Lettera 94 (Prima Serie)

Facciamo Il Punto Sulla Partecipazione

La crisi della partecipazione

Da un paio di anni le vie, le piazze e i cinema di Roma non sono più teatro delle frequenti manifestazioni – spesse volte di quartiere – cui ci eravamo in qualche modo abituati.

Per tentare un bilancio, sia pure approssimativo, della stagione di lotte di base che si è ormai conclusa in tutto il Paese ( e in modo particolare in città) possiamo cercare di distinguere tra loro la partecipazione alle imponenti manifestazioni che esprimono un inequivocabile consenso dalle occasioni di partecipazione popolare locale, tipiche degli anni scorsi ( per esempio l’occupazione di un’area per la sua destinazione a zona verde).

Nelle prime, possiamo individuare un tipo di partecipazione, l’unico considerato “politico” nel senso più pieno, che è espressione di una disponibilità motivata, al limite, più dalla fede o dalla volontà di affermazione dell’istituzione che la organizza ( partito, stato, chiesa ) che dalla cosa in sé , che appare quasi come secondaria; la rispondenza alle sollecitazioni del vertice in una visione della partecipazione centralizzata in modo rigido, si può ottenere per questa via su qualsiasi obiettivo pre– scelto. Potremmo definire questo tipo di partecipazione – in senso paradossalmente laico – di tipo “liturgico -religioso” ( si pensi , per esempio, all’organizzazione del consenso attorno al “partito di stato” formatosi tra partiti, governo e organi di stampa durante tutto il caso Moro).

La seconda forma di partecipazione, che siamo portati a considerare “spontanea” ci appare come l’espressione non tanto del mondo politico quanto di quello sociale, e risulta più legata al raggiungimento di un obiettivo immediato , e dunque potenzialmente di massa, che motivi alla mobilitazione di per sé: al contrario spesso, appare nei fatti limitata ai soli “ cittadini di buona volontà”.

Di diverso carattere a seconda del quartiere interessato, della lotta condotta, della sua durata e dei successi riportati, spesso quest’ultima è stata indirizzata ad ottenere ascolto da parte della pubblica amministrazione sui modi concreti di intendere la vita in città ( caso per caso i piani di zona per l’edilizia popolare, le varianti del piano regolatore, la creazione dei servizi pubblici, ecc.).

Di questa forma di partecipazione “spontanea”dobbiamo dire che oggi è completamente ingabbiata,

legata da una serie di pastoie amministrative per cui sembra che non ci si possa più muovere in alcun modo, che per fare qualsiasi cosa si debbano chiedere infiniti permessi, espletando in tutta la sua pesantezza la via burocratica. Non è più praticabile cioè quel rapporto dialettico tra legale e illegale fino a poco tempo fa scelto dalle stesse forze politiche e sociali per determinare il cambiamento ( che si imponeva in seguito anche sul piano delle istituzioni, costrette ad adeguarsi).

Sebbene in alcuni punti della città ancora vi siano ancora vi siano state – prima dell’estate – alcune iniziative (per esempio in XVI Circoscrizione al borghetto di Valle Aurelia, il comitato per l’assegnazione delle case popolari ne discuteva i criteri in pubbliche assemblee) non si può negare l’impressione di molti di aver assistito al riflusso di questa partecipazione e all’affermarsi, perfino in sede politica, di un clima di tensione e di paura che ha portato ad una precisa ricerca di sicurezza e di semplificazioni eccessive.

Per effetto dell’aggravarsi della tensione sociale – si è detto in sostanza – non è più il momento dei confronti, delle assemblee e delle discussioni, si debbono necessariamente serrare le fila, marcare le differenze e rialzare in parte le barriere, sottolineando la contrapposizione tra chi sta dentro e chi sta fuori:

gli unici, per tutti, autorizzati anche a rilanciare il dibattito teorico, sono i soli capi carismatici ( si veda per esempio il modo in cui è iniziata la polemica sul marxismo-leninismo con le affermazioni personali di Craxi contro il PCI).

Il ruolo del Partito Comunista

Certamente questo riflusso non è casuale, e sembra potersi collegare per alcuni aspetti col netto cambiamento di linea politica da parte del Partito Comunista, iniziato con l’insediamento della nuova giunta comunale due anni fa e riaffermato continuamente a livello nazionale.

“ Al Trullo – è una osservazione da tempo usuale per molti – fino a che il PCI non è andato al comune c’era una manifestazione dopo l’altra, poi basta”. E così anche alla Magliana, e in altri quartieri: “ da quando il Comune è del PCI, tutto è finito, ogni attività politica di base è bloccata”. Opinioni fin troppo comuni per non tentarne una analisi. In parte, forse, come dicono alcuni, il PCI ha gestito finchè era all’opposizione, diseducando da un suo corretto uso e facendo del suo stesso essere all’opposizione uno strumento per affermarsi.

Strategia che probabilmente non è criticabile in sé, ma soltanto in quanto ha suscitato delle aspettative sproporzionate alle reali possibilità e per questo ideologiche e strumentali in senso censurabile, non gestibili del resto da parte di nessuno al momento attuale e dato il tipo di organizzazione sociale in cui ci troviamo.

Tanto più l’attuale smobilitazione della politica di base non è comprensibile, quanto più l’apporto del PCI negli anni passati su questioni sostanziali come il problema della casa, dei trasporti, del decentramento amministrativo e della politica culturale non era stato né marginale né ininfluente.

Le frequenti assunzioni di posizione egemonica nei contesti assembleari e nelle decisioni comuni ad altre forze politiche, sono in gran parte ricollegabili alla scarsa mobilitazione di queste ultime, che – ove si trovassero in simili condizioni di maggioranza – assumerebbero, magari con toni del tutto diversi, analoghi atteggiamenti.

Quale che sia comunque la causa del cambiamento – ritengono alcuni – non è negativo poter disporre di un periodo di calma al Comune, per lungo tempo oggetto di continue contestazioni; probabilmente però, viene da aggiungere, è più negativo che la nuova amministrazione non sembra usare di questa “ tregua” per andare verso un reale decentramento di funzioni e di competenze, quanto piuttosto verso un ordinato accentramento, forse più efficiente ma certamente meno legato al territorio.

Forse, più che addossare le colpe a questo o a quel partito, ha senso – stante l’attuale circolazione del potere su livelli tra loro nettamente separati (“ il politico è dei politici”) – chiedersi perché vera partecipazione, al momento attuale, non sembra che possa esistere.

Anche le attività culturali promosse nelle circoscrizioni durante l’estate o la messa in funzione di nuovi servizi sociali, come scuole, asili nido, consultori, non annulla la profonda distanza che esiste di fatto tra gente e partecipazione.

Le soluzioni burocratico-amministrative non sono in grado di dare ragione delle scelte sostanziali che ad esse sottendono; queste, nella migliore delle ipotesi, sono ancora irrisolte e necessiterebbero al contrario di essere affrontate con urgenza.

In altri termini, se ai problemi di una società complessa, e per Roma a quelli di una città caoticamente in espansione, non si può oggi rispondere in modo adeguato che attraverso una centralizzazione delle funzioni, non è necessariamente detto in che senso e con quali priorità debba avvenire questo processo: in particolare che debba necessariamente avvenire in senso verticistico, negando spazio ad ogni forma di intervento popolare che non sia di incondizionato e totale consenso agli amministratori.

La necessità inderogabile di affrontare argomenti quali il problema del come e del cosa si produce, i criteri di investimento e di taglio della spesa pubblica, di come pensare la crescita della città e di come dare una adeguata risposta alla conflittualità latente della cultura urbana ( continuamente riproposta dalla cronaca, nella violenza gratuita e nella disperazione che colpisce in modo irreversibile soprattutto i giovani con l’aumento dei suicidi e delle fughe nella droga) da un lato ci potrebbe portare ad una riconsiderazione del significato di ogni “istituzione” che ci siamo dati, dall’altro a vedere l’opposizione non tanto come una necessaria polemica contro il potere o il sistema – che come organizzazione dell’interpersonale esiste comunque – quanto piuttosto la possibilità di svelare la contrapposizione di interessi reali in conflitto presente in ogni sistema.

Spazi tolti e spazi non gestiti

L’inverno scorso alla Tuscolana, la questura ha chiuso, in nome della legge, quel poco che era nato spontaneamente (un centro sportivo abusivo); per un’altra legge si sono istituiti – con i “ decreti delegati” – i consigli di circolo e in una scuola con 2000 bambini, nel mese di maggio, alla convocazione del Consiglio di Circolo, con invito a tutti i genitori a seguirne i lavori, hanno riposto positivamente quattro persone in tutto.

Viene da chiedersi perché l’istituzione cerchi di bruciare certi spazi che si aprono e perché quei pochi che ci sono spesso non vengono colti.

Gli “spazi interstiziali” che d’improvviso si aprono come “punti caldi” e nei quali appare qualcosa di diverso dall’usuale, sono l’anticipazione di “un nuovo” che già si presagisce o sporadici tentativi di opposizione destinati al fallimento?

Probabilmente le istituzioni politiche di cui disponiamo sono ormai palesemente inadeguate e ne è la prova il fatto che anche la sinistra italiana e straniera, che traversa una gravissima crisi senza precedenti, è costretta a subire alcune scelte di fondo non sue che sembrano al momento immodificabili.

In conclusione, ci potremmo chiedere se esiste oggi in Italia una “ cultura della partecipazione”. E dal momento che nel partito, nel sindacato, nel movimento politico, la sola partecipazione possibile sembra essere quella che abbiamo definito “politica” ( che si può stimolare in chiave finalizzata chiedendo un consenso alle scelte già operate e fornendo in cambio sicurezza e identità) come si può pensare di riuscire ad assumere forme politiche diverse, attraverso le quali sia possibile “immettere il nuovo” ?

Disoccupati che si ribellano e lottano fra loro, giovani e donne – nuovi movimenti – che rifiutano lo strumento partitico come inadeguato alle loro rivendicazioni, sottolineano con ciò la loro condizione di impotenza nell’attuale contesto, proprio perché privi di strumenti adeguati capaci di esprimerli.

 

La società di massa e il modello di democrazia rappresentativa

Nel corso del secolo si è affermata la società di massa alla quale ancora oggi si pensa di poter rispondere con strumenti messi a punto per società di dimensioni estremamente più ridotte.

Il modello di democrazia rappresentativa elaborato dal pensiero liberale, la teoria dello stato di diritto, (ultimo prodotto del pensiero occidentale), l’organizzazione del potere basata sulla diversificazione in ruoli e in classi che esistevano 100 anni fa e più in generale un tipo di cultura e di rapporto spazio-temporale con l’ambiente e i mezzi di produzione, in sintesi l’intero concetto di “giustizia”, deve – e sta lentamente – accettare le nuove dimensioni operando una trasformazione della sintesi sociale che tenga conto dei mutamenti avvenuti.

Una sintesi organica, che non escluda fasce di popolazione ( che condurrebbero alla distruzione del sistema sociale stesso), ma al contrario ne faccia la misura di tutto il sistema: è l’obiettivo di questo mutamento epocale che preme nettamente dal basso, rivendicato dalla classe operaia e tuttora privo di quegli strumenti epistemologici necessari per affermarsi definitivamente.

L’alternativa, e il rischio lo stiamo correndo, è che tutto venga introdotto nelle anguste categorie politiche di cui disponiamo oggi, col risultato di farle saltare, innescando processi degenerativi soltanto in parte determinati, o facilitati, da chi ha interesse a mantenere le attuali distinzioni di classe all’interno del paese.

Il riflusso del ’68 è segno di una grande battaglia perduta, non senza aver modificato profondamente la situazione: tuttavia la guerra continua, resa ancor più difficile dall’esorcizzazione operata nei suoi confronti, soprattutto con forme astute di incanalamento e di normalizzazione di ogni tentativo di rottura e di lotta per la trasformazione.

La forza dell’interpretazione

La sfera politica – fin qui troppo ridimensionata – appare fuori del mondo giovanile, come quella dei “pubblici amministratori” incaricati di gestire lo Stato per conto dei suoi cittadini, informandoli poi tramite giornali e TV.

La stessa categoria mentale di “ politico” è entrata in contraddizione sia nei rapporti che intercorrono tra fatti privati e fatti pubblici sia nella difficoltà di tracciare tra i due una linea di demarcazione.

Da più parti si fa inoltre richiesta di forme di controllo sull’operato del parlamento, dell’esecutivo, delle istituzioni pubbliche: la cerniera fra questi organismi e la popolazione dovrebbe passare per gli “spazi” di democrazia di base ( comune, circoscrizioni, comprensori, ecc.) e per i partiti politici, i quali invece svolgono ormai una diversa funzione, avendo in parte soppiantato le camere ed il governo con i loro collegamenti e contatti continui a livello di segreterie.

Il compito più specifico che i partiti non assolvono più è proprio quello di raccordo, essendo chiaramente sbilanciati sul piano istituzionale- funzionalistico e supplendo come si è detto al mancato conseguimento del consenso reale e militante (in continuo calo) con forme fittizie di tipo magico-sacrale (idealizzazione dello stato, manifestazioni ideologiche di completo accordo, ecc.).

La festa dell’Unità oggi, come la processione ieri, offrono con i loro strumenti di coinvolgimento emotivo totalizzante e securizzante, un senso preciso di partecipazione che poi si rivela fittizia in quanto di sola adesione passiva.

I partiti gestiscono poi una forma sottile di monopolio del “vero” politico, ghettizzando e squalificando ogni diversa forma di espressione o col confinarla nel giovanile, come è il caso dei movimenti della nuova sinistra o col settorializzarla, come nel caso delle esperienze di lotta nate su problemi specifici (casa, salute, donne).

Si chiede partecipazione solo come manifestazione di consenso incanalato che non risponde assolutamente ai reali bisogni minimi per vivere che oggi sono forzatamente circoscritti alla sola sfera del privato e se da essa fuoriescono, ciò avviene in formesublimate o riconvertite, in ambiti consentiti nperchè controllabili o non incidenti sulle strutture. ( al bisogno di appartenenza danno sfogo club, circoli, associazioni, all’esigenza di spettacolare lo sport e particolari forme di “spettacolare” di Stato, all’esigenza di ostentazione, di competitività, di prestigio e di autorità rispondono particolari forme di esercizio circoscritto dal potere nell’ambito dell’interpersonale, dell’aziendale, e del famigliare, ferme restando le distinzioni di status che li caratterizzano).

C’è un futuro per la partecipazione?

A quali condizionala partecipazione politica a livello di base può entrare a far parte definitivamente di quel patrimonio di attività vitali a cui nessuno dovrebbe rinunciare?

L’avvertire oggi come “illuminista” il peso e l’obbligo di sforzarsi ad uscire la sera per le riunioni, contro le abitudini diffuse del rifugio nel privato, può modificarsi col tempo solo se la sensibilità comune accetterà l’attività politica come una parte costante della vita quotidiana.

La sensazione di incompletezza del privato, ha portato i giovani, o gli esponenti delle classi medie, evidentemente i più disponibilia svolgere attività non solo di lavoro o di riposo,( dal momento che il loro lavoro è più breve, meno faticoso, più gratificante, ecc..), a cercare forme di socializzazione che oltrepassino la semplice cerchia di amici di cui gli altri sono costretti ad accontentarsi.

Ecco allora affacciarsi nelle strutture già esistenti, queste nuove energie, molto spesso raccolte e organizzate in organismi nuovi di vario tipo:

  1. l’associazione sportiva o ricreativa,
  2. il circolo culturale, la sezione, ecc.;
  3. il gruppo di autocoscienza parrocchiale (in cui si può ravvisare un influsso negativo della chiesa che capta queste forze, le coagula, e con le forme di incontro a forte tasso emotivo e confidenziale ne assorbe tutte le potenzialità soddisfacendole del loro bisogno di non-privato e creandosi così un ruolo di vera a propria “camera di decompressione”tra vita individuale e vita collettiva).

Queste soluzioni sono diventate col tempo sempre più erogatrici di sicurezza e in modo particolare oggi, in cui da parte di tutti si avverte la radicale esigenza di semplificazione e linearità.

Questo vuol dire che spesse volte si cercano forme di semplicità indebita tanto più pericolosa quanto più la società in cui viviamo acquista un sempre maggior grado di complessità.

Chi, alcuni anni fa, aveva un progetto di massima con cui si muoveva in concreto, oggi non riesce più a verificare l’esito dei suoi sforzi, il senso del suo lavoro: ne deriva una comprensibile demoralizzazione che incide, alla lunga, sulle stesse motivazioni a scendere in piazza, a fare politica, ecc.

Lo stesso modo di fare politica con progetti completi ( che sono emotivamente aggreganti soltanto finchè mantengono il loro “ status nascente”) subisce una caduta nel momento in cui non consente verifiche concrete, necessarie in particolare in un momento di maggiore difficoltà.

La riappropriazione e la riconversione di quelle esigenze di tipo politiconi senso lato di cui si diceva in precedenza verso un progetto di trasformazione del reale si realizza quando la situazione appare gravemente compromessa: forse solo la necessità di sopravvivere può dettare le scelte di fondo che determinano l’evolversi di una specie e i suoi salti di qualità nelle sue forme di organizzazione.

Quel momento però potrebbe essere giunto oggi, quando, seguendo un principio di stretto realismo e di sicurezza, ci si avventura per la strada senza uscita della distruzione del potere attraverso la delega e la riduzione degli spazi di democrazia di base, affidando le decisioni di ogni livello a quello superiore e facilitando un grave processo di centralizzazione in atto su vasta scala.

LETTERE

Proseguiamo la pubblicazione delle lettere che ci giungono, già avviata nel N° 91, mantenendo anche la numerazione progressiva. Essendo riportate senza firma, provvederemo a creare la comunicazione tra coloro che ce lo chiederanno.

25. Sono in ritardo, ma spero che non abbiate dubitato del mio interesse per il vostro lavoro e per la sua divulgazione. Se può esservi d’aiuto la mia opinione ritengo non solo utile ma necessario che, a Roma, venga mantenuta la presenza del vostro foglio, specie in questo momento in cui ci è stato imposto un nuovo vescovo (Giovanni Paolo I, n.d.r.). Non credo che, se fosse stato eletto dai “fedeli” di Roma, sarebbe stato più progressista o più attento ai fermenti di rinnovamento. Tutt’altro.Però in un momento in cui la riflessione sarà favorita dai mutamenti in atto, continuare a proporre le vostre osservazioni e le vostre sollecitazioni può ritrovare una efficacia superiore a quella dei momenti di normale amministrazione.

Con ciò non voglio dire che le mie opinioni o che, genericamente, la vostra “buona fede” vi renda accettabili. Sono invece profondamente convinto che la reciproca accettazione è il fondamento di un onesto riconoscimento che in questo momento nessuno ha in tasca la formula del rinnovamento e che per esso sono necessari diversi pezzi di ricerca. Né ciò vuole essere il riconoscimento di un assoluto relativismo o, peggio, di una neutralità illogica. Non mi scandalizzo delle selezioni, né le considero contraddittorie con le professioni di pluralismo. Esiste un dovere di fedeltà alle proprie posizioni che impone delle scelte per evitare confusioni o il loro indebolimento, specie in una fase qual è la presente, in cui la povertà dei linguaggi, in cui possono essere espresse le esperienze nuove favorisce facili incomprensioni.

Buon lavoro e auguri.

26.Cari amici. Mi dispiace di non aver riconfermato prima la mia adesione, che è però piena ed entusiasta; e questo non certo per l’assoluta perfezione del foglio, quanto per il modo col quale avete sempre affrontato le questioni, cioè con passione e lucidità, col desiderio di servire.

Anche se il discorso che voi conducete ha per oggetto speciale la Chiesa di Roma, a me è sempre risultato prezioso per avere uno spiraglio sulla universalità della Chiesa e per vivere con più vivace vitalità nella mia Chiesa sonnolenta e atrofica di periferia.

Spero di farvi pervenire al più presto un mio contributo, anch’io come altri lettori sarei per qualche scambio di esperienze. Siate tenaci e fedeli. Il Signore vi sostenga.

27. Cari Gianfranco e Maria, vogliamo ringraziarvi per l’amicizia che ci avete dimostrato quando ci siamo incontrati a Roma, nella vostra casa. Desideriamo ricevere il ciclostilato “la tenda” perché è una voce libera della base, che ci aiuta a vivere i nostri problemi e a confrontarci.

Esprimiamo il desiderio che contenga riflessioni ed esperienze personali o dibattiti su alcuni problemi di fede, di vita sociale o politica.

Forse fino ad oggi non ci siamo fatti vivi con qualcosa di nostro, ma ci ripromettiamo di farlo. Saluti cordialissimi.