Lettera 9 (Prima Serie)

Introduzione

Cari amici,ci eravamo impegnati, tempo addietro, a riflettere su alcuni atti compiuti periodicamente dal papa nella sua qualità di vescovo di Roma.In particolare ci eravamo riproposti di tornare a parlare della visita di Paolo Via S. Agapito al Prenestino la mattina di Natale, dopo averne accennato nel numero di gennaio de “la tenda”.

Lo facciamo ora, cercando di collocare l’avvenimento in un contesto genuinamente ecclesiale e sforzandoci di mettere in chiaro le implicazioni che il gesto del papa comporta, perché la comunione nel seno della chiesa locale di Roma possa riacquistare un significato pieno, sostanziandosi dei valori della giustizia e della fraternità. E poiché riteniamo che questi valori vanno vissuti nel concreto e riaffermati in tutti i modi nel momento in cui sono ignorati ed oltraggiati da altri sentiamo la necessità di affrontare il problema che più è segnato oggi dall’ingiustizia e dall’egoismo, e che è alla base della stessa visita del papa.

E per essere vicini in modo fattivo a coloro che vivono in abitazioni indegne di questo nome, crediamo si debbano aiutare i fratelli che ci leggono, cosa che facciamo fin da questo numero, a cogliere le radici più profonde del problema, a comprendere la portata del fenomeno e ad individuare forme personali di impegno.

Perciò il miglior augurio che possiamo formulare a tutti per la Pasqua è che la conversione alla quale ci stimola lo sconvolgente avvenimento della morte e risurrezione di Cristo si realizzi nel vivo delle ansie, delle incertezze, delle contraddizioni e delle attese dell’uomo d’oggi.

Fraterni saluti gli amici de “la tenda”

Il Natale Del Papa A S. Agapito Al Prenestino

Il 25 dicembre 1969, alle otto del mattino, il nostro vescovo il Papa ha celebrato l’Eucaristia nella chiesa della borgata Predestina, parrocchia di S. Agapito.Erano presenti circa quattrocento persone e tra queste un centinaio di abitanti delle baracche.

Il Papa ha 9 incontrato la sua chiesa locale. Non avviene spesso. E noi con calma abbiamo cercato qualche pensiero ed ora, a tre mesi di distanza, lo condividiamo con gli amici.

Il giorno di Natale ogni comunità cristiana è raccolta in preghiera; il vescovo ovviamente è presente in una sola di esse.La scelta che compie può essere indicativa, può rappresentare una preoccupazione, un riconoscimento, una evidenziazione, un richiamo.E’ ormai tradizione che la scelta del giorno di Natale si ispiri all’Incarnazione di Gesù nel suo aspetto di partecipazione alla povertà dell’uomo, e si orienti quindi verso quelle situazioni che maggiormente richiedono la Incarnazione rinnovatrice (redentrice, direbbe uno scrittore del tempo della schiavitù) del Signore e della sua chiesa.

Era particolarmente usanza esser presenti alle disgrazie della natura negli ospizi, negli ospedali,nei ricoveri, come per indicare alla coscienza cristiana una possibilità, un dovere di impegno.

Ma per la seconda volta consecutiva il papa non si è presentato a situazioni che avessero origine nelle forze inevitabili della sorte bensì a situazioni che, radicate nel tessuto sociale, hanno non solo una generale collocazione nel mistero della Incarnazione nel senso suddetto, ma permettono altresì e richiedono una precisa analisi sociale e storica.Natale 1968: a Taranto in una fabbrica; Natale 1969: in una grande borgata romana.

Non è la stessa cosa entrare in un ospedale o in una borgata. Nell’ospedale, nell’ospizio dei vecchi, c’è da impostare una riflessione sulla terapia sociale, un invito alla pazienza, un incoraggiamento a far di più, a far meglio, a fare per tutti, a fare con amore ecc.Ma si cammina al sicuro:l’ospedale già da sé è una cosa buona.

La borgata no: è una piaga aperta nel corpo della città ed entrarci dentro e domandarsi con chiarezza di uomo dov’è la causa da evidenziare, dove la responsabilità da cui dissociarsi e che occorre contrastare. E per non perder tempo diremo subito: per un vescovo è liberare le forze della comunità che sono pronte ad agire, garantire che lo sforzo dei singoli è richiesto e persino già acquisito della comunità tutta.

Il primo senso della presenza del Vescovo all’Eucaristia della borgata romana è per noi questo:

la comunità cristiana di Roma, oggi, 1970, accetta di misurarsi sulle borgate della città come il Samaritano accetta di regolare il suo viaggio sulla necessità del fratello che trova ferito lungo la via.

E’ una pia interpretazione di comodo la nostra? Una esortazione o un desiderio da far magari risalire al papa? E’ di più. Una analisi dei fatti, sia pure benevola, ci fa abbastanza certi che la

Venuta del papa nella borgata è il segno di una decisione già presa si tenga presente che dal 1968

( Natale e Taranto) il problema dei preti-operai ( e diremo meglio degli operai- preti)è sbloccata ed in Italia circa 100 preti lavorano abitualmente. E si sappia che dal 1969 alcuni preti romani vivono nelle borgate condividendo abitazione e problemi dei baraccati. Coincidenze? Non crediamo.

Anzi diamo atto al papa di aver agito in maniera ecclesiologicamente ineccepibile portando al momento giusto la comunione del vescovo all’iniziativa spontanea dei suoi preti da lui inviati né, finalmente, ostacolati.

Ma più che l’appoggio di questi fatti ci sostiene la rigidità delle implicazioni teologiche delle azioni compiute.Chi non legge in chiave ecclesiale non comprende, e cercherà di capire dalle interpretazioni e reinterpretazioni ufficiali, ufficiose, autorizzate, di agenzia, di stampa.Ma il Vescovo nella borgata, partecipante ad una comunità,purtroppo piccola, di baraccati è un fatto teologicamente irreversibile e non passibile di interpretazioni limitative, che significa elevazione di una problematica reale al livello cosciente della chiesa-diocesi, e legittima le forme di vita cristiana come di fatto le ha trovate.

Tutto il resto è politica, diplomazia, più o meno prudente tentativo di stemperare il significato dell’azione. Gli atti hanno una loro eloquenza, ed il contesto ecclesiale una sua consequenzialità.

Un atto posto ecclesialmente (nel caso la comunione con la “tale” comunità)ha sue dimensioni e conseguenze che non è in facoltà di nessuno richiamare.

Così premendo dal basso il problema delle borgate romane (e quindi della loro conoscenza, della individuazione delle responsabilità, della dissociazione di responsabilità, della estromissione dei responsabili della comunità) è ormai un problema della comunità tutta.Ciò vuol dire cose diverse ai diversi livelli.Per il cittadino-cristiano vuol dire che deve che deve porre anche questo problema al-

l’ordine del giorno della sua coscienza se vuole essere della comunità. Per il presbitero vuol dire che deve sintonizzarsi anche su questo problema per poter portare la sua comunità di base ad una vera “ortodossia” e reale “comunione” con le altre comunità di base della diocesi.

In questo stesso numero de La Tenda, noi diamo seguito all’impegno già intrapreso (cfr: La Tenda n° 7 pag. 9) di aiutare noi stessi ed i nostri amici ad acquisire una conoscenza più precisa delle situazioni, in vista della autonoma azione personale , civile e politica di ciascuno. Premettiamo come considerazione generale che non dobbiamo ricadere nel vizio dello scoprire sempre e solo i doveri degli altri, nel caso nostro dei preti e del vescovo. In base a quanto espresso più su noi pensiamo che il vescovo in quanto tale abbia già fatto parecchio del suo dovere dimostrando con la “comunione” di Natale la sua posizione.Quanto al clero aspettiamo di poter raccogliere nella città le prove di un reale movimento delle comunità di base con il loro presbitero nella direzione di una partecipazione organica allo schieramento dei poveri.La parola è a noi, singoli laici del popolo di Dio, e questo non ci pare impegno atomistico, ma anzi necessario elemento anche per il cammino delle comunità di base e di quella diocesana.

Acquisita questa dimensione laicale e comunitaria-di-base , ripetiamo, noi de La Tenda. Ci impegniamo a favorirne lo sviluppo sul piano della pubblicazione di elementi di fatto.

Ma se così ci sentiamo un po’ al sicuro dall’accusa di scrivere cercando alibi e dall’accusa di scrivere nello spirito di attesa miracolistica delle soluzioni dall’alto (che rimproravamo a noi cristiani di Roma, cfr.La Tenda n°8 pagg.3-4)sentiamo però di dover tornare a riflettere sull’azione del vescovo. Perché nel fatto che andiamo considerando (le borgate di Roma) accade che una responsabilità personale pesi sulle spalle del papa. Su questo aspetto singolare della questione, il vescovo questa volta non è solo il momento unitivo o di confronto delle diverse posizioni dei cristiani, ma ha, è, una precisa posizione egli stesso.Su ciò riflettiamo qui di seguito.

Camminiamo, anzi sorvoliamo un terreno vietato alle rilevazioni diciamo così…private, una sorta di “zona militare”.Il parlarne ci espone alla facile accusa di non essere né competenti , né a conoscenza della vera entità dei fatti o delle loro motivazioni.Ma il mistero non dipende da noi.

Sul collegamento della diocesi-struttura con le forze economiche che provocano e mantengono le borgate non è la nostra pigrizia che ci tiene lontani dal la conoscenza del reale. E dobbiamo ragionare in base ai racconti dei Marco Polo che la sanno lunga sull’oriente; le loro testimonianze sono numerose, sono incredibili, ma pure ami smentite vengono ormai raccolte come verosimili approcci della verità. Ed in base ad esse noi dobbiamo pensare, per dare alla comunione del papa nella borgata un significato che non può non esserci. Il discorso è essenzialmente il seguente, la situazione della borgate è legata: 1) alle speculazioni edilizie (altissimo costo dei terreni, prezzo alto delle case) 2) allo sfruttamento del lavoro (bassi salari) 3) alla gestione politica che ha prodotto mancanza pressoché totale di servizi a livello tollerabile per chi non se li procura da sé (scuole pubbliche, trasporti pubblici, piani urbanistici, assistenza immigrati, pensione ed ospedale per i non mutuati, verde pubblico).La struttura diocesana partecipa dall’interno le matrici di queste situazioni:

  1. speculazioni sui terreni: proprietà antiche della chiesa, investimenti fondiari più recenti;
  2. sfruttamento del lavoro:partecipazione massiccia alle società di costruzioni operanti in Roma;
  3. gestione politica: appoggio assoluto e collaborazione al regime fascista prima e alla democrazia cristiana poi, sotto le amministrazioni dei quali tutto quanto detto è potuto accadere senza disturbi.

Allora, se quelle sono le cause e queste le forze, se la chiesa-struttura è tanto collegata con le matrici della situazione che il vescovo è venuto a partecipare, ecco la domanda,quale è dunque, sotto questo aspetto,il significato della visita del papa?

Ebbene noi pensiamo, dobbiamo pensare, che proprio perché il papa è consapevole di tutto quel che dicevamo, la sua presenza nella borgata non può che significare: “Per quanto sta in me, ora basta”. Ogni altra interpretazione del suo atto di comunione c’è assolutamente proibito.

Noi difendiamo per ogni cristiano il diritto di scegliere il modo ed i tempi di esecuzione del suo carisma, e lo difendiamo anche per il papa.Noi riconosciamo il suo coraggio nel presentarsi alla Messa nella borgata sotto il peso delle colpe ereditate. E ci basta il valore ecclesiale (nel senso detto più su) della sua presenza. Ma non può bastare a Lui nella misura in cui le responsabilità sono Sue e la possibilità di agire è reale.

Ripetiamo, anche il papa ha il diritto di misurare le sue mosse con tutta la prudenza che crede.Ma se per togliersi l’armatura di Saul non ci vorranno tanti anni quanti ce ne sono voluti per rivestirsela potremo congratularci col nostro vescovo.Altrimenti non lo giudicheremo, ma il giudizio sospeso non darà alla comunione con Lui quella gioia che il popolo aveva al ritorno del libero David, vincitore del gigante.”E le donne nelle loro danze alternavano in coro : Saul (l’astuto) ha ucciso i suoi mille, ma David ( lo sprovveduto) diecimila.

Il Sottosviluppo Urbano Di Roma

Contributo ad una conoscenza sommaria della situazione urbanistica di Roma.

  1. Considerazioni generali.

Roma è terra di speculazione e di rapina: gli edifici crescono affiancati gli uni agli altri in assurda, avvilente monotonia; la circolazione è sclerotica, confusionaria, irrazionale; centinaia di migliaia di persone vivono in insediamenti abusivi, senza alcun servizio; decine di migliaia trovano rifugio in baracche, il centro storico è svuotato dei suoi valori architettonici e culturali; gli ospedali sembrano lazzaretti; i rumori incessanti ledono i centri nervosi; le scuole somigliano alle prigioni; il paesaggio viene continuamente cancellato.

E’ in questo contesto generale che si deve affrontare il problema del sottosviluppo urbano (e quindi dei baraccati), se si vogliono afferrare le cause del fenomeno, oltre che la sua dimensione. Questo perché tutte le manifestazioni della vita di una città sono strettamente interdipendenti e spesso derivano da una matrice comune.

In verità un serio approfondimento dei problemi urbani di Roma e di tutte le grandi città italiane, richiederebbe una accurata valutazione della politica economica e sociale a livello nazionale. Poiché molti fenomeni negativi che si sono manifestati recentemente nei grandi agglomerati urbani derivano dalla mancata soluzione dei problemi nazionali (migrazioni interne, concentrazione delle localizzazioni industriali ecc.).

In questa sede ci limiteremo però a trattare il problema del sottosviluppo urbano di Roma in alcune sue manifestazioni (specificamente quello degli abitanti delle baracche) inquadrandolo nel contesto urbanistico generale.

Per rendere equilibrato lo sviluppo di una città, e per non svuotarla delle sue funzioni essenziali, si debbono tener presenti quello che sono le esigenze psicologiche e biologiche dei suoi abitanti. Così le abitazioni debbono essere disposte in modo da ricevere i raggi del sole per un certo numero di ore durante la giornata; debbono essere distanti dalle vie di comunicazione per ridurre al minimo gli effetti negativi dei rumori meccanici sul fisico; gli insediamenti, accanto ai servizi primari (fognature, strade, acqua, elettricità), debbono disporre di una vasta gamma di servizi secondari (scuole, centri culturali, parchi, ospedali, centri comunitari, ecc.) che permettono una valorizzazione delle aspirazioni e delle tensioni dei vari gruppi sociali. Anche l’equilibrio ambientale deve essere salvaguardato in tutte le sue manifestazioni: nella fisionomia del paesaggio, che dà all’uomo un senso di appartenenza, nella sopravvivenza di tutte le specie animali e vegetali, dalle quali dipende a sua volta la vita stessa dell’uomo. I disastri di Firenze, Agrigento, Napoli e Venezia sono esempi perfetti della interdipendenza esistente tra le altre forme di vita e quella umana. Riassumendo tutto ciò, Le Corbusier amava parlare di una urbanistica che pone quale parametro fondamentale per ogni decisione l’uomo e i suoi bisogni.

Ma a Roma, come in quasi tutte le grandi città italiane, le scelte urbanistiche sono state determinate da molti fattori: il profitto, il prestigio, la grandiosità. Un unico fattore non è mai entrato nelle valutazioni: l’uomo.

Anche per i più conservatori è difficile negare che nella capitale l’obiettivo fondamentale dell’attività edilizia sia stato quello della massimizzazione del profitto e che la produzione di alloggi ha seguito le leggi economiche di un qualsiasi prodotto industriale.

Il processo di degradazione urbana è stato però accentuato dalla condizione oligopolistica del mercato fondiario (anche questa, si badi bene, è una condizione comune alle altre città italiane). L’oligopolio collusivo è stato in grado di condizionare ogni scelta in campo urbanistico: dalla ubicazione dei centri direzionali all’assetto generale della città, dalla qualità degli insediamenti ai prezzi di affitto e di vendita.

Nove proprietari fondiari (Società Generale Immobiliare, Vaselli, Federici, Gerini, Lancellotti, Gianni, Scalera, Barberini, Talenti) hanno saccheggiato, incontrastati, la pianura romana, trasformandola in un assurdo cantiere che aveva (ed ha) un unico obiettivo: riempire ogni spazio ancora vuoto con altri edifici. Il risultato della “politica” seguita è un disastro urbanistico senza precedenti. Due metri quadrati di verde per abitante (e l’assurdo è che Roma è la città più ricca di verde in Italia), meno di un terzo del minimo richiesto per salvaguardare la salute dei cittadini. Così, il 50% dei ragazzi che frequentano la scuola dell’obbligo presenta un grado più o meno accentuato di paramorfismo (dati accertati dal Centro di Fisioterapia, mediante un campionamento). I ragazzi sono costretti a giocare in mezzo alle strade, tra le immondizie, sui terreni non immediatamente edificabili, o a restare prigionieri nelle loro case, prive di sole, assordanti, con cubature medie inferiori della metà al minimo richiesto negli altri paesi.

Ma non sono solo i bambini a soffrire. In poche zone di Roma i rumori scendono al di sotto dei 90 decibel. Ciò significa che poche zone sono in grado di garantire un livello di rumorosità non dannoso alla salute, con gravi effetti sull’udito e sul sistema psico-emotivo.

La natura classista della città diventa palese nel momento in cui esaminiamo gli strati sociali che vivono nei diversi insediamenti. Tiburtina, Casilina, Prenestina, Tuscolana formano il grande triangolo degli insediamenti popolari. Salario, Nomentano, Monte Sacro, Prati e Aurelio sono destinati alla media ed alla bassa borghesia. Vigna Clara, Parioli, Monte Mario ed Eur all’alta borghesia. L’Appia Antica, Grottarossa ecc. le isole di pace dei ricchi.

Data questa realtà, è difficile pensare ad una integrazione futura delle diverse classi sociali.

Ma la devastazione in atto non può essere attribuita esclusivamente alla classe imprenditoriale. Gravi sono, infatti, le responsabilità del potere politico. Il servilismo di più di una amministrazione comunale (e qui il giudizio coinvolge anche le forze ecclesiastiche che hanno appoggiato ad occhi chiusi (?) i partiti al timone) nei confronti dei grandi proprietari fondiari è cosa troppo nota per doverci tornare sopra. Monte Mario, Casal Palocco, Monte Sacro, il centro storico, ecc. Miliardi su miliardi regalati agli speculatori. Il piano regolatore del 1962, legge dello Stato, fa la stessa fine dei precedenti. Esso pone troppi vincoli alla proprietà fondiaria per trovare applicazione. L’espansione a macchia d’olio, la sola in grado di garantire un continuo accrescimento della rendita assoluta e della rendita differenziale, rimane l’unico criterio effettivamente seguito. L’asse attrezzato, che avrebbe potuto contrastare questo sviluppo suicida, a dieci anni dalla sua accettazione come opera prioritaria, deve essere ancora progettato.

Gli insediamenti pubblici, scarsi, qualitativamente arretrati, vengono assegnati con i soliti metodi clientelari. Anzi, talvolta, essi sono realizzati in modo da valorizzare terreni che sono rimasti al di fuori del gioco speculativo. Decine di miliardi riscossi dai lavoratori e dai datori di lavoro giacciono inutilizzati, allo scopo evidente di favorire i devastatori e gli speculatori. Tutte le leggi dello Stato vengono metodicamente calpestate. Mentre si continuano a riscuotere regolarmente tutte le imposte dei salariati fissi, la legge n. 246 del 1963 (come la precedente n. 355 del 1935) che impone la riscossione di una aliquota del plusvalore dei terreni creato dai nuovi insediamenti, per finanziare la costruzione di alloggi popolari, viene accantonata. Su terreni che hanno subito incrementi del 150.000 % non viene riscosso un solo centesimo.

Mentre i miliardi regalati agli speculatori si accumulano, i costi dei servizi primari crescono vertiginosamente. Il Comune di Roma prepara il proprio funerale finanziario. I servizi secondari vengono praticamente dimenticati, tanto sarebbero irrealizzabili.

E’ in questo contesto che mezzo milione di persone, per sfuggire alla taglia oligopolistica, si costruisce delle casette, dopo aver comprato dei terreni agricoli da lottizzatori abusivi.

Nascono così le borgate abusive. Gli agglomerati di case che si incontrano, per esempio, lungo o fuori del raccordo anulare.

Dove mancano tutte le strutture essenziali ad una vita civile.

E quanto costeranno i servizi pubblici (scuole, trasporti,ecc.) per questi insediamenti ormai ineliminabili?

Ma non tutti sono così fortunati da poter costruire una casetta, o da poter comprare un lotto di terreno. Così, dalle 40 alle 50 mila persone si rifugiano nelle baracche, nei dormitori, nelle pensioni comunali. Sono i “baraccati” propriamente detti. Su di loro concentreremo la nostra attenzione, dopo aver fatto appena un doveroso accenno al contesto generale.

(continua)

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