Lettera 9 (Seconda Serie)

Cari amici,

con questa lettera concludiamo la pubblicazione dei testi del Convegno “I poveri e la chiesa” che, come sapete, si è svolto presso la Parrocchia dei SS. Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela, Roma il 13 ottobre scorso.

Pubblichiamo ora la relazione tenuta da Francesco Cagnetti “Le analisi e i risultati del gruppo de “La Chiesa dei Poveri” nel Concilio Vaticano II”, e un altro grande testo di Lercaro che abbiamo avuto modo di analizzare insieme nel convegno, quello della conferenza tenuta a Beyruth il 12 aprile del 1964 sul tema della Povertà nella Chiesa che facciamo precedere da una piccola presentazione. In questa lettera ne abbiamo fatto una ampia sintesi, il testo completo è sul sito de “La Tenda “: www.latenda.info

Vorremmo dedicare la prossima lettera alla pubblicazione delle osservazioni e delle lettere ricevute dai nostri lettori, valorizzando così quella dimensione dialogica che è sempre presente nel nostro lavoro. Anche per questo vi invitiamo a mandarci i vostri contributi e il vostro giudizio sul nostro lavoro e sui testi che vi abbiamo presentato.

Come sapete non prevediamo un abbonamento per il ricevimento di questa nostra lettera in modo da non limitarne la diffusione, le spese di stampa e di spedizione infatti sono contenute. Ogni partecipazione a queste spese sarà comunque gradita, il nostro Conto Corrente Postale è il 45238177 intestato a Francesco Battista

Nota di servizio: come già abbiamo scritto queste lettere dedicate agli Atti del Convegno “I poveri e la chiesa” ci servono anche come test per l’indirizzario sia postale che elettronico, per cui invitiamo chi riceve questi testi a darci un segno di gradimento. Dal n° 11 le lettere saranno spedite solo a chi ne avrà fatto richiesta.

Sommario della 9° lettera:

  1. “Le analisi e i risultati del gruppo de “La Chiesa dei Poveri” nel Concilio Vaticano II” di Francesco Cagnetti
  2. Povertà nella chiesa Conferenza tenuta dal Cardinale Lercaro a Jounieh (Beyrouth) il 12 apr. 1964. [Tratto da: G. Lercaro “Per la forza dello Spirito: discorsi conciliari” EDB 1984 pgg.123-155]

Le analisi e i risultati del gruppo de “La Chiesa dei Poveri” nel Concilio Vaticano II” di Francesco Cagnetti

Salvatore dei poveri,

la gloria del tuo volto

splenda su un mondo nuovo

La “Breve Storia del Concilio Vaticano II” di Giuseppe Alberigo ha dato alla riflessione del nostro gruppo sui poveri un nuovo impulso e un orizzonte più ampio.

Scrive Alberigo:

…. dalla fine di ottobre [del 1962] aveva cominciato a lavorare con regolarità, incontrandosi spesso presso il Collegio belga di Roma per iniziativa di Paul Gauthier, già prete operaio, e sotto la presidenza del francese card. Gerlier, un gruppo informale di padri e periti particolarmente sensibili ai problemi della povertà. Il gruppo, che prese il nome di “Gesù, la Chiesa e i poveri”, pur nella diversità delle provenienze e delle esperienze, riconosceva che si era aperta una frattura tra la Chiesa e i poveri – nei paesi industriali come nel terzo mondo – e che tale frattura aveva origine nell’appiattimento della Chiesa sulla società capitalistica” (p.49).

Al termine di questi incontri, i cui frutti ebbero poi una significativa, ma non pienamente efficace influenza sui lavori del Vaticano II, quindici vescovi dettero commissione esplicita a Paul Gauthier di riassumere in un libro gli esiti di questa esperienza collettiva.

Questo libro fu edito da Vallecchi nel 1965 col titolo La Chiesa dei poveri e il Concilio.

La prima parte propone una preliminare chiarificazione, alla luce del Vangelo, del concetto di povertà.

Due sono i punti di vista, osserva Gauthier, dai quali viene considerata la povertà:

  1. da un lato si guarda ad essa come ad una virtù da praticare, una beatitudine da acquistare, che in un mondo che si arricchisce e si materializza progressivamente, va vissuta sia dai singoli credenti che dalla Chiesa;
  2. dall’altro lato si guarda soprattutto ai poveri, agli uomini fisicamente, concretamente poveri.

La povertà come beatitudine è vissuta dal cristiano per imitazione di Gesù. Il Cristo infatti è nato in una famiglia di modeste condizioni, ha esercitato un lavoro manuale, ha respinto da sé ogni tentazione di potere terreno, ha dedicato la sua vita all’annuncio del Regno di Dio sino alla morte in croce.

Una autentica teologia della povertà nella Chiesa deve pertanto tener conto di due elementi:

  1. la conformità mistica della Chiesa al Cristo impone la conformità della povertà della Chiesa alla povertà del Cristo;
  2. la Chiesa, società composta di uomini peccatori e di istituzioni imperfette, corre sempre il rischio di lasciarsi asservire dal denaro, servendolo o utilizzandolo, sia pure per fini altissimi.

. Condizione preliminare perché la Chiesa sia con i poveri è che rinunci a basare sul potere e sul denaro la sua opera evangelizzatrice.

Scrive Gauthier:

L’umanità attuale si scopre come un grande ammalato, per due terzi denutrito. Non basta dirle:”Tu sei malata…Non mangiare questo cibo che io condanno[ cioè il comunismo]; ecco una buona ricetta, va e guarisci”, bisogna anche spiegarle perché è malata e quale rapporto esiste fra lei e Colui che può guarire” (p.15).

Al gruppo del Collegio belga partecipava anche Dossetti – come teologo privato di Lercaro, arcivescovo di Bologna.

E fu Lercaro nella prima sessione del Concilio a farsi portavoce, con un intervento memorabile, del progetto della “Chiesa dei poveri”.

Le mie parole” disse” si propongono di renderci più attenti a questo aspetto del mistero di Cristo nella Chiesa, non solamente perenne ed essenziale, ma della più grande attualità storica. Voglio dire che il mistero di Cristo nella Chiesa è sempre, ma soprattutto oggi, il mistero del Cristo nei poveri, poiché la Chiesa, come dice il Santo Padre Giovanni XXIII, è sì, la Chiesa di tutti, ma soprattutto la “Chiesa dei poveri””.

E concludeva:

… non assolveremo a sufficienza il nostro compito, non riceveremo con spirito aperto il piano di Dio e l’attesa degli uomini, se non porremo, come centro e anima del lavoro dottrinale e legislativo di questo Concilio, il mistero del Cristo nei poveri e l’evangelizzazione dei poveri”.

Dovere evidente, attuale, concreto in un’epoca in cui

la povertà dei più (i due terzi del genere umano)è oltraggiata dalle immense ricchezze di una minoranza

Da qui la proposta di Lercaro ai Padri conciliari:

Se in verità la Chiesa […] è il tema di questo Concilio, si può allora affermare, in piena conformità con l’eterna verità del Vangelo, e nel medesimo tempo in perfetto accordo con la situazione storica presente: il tema di questo Concilio è la Chiesa nella misura in cui essa è specialmente ”la Chiesa dei poveri”.

Da tale impostazione Lercaro trae poi le seguenti proposte applicative:

  1. Il concilio conceda la parte principale all’elaborazione della dottrina evangelica della santa povertà del Cristo nella Chiesa, e metta in luce il disegno divino che scelse la povertà come segno e forma;
  1. goda egualmente di una simile priorità l’elaborazione della dottrina evangelica dell’eminente dignità dei poveri in quanto membri privilegiati della Chiesa;
  2. nella nuova organizzazione di tutti gli schemi dottrinali sia messa in luce la connessione ontologica tra la presenza del Cristo nei poveri e le due altre più profonde realtà del mistero del Cristo nella Chiesa: cioè la presenza del Cristo nell’azione eucaristica, per mezzo della quale la Chiesa si unifica e si costituisce, e la presenza del Cristo nella sacra gerarchia che istruisce e governa la Chiesa”;
  3. anche nell’elaborazione degli schemi sulla riforma delle istituzioni ecclesiastiche e dei metodi di evangelizzazione trovi posto e sia messa in luce la connessione storica tra il riconoscimento leale e attivo dell’eminente dignità dei poveri nel regno di Dio e nella Chiesa, e la nostra capacità di discernere gli ostacoli, le possibilità e i metodi di adeguamento delle istituzioni ecclesiastiche.

Commentando questo intervento di Lercaro, il gesuita boliviano Victor Codina osserva:

Nonostante le parole di Giovanni XXIII e di Lercaro, il Concilio Vaticano II non fece dei poveri un tema centrale, anche se in qualche testo si fa menzione del Cristo povero e del fatto che la Chiesa deve seguire i suoi passi (LG8) e che le gioie e le speranze, le angosce e le tristezze dei poveri devono essere anche della Chiesa (GS1).

È risaputo che i vescovi e i teologi che hanno avuto un ruolo decisivo nel corso del Concilio Vaticano II erano in maggioranza centroeuropei, senza una particolare sensibilità al tema dei poveri. Gli stessi vescovi dell’America Latina, all’infuori di alcune iniziative e proposte profetiche di Helder Câmara e di Larraín, non erano molto coscienti della grave situazione di povertà della società latinoamericana e il loro influsso sul Concilio non fu importante (vennero chiamati la Chiesa del silenzio)

Malgrado ciò Codina riconosce che il Concilio, orientandosi verso i segni dei tempi,

..aprì il cammino affinché si potesse avanzare verso la Chiesa dei poveri

E conclude:

Senza il Vaticano II, non sarebbe stato possibile l’attuale cammino della Chiesa latinoamericana[1].

Condivido queste considerazioni, ma penso che anche altri motivi abbiano potuto condizionare il Concilio su questo tema.

Penso soprattutto alle conseguenze che avrebbe comportato nella Chiesa una prassi coerente alla centralità dei poveri : una trasformazione radicale del suo modo di essere e di presentarsi, non solo con l’abolizione di ventilabri e sedie gestatorie, croci preziose e copricapi pomposi, ma con la rinuncia al costoso apparato attraverso cui la Santa Sede esercita la sua funzione di governo sulla ecumene cattolica.

Una riforma siffatta sarebbe stata possibile solo col ritorno del papato alla sua originaria semplice funzione di garante della comunione, nel pieno rispetto della autonoma delle chiese locali.

Quell’autonomia che pure la Lumen gentium proclama a chiare note laddove afferma che i vescovi “non devono essere considerati vicari dei Romani Pontefici, perché sono rivestiti di autorità propria e con tutta verità sono detti sovrintendenti dei popoli che governano”.

C’è poi un altro aspetto che fa da ostacolo al cambiamento: una “Chiesa dei poveri” dovrebbe liberarsi da ogni compromissione con chi ha denaro e potere, ma ciò comporterebbe la rinuncia a tutti quei costosi mezzi di comunicazione che la Chiesa ritiene indispensabili per la propagazione della fede, e la rinuncia allo Stato del Vaticano, ormai del tutto inutile per garantire l’autonomia della Chiesa, come sta a dimostrarlo la piena libertà delle chiese cristiane non cattoliche in Italia.

Tutto questo è pura utopia, si dirà, ma l’utopia ha comunque una duplice ragion d’essere: quella di relativizzare tutto ciò che è relativizzabile; quella di indicarci una meta, e un compito.

Forse non va preso alla lettera l’ordine che Gesù diede ai suoi compagni: che, oltre al loro bastone, non prendessero nulla per il viaggio (Mc, 6, 8), ma lo spirito di queste parole, senza alcun dubbio, non può essere disatteso.

Tuttavia, nonostante la nostra poca fede, lo Spirito Santo soffia nella Chiesa e prepara il futuro, sia pure adeguandosi alle nostre capacità di ricezione.

Così, si va facendo strada sempre più fortemente nel Magistero l’esigenza di promuovere, se non la Chiesa dei poveri, quanto meno la Chiesa per i poveri:

Oltre alla Costituzione conciliare sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, testimonianza di questa sollecitudine sono le encicliche degli ultimi tre papi.

Giovanni XXIII dichiara nella Mater et Magistra:

“ Il problema forse maggiore dell’epoca moderna è quello dei rapporti tra le comunità politiche economicamente sviluppate e le comunità politiche in via di sviluppo economico: le prime, di conseguenza, ad elevato tenore di vita, le seconde, in condizioni di disagio o di grande disagio.”

“Noi siamo tutti solidamente responsabili delle popolazioni sottoalimentate…”.

E nella Pacem in terris elenca ciò che spetta di diritto ad ogni essere umano:

“ diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita, specialmente per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari”, “ diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”

“diritto alla libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità politica di cui è cittadino […] diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse. Per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana; e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale.”

Paolo VI osserva nella Populorum Progressio:

“ Oggi, il fatto di maggior rilievo, del quale ognuno deve prendere coscienza, è che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale.[…] I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”.

Giovanni Paolo II, nella Sollicitudo rei socialis, si rivolge:

“a tutti, uomini e donne senza eccezione, perché, convinti della gravità del momento presente della rispettiva, individuale responsabilità, mettano in opera – con lo stile personale e familiare della vita, con l’uso dei beni, con la partecipazione come cittadini, col contributo alle decisioni economiche e politiche e col proprio impegno nei piani nazionali e internazionali – le misure ispirate alla solidarietà e all’amore preferenziale per i poveri. Così richiede il momento, così richiede soprattutto la dignità della persona umana, immagine indistruttibile di Dio creatore, che è identica in ciascuno di noi”

Le encicliche, poi, oltre alle dichiarazioni di diritti , contengono articolate analisi dei fatti, di volta in volta aggiornate sul filo dell’evoluzione della realtà politica, economica, sociale, nonché indicazioni delle cause degli squilibri e del loro accentuarsi nei processi di globalizzazione.

Aggiungo qui la speranza in un prossimo ulteriore sviluppo di questo tema che hanno suscitato le recenti parole di Benedetto XVI alla diocesi di Velletri.

Sempre in merito alla sollecitudine della Chiesa nei confronti dei poveri, vanno inoltre ricordate le molteplici iniziative di episcopati, congregazioni, in particolare quelle missionarie, organizzazioni cattoliche di volontariato ecc. a sostegno dei poveri, sia individui che popoli, sia del loro benessere che della loro crescita autonoma.

La Chiesa latinoamericana ha fatto poi qualcosa di più: non si è limitata alla prassi a sostegno dei poveri, ma ha recepito il Vaticano II rileggendolo nella prospettiva dei poveri.

È in questo contesto che nasce la teologia della liberazione.

Scrive il già citato Victor Codina:

“Ogni teologia scaturisce da una precedente esperienza spirituale e quella latinoamericana nasce dall’esperienza del mistero di Cristo presente tra i poveri. Senza questa esperienza spirituale non si può comprendere la teologia della liberazione.

“I poveri non sono soltanto oggetto di compassione e assistenzialismo, e neanche solamente vittime del peccato strutturale che esigono giustizia; sono qualcosa di più, sono un punto focale fondamentale per la teologia, poiché ad essi sono stati rivelati in maniera speciale i misteri del Regno, nascosti ai saggi e ai prudenti di questo mondo”

“I poveri non sono solo oggetto dell’etica sociale ma luogo ermeneutica e teologico della fede, punto focale per la strutturazione di tutta la teologia”

“Non si tratta di sostituire il luogo ecclesiastico della fede con i poveri, ma di fare di questi un luogo ermeneutico e sociale per leggere la rivelazione della Scrittura e della Tradizione ecclesiale”[2]

Medellin(1968), Puebla(1979), Santo Domingo(1992), Aparecida(2007) sono le tappe di questa singolare feconda esperienza di fede dei popoli dell’America latina con i loro vescovi e i loro teologi, un’esperienza in cui prassi e sviluppo dottrinale procedono insieme interagendo, così come deve essere. Un evento dello Spirito di cui sarebbe incomprensibile sottovalutare la portata e l’esemplarità.

Da ciò risulta chiaro che il Vaticano II non solo va recepito, ma coerentemente sviluppato nel senso di una profonda riforma della Chiesa.

Ma l’idea della “Chiesa dei poveri era pensata dal cardinale Lercaro come il principio in base al quale andava reimpostata l’essenza e la missione della Chiesa in generale, e non come un’opzione di una parte di essa.

Ritengo che sia tempo che questa autorevole indicazione vada ascoltata, meditata e attualizzata anche nella Chiesa italiana.

Anche in un Paese come il nostro, che gode di un relativo benessere, ci sono innumerevoli povertà: disoccupazione, lavoro precario, condizione degli immigrati, subordinazione a poteri mafiosi, vittime di varie forme di razzismo e di emarginazione, scarsa assistenza ai disabili, ecc.

Perché non ripensiamo seriamente la nostra vita di fede assumendo il punto di vista di questi “poveri”?

Perché il popolo di Dio del nostro Paese non dedica un anno di meditazioni e di scelte pastorali su questo tema?

Sono persuaso che da ciò trarrebbero maggior consistenza i temi stessi che stanno maggiormente a cuore alla nostra Chiesa: la difesa della vita, la promozione della famiglia.

Infatti non avrebbe senso celebrare la famiglia senza mettere a fuoco le sue condizioni reali di esistenza in una società che in vario modo ne mina le basi: disoccupazione, precariato, elevato costo degli alloggi e dell’istruzione, scarsezza di aiuti alle giovani coppie, modelli di vita e di consumo proposti dai mass-media, siano essi privati o dello Stato,

Ritengo che solo affrontando questi temi con forte spirito di conversione la Chiesa potrà di nuovo trovare ascolto nella nostra società, anche oltre il mondo dei credenti e dei praticanti.

Ma intanto ciascuno di noi può fornire il proprio contributo di idee e di scelte concrete in questa direzione.

Per questo abbiamo proposto questo incontro, come prima occasione di confronto di esperienze e di idee sul tema della Chiesa dei poveri. E a tal fine il nostro gruppo è intenzionato a proseguire la propria riflessione comunitaria, aprendo le pagine del suo sito ad ogni eventuale contributo che ci aiuti ad approfondirlo.

Siamo persuasi infatti che accanto ai servizi nella catechesi, nella liturgia, nel volontariato, sia necessario che i battezzati si adoperino a tessere una rete sempre più ampia di persone e di gruppi disposti a percorrere insieme un cammino sulle orme di Gesù, carpentiere di Nazaret, laico privo di potere e di ricchezza, ma ricco della predilezione del Padre e della promessa del Regno.

 

Lercaro: Povertà nella chiesa Conferenza tenuta a Jounieh (Beirut) il 12 apr. 1964.

[Tratto da: G. Lercaro “Per la forza dello Spirito: discorsi conciliari” EDB 1984 pgg.123-155]

a) Presentazione di Francesco Cagnetti

La conferenza tenuta dal cardinale Lercaro a Jounieh, in Libano, il 12 aprile 1964, sviluppa ulteriormente l’idea centrale dei suoi Appunti per il Vaticano II, e cioè che la povertà è parte integrante della rivelazione del Cristo su se stesso.

In particolare, troviamo nella conferenza una originale riconsiderazione del rapporto tra Chiesa e civiltà moderna. Lo schema tradizionale, che contrappone, con rigore manicheo, l’insegnamento della Chiesa alla deriva atea e individualista del pensiero moderno, viene accantonato come inadeguato a interpretare la complessità del fenomeno della secolarizzazione.

Due esempi significativi di questa nuova impostazione: da un lato Lercaro presenta l’Illuminismo come figlio del cristianesimo individualista seguito alla riforma e alla controriforma, e dall’altro lato riconosce al marxismo il merito di aver introdotto due elementi nuovi: 1) la coscienza esplicita e storicamente impegnata del problema dei poveri come problema universale; e 2) il fatto di aver tentato “per primo” una sintesi filosofica del rapporto tra l’uomo e i beni della terra, costringendo così il pensiero cristiano a ritrovare quel che c’è di più originale nella rivelazione biblica sul povero e sulla povertà.

Questa capacità di non lasciarsi rinchiudere in una angusta apologetica, ma di interpretare con spirito libero i segni dei tempi, da qualunque parte provengano, è oggi più che mai di stimolo ai cristiani che intendano cercare, insieme con tutti gli uomini, il cammino verso un mondo migliore.

Ad aprirci a questo sguardo nuovo sul futuro dell’uomo è però ineludibile compiere una scelta di campo nella nostra vita. Non a caso il nostro convegno ha dedicato il pomeriggio alla presentazione di esperienze di solidarietà. E i due documenti del cardinale Lercaro ci offrono indicazioni preziose sul modo di andare oltre l’impegno per i poveri per mettersi al loro fianco, per porre la nostra vita in sintonia col loro giudizio sulla nostra società.

È un cammino non facile, che va fatto con gradualità, e che richiede, a differenza della semplice elemosina, un impegno creativo, differenziato da persona a persona. Ognuno di noi, in famiglia, nel proprio lavoro, nella partecipazione alla propria comunità eucaristica, nelle scelte sociali e politiche, nella propria formazione culturale, può trovare i modi efficaci per vivere in profondità il mistero del Cristo povero, rispondendo così all’invito del profeta Isaia: “…imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,17).

È di questa conversione che ha bisogno l’umanità per recuperare fiducia nel senso della vita e della storia, ed è questa sola che potrà restituire alla Chiesa credibilità e testimonianza efficace.

b) Ampia sintesi del testo di Lercaro

Della povertà di Cristo e, secondo Cristo, dei suoi fratelli e della sua chiesa, si parla da sempre, da quando è nato il cristianesimo, come di una delle cose più proprie del vangelo e più essenziali sia alla libertà interiore e alla perfezione dell’anima cristiana, sia alla libertà anche esteriore della chiesa e alla sua dynamis salvifica nel mondo e nella storia umana.

Se ne parla con particolare intensità di accento hinc et inde da quando, nel campo aperto e indifeso della così detta civiltà occidentale dapprima e poi in tutto l’orizzonte della storia contemporanea, si è schierata e si è mossa a conquista l’ideologia e quindi la potenza politica del comunismo.

Se ne parla ancora di più e con una carica di insolito slancio da qualche anno a questa parte, dopo che qua e là vari tentativi di vita religiosa hanno cercato di rinnovare nella chiesa testimonianze genuine della povertà evangelica e soprattutto dopo che l’annunzio e l’inizio del concilio ecumenico hanno aperto a tutta la chiesa e a tutta la cristianità nuove speranze e nuovi impegni di più fedele ritorno allo spirito e alla pratica del vangelo.

Così l’argomento è discusso al concilio e fuori di esso, in tutta la chiesa, intorno a essa e contro di essa, come uno dei temi più sintomatici e a un tempo più decisivi: sia sul piano dottrinale sia sul piano pratico, sia in rapporto alla sincerità e coerenza cristiane del singolo sia in rapporto al senso.

I problemi che si annodano intorno a questo tema sono molti, dall’accertamento della vera dottrina di Cristo e delle origini cristiane, all’elaborazione dottrinale (dogmatica e ascetica) dei diversi secoli, al piano delle applicazioni alla casistica individuale (per il cristiano singolo, per la famiglia cristiana, per il sacerdote, per le comunità religiose, per i vescovi e su su fino al capo della chiesa e al complesso degli organi del suo governo centrale), al piano, infine, di un riforma delle istituzioni ecclesiastiche e del costume collettivo da una parte dei cristiani nel mondo e dall’altra dei ministri sacri nel loro servizio in cospetto al mondo, ecc.

Ma prima di affrontare molti di questi problemi è necessario chiarire il senso fondamentale, l’aspetto più essenziale e profondo del messaggio evangelico sulla povertà. Non pensiamo certo di poter trattare esaurientemente in questa sede tale tema: tuttavia ci preme affermare chiaramente quali sono le sue dimensioni, quale la sua portata, quali le deficienze di alcuni modi con cui è stato affrontato finora così da preparare il quadro entro il quale si potrà tracciare poi, a Dio piacendo, una costruzione positiva che si fondi, come non può non fondarsi, su quanto vi è di più proprio ed essenziale nell’insegnamento biblico, e soprattutto neotestamentario ed evangelico, sulla povertà.

Di quest’ultima parte costruttiva non potremo dare qui altro che un saggio, imperniato su una riflessione circa le beatitudini evangeliche, che può almeno fissare alcuni dati rivelati e aprire la via ad ulteriori riflessioni sul senso più intimo di questo mistero.

La povertà infatti, per il cristianesimo, non è tanto un elemento importante della così detta etica evangelica, non è nemmeno solo uno strumento privilegiato dell’ascesi cristiana e un aspetto ineliminabile della sociologia e delle istituzioni della chiesa, ma è veramente un mistero, nel senso più proprio che la parola riveste per la rivelazione cristiana. E precisamente è un mistero che si collega nel modo più immediato col mistero per eccellenza, cioè col «mistero nascosto ai secoli eterni» (Rm 16,25), il mistero della volontà del Padre (Ef 1,9), il Cristo stesso.

In altre parole, la pratica della povertà e la condizione del povero secondo il vangelo non riguardano soltanto l’agire del cristiano e della chiesa, ma toccano direttamente il mistero intimo e personale del Cristo: non costituiscono un capitolo di un’etica sia pure sublime o l’espressione di una filantropia generosa quanto inerme, ma parte integrante della rivelazione del Cristo su se stesso, un capitolo centrale della cristologia.

Perciò il discorso cristiano sulla povertà e sui poveri può porsi e giustificarsi unicamente nell’ambito di una penetrazione sempre più fonda del mistero centrale dell’incarnazione e della redenzione. Il discorso” cristiano sulla povertà sta o evolve o regredisce o cade a seconda che sta o evolve o regredisce o cade il discorso su Gesù in quanto

il Cristo di Dio, l’Unigenito del Padre fatto per noi carne e «peccato» (2 Cor 5,21 e Rm 8,1-14), morto in croce e tuttavia risorto e glorificato, giudice escatologico di tutta l’umanità.

La natura essenzialmente teologica del problema è, se non dimostrata, per lo meno già in qualche modo insinuata dalla sua stessa dimensione pratica universale: dimensione alla quale per troppo tempo non si è prestata tutta l’attenzione che meritava.

Molti cristiani che parlano della povertà e dei poveri ne parlano come se si trattasse dopo tutto di un fatto umano marginale cioè di qualche cosa che si presenta tra gli uomini con un carattere di eccezionalità, con una frequenza statistica per così dire minore. E perciò sinora si sono trattati di preferenza altri temi come, per esempio, quello della legittimazione e difesa della proprietà privata che per sé, allo stato attuale interessa di fatto solo una ristretta minoranza e che per sé non è un tema cristiano in senso proprio.

Da non molto tempo — e per la verità non per primi, almeno dall’epoca moderna in avanti — noi cristiani incominciamo ad accorgerci che non è così: almeno sino ad ora i poveri hanno costituito e continuano a costituire la stragrande maggioranza dell’umanità e la condizione della povertà involontaria continua ad essere la condizione umana abituale, mentre la condizione di non povertà o addirittura di ricchezza costituisce, nell’insieme dell’umanità, una condizione piuttosto infrequente o del tutto eccezionale.

Le più recenti e documentate descrizioni della fame nel mondo hanno rivelato anche ai più ingenui e distratti che il problema della povertà non tocca alcune ipotesi limite piuttosto straordinarie (interessanti, per così dire, solo un’etica della perfezione), ma è semplicemente uno dei fondamentali e per ora normali problemi umani, cioè che investono il più elementare discorso sull’uomo e sul suo destino. Come è possibile che la maggior parte dell’umanità ancora oggi, dopo tanti secoli, sia condannata a vivere in condizioni che non le assicurano una sufficiente libertà dai bisogni più elementari? Quale può essere non la spiegazione empirica, ma il senso ultimo di questo? Non è già questo un mistero? E non è già questo un dato che mette in discussione il senso fondamentale della vita umana e il rapporto tra questa e la salvezza che il Cristo dichiara di essere venuto a portare?

Eppure dobbiamo riconoscere che questa dimensione globalmente umana — e quindi inevitabilmente teologica — del problema non è stata per molto tempo percepita, almeno nel pensiero moderno, cristiano e non cristiano.

Un certo cristianesimo individualista e prevalentemente moralista, seguito alla Riforma e alla Controriforma, in tema di povertà si è impegnato soprattutto nella casistica, relativa ad applicazioni particolari, ma non ha fatto nessun posto nella sua teologia a un argomento che tocca il mistero della vita e della salvezza di sterminate masse umane. S’intende che questo diciamo parlando di indirizzo globale, soprattutto dottrinale, senza dimenticare le luminose testimonianze dei santi anche nell’epoca post-tridentina: da s. Carlo Borromeo e s. Vincenzo de’ Paoli, al Cottolengo, da s. Giuseppe Benedetto Labre a Carlo de Foucauld. In certo modo figlio di questo cristianesimo mutilo, l’illuminismo moderno non ha saputo vedere nella povertà che un fatto marginale, di cui il galantuomo borghese non deve darsi troppa preoccupazione: al massimo potrà integrare ed adornare con una moderata filantropia il suo ideale di felicità e di giustizia individuale. Sommamente istruttiva al riguardo può essere la rilettura di Voltaire. (…)

Per parlare oggi dei poveri e della povertà in termini genuinamente cristiani — e perciò che abbiano anche il dovuto rigore di sincerità in tutti i sensi, compresa la sincerità storica — bisogna riconoscere che il marxismo (cioè almeno la dottrina marxiana, se non le sue attuazioni politiche) ha introdotto per la prima volta nella vicenda storica del problema due elementi nuovi:

I) Un primo elemento è la coscienza, esplicita e storicamente impegnata, della dimensione del problema come problema umano a scala universale, che investe i poveri di ogni patria, di ogni nazione, di ogni continente e che investe nell’insieme la stragrande maggioranza degli uomini. (…) II) Un secondo elemento originale del marxismo, che è venuto a porre il problema della povertà in termini assolutamente nuovi, è il fatto che esso per primo abbia tentato una sintesi filosofica, che si risolve in una visione teologica, del rapporto tra l’uomo e i beni della terra. (…)

Marx ha avuto sin dagli inizi della sua meditazione la piena coscienza dell’analogia teologica del processo di sviluppo del pensiero economico moderno e del compito di rovesciamento teologico che egli si assumeva. Una delle sue primissime pagine stabilisce subito un collegamento tra la morte e la proprietà privata e pone quindi immediatamente il problema dell’appropriazione dei beni materiali nel quadro teologico dei problemi supremi dello spirito, della libertà, del peccato e del destino umano. (…)

Non possiamo non segnalare almeno due aspetti della dottrina marxiana che le conferiscono un particolarissimo vigore proprio in ordine al nostro tema e costringono […] il pensiero cristiano a ritrovare quel che vi è di più originale nella rivelazione biblica sul povero e sulla povertà.

Anzitutto affermiamo (sia pure senza poterlo in questa sede dimostrare) che il marxismo filosofico realizza un rovesciamento coerente e compiuto dell’etica tradizionale e perciò rende definitivamente impossibile al cristianesimo proporre la sua dottrina sulla povertà nei termini di una casistica o comunque entro il quadro di un’etica del senso comune. Questa impossibilità creata dal marxismo per un’«etica cristiana moderata» è a un tempo una impossibilità concettuale e pratica: concettuale, perché il cristianesimo di fronte al radicalismo «teologico» coerente della filosofia marxista deve assumere la propria qualificazione più radicale e coerente; e pratica perché nessuna difesa moderata o del senso comune potrebbe resistere ormai, sul piano delle istituzioni come sul piano del costume, alla potenza mondiale del comunismo. La povertà evangelica deve quindi qualificarsi teologicamente, cioè per quello che è veramente, come un mistero.

In secondo luogo il marxismo propone una nuova forma di ateismo completamente diverso da qualunque forma precedente, cioè non un ateismo negativo ed astratto, pura negazione di Dio, ma un ateismo positivo e creativo, negazione della negazione, in quanto esso si assume un ruolo di creatore e vuole rendere immanente nella storia il regno di Dio, la città celeste, i nuovi cieli e la nuova terra. Quindi un ateismo compiutamente messianico e perciò tale che costringa la povertà evangelica a qualificarsi quale è ancora più precisamente, cioè come un mistero in diretto ed essenziale rapporto con la cristologia, con Gesù in quanto messia e giudice escatologico.

Ora, chiediamoci, è questo il modo abituale con cui dai cristiani si parla oggi per lo più della povertà? Non ci sembra, almeno nella forma esplicita ed esauriente che sarebbe desiderabile.

È chiaro che di norma non si dicono cose volutamente in antitesi alla qualificazione più propria della povertà evangelica e che, in un modo o in un altro, o prima o poi, in qualunque discorso si utilizzano anche i testi più significativi del vangelo. Ma normalmente non si parte da essi e piuttosto si accetta un’altra impostazione, mutuata spesso da una problematica e da ispirazioni molto diverse. Consideriamo alcuni esempi.

a) Anzitutto, la così detta dottrina sociale cristiana. Essa ha per oggetto proprio e diretto i temi concatenati della proprietà privata, della giustizia sociale, dell’ordinamento del lavoro, ecc., ma sempre considerati dal punto di vista della confutazione della dottrina marxista intesa soltanto in chiave etica e sociologica: perciò muove da un punto di vista che ovviamente tende a subordinare le considerazioni religiose sulla povertà a quelle di moralità razionale e di filosofia sociale o più semplicemente di senso comune.

Ma per sé la dottrina evangelica sulla povertà non corrisponde né alla ragione né al senso comune e quindi finisce, inevitabilmente, col trovare sempre meno spazio e rilievo.

b) La così detta «teologia delle realtà terrestri» e la dottrina della «consecratio mundi», oggi tanto additata ai laici come loro compito più proprio nella chiesa.

Il punto di partenza di queste dottrine non è certo la rottura e il rovesciamento presupposto da tutto il vangelo, e specialmente dal discorso della montagna, ma è piuttosto, più o meno esplicito, il postulato mutuato dal pensiero moderno di un’evoluzione umana continua e omogenea, cioè di un progresso, non limitato solo al campo delle scienze particolari e delle tecniche, ma esteso in modo necessario e indefinito a tutto il mondo morale e umano, per cui la storia umana tenderebbe verso un punto in cui il male, nel senso di peccato, si ridurrebbe sempre più.

Questo discorso, anche quando non trascura i dati evangelici,li inquadra però e li subordina ad un’impostazione globale che cerca di integrare il discorso della montagna in una morale della creazione (che dovrebbe tenere meglio conto degli ordini naturali) e in una teologia dell’incar-nazione.

Ma si rischia, se non da tutti almeno da molti, di concepire l’incarnazione in una maniera essenzialistica che non rispetta tutto quello che in essa vi è di concreto, di circostanziato, di storico (a partire dallo stesso concetto di carne non come natura umana o corpo di Cristo, ma come “σάρξ”, con quello che dice biblicamente non solo di debolezza e di fragilità, ma

anche di disordine, di ribellione e di corruzione, e quindi di manifestazione del peccato non solo come mera insufficienza, ma come aversio e sostituzione a Dio).

E quanto alla morale della creazione non si considera abbastanza che «l’ordine naturale della creazione non esiste più nella sua forma originaria, perché l’eone presente in cui si trova il cristiano è cattivo ed è soggetto alle influenze di forze diaboliche» e che espressamente il vangelo indica nella ricchezza una possibile, anzi normale localizzazione di queste forze avverse.

Certo il progresso scientifico e tecnologico con le sue possibili conseguenze positive nei rapporti economici e sociali apre delle grandi eventualità che devono essere valorizzate e inquadrate teologicamente: ma gli elementi di questa sintesi vanno

rettamente ordinati fra loro. Non deve essere una filosofia del progresso che assume e ordina anche i dati evangelici, ma debbono piuttosto essere i dati del vangelo, coerentemente enucleati e saldati tra di loro, che ordinano e giudicano qualunque filosofia dello sviluppo umano. Altrimenti c’è il rischio, per esempio, di parlare dei beni materiali e dell’odierno sviluppo tecnologico ed economico come di qualcosa che si impone per sé al cristiano, se non vuole contrastare allo stesso progresso umano. (…)

c) Consideriamo per esempio la dottrina e la pratica della «società del benessere».

È la banalizzazione del postulato del progresso, ad uso dell’ordine costituito della società occidentale e come estrema forma di difesa che l’occidente sta opponendo al marxismo.

Ma la società opulenta potrà, forse (?), evitare l’avvento del comunismo per via rivoluzionaria, ma non ne realizza un autentico superamento. Anzi rischia di aggravare l’alienazione denunciata dal marxismo e di coinvolgere nel corrompimento delle strutture anche autentici valori cristiani: come per esempio il concetto evangelico di pace e appunto l’idea evangelica della povertà.

Quanto alla povertà, in particolare, la società opulenta tende a creare negli stessi cristiani una duplice deformazione.

In primo luogo essa tenta i cristiani a una «spiritualizzazione» totale della povertà evangelica, cioè li induce ad immaginarsi come rientrante ancora nella prima beatitudine una povertà totalmente soggettiva e interiore, senza nessun rapporto oggettivo con una condizione materiale di privazione. Dalla constatazione, fin troppo ovvia, che non ogni bisognoso può essere un povero nel cuore ed avere lo spirito della povertà di Cristo, si passa alla reciproca, cioè si afferma ex paritate che anche il ricco senza bisogni può avere l’animo del povero e quindi, purché nella sua assenza di bisogni rettifichi le intenzioni, può vivere la vera povertà di Cristo: e pertanto si delinea la casistica aggiornata del «nuovo povero» nella società opulenta, in termini che (è paradossale come non lo si avverta) risolvono semplicemente e senza residuo la povertà evangelica nella giustizia e nella temperanza, nella fortezza laboriosa e nella prudenza mutualistica, cioè risolvono — se non già per l’oggi, almeno per il prossimo domani — la beatitudine evangelica nelle semplici virtù morali. Capovolgimento antimessianico di un discorso che vorrebbe essere cristiano!

In secondo luogo, la società opulenta tende sempre più a mettere al bando ogni tentativo di riprendere i termini propri del discorso evangelico sulla povertà: come una stonatura o una ineleganza o come difetto di senso storico e difetto di solidarietà con lo sforzo inteso ad assicurare il benessere a masse sempre più vaste, o finalmente come un utopismo pericoloso e sospetto di collegamenti, almeno inconsci, con la critica marxiana della società capitalista.

Questo anzi sembra essere il punto verso il quale convergono alcune interpretazioni più recenti delle fonti neotestamentarie e patristiche: mettere in guardia contro ogni interpretazione non meramente spiritualista della povertà evangelica, come sospetta di complicità o almeno di confusione con il classismo marxista.

Mentre non ci si accorge che l’unico modo di salvaguardare l’assoluta originalità e trascendenza della povertà evangelica non è quello di svuotarla ma precisamente quello di riconoscere ad essa il suo realismo nel quadro di una cristologia realista: cioè riconoscerla come fatto spirituale sì, come posizione interiore sì, come atteggiamento di fronte a Dio prima di tutto, certo, ma sulla base di uno stato oggettivo di indigenza, di privazione, di sofferenza: cosi come oggettiva, concreta, reale è stata l’incarnazione del Verbo, la sua κένωσις, la sua povertà, il suo annientamento, nella vita, nella passione e nella morte.

Gli esegeti e i teologi che più urgono per l’interpretazione spiritualista della prima beatitudine e in genere del messaggio evangelico sulla povertà partono da una premessa generale, che in sé è incontestabile, perché corrisponde al senso di tutto il vangelo, e che è giusto che anche noi riprendiamo esplicitamente. Anzi noi vorremmo, non solo richiamarla, ma anche rafforzarla con argomenti testuali in più, non valorizzati di solito.

Dunque, si dice, ed è vero, che il carattere assolutamente e correntemente trascendente e religioso del vangelo, ne esclude qualunque possibilità di interpretazione sociale e tanto peggio classista. «Nessuna classe sociale vi è canonizzata, nessuna in quanto tale, vi è messa in relazione diretta col Regno; solo una situazione spirituale può accogliere un dono spirituale: solo la fede apre l’uomo alla grazia di Dio».

E a conferma si adduce oltre la lettera e lo spirito delle parole del Signore sulla povertà e la ricchezza, anche il comportamento pratico di Gesù e dell’apostolo Paolo.

Di qui poi si ricavano varie conseguenze, che sono in sé persino troppo ovvie: cioè che nel vangelo la povertà non è elevata ad assoluto e non è un ideale che da solo possa bastare, non è il vertice e la somma dell’insegnamento del Signore, come lo è invece la carità, cioè l’amore sovrannaturale, l’amore stesso che è Dio e nel quale egli ci ama; e ancora che la più evangelica povertà non coincide necessariamente con la maggiore privazione dei beni di questo mondo; che non sono necessariamente i più poveri ad essere animati dallo spirito della povertà: che anche i beni intellettuali e persino i beni dello spirito possono costituire ricchezze pericolose;

e che perciò la vera povertà evangelica esige un’interiore sovrana libertà nei confronti di ogni cosa creata, materiale e non; ecc.

Tutto ciò in verità non può essere una quaestio disputata per nessuno che abbia letto anche soltanto una volta i quattro vangeli.

La possibilità di un dissenso comincia soltanto dal momento in cui tutte queste proposizioni vengono rovesciate nella loro reciproca o almeno rischiano di essere capovolte nell’altra che «dunque anche i ricchi di beni materiali possono essere poveri nel senso della prima beatitudine». Da questo momento in poi si rischia di disconoscere quello che vi è di proprio in recto nel messaggio evangelico sulla povertà, anzi praticamente si viene a negare che nella Bibbia abbia ancora un senso distinguere ricchi e poveri, oppure si riduce la distinzione ad essere operante solo sul piano psicologico ed ascetico, cioè nell’ambito di certi inconvenienti psicologici delle ricchezze terrene e di certe opportunità cautelative a difesa delle virtù della temperanza e della fortezza.

Tutto il resto del nostro discorso sarà per dimostrare in che senso la distinzione biblica, e particolarmente quella evangelica, tra ricchi e poveri resta una distinzione reale e non soltanto in campo psicologico ed ascetico: però riteniamo che il discorso guadagni di chiarezza e possa evitare a priori di essere equivocato e accostato a un discorso classista se prima si stabilisce in che senso la distinzione è trascendente e perciò del tutto irriducibile a una distinzione di classe, soprattutto nel senso non solo sociologico, ma filosofico che la parola classe ha preso da Marx in poi. Marx ha posto il dualismo classista — classe proletaria e classe borghese — in rapporto diretto e assoluto con la sua concezione di peccato originale, di alienazione, di redenzione e di salvezza.

Ora, certissimamente, il vangelo e tutto il nuovo testamento nega questo rapporto, cioè nega che il peccato originale si riduca alla proprietà privata o alla ricchezza, nega perciò che i proletari e i poveri in quanto tali siano immuni dal peccato e perciò non bisognosi di redenzione e quindi per sé sottratti alla possibilità di condanna e nega che i ricchi in quanto tali siano perciò stesso esclusi dalla salvezza e quindi i soli sicuramente già dannati.

Gli stessi testi in cui Gesù proclama la sua messianicità e la sua particolare missione per la salvezza dei poveri implicano già un’affermazione in questo senso. Ed è unicamente per sé in assoluto che egli rivendica l’immunità dal peccato (Gv 8,46: «Chi di voi mi potrà convincere di peccato?») mentre è solo per la madre sua che il vangelo attesta una pienezza di grazia (Lc 1,28). A tutti, senza nessuna eccezione egli dichiara: «Se non credete che Io sono morrete nei vostri peccati» (Gv 8,24).E s. Paolo commenta: «Giustizia di Dio per mezzo della fede di Gesù Cristo, verso tutti quelli che credono: non vi è infatti distinzione. Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio e sono giustificati col dono della sua grazia mediante la redenzione che è in Cristo Gesù» (Rm 3,22-23 e quindi, di nuovo 5,12-21; cf. Gal 3,22).

Così che tutti — prima di ricevere la salvezza che viene dalla fede in Cristo — «eravamo per natura figli dell’ira» (Ef 2,4).

E s. Giovanni arriva a dire che «se diciamo che non abbiamo alcun peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non è in noi…

Se diciamo di non aver commesso peccati lo diciamo bugiardo (Dio) e la sua parola non è in noi» (1 Gv 1,10).

Cioè è un modo assoluto di contraddire al cristianesimo quello per cui un uomo o una classe pretenda di essere immune dal peccato: una simile pretesa è per il cristianesimo l’errore assoluto e il rifiuto totale di Dio e di Cristo come bugiardo.

(…)

Per ora ci dobbiamo limitare a definire alcuni dati che indicano alcune prospettive le quali trascendono a nostro parere, l’orizzonte di pensiero a cui abbiamo or ora fatto riferimento, citandone alcuni esempi e sottolineandone le deficienze.

Prendiamo come punto di partenza il testo evangelico chiave delle beatitudini, considerando come un unico tutto le beatitudini dei poveri, degli afflitti e degli affamati. Le denominazioni si applicano ad una medesima categoria di disgraziati, dichiarati paradossalmente beati dal Salvatore. A queste tre beatitudini raffronteremo quella dei miti, che può intendersi in un senso molto vicino a quella dei poveri.

Nonostante alcune sfumature differenti, queste beatitudini hanno un medesimo senso generale. È evidente quel che le avvicina e quel che le distingue dalla beatitudine dei perseguitati per il Cristo: la felicità che promettono non è la conseguenza di una persecuzione subita per Cristo: sembra collegata soltanto alla condizione miserabile di tutta una categoria di individui, astrazion fatta, almeno a prima vista, da ogni rapporto speciale con la persona di Cristo. Diciamo a prima vista perché vedremo che anche queste beatitudini sono essenzialmente cristologiche: la felicità che esse promettono è quella che il Messia deve portare: proclamandoli beati, Gesù si presenta come il Messia.

Considereremo in primo luogo chi sono i beneficiari di queste beatitudini, poi cercheremo di mettere in evidenza la portata messianica delle dichiarazioni di Gesù.

I termini con i quali Gesù designa i privilegiati delle prime beatitudini poveri e miti hanno in primo luogo nel linguaggio biblico un senso generale e corrente: indicano la classe, sociale insieme e religiosa, dei «poveri di Jahvé». Gelin dice molto bene di chi si tratta: l’anaw è il piccolo, l’umile, l’oppresso, il disgraziato, il povero. Ma le sue prove l’hanno avvicinato a Dio, e, poiché di fatto la classe religiosa fu soprattutto la classe dei piccoli, i termini povero-pio-umile da una parte e ricco-peccatore-orgoglioso dall’altra finirono poco a poco con l’essere associati (Eccli 13,16-17; Sap 2,10). Allora il termine ‘anaw prese sempre più il senso tecnico di pio: gli ‘anawim sono i «clienti di Jahvé».

Potremmo illustrare questa definizione con numerosi testi biblici e post-biblici, ma non crediamo di doverci attardare a questo contesto che è ancora lontano da quello delle beatitudini. Alcune indicazioni basteranno.

Questi «clienti di Jahvé» per lo più sono chiamati (vedi specialmente i salmi) ‘aniyym, in greco ί, i poveri. La parola serviva dapprima, nella legislazione mosaica a designare coloro che non possedevano la terra, ed erano naturalmente, molto spesso dei poveri nel senso materiale della parola. A partire dall’esilio si vede la nozione di povertà congiungersi a quella di confidenza in Jahvé e confondersi più o meno con essa: povero e pio divengono nozioni pressappoco equivalenti.

Tra la parola ani e la parola anaw, resa in greco quasi sempre con πραΰσ mite, la differenza di significato, in ebraico, è minima. L’anaw non è il mite nel senso che ci è abituale di dolce o mansueto: è il debole (etimologicamente: colui che si curva), incapace di difendersi, di farsi rendere giustizia, costretto a sopportare tutto senza resistere. Ma anche qui il termine ha preso un valore religioso: gli anawim sono gli umili che non si curvano soltanto davanti agli uomini, ma anche davanti a Dio e alla sua volontà, per quanto dura sia per loro. Essi sanno di non essere altro che dei servi e perciò mettono tutta la loro speranza nel Signore che avrà pietà di loro.

È indubbio tuttavia che questi miti, di cui i traduttori fanno volentieri degli umili (ταπενοί, humiles) vanno ricercati nel medesimo ambiente sociale dei poveri. La loro dolcezza non è la moderazione dei forti, è la sottomissione e la pazienza dei piccoli e dei deboli. Situazione materiale e condizione sociale sono in loro pressoché identiche a quelle dei poveri e comportano sofferenze non solo materiali, ma anche morali e religiose. Tuttavia mentre il povero è più specialmente colui

che soffre del suo stato, il mite è espressamente colui che Io sopporta. Anawim e aniyyìm dunque quasi non si distinguono e insieme costituiscono la classe dei «clienti di Dio» opposta alla classe degli empi orgogliosi e oppressori.

Abbiamo visto che alla situazione materiale si associa, in questi «clienti di Jahvé» una disposizione interiore di abbandono e fiducia in Dio: non bisogna però spiritualizzare l’idea di povertà al punto di inglobarvi anche i ricchi, purché siano buoni ricchi. Ci sembra inaccettabile la conclusione di alcuni esegeti che tende a interpretare il termine anawim in senso puramente spirituale. (…)

In una concezione di questo genere i concetti di povero e di povertà si dissolvono integralmente. La povertà non resterebbe più neppure una disposizione ascetica particolarmente favorevole all’umiltà: non si caratterizzerebbe in alcun modo specifico, dal punto di vista religioso, di fronte alla ricchezza.

Bisogna invece affermare, per essere fedeli all’esegesi del testo biblico, che, se nel corso della sua storia l’idea biblica di povertà si è caricata di un senso religioso, per comprenderla occorre partire dal suo senso naturale e sociale. Se il termine povero ha preso un senso religioso, questo non può far dimenticare il suo primo senso: non tutti i poveri saranno dei clienti di Dio e l’umile confidenza in Dio potrà incontrarsi anche presso qualche ricco. Ma guardiamoci dal pensare che si possa spingere il paradosso fino a chiamare, secondo la Bibbia, povero il ricco umile e pio e ricco il povero arrogante. (…)

Nella condizione di questi poveri di Israele si riscontra sempre una frattura reale, una situazione di reale sofferenza e spogliazione: a partire dalla nascita del popolo nel crogiuolo della schiavitù d’Egitto, all’esilio babilonese, alle condizioni tragiche, tutt’altre da quelle sperate, del ritorno; e poi sempre l’insidia e l’oppressione dei grandi, dei potenti, dei latifondisti (v. Isaia), dei ricchi e le malattie.

Proclamando la felicità dei poveri Gesù dunque usa un termine il cui significato oscilla tra due poli: in senso sociale evoca la condizione della gente sprovvista di beni terreni; in senso religioso evoca le disposizioni morali di umile sottomissione e di assoluta confidenza in Dio. Si pone quindi il problema di sapere da quale angolo Gesù consideri la povertà che dichiara beata. Ha riguardo soprattutto al fatto della miseria sociale, oppure, mirando soprattutto alla pietà, vuole consacrare il trionfo di una forma di religione semplice e fiduciosa sul legalismo dei farisei? In altre parole, la beatitudine dei poveri è veramente la beatitudine dei poveri, nel senso corrente della parola, oppure bisogna vedervi la beatitudine di una certa categoria di gente pia e virtuosa? (…)

Ci pare molto giusto quanto dice A. Romeo: «È chiaro trattarsi (nei salmi e nella prima beatitudine) di povertà effettiva, quella che spaventa e scandalizza il mondano». Inutile dunque tentare di attenuare il contrasto tra messaggio evangelico e giudizio del mondo. Gesù parla a dei poveri, cioè a gente che soffre, e che soffre in ragione della sua povertà e delle privazioni che questa povertà comporta; a gente disgraziata agli occhi del mondo Egli annuncia la felicità in ciò che concerne il Regno. Volendo spiritualizzare sconsideratamente la povertà si toglie alla beatitudine il suo mordente. (…)

Perché si possa parlare di povero in senso biblico (e perché quindi si possa applicare la beatitudine evangelica) è sempre necessaria una situazione reale di privazione e di frattura. Necessaria, ma non sufficiente. Tale situazione deve essere accettata, o almeno non rifiutata con ribellione (anche se accompagnata coi lamenti del «giusto» Giobbe); accettata con una adesione almeno implicita e oggettiva, tale da consentire di non rifiutare il Cristo e il suo mistero operante appunto nella situazione crocifissa della povertà.

L’interpretazione della beatitudine dei poveri riceve luce dal confronto con altri due privilegi tipicamente evangelici: quello dei fanciulli e quello dei peccatori. (…)

Quel che si vede in loro [fanciulli] non sono le loro qualità, innocenza, semplicità, ecc., ma il poco che sono: esseri trascurabili, senza istruzione, disprezzati dai dottori della legge. Eppure il privilegio delle rivelazioni è per loro: non solo i sapienti non le ricevono, ma i disegni di Dio sono positivamente nascosti a loro.

Perché questa preferenza per i più piccoli? Forse per la loro umiltà? Senza dubbio essi si riconoscono piccoli e quantità trascurabile, mentre i sapienti si immaginano di essere sapienti; ma non è questa coscienza ch’essi hanno della loro piccolezza che Gesù indica come ragione delle rivelazioni: egli l’attribuisce unicamente al beneplacito (ευδοκία) del Padre. San Paolo insiste su questa medesima ευδοκία divina (1 Cor 1,21). I più piccoli sono più favoriti perché a Dio è piaciuto preferirli. Si tratta di una preferenza assolutamente gratuita che Egli ha per loro. Non neghiamo che essi siano i più adatti a ricevere il dono di Dio; nondimeno il dono resta un dono assolutamente libero da parte di Dio. Non è ricompensa, ma liberalità pura, dipende unicamente dall’ ευδοκία divina. Nella mentalità giudaica l’infanzia ha qualcosa in comune con la povertà: vi si annette una nota di disistima e di disprezzo. Quando Gesù propone ai suoi discepoli un bambino come modello non è perché essi imitino l’una o l’altra virtù dell’infanzia, ma perché abbiano l’umiltà di non volersi considerare più di quanto contano i bambini. La nozione di infanzia quale appare a noi non è dunque idealizzata come può esserlo quella di povertà: si estende però in certo modo a coloro che per la loro umiltà e dunque per una disposizione morale, somigliano ai bambini.

Il privilegio dei bambini in quel che concerne il Regno non è legato per nulla alle virtù dell’infanzia: non appare come una ricompensa che i bambini abbiano meritato. La vera ragione di questo privilegio si trova solo nel beneplacito divino. Dio si compiace di accordare i suoi doni a coloro che gli uomini giudicano meno degni. La lezione che si sviluppa da questo insegnamento non è direttamente morale, ma teologica: le preferenze divine si portano verso gli esseri umanamente diseredati. Il tema del privilegio dei peccatori indica un’altra direzione possibile: se vi sono dei privilegiati, dal punto di vista del Regno, è soprattutto perché la missione di Gesù li riguarda in modo più diretto. Se i traviati sono felici è perché Dio ha inviato il Figlio suo alle pecore smarrite; se i peccatori sono felici è perché Gesù ha per missione di portare loro il perdono e la salvezza. Questi traviati, questi peccatori, si trovano senza dubbio in disposizioni favorevoli per ricevere la salvezza, nel senso che prenderanno più facilmente coscienza della loro miseria e si apriranno alla misericordia divina. Ma queste disposizioni non basteranno a fare la loro felicità: bisogna che la salvezza sia loro portata. Se sono felici è perché è piaciuto a Dio di salvare gli uomini per pura misericordia, di salvare coloro che erano perduti.

Dall’indagine su queste altre due categorie di privilegiati possiamo concludere che, se esiste un insegnamento di Gesù che mette fortemente l’accento sulle disposizioni interiori richieste per essere ammessi nel Regno, questo insegnamento non è tuttavia quello della necessità di opere meritorie, e l’ingresso nel Regno non è presentato come una ricompensa.

Si tratta piuttosto di un insegnamento sulla misericordia del tutto gratuita di Dio, che si compiace di accordare la salvezza a coloro che, coscienti di esserne indegni, la riceveranno come un dono della sua misericordia. Parallelo a questo insegnamento, che inculca l’umiltà con la quale bisogna accogliere il Regno, si trova quello circa la predilezione di Dio per i diseredati e la missione che Gesù ha ricevuto dal Padre suo di salvare coloro che, secondo un giudizio puramente umano, sembrerebbe che non dovessero contare: i piccoli, i peccatori; gente, certo, più accessibile all’umiltà che non i pretesi sapienti e giusti, ma quest’aspetto morale cede di fronte ad un aspetto più teologico della dottrina della salvezza: la gratuità assoluta dell’elezione divina.

Queste considerazioni possono essere estese alla beatitudine dei poveri e illuminarla ulteriormente.

È possibile che di fatto il privilegio dei poveri ricompensi le loro virtù: in ogni caso sarà vero per i poveri in ispirito. Ma è proprio il merito dei poveri che interessa principalmente Gesù? Se ne può dubitare. L’insegnamento sul privilegio dei bambini mette in evidenza un punto di vista più teologico: le preferenze di Dio vanno a coloro che umanamente sono svantaggiati; delle situazioni che gli uomini considerano come le più disgraziate, Dio si compiace di fare le situazioni privilegiate per il suo Regno.

Analogamente, come per i peccatori sembra che più che le loro disposizioni interiori valga la predilezione della divina misericordia, a maggior ragione nel caso dei poveri bisogna mettere in evidenza non le disposizioni morali (di cui il testo non dice nulla), ma il fatto che Cristo è stato inviato a consolarli, perché Gesù ha per missione di portar loro la felicità del Regno.

Ma allora, per i ricchi non c’è salvezza? Alla domanda posta in questi termini non è possibile certo rispondere se non riaffermando la volontà e la potenza salvifica universale di Cristo: certo anche per i ricchi ci può essere salvezza.

Tuttavia è necessario fare due considerazioni. Innanzitutto questa risposta, si badi bene, risulta più da considerazioni generali circa la natura della salvezza cristiana che da una rivelazione specifica di Cristo circa la condizione dei ricchi. Tutte le volte che Gesù parla dei ricchi sottolinea piuttosto la difficoltà in cui essi si trovano di salvarsi. E questo sia quando propone esempi, come il ricco epulone — che, come è stato notato, non pare debba la sua infelice sorte finale al fatto di essere stato un cattivo ricco, denotazione che non risulta affatto dal testo — o come il ricco incauto e stolto a cui viene tolta la vita proprio quando si riteneva giunto al culmine del benessere e della felicità; sia quando propone insegnamenti espliciti. È sempre la stessa dottrina: per i ricchi la salvezza è assai difficile. Ai discepoli stupefatti del rigore di questo insegnamento Gesù non risponde attenuandolo ma solo dicendo che «tutto è possibile a Dio»: quindi la salvezza dei ricchi può considerarsi un miracolo.

In secondo luogo, e questo è il punto che maggiormente ci interessa, anche se la salvezza è possibile per i ricchi (in virtù della potenza miracolosa di Dio) essi però non sono beneficiari del privilegio di cui parlano le beatitudini. Essi sono esclusi dall’economia privilegiata assicurata da Gesù ai poveri che non si ribellano alla loro condizione di povertà.

I ricchi potranno anch’essi beneficiare di un’economia privilegiata di salvezza, ma soltanto in quanto entreranno, a dispetto della loro ricchezza, in altre categorie che sono proclamate beate:

le categorie di coloro che piangono e soffrono o dì coloro che sono perseguitati per la giustizia… Perché, in definitiva, è sempre la conformità a Cristo povero, crocefisso, perseguitato, che salva. Ma voler fare rientrare anche il ricco, sia pure umile, sia pure pio, sia pure abbandonato in ispirito alla volontà di Dio — ma finché è ricco, cioè finché non è stato morso in concreto dalla privazione, dalla disgrazia, dalla sofferenza — volerlo fare rientrare diciamo nell’economia privilegiata delle beatitudini, vuole dire svuotare il senso proprio delle beatitudini stesse, ridurre il contenuto teologico a puro contenuto morale, confondere i termini delle scelte divine, l’economia ordinaria della salvezza che privilegiatamene e normalmente passa attraverso le sofferenze e i patimenti reali con una economia straordinaria che solo in via eccezionale e in maniera miracolosa può salvare anche al di fuori di queste prove effettive. Per i ricchi non c’è la possibilità di attingere a questa più lauta mensa di grazia che è propriamente la benevolenza gratuita di Dio per i piccoli e i diseredati; che è, per esprimersi in termini più storicamente concreti, il disegno provvidenziale del Padre che fa del Verbo incarnato il Messia dei poveri. (…)

Per cogliere la portata esatta delle beatitudini che ci interessano non basta cogliere il senso esatto delle parole che designano gli infelici ai quali sono rivolte, e nemmeno precisare la natura della felicità loro promessa; importa soprattutto di vedere il riferimento di queste parole agli oracoli messianici di Isaia. È appunto il ricordo di questi oracoli che dà alle parole di Gesù la loro vera profondità teologica.

L’evangelo stesso ci mette sulla strada. Giovanni, in prigione manda a chiedere a Gesù se egli è colui che deve venire (ό έρχόμενοσ) cioè il Messia. Per tutta risposta Gesù dice agli inviati di andare a riferire quel che hanno visto. «Andate a riferire a Giovanni ciò che ascoltate ed udite: i ciechi vedono, gli zoppi camminano i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risuscitano. La buona novella è annunciata ai poveri; e beato colui per il quale io non sarò occasione di scandalo» (Mt 11,4-6; cf. Le 7,22-23). I miracoli operati da Gesù sono la sua risposta alla domanda di Giovanni Hanno un carattere messianico e si suppone che Giovanni non potrà ingannarsi. Ai miracoli Gesù aggiunge: «La buona novella è annunciata ai poveri» (πτωχοί εὐαγγελίζονται). Qui non è possibile nessun dubbio. Le espressioni così caratteristiche sono prese da Isaia, nel passo messianico del c. 61 che secondo Luca, 4,18-21, ha costituito il tema della predicazione di Gesù a Nazareth: […] (Is 61,1-3, LXX).

Non si può dubitare che facendo annunciare a Giovanni: «La buona novella è portata ai poveri» Gesù non abbia voluto evocare questo passo di Isaia. Gesù compiva una tipica opera del Messia. Bastava che Giovanni si rendesse conto del compimento della profezia per avere la risposta alla sua domanda: Gesù era veramente colui che doveva venire.

È proprio il contesto delle profezie messianiche di Isaia che dà alle beatitudini il loro significato. Gesù annuncia ai poveri che il regno di Dio è per loro. Così, come dice a Giovanni Battista, egli porta loro «la buona novella» di cui parla il passo di Isaia citato nella sua predicazione di Nazareth.

Il medesimo passo di Isaia, 61,1-3, spiega, dal punto di vista letterario, la beatitudine degli afflitti. In poche righe il libro di Isaia usa fino a tre volte il participio πενθοΰντες e dà per missione al Messia di consolare questi afflitti. I termini sono identici a quelli della seconda beatitudine.Il parallelismo tra le beatitudini e la risposta di Gesù alla domanda di Giovanni Battista invita a cercare nel medesimo contesto delle profezie messianiche di Isaia la spiegazione della beatitudine degli affamati; sembra che si trovi al capitolo 49:

Così parla il Signore:

Nel tempo favorevole io ti ho esaudito, nel giorno della salvezza ti ho aiutato. Ho fatto di te l’alleanza delle nazioni. Per risollevare il paese e farti erede dell’eredità devastata. Tu dirai ai prigionieri: uscite, e a coloro che sono nelle tenebre: venite alla luce. Su tutte le loro strade pascoleranno, in tutti i loro sentieri avranno il loro pascolo. Non avranno più fame (ού πεινάσoυσιν) né sete, il vento bruciante e il sole non li affliggeranno più… Dio ha avuto pietà del suo popolo, ed ha consolato gli umili del suo popolo (8-13, LXX).

Come il capitolo 61 anche il capitolo 49 è stato uno dei testi messianici fondamentali della chiesa primitiva. Non è dunque temerario ravvicinare i due passi, basandoci d’altronde sul procedimento che si è rivelato indispensabile per dare un senso alla risposta di Gesù agli inviati di Giovanni. Nell’un caso e nell’altro Gesù appare come colui che realizza queste profezie in cui la missione caratteristica del Messia è di portare la felicità e la gioia ai poveri, agli afflitti, agli affamati, agli infermi di ogni genere.

Il riferimento implicito, ma, a nostro parere, indubbio di tutti questi testi profetici precisi alle beatitudini permette di cogliere il fondo delle affermazioni di Gesù. Annunciando ai poveri i beni che erano stati promessi loro per l’era messianica, Gesù non li presenta solo come un giusto compenso delle loro sofferenze presenti; e nemmeno come una ricompensa della loro pietà fedele verso Dio o della loro fede in lui e nella sua missione. Le beatitudini non prendono direttamente in considerazione la situazione penosa dei poveri o le loro buone disposizioni. Esse vedono nei poveri i beneficiari titolari della missione affidata al Messia, i felici privilegiati dell’era messianica.

Sono proprio loro, i «poveri» e «miti», da molto tempo e in un senso tutto particolare, i portatori della promessa di salvezza, perché in essi si trova il vero popolo di Dio, e perché, contrariamente a coloro che hanno fondato la loro speranza su questo mondo, essi attendono la salvezza promessa da Dio al suo popolo come «la consolazione di Israele» (Lc 2,35; cf. 6,24; 16,25; Mt 5,4). (…)

Se i poveri sono beati è perché Gesù attribuisce a se stesso la cura di adempiere il compito specifico e caratteristico del Messia profetizzato da Isaia. Questo compito si definisce in rapporto ai diseredati del mondo. Annunziando loro che questo compito sta per realizzarsi, che già incomincia ad esserlo, Gesù si presenta come il Messia dei poveri descritto dagli oracoli del grande profeta. (…)

L’esposizione fatta fin qui si è in sostanza limitata alla definizione, quasi esclusivamente esegetica, di due dati rivelati:

— la condizione di privilegio, nei confronti della salvezza, dei poveri (nel senso pieno di poveri a un tempo in fatto e in ispirito) cioè di coloro che sono in una situazione reale di povertà accolta o almeno non respinta con ribellione;

— e il fondamento propriamente teologico, non solo etico, di questo privilegio, connesso intimamente con la natura stessa della messianicità di Cristo, espressione del gratuito disegno provvidenziale di Dio.

Abbiamo così stabilito il dato: si dovrebbe aprire ora il discorso più teologico, in molteplici direzioni.

Anzitutto circa la natura di questo privilegio e il suo rapporto inscindibile con la persona di Cristo e il suo mistero; e quindi, e qui è il più, sulla natura stessa del mistero di Cristo, non solo Messia dei poveri ma Messia povero, e Messia dei poveri in quanto Messia povero; circa la preesistenza di questo disegno in tutta la storia della salvezza: nella predilezione con cui Dio si è rivelato non solo ai poveri, ma nei poveri, portatori anche prima di Cristo, ma già nel Cristo, di un mistero di salvezza (il popolo di Israele scelto perché povero e schiavo; le sterili divenute madri dei figli della promessa; il «servo di Jahvé» nella sua duplice accezione di Messia e di popolo, ecc.).

E ancora si dovrebbe indagare circa le estensioni ecclesiologiche di queste due caratteristiche di Gesù, Messia dei poveri e Messia povero: cioè la chiesa in quanto depositaria della missione messianica di Gesù, la chiesa prolungamento del mistero della kenosi del Verbo, non può non essere anzitutto e privilegiatamente, nel senso ormai chiaro, la chiesa dei poveri, in due modi: cioè come chiesa prima di tutto dei poveri, destinata ai poveri, mandata per la salvezza dei poveri; e d’altra parte come chiesa povera che, come il Cristo, non può salvare se non quello che assume, cioè non può salvare prima di tutto i poveri, se non assume la povertà.

Ma tutto questo amo lasciarlo alla vostra, meglio, alla nostra meditazione!

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  1. I poveri, la Chiesa e la Teologia, p.55, in Deporre i poveri dalla croce, testo elettronico edito dalla Commissione teologica internazionale della Associazione ecumenica dei teologi/ghe del Terzo Mondo
  2. Qp. cit., pp.56-57)