cioè I beati e i dannati, per non parlar del limbo) e che dunque la preghiera in loro favore non ha senso. 0 ha un senso pericoloso perché lascerebbe rinascere scampoli di dottrine già condannate da molti secoli: la possibilità di ricadute successive (per i beati) o di reintegrazioni finali (per i dannati).

5) Non finisce l’anno ‘69 che il rito della Messa viene ripubblicato in una nuova edizione tipica. E la preghiera per i defunti assume la forma (B). A ”tutti quelli che sono morti” viene aggiunta una clausola: “in pace con te” (nel latino “in tua miseratione”, cioè piuttosto: coloro ai quali la tua bontà si è rivolta. La formula è assai più in regola con la teologia della grazia).

Le preoccupazioni espresse più su non sembra dunque siano state un’invenzione. Va riconosciuto che la nuova formulazione ha un sapore liturgico e dà una valutazione religiosa circa la categoria dei non cristiani, li qualifica ed indica come uomini amati da Dio. D’altra parte vengono chiaramente esclusi i “dannati”, categoria per la quale, come si detto, la teologia cattolica mantiene una discriminazione che non cessa di sottolineare. Per essi è inutile pregare, e allora meglio non ne nasca nemmeno la più remota possibilità nei testi liturgici. (La specificazione che ci ha trovati consenzienti in generale è però sotto quest’ultimo aspetto un eccesso di zelo. Infatti la preghiera “per tutti i fedeli defunti” non intacca la possibilità e la realtà della dannazione di alcuni. Pregare in indistinto si giustifica con la nota affermazione che di nessun uomo in particolare – nemmeno di Giuda – si può affermare con certezza la dannazione. Da questo punto di vista pregare per tutti i defunti – compreso Giuda – è legittimo. Evidentemente si è voluto esser chiari fino in fondo. Non crediamo però che la variazione introdotta sia stata dettata dalla, o soltanto dalla preoccupazione di salvare la tradizionale dottrina dell’inferno. Abbiamo piuttosto riconosciuto la necessità che la frase venisse sintonizzata con il normale linguaggio liturgico).

In ogni caso la presenza dei non-cristiani nella memoria della chiesa resta confermata. In un linguaggio liturgico (e quindi teologico!) più elaborato riceve una colorazione interiore molto positiva. Anzi il richiamo alla pace contenuto in “i morti in pace con te” fa tornare alla memoria un elemento che spesso, specialmente dagli ultimi tre papi, è stato messo in relazione con i non cristiani di buona volontà: essere uomini di pace. In tal senso la formulazione (B) appare sotto ogni aspetto che ci interessa (escluso il problema dei dannati, dei quali veramente non sappiamo che dire) un consolidamento di posizioni: la preghiera dei defunti della chiesa è preghiera per tutti gli uomini che sono “in Cristo”’, sotto qualunque o nessuna denominazione. Il merito delle due formulazioni (A) e (B) che nella sostanza si equivalgono è incalcolabile. Il passaggio delle colonne d’Ercole è avvenuto, il traguardo delle “isole lontane” (dicevano i profeti) e dei “confini della terra” (diceva Gesù) è raggiunto. D’ora in poi anche la formulazione più ingenua, o circospetta, del canone I non ha contenuto teologico legittimo se non alla luce della dottrina che il canone II esprime e che il III e IV confermeranno.

Ingenuità o silenzi non saranno più possibili, né dovranno essere permessi, nei testi che sorgeranno dopo il 1969. Una qualunque formulazione che non comprendesse il richiamo esplicito dei non cristiani non potrebbe che apparire come una positiva esclusione, frutto di un ripiegamento teologico non imputabile a disattenzione, ma vera e propria inversione di tendenza.

6) E’ quel che avviene purtroppo nella formulazione (C) dello stesso canone II che stiamo considerando nelle sue stesure successive. Siamo dunque alla stesura oggi in uso. Ne riportiamo di seguito il testo, per comodità:

(C) Testo italiano – Terza edizione tipica, del 29.11.72:

(Il testo latino che viene fornito in edizione separata è identico a quello della tipica (B).):

ricordati dei nostri fratelli,

che si sono addormentati

nella speranza della resurrezione,

e di tutti i defunti che si affidano

alla tua clemenza: ammettili a godere

la luce del tuo volto.

Nota: E’ evidente che un profondo ripensamento è stato tentato, ed appare subito in qual senso. Resta sempre al suo posto la categoria a) i nostri fratelli di fede, ma la categoria b) è diventata “tutti i defunti che si affidano alla tua clemenza”. La frase è enigmatica perché incerta ne è l’interpretazione sintattica. Tutto dipende dal valore della particella “si”. E’ un “si” riflessivo o un “si” impersonale? Nel primo caso, si riflessivo, la frase significa “ti preghiamo per tutti i fedeli i quali si raccomandano, essi stessi, alla tua clemenza”. Sicché la preghiera dei fedeli rimanda all’…autopreghiera dei defunti. Cercando ancora tra i ricordi del catechismo abbiamo concluso che non possono essere altri se non le anime del purgatorio. In questa caso la formulazione (C) non sarebbe che un modo più complicato, e più oscuro, per dire le stesse cose che si son dette nella formulazione (B): “quelli che sono morti in pace con te” (e cioè, facendo il cammino a ritroso: gli stessi della formulazione (A): “tutti i defunti”, esclusi i dannati).

Ma questa spiegazione non ci soddisfa. Infatti lascia scoperta una domanda di metodo: se nulla è cambiato, cosa ha spinto a proporre una formulazione diversa dalle precedenti, e come mai si è rischiato di vedersi esposti all’accusa di aver modificato sostanzialmente per l’italiano una frase che nel latino suona diversamente? Un motivo deve esserci ben stato, e nessuno dirà che si tratta di normale sviluppo nella chiarificazione dei significati perché vuole il caso che proprio la frase prescelta (“quelli che si raccomandano…”) è la più oscura di quelle considerate finora! Il motivo ci sentiamo in dovere di cercarlo più oltre. E secondo noi esso si trova, maliziosamente, nell’altro significato che la frase in oggetto assume se si attribuisce al “si” il valore impersonale. Essa può infatti esser letta core “quelli che ti si raccomandano da noi”, “Quelli che da noi ti vengono raccomandati”. Ma questa accezione, che è sintatticamente preferibile pur nella illogicità di un “ti preghiamo per quelli per i quali ti preghiamo” (!), cambia radicalmente il contenuto della frase, riducendo drasticamente il numero dei soggetti per i quali si prega, che dalla quantità sterminata dei “morti in pace con te” tornano ad essere “quelli che la comunità ricorda”. E una specie di canone I.

Ma abbiamo detto che ormai non è più possibile fingere dimenticanze. Non può che trattarsi di vere e proprie scelte in direzione opposta alle precedenti. Ripetiamo: non si dica che in fondo si è tornati alle formule più contratte, usuali nel canone I che noi più su abbiamo trattato tanto benignamente. Al contrario: una volta acquisiti certi ampliamenti di orizzonte, la loro dimenticanza diventa colpevole. Dopo certe età e certe esperienze non è più possibile farsi scudo dell’ingenuità. Tanto più nel nostro caso, in cui ci pare di aver sufficientemente documentato un itinerario di sviluppo non casuale e visibilmente lineare.

La verità è che il senso universalistico delle formulazioni (A) “ti preghiamo per tutti i defunti” e (B) “per quelli che sono morti in pace con te” sparisce per dar luogo ad un sibillino “ti preghiamo per quelli che si affidano alla tua clemenza”. E questo se non è un giro vizioso senza senso (ti raccomandiamo quelli che si raccomandano da soli, o ti raccomandiamo quelli che ti raccomandiamo) e quindi aperto a tutti e a nessun significato è un passo indietro rispetto all’esplicitazione universalistica delle formulazioni (A) e (B).

Si rovescia di nuovo la clessidra, si mette ai margini il fatto della “morte in pace” (B) privilegiando la contabilità visibile della comunità. Un regresso nella modificazione del testo noi vediamo l’immiserirsi dell’intuizione universalistica che fioriva intorno al ’68 ecclesiale (i testi (A) (B) si susseguirono uno all’altro rapidissimamente nel ’69), il riflusso intraecclesiale di una comunità che è troppo abbagliata dalla avventura di popolo sacerdotale che le si prospetta. Quel che in un anno sotto la spinta di una coraggiosa sortita (“tutti i defunti”) e di un vigoroso e solido approfondimento (“tutti quelli che sono morti in pace con te”) aveva portato sia pure in un ristrettissimo ambito, la preghiera dei defunti, alla soluzione di un problema costituzionale alla chiesa (il rapporto con i non‑cristiani nell’unico disegno di salvezza) viene soffocato nel rimescolamento delle parole in una formulazione troppo equivoca e oscura per non essere stata voluta.

7) Noi pensiamo di non aver scritto su cose di poco conto. Una testa di ponte, forse l’unica creata dalla teologia di una chiesa al servizio dell’umanità, e creata per di più nel cuore della liturgia domenicale, è stata smantellata subdolamente. Resta ancora dopo la consacrazione il “ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale”. Ma venti parole dopo l’unica preghiera in cui era entrato in funzione l’esercizio di tale servizio, l’unica preghiera in cui il popolo si rivolge esplicitamente al Padre a nome di tutti gli uomini, viene trasformata in modo che ciò non appaia più.

Perdonateci, fratelli, ma non era a nostro parere cosa da lasciar correre sotto silenzio. Sono tempi, questi, nei quali ci pare si stia combattendo sulla cresta, per dirla in termini militari. Ogni centimetro è prezioso e perderlo può voler dire precipitare a valle. La teologia di una chiesa rinnovata non ha che minime realizzazioni, assolutamente da non mollare, ad ogni costo. Davvero, dicevamo, preziose teste di ponte.

Forse a questo punto l’argomento prescelto non susciterà più il sorriso meravigliato che avrete avuto leggendo che ci dedicavamo ad una preghiera per i morti.

8) L’operazione è stata condotta con indubbia astuzia. La frase prescelta è stata lasciata sufficientemente equivoca, sicché eventualmente (caso mai un pignolo se ne fosse accorto) se ne potesse tentare una difesa dietro la cortina fumogena delle interpretazioni del detto e non detto. Il testo latino non è stato toccato, cosa che permette di attribuire ai traduttori eventuali responsabilità. Ma intanto la traduzione pur non corrispondendo al latino “tipico”, è anch’essa indicata come “tipica”: forse il sottosviluppo teologico italiano permette che su di noi si agisca a man salva? (Ci darà qualche indicazione uno o l’altro dei nostri lettori stranieri? Anche da loro si è osato tanto?).

9) A noi naturalmente non interessa stabilire la volontarietà e l’imputabilità delle azioni, convinti come siamo che anzi proprio le cose prodotte involontariamente sono le più radicate e sincere e pericolose. Il fatto in sé non ci pare attaccabile: un poderoso passo avanti nella autocoscienza della chiesa avvenuto sul più delicato e decisivo fronte, la liturgia, è stato fatto rientrare. Nel più ampio scacchiere della problematica Padre‑chiesa‑mondo si è punto e a capo.

III – IV) Trascriviamo i testi dei canoni III e IV, pubblicati nel ’69 e nel ’72 contestualmente al II. Essi sono nella linea del canone II alle sue migliori prestazioni, quelle del ’69. Non sono stati toccati nel ’72, ma la loro incidenza concreta è minima, dato lo scarso uso che se ne fa. Il canone II, più adoperato, ha probabilmente attirato la cura più urgente dei censori.

Ecco dunque a consolazione dei lettori il testo dei canoni III e IV nel passo che interessa.

CANONE III

Pratres nostros defunctos,

et omnes qui, tibi placentes,

ex hoc saeculo transierunt,

in regnum tuum

benignus admitte,

ubi fore speramus, ut simul

gloria tua perenniter satiemur.

Accogli nel tuo regno

i nostri fratelli defunti

e tutti i giusti che, in

pace con te, hanno lasciato

questo mondo; concedi anche

a noi di ritrovarci insieme

a godere per sempre della

tua gloria.

CANONE IV

Memento etiam illorum,

qui obierunt in pace Christi tui

et omnium defunctorum

quorum fidem tu solus

cognovisti.

Ricordati dei nostri fratelli

che sono morti nella

pace del tuo Cristo

e di tutti i defunti

dei quali tu solo conosci

la fede

dei quali tu solo hai

conosciuto la fede

nota. In tal modo resta confermato l’orientamento positivo nello sviluppo teologico della chiesa che l’infortunio o il mal destro tentativo riduzionista della terza traduzione del canone II non può aver interrotto.

E’ ormai acquisito nella liturgia, almeno in uno dei momenti più sentiti, diremmo più popolari della preghiera, il ricordo dei morti, che il Signore salva da ogni tribù popolo nazione. E religione, sottolineiamo noi.

Se la teologia vuol fare il suo dovere prenda atto del dato liturgico ed esca allo scoperto. Per negare, se vuole, o per costruirsi di conseguenza. Non davvero per manovrare tra le pieghe di edizioni tipografiche successive che, aggiungi oggi e togli domani, offendono la dignità del popolo cristiano, mai informato su quel che gli si fa dire e fare.

lettere

Cari amici, grazie per la vostra lettera, che ho trovato giorni fa’, tornando dall’estero. Ho ricevuto anche gli ultimi due numeri de ‘la tenda’, che ho letto con l’interesse di sempre.

Nel n. 8‑9 di agosto ‑ settembre, si riportano i due discorsi del Cardinal Poletti al Vescovo (già Vescovo) di Roma, il papa Giovanni Paolo I.

E’ certo che questi discorsi contengono delle cose un poco nuove, e fate bene a sottolinearlo. Tutto ciò che è positivo si deve dire ed evidenziare.

Ma il positivo mi sembra ben poco. Quando si terminerà con questo tono “ecclesiastico” del quale non solamente io, ma tanta e tanta gente, tanti cristiani sono stufi? Basta con questo linguaggio di corte! Grazie a Dio, sembra che il nuovo vescovo di Roma Giovanni Paolo II si metta a parlare come un uomo autentico, col linguaggio di tutti gli uomini e le donne normali di oggi. Perché noi preti, religiosi e vescovi dobbiamo essere sempre delle persone fuori dal normale, come una setta aristocratica, diversi dalla gente qualunque?

Inoltre, mi fa veramente male sentire questa maniera di parlare come se noi preti, religiosi, vescovi e papa fossimo i primi nel Popolo di Dio. Nell’ultimo paragrafo del secondo discorso di Poletti si dice: “Benedite, Santo Padre, il cardinale vicario, e i vescovi, il venerabile capitolo e clero, il presbiterio diocesano coi seminari e con gli istituti; ma soprattutto la città di Roma, ecc. (e per finire) coi suoi figli, … i più poveri. Si dovrebbe cominciare con tutto il Popolo di Dio, del quale tutti noi, laici, frati, preti, vescovi, papa siamo membri; si continua, invece, sempre a parlare di noi, preti ecc. come se fossimo separati, i migliori, i privilegiati, quelli per cui si deve soprattutto pregare. Tutti abbiamo, laici e chierici, un ministero nella chiesa, nel Popolo di Dio. Il ruolo del papa o del vescovo, di questo o quel laico è differente, ma tutti sono necessari agli occhi di Dio. Ricordo il documento pubblicato due anni fa, (credo) dalla commissione anglicana‑cattolica sull’autorità: parte dal Popolo di Dio, da tutti noi e di qui vede nascere i ministeri che comportano un impegno più esplicito.

Quando si porrà attenzione, non solo per ricordarlo ma per metterlo in pratica, al discorso di Gesù in Matteo 20, 24‑28? Si dice che il nuovo papa avrà contatto con tutti i gruppi di cattolici romani quale che sia la loro posizione. Spero che riceverà anche i membri de ‘la tenda’. Sono felice che ci sia un gruppo come il vostro, vorrei aggiungere come il nostro, che non ha paura di affrontare i veri problemi della Chiesa, con verità e franchezza.

Credo fortemente nel ruolo del vescovo di Roma e del papa, dei vescovi e dei preti. Sono là per volontà di Cristo, ma non sono Cristo o gli unici rappresentanti di Cristo. Ciascuno di noi è rappresentante di Cristo, e riceve lo Spirito Santo. Sono contento che il nuovo papa mi chiami “fratello” e non più “figlio”. Mai mi sono sentito il figlio del papa; sono uno dei tanti figli di Dio, come il papa e come tutti gli altri.

Dico tutto questo con un po’ di passione, ma con grande amore al Popolo di Dio, alla Chiesa, e al successore di Pietro alla cattedra di Roma. Che sia, assai più che in passato, un vero vescovo di una diocesi ben precisa, con cura pastorale e contatti con la gente normale. Questo domando a Dio.

Dopo aver scritto questa lettera, leggo su una piccola rivista del Venezuela che si chiama “Centre Puebla”, dell’ottobre ‘78 (Pubblicaoion de Fundalatin, apartado 80978, Caracas 108, Venezuela) un testo scritto dal magnifico vescovo Casaldaliga del Brasile che dice esattamente ‑ ma molto meglio di me – quello che ho voluto esprimere. Vi mando una fotocopia di questo brano (che non riportiamo ora per mancanza di spazio, ma che riprodurremo in seguito).

Tanti saluti affettuosi.

N.B. Continuiamo la pubblicazione delle lettere che ci pervengono, dando ad esse una numerazione progressiva. Metteremo volentieri in comunicazione chi ce lo chiederà con coloro che hanno scritto la lettere qui pubblicate. Basterà far riferimento al numero della lettera che interessa.