Lettera 8 (Seconda Serie)

 

Cari amici,

in questa lettera continuiamo la pubblicazione dei testi del Convegno “I poveri e la chiesa” che, come sapete, si è svolto presso la Parrocchia dei SS. Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela, Roma il 13 ottobre scorso.

Pubblichiamo ora il testo dei quattro interventi dei gruppi che hanno presentato le loro esperienze di condivisione con i più poveri.

In questo modo, come già scrivemmo nella presentazione del convegno, vogliamo dare seguito ad una impostazione che ha sempre contraddistinto il nostro lavoro, sia nella prima lunga fase, quella che sotto la guida di Nicolino Barra è durata dal 1969 fino al 1986, sia in questa nuova serie, unendo allo studio teorico la pratica condivisione di esperienze di vita.

La prossima lettera sarà dedicata ad un altro grande testo di Lercaro che abbiamo avuto modo di analizzare insieme nel convegno, quello della conferenza tenuta a Beyruth il 12 aprile del 1964 e alla relazione tenuta da Francesco Cagnetti “Le analisi e i risultati del gruppo de “La Chiesa dei Poveri” nel Concilio Vaticano II°”.

Nella lettera successiva vorremmo pubblicare le osservazione e le lettere ricevute dai nostri lettori, valorizzando così quella dimensione dialogica che è sempre presente nel nostro lavoro. Anche per questo vi invitiamo a mandarci le vostre osservazioni.

Come sapete non prevediamo un abbonamento per il ricevimento di questa nostra lettera in modo da non limitarne la diffusione, le spese di stampa e di spedizione infatti sono contenute. Ogni partecipazione a queste spese sarà comunque gradita, il nostro Conto Corrente Postale è il 045238177 intestato a Francesco Battista

Nota di servizio: come già abbiamo scritto queste lettere dedicate agli Atti del Convegno “I poveri e la chiesa” ci servono anche come test per l’indirizzario sia postale che elettronico, per cui invitiamo chi riceve questi testi a darci un segno di gradimento. Dal n° 10 le lettere saranno spedite solo a chi ne avrà fatto richiesta.

Sommario della 8° lettera:

  1. Comunicazione dell’Associazione Lavoro Vagabondo di Roma
  2. Comunicazione dell’Associazione S. Pancrazio di Cosenza
  3. Comunicazione della Casa di Accoglienza “Casa Ruth” di Caserta
  4. Comunicazione della Casa Famiglia “Il Tamburo di latta” di Salerno

Comunicazione dell’Associazione “Lavoro Vagabondo” di Roma

CaterinaMonticone

Prima di iniziare volevo, non per forma, ma con grande sincerità, ringraziare di questo invito, anche a nome di Angela e di Ornella. Siamo state molto contente questa mattina di ascoltare le cose che abbiamo ascoltato. Qui si sono davvero ascoltate cose illuminanti; almeno questa è stata la nostra sensazione.

Vengo alla nostra piccola esperienza. Io mi chiamo Caterina, ho 44 anni, sono una mamma, una casalinga. Da qualche anno faccio la volontaria e sono socia della La. Va.. La. Va. sta per “lavoro vagabondo” ed è un’Associazione che nasce, da Statuto, il 9 ottobre 1995. Vorrei però qui illustrare brevemente quello che è stato il percorso per arrivare alla costituzione anche formale dell’Associazione. Il quartiere in cui noi operiamo è il quartiere Aurelio. Tra la gli anni ’60 e la fine degli anni ’70 il quartiere Aurelio si è sviluppato moltissimo. Negli anni ’60 era un quartiere quasi di campagna; ma di fatto, alla fine degli anni ’70 da quartiere periferico è diventato un quartiere centrale. Adesso c’è la metropolitana. E’ un quartiere di grande passaggio. Sta tra Primavalle e San Pietro. Anni fa a Primavalle c’era un dormitorio, e quindi i poveri transitavano spesso lungo questo tragitto che portava da Primavalle a San Pietro. E’ un quartiere di grande attivismo, sia nelle parrocchie sia in altre associazioni.

La nostra realtà nasce nella piccola chiesa di San Leone, che è a via Boccea, dove c’è una comunità che ha cominciato ad operare negli anni ’70. Io ne faccio parte da meno di sei anni, e dunque racconto un po’ quello che a mia volta mi è stato raccontato… Fino al 1986 il rapporto con i poveri era un rapporto occasionale. C’era la consuetudine, prima della messa del sabato mattina, di andare a dare un obolo, qualche moneta, al gruppetto di poveri che transitavano lì nella zona. Era un gesto spontaneo, ma quasi occasionale. In quell’anno la comunità che risiedeva a San Leone ha cominciato a riflettere, a fare un percorso. Riflettendo intorno a quel gesto del sabato mattina, la cosa proprio evidente che è uscita fuori è stato il fatto di cominciare a pensare che non si dovesse uscire dalla chiesa per andare a dare qualcosa ai poveri, ma che si poteva cominciare a pensare di far entrare i poveri nella chiesa e di fargli trovare un’accoglienza, un abbraccio, un incontro con qualcuno. La prima cosa che è nata da questa idea è stata una colazione, il sabato mattina, offerta inizialmente ad un gruppo di 30/40 persone da non più di 6/7 volontari. C’era proprio l’idea di far entrare i poveri all’interno dei nostri luoghi, della nostra chiesa; e quindi offrire del cibo, ma offrire soprattutto un contatto umano, offrire un’amicizia, offrire un incontro caloroso. Insieme alla colazione è nata l’idea di distribuire dei pacchi con generi alimentari, prodotti igienici e altre cose. Questo nell’86. Dopo di che la comunità ha fatto il suo percorso, è andata avanti. Nel ’93 si è cominciato a pensare di fare un piccolo giornalino insieme con alcune di queste persone, “Il Barbone Vagabondo”. C’era un gruppo di una quindicina di barboni (venivano definiti così) insieme ad alcuni volontari. E’ stata un’esperienza che ha permesso di conoscere personalmente questi poveri, di passarci del tempo insieme, di conoscere le loro esigenze. L’idea era, prima di tutto, quella di farli esprimere e poi di fare in modo che fossero loro a raccontare al quartiere la loro condizione, la loro esperienza. Oltre al giornalino è nato un centro d’ascolto, quindi un tentativo proprio di avere un rapporto individuale con ognuno di loro, prendendo nota in modo dettagliato delle loro richieste: chi aveva l’esigenza di trovare un lavoro, chi aveva l’esigenza di vestiti, e così via. Comunque si creava un momento di dialogo interpersonale tra volontari e poveri. E così pian piano sono fiorite una serie di nuove attività.

Nel ’95 nasce formalmente la “La. Va. Lavoro Vagabondo”. Nasce con queste persone che già erano conosciute. E con una serie di riflessioni. La prima, importante, era che gradualmente scendeva l’età di queste persone. Mentre fino a qualche anno prima le persone che venivano a contatto con noi erano un po’ più avanti con l’età – 50, 60 anni -, rapidamente l’età era scesa tra i 30 e i 50, cioè persone nel pieno della loro esperienza di vita e con la necessità proprio di realizzare la loro dignità, la loro individualità. E quindi lì nasce l’idea della “La. Va. Lavoro Vagabondo”, come realtà per dare lavoro ad alcune persone, e perciò porsi quasi come una sorta di intermediari, di tutori e anche di garanti nei confronti di chi ci chiedeva manovalanza di vario genere. L’intento non era più quello di dire io ti regalo qualcosa, io ti assisto, io ti do qualcosa perché voglio aiutarti; no, io cerco insieme a te di fare un percorso affinché tu possa trovare la tua dimensione e venir fuori come persona dignitosamente compiuta. E quindi c’è stato il tentativo anche di fare dei corsi di formazione, di promuovere una crescita, di tirar fuori le risorse là dove c’erano delle risorse ma magari un’esperienza di vita particolare aveva portato a risultati apparentemente fallimentari tutti da verificare. Questa è stata la nascita vera e propria dell’Associazione, il tentativo più grosso di dare una risposta proprio sul territorio a queste esigenze.

Vi dico solo due numeri per darvi un’idea. Nel ’98, su otto collaboratori, avevamo 1.346 ore lavorate. Nel 2005 siamo arrivati a 11.768 ore di lavoro, con 12 collaboratori. Per noi è stato un bel risultato. Naturalmente i collaboratori non sono sempre stati gli stessi; qualcuno ci ha abbandonato, altri sono subentrati. E’ un discorso, questo, insomma, da gestire sempre con molta elasticità, con il desiderio di accostarsi alle loro esigenze, dunque, e non a un programma, a un’idea compiuta.

Successivamente, nel 2000, insieme ai collaboratori e sempre per con l’Associazione, nasce il Centro di Igiene Personale, che è un’altra attività che portiamo avanti sul territorio e che, secondo noi, è fondamentale. Abbiamo due box doccia, dove per tre giorni alla settimana si alternano le persone. Vengono a fare la doccia il lunedì, il mercoledì e il venerdì. Diamo 12 numeri, ogni volta; e loro possono anche avere un cambio di biancheria pulita. Al di là dell’utilità materiale di questo servizio, il discorso è di cominciare a pensare alla propria pulizia. Stare bene nei propri vestiti è già il segno di un percorso che poi andrà avanti e si svilupperà.

Ecco, queste sono le cose più significative che vi posso raccontare.

C’è un’ultima apertura che stiamo cercando di fare, e che è più culturale rispetto a questi interventi, però ha anch’essa una radice molto pratica. Nasce da una situazione che ci è capitata. Di fronte alle docce c’è una scuola elementare, e, ovviamente, ad un certo punto hanno cominciato a girare delle voci… I genitori dei bambini si lamentavano perché la mattina alle otto e mezzo, portando i bambini a scuola, trovavano persone ubriache o sporche o comunque che davano fastidio, davanti alla scuola. Non abbiamo mai capito se fossero lamentele reali, o se qualcuno avesse necessità di utilizzare questa cosa. So che nel Consiglio di istituto non si è mai parlato di questa cosa. Però la voce che girava era che i genitori si fossero lamentati. Allora abbiamo preso la palla al balzo e abbiamo detto: bene, andiamo nella scuola e proponiamo degli incontri con i bambini e con i genitori per parlare della diversità, per parlare degli immigrati, per parlare del disagio sociale e quindi dei barboni. Abbiamo trovato un dirigente scolastico e delle maestre molto disponibili e abbiamo portato nella scuola uno dei barboni e un immigrato africano e li abbiamo fatti dialogare. E’ stato un esperimento nato da un’esigenza pratica. Da lì abbiamo deciso di cominciare a fare anche queste cose, nel senso che ci piacerebbe riuscire ad entrare in più scuole, soprattutto in scuole elementari, dove ci sono bambini molto piccoli, perché siamo convinti che la sensibilità e poi la capacità di accostarsi alla povertà e tutto ciò che ne deriva – e qui stamattina ne abbiamo sentito parlare a lungo -, secondo noi è un valore importante. Questa è una attività che è appena iniziata, ma su cui vorremmo spenderci assolutamente.

Angela Taverna

Sono un po’ emozionata. Saluto tutti. E vi ringrazio perché questa mattina qui ho ascoltato delle cose molto importanti. Anche io, da 4/5 anni, faccio parte del gruppo dei volontari di S. Leone. Partecipo con tanto amore, perché mi rendo conto che ognuno di noi, sì, ha i suoi affetti, ma la sua vita la deve spendere pure per chi ci sta intorno: ci dobbiamo guardare intorno. Io questo cerco di farlo; ma lo si potrebbe fare sempre di più. Caterina ha detto di tante nostre attività. Io vorrei dire ora qualcosa della colazione del sabato mattina. Non distribuiamo la tazza di cappuccino e basta; li salutiamo, li facciamo accomodare, ci parliamo; ognuno di noi fa un ciambellone fatto in casa, così che loro sentano che c’è una vera partecipazione da parte nostra; fanno a gara ad assaggiare il ciambellone di ciascuna di noi per vedere quale è più buono… Insomma, questi nostri ospiti (mi dispiace chiamarli “poveri”) sono contentissimi di questa colazione. Li vogliamo far sentire come se fossero proprio in un caffè, e siamo noi a servirli a tavola, e lo facciamo con affetto. Poi facciamo alcuni pranzi: uno a Natale, il giorno di Santo Stefano, e uno il primo sabato del mese di luglio per salutarli prima della pausa estiva (ma riprendiamo subito le attività ai primi di settembre). Al pranzo di Natale ci teniamo tutti molto. Lo facciamo il giorno di Santo Stefano perché loro, il 25, sono invitati dalla Caritas e da tanti altri centri. Invece il 26, non c’è nulla e loro sono molto felici di poter venire. Il pranzo riscuote sempre molte adesioni. Il gruppo di volontari che partecipa a questo pranzo è molto numeroso. Siamo tutti felicissimi. Ci incontriamo prima, studiamo i vari menù, e poi ognuno di noi cucina qualcosa a casa. La cosa riesce sempre molto bene perché è proprio una cosa che noi sentiamo molto. Chi non può fare altro, magari si offre per comprare la frutta e viene a portarcela.. L’ultimo pranzo è stato molto bello. I volontari giovani sono venuti con i loro figli e alla fine si è giocato a tombola.

Vi voglio leggere una cosa scritta da una bambina di 6 anni, figlia di uno dei nostri volontari: “(…) La cosa che mi ha colpito è che i miei genitori servivano con i loro amici i poveri. Poi abbiamo giocato a pallavolo e a tombola con i poveri. A tombola non si vincevano soldi ma saponette, sciarpe, cose da mangiare, etc. Io insieme ai miei amici tiravo fuori i numeri e li mettevamo sopra il cartellone. Alla fine della giornata ero felice, e mi sono accorta che i poveri sono persone come noi!”. Le osservazioni di questa bambina hanno colpito un po’ tutti.

Ecco, io volevo dire che questa esperienza per me è molto importante. Ho scelto di vivere il Natale in questo modo qua. E anche la mia famiglia ha cambiato il modo di vivere il Natale, perché la sera di Natale stiamo tutti insieme a casa mia. Poi il giorno di Natale è una cosa a sé. Il giorno dopo Natale, prima eravamo abituati ad andare sempre da altri parenti, ma io ho deciso che invece voglio fare questa cosa, e tutta la mia famiglia è stata d’accordo. I parenti mi hanno detto: tu vai a fare questo pranzo, e noi veniamo a casa tua e ci mangiamo tutti gli avanzi della vigilia di Natale. Insomma, voglio dire che bisogna incominciare, non bisogna avere paura di rompere certi schemi, non bisogna dire che, siccome è Natale, lo devo vivere per forza con mia cognata… o Capodanno lo devo fare per forza così… No, non è così, perché poi vedo che intorno a noi la gente si ferma; l’esempio è importante. A voi vi sembrerà una cosa da poco ma per me questa esperienza del pranzo di Santo Stefano è una cosa importante, perché vediamo proprio che le persone, quando se ne vanno, così ben vestite – perché quel giorno si sono vestite al meglio – ci abbracciano, ci stringono, sono felici… Secondo me, questa cosa va fatta. Va fatta non solo in quel contesto, ma sempre, anche quando per strada incontriamo delle persone che potrebbero aver bisogno di noi…

Ornella Sgarra

Dopo l’esposizione di Angela, che è stata gioiosa, io vi devo parlare di un argomento un po’ più forte… Noi cerchiamo di inserire questi emarginati nel mondo del lavoro. Queste persone sono emarginate per molti fattori: un po’ per alcolismo, perdita del lavoro stesso, malattie, e anche parecchi per instabilità psichica. Noi ci attiviamo per trovargli del lavoro. E’ chiaro che dobbiamo fargli un po’ da garanti per quanto riguarda il loro comportamento verso i clienti. Il lavoro consiste in piccole attività: pulire appartamenti, uffici, giardini, cantine. E anche i trasporti; l’anno scorso abbiamo avuto un’elargizione dell’Associazione Tennis da tavolo che ci ha regalato un pulmino, che ci serve molto perché, facendo piccoli trasporti, facciamo lavorare delle persone. Il nostro compito è seguirli costantemente, con consigli e suggerimenti, portandoli gradualmente a ritrovare un po’ di fiducia in se stessi e facendo da tramite verso un lavoro stabile. Non sempre ci riusciamo, purtroppo. Qualcuno lo perdiamo per strada, ma in alcuni casi ci siamo riusciti. La cosa un po’ particolare è che ci riusciamo di più con gli stranieri. Non so perché, ma gli immigrati si riesce più facilmente a inquadrarli.

In questo contesto, poi, è nata l’esigenza di creare anche il servizio docce, come diceva Caterina. Siamo un gruppo che va tre volte alla settimana nella sede e non solo gli facciamo fare la doccia ma gli diamo anche il cambio della biancheria (che è sempre roba nuova). E in più gli diamo anche una piccola colazione. Noi pensiamo che il recupero parta proprio dall’essere puliti… Io questa esperienza: che quando loro escono dalla doccia hanno un altro viso, un altro portamento; le spalle gli si raddrizzano; hanno gioia negli occhi, ti ringraziano, anche se non ti dicono tante parole perché molti hanno comportamenti particolari… Però lo vedi che sono altre persone quando escono dalla doccia. Non sono quelli che sono entrati. Anche se si rimettono il vestito con il quale sono venuti, però si sentono puliti perché hanno la biancheria pulita, si sentono altri. Li vedi. Certo, questo è un impatto un po’ forte: non è semplice stare lì con loro; perché ti può capitare che arriva quello che è ubriaco, e allora devi avere un certo comportamento, e c’è anche capitato che si sono picchiati. Però abbiamo un collaboratore, che è un ex disagiato che abbiamo recuperato, che ci assiste in questo lavoro. E così abbiamo le spalle un po’ coperte… Ripeto, è una esperienza abbastanza forte, perché le persone che si rivolgono lì hanno storie diverse, pesanti, sia immigrati che italiani; hanno fallito nei loro sogni; è gente delusa. E’ veramente una cosa un po’ problematica, però lo facciamo con tanto amore, con tanto impegno; e ci basta poco, ci basta che ci dicono grazie, ci basta che li vediamo più contenti. E poi li recuperiamo anche, perché li indirizziamo; loro hanno delle esigenze, ci chiedono, e noi allora gli diciamo dove possono andare, come possono fare, gli diciamo anche di venire a S. Leone il sabato mattina, oppure il mercoledì al Centro ascolto dove si cerca di trovargli anche del lavoro, o il venerdì quando diamo dei vestiti… Piano piano, poi, ci seguono. Per noi questo è tanto. Francamente, io, da quando faccio parte di questo gruppo, mi sento molto più in pace con me stessa.

Comunicazione dell’Associazione “S. Pancrazio” di Cosenza”

Giorgio Marcello

Innanzitutto grazie per l’invito. Piero, il presidente dell’Associazione, che è qui presente, dirà dopo qualcosa anch’esso; ringrazio gli amici della Tenda, ringrazio per il magnifico pranzo che oggi abbiamo potuto gustare e per la convivialità. Rispetto poi al compito che mi è stato affidato mi sento molto in difficoltà perché questo è uno spazio di testimonianza sul tema della povertà; io non credo di essere abilitato a questo tipo di testimonianza; tra l’altro nelle settimane precedenti ho letto con molta attenzione i due documenti che sono stati mandati per e-mail, sia il primo documento, quello che è stato presentato stamattina, e poi soprattutto il testo della conferenza che è stata tenuta dal Cardinal Lercaro a Beirut. Soprattutto questo secondo testo l’ho trovato di una profondità veramente sconcertante. La prima riflessione che mi è venuto di fare è la seguente: si tratta di uno di quei testi che sono così radicati nella parola di Dio, nella rivelazione evangelica, che uno si sente da essi misurato. Ti senti misurato e ti trovi mancante. Questa è l’esperienza che mi è sembrato di fare leggendo il testo. L’ho letto e riletto e mi sono sentito mancante rispetto alla profondità ed all’esigenza di radicalità evangelica che sono espresse in questo documento. È una riflessione che si sviluppa a partire dal testo di Matteo e di Luca sulle beatitudini. Si mette a fuoco l’idea per cui la povertà è un mistero. Non possiamo misurare gli altri a partire dalla povertà, ma siamo misurati dalla povertà come mistero, un mistero, dice il testo, che si radica nel mistero stesso di Gesù. Un altro spunto formidabile è quello relativo al privilegio dei poveri, in quanto destinatari di uno sguardo privilegiato da parte di Dio. Anche questa mi sembra un’intuizione rispetto alla quale noi possiamo solo sostare con attenzione adorante, come direbbe P. Pio Parisi.

Detto questo, cosa c’entra la nostra Associazione con questo tema? E’ un’associazione piccola, nata una ventina d’anni fa nei quartieri del centro storico di Cosenza, a partire da un tentativo d’ascolto comunitario della parola di Dio.

A Cosenza da più di trent’anni vive il gesuita p. Pino Stancari. A casa sua, su sollecitazione di Suor Eugenia, qui presente, è nata l’idea di una presenza in città attenta alle situazioni di maggior vulnerabilità sociale. Si è pensato di cominciare a lavorare con bambini e ragazzi che avevano difficoltà di inserimento scolastico. Questo per diverse ragioni, intanto perché molti di noi condividevano un po’ l’intuizione di Don Milani, per cui le disuguaglianze dell’istruzione sono alla radice di altre forme di disuguaglianza sociale. Per questo, intervenire sulle povertà della nostra città poteva significare cercare di partire dalle situazioni di vulnerabilità che toccavano soprattutto bambini e ragazzi. E poi perché, in base ai dati che circolavano nella nostra città alla fine degli anni ottanta, relativi a bambini e ragazzi, soprattutto adolescenti, finiti nei circuiti della giustizia minorile, veniva fuori che quasi il novanta per cento di essi non aveva conseguito la licenza media ed era fuoriuscito anzitempo dai circuiti dell’ istruzione. Questi i motivi per cui abbiamo pensato di rivolgere la nostra attenzione soprattutto a questi ragazzi e successivamente alle loro famiglie. Lungo questo percorso ci è capitato poi di occuparci, insieme ad altri amici, anche di affido familiare, cioè dell’accoglienza a tempo pieno di bambini e ragazzi che non potevano stare a casa propria, per tutta una serie di motivi. Ci siamo fatti attenti anche alla disabilità. Infatti, alcuni di noi accolgono nelle ore diurne alcune decine di persone che vivono la disabilità nelle forme più diverse. Si tratta di piccole cose, che esprimono in qualche modo il tentativo di prestare comunitariamente attenzione alle situazioni di maggiore vulnerabilità della nostra città. Potrei dire tante cose sul senso di quello che facciamo, per mettermi in dialogo con la ricerca che è stata avviata quì stamattina ed anche con il contenuto dei testi che ci avete dato la possibilità di leggere nelle scorse settimane. Lasciando però da parte i trenta fogli che avevo preparato, vorrei chiudere solo con un riferimento al mondo di cui facciamo parte, cioè il mondo delle organizzazioni solidaristiche. A me sembra che il tema della povertà incroci molto il senso della presenza di queste organizzazioni nei territori. Per dirla in una maniera molto grezza ed anche molto diretta, occorre chiedersi in che modo oggi ci si pone di fronte alla povertà, cioè come viene guardata oggi la povertà. La sensazione è che i nostri gruppi, compreso quello di cui faccio parte, stiano piano piano scivolando lungo una deriva, quella dell’organizzare servizi. Questo, per certi versi, è un percorso inevitabile perché, quando si incrociano situazioni di povertà, di vulnerabilità, di sofferenza, bisogna pur organizzare delle risposte. Non si può tuttavia dimenticare, ed il convegno di oggi costituisce un aiuto per rifletterci sopra, che questa è anche la strada lungo la quale le esperienze di solidarietà organizzata si istituzionalizzano. Esistono delle riflessioni molto interessanti, fatte da alcuni amici, che mettono in parallelo la storia delle organizzazioni religiose, la storia degli Istituti religiosi, soprattutto di quelli nati nella seconda metà dell’Ottocento, con la traiettoria che le organizzazioni solidaristiche stanno oggi disegnando. Sembrano i tratti della stessa parabola.

In realtà la povertà è un mistero, essa contiene una benedizione nascosta per noi, di cui non siamo pienamente consapevoli. La povertà è una condizione privilegiata in maniera misteriosa dal Signore ed è la condizione cui noi stessi siamo chiamati. Quando si perde di vista il fatto che la povertà è un mistero, il rischio di tradurre la solidarietà in una funzione diventa molto alto ed è forte il pericolo di una istituzionalizzazione veloce di queste organizzazioni, così pure importanti.

Comunicazione della casa di Accoglienza “Casa Ruth” di Caserta

Suor Rita Giaretta:

Innanzitutto buonasera a tutti e, anche da parte mia, grazie di cuore per l’esperienza che mi date da vivere qui oggi. Io credo veramente di fare l’esperienza di sentirmi povera, però, in questo momento, grazie anche a questa giornata, di arricchirmi, arricchirmi di tante provocazioni, testimonianze e mi ha fatto bene la provocazione lanciata qui dall’amico Giorgio, sul rischio che si può correre, nel servizio ai poveri, come lo definiamo, il rischio veramente di fare una funzione, e credo che questa , almeno per gli anni che mi trovo a vivere a Caserta, ormai dodici anni, avendo dato vita a questo centro di accoglienza, sia un qualcosa, un’inquietudine che mi porto sempre dentro. Questo non vuol dire che non siamo chiamate a spenderci, a donare, dobbiamo farlo però sempre in ricerca, con intelligenza e umiltà perché non siamo noi a salvare, non siamo noi che facciamo la redenzione degli altri, anche noi siamo dentro ad un cammino dove siamo chiamate a rivisitare i nostri stili di vita. Per me religiosa questo mi porta a chiedermi cosa vuol dire oggi essere religiosa in questa storia, in questo contesto, ed ad esserlo in una terra come è la terra di Caserta, una terra non facile, una zona calda, la definiamo tra virgolette, perché lì è difficilissimo trovare lavoro e i servizi sociali e tutto ciò che può essere attorno ad un territorio lì sono carenti, per non dire assenti, poi una microcriminalità diffusa e larghe zone ormai in mano alla camorra, dove anche nella Politica e nella Chiesa c’è questo intreccio di alleanze anche con la camorra.

Quindi capite che non è facile, sono dubbi, interrogativi e la vita religiosa guai se si pone in un territorio a sostituirsi, a diventare quasi un’isola privilegiata, dove fa anche dei bei servizi, dove anche aiuta i poveri, ma non scomoda tutto l’altro discorso, deve essere continuamente una provocazione.

Noi Suore Orsoline, ed io sono una suora Orsolina, abbiamo proprio come missione, come carisma, l’attenzione alla donna, alla sua promozione integrale, non perché siamo noi a promuovere le donne ma perché lo possiamo fare insieme, nel cammino, infatti da soli non facciamo nulla. E’ l’altro,é l’altra che mi rivela chi sono io, e che mi aiuta in questo cammino: è il volto dell’altro.

Forse la Chiesa oggi è povera di volti ed ha bisogno di incontrare volti, incontrare nomi, sentire che la storia dell’altro ci appartiene, e costruiremo un futuro, come ci ricordava padre Lafont non per fare memoria, nostalgia, essere dei nostalgici, ma per partire dall’oggi, costruirlo insieme.

Dicevo, abbiamo, come suore Orsoline, quest’attenzione al genere femminile ed a Caserta siamo arrivate dodici anni fa, lo sapevamo bene cos’era questa terra, cos’era questo luogo. Abbiamo avuto la fortuna , questa mattina qua si parlava anche di Vescovi , che il nostro vescovo di Caserta è forse uno dei pochi vescovi che sentiamo veramente libero, spoglio, che cammina dalla base, che cammina con il popolo, che cammina con la gente , che cammina con i poveri perché lui, per primo, si sente povero e si spoglia di tutta l’esteriorità. E’ uno stile di vita molto concreto, anche noi quindi siamo alla scuola di questo padre, guai se lo chiamiamo Eccellenza, non lo vuole proprio sentire, si sente padre. Ecco quindi con questo nostro padre abbiamo fatto questo cammino e lì in quella zona abbiamo incontrato, abbiamo visto, una realtà che ci ha f atto rabbrividire all’inizio, veramente ci ha toccato in profondità,

perché mai avremmo pensato, siamo alle soglie del Duemila, siamo nel terzo millennio, che dovessimo parlare ancora di schiavitù. Noi sui libri di scuola abbiamo studiato, che la schiavitù non

c’è più, è stata debellata, non c’è più. E invece ci troviamo con altre forme di schiavitù. Vedevamo tante ragazze, giovani ragazze, straniere, tante di colore, sulle nostre strade, e penso che anche a Roma non manchino, Ecco nell’immaginario comune cosa si diceva? “E’ il mestiere più antico del mondo, che volete c’è sempre stata la prostituzione, alle donne piace”: giudizio classico che così pensa. Noi siamo subito portati a esprimerci a partire dai nostri schemi mentali senza mai fermarci a interrogarci. Noi lì abbiamo voluto capire, capire cosa c’era dietro queste ragazze, lungo questi cigli delle strade, ed un 8 Marzo di dieci anni fa abbiamo voluto avvicinarle. Siamo andate, con un gruppetto di altre donne, qualcuna anche che parlava inglese, per un primo approccio, a incontrarle portando un fiore.

Di solito loro erano abituate ad aspettare un altro tipo di presenza, qualcuno che andasse ad usare il loro corpo, a comperarle, e noi siamo andate a portare loro un fiore, con un messaggio in tre lingue: inglese, francese ed italiano. Un piccolo messaggio, un semplice messaggio per dire che ci sentivamo loro sorelle, capivamo il loro dramma, eravamo con loro, e volevamo loro bene.

Poi siamo ritornate, loro prima di noi hanno imparato i nostri nomi, vedete non eravamo più poveri, eravamo un incontro di nomi. Io ero Sister Rita, Mary, Francesca, Tina, Josephine. Ci incontravamo, nomi che si incontravano, storie, volti, e piano piano hanno cominciato a raccontarci i loro drammi.

Storie inaudite di violenza, di sopraffazione, io come donna e religiosa veramente stavo male, sentivo la mia carne soffrire con loro. E mi sono detta ma come è possibile che oggi arriviamo a questa schiavitù? Non sono libere queste ragazze, sono portate qui con l’inganno, sono minacciate, sono ricattate, per le africane c’è un debito dietro. Un debito che va dai 50.000 ai 60.000 Euro oggi che debbono pagare!

Ma quanta violenza debbono subire col loro corpo, quanta violenza! E da lì allora è nato tutto… ci siamo messe in crisi. Ci siamo interrogate, ne abbiamo parlato col nostro padre Vescovo, abbiamo coinvolto la Chiesa, i movimenti del territorio, ci siamo detti: qua bisogna dare delle risposte. Bisogna cercare di dare una mano, e da lì è nata l’idea di offrire un posto di accoglienza perché è vero, è bello avvicinare, ma se qualcuna ci diceva poi: “portami via con te, io voglio lasciare questo sporco lavoro” noi non potevamo dire : “ No non siamo pronte, scusa, vai a bussare in qualche altra parte! ”

Dovevamo essere pronte a dire “ ci siamo! ”. Ecco ad oggi più di 260 ragazze hanno varcato la soglia della nostra casa, di casa Ruth, e non è, sapete, un grande luogo. Chi l’ha vista, e qualcuno di voi è venuto a visitarla, è una casa familiare. Abbiamo scelto di vivere in un appartamento, in un condominio in centro città a Caserta, nella via principale , abbiamo piegato la nostra Congregazione ad acquistare quegli appartamenti, abbiamo piegato questa volontà: non sempre fare nuove case di spiritualità! E’ giusto fare la casa di spiritualità ma anche per queste persone del disagio, della sofferenza, dobbiamo offrire un luogo. Nel centro città, in un condominio: non è stato facile! Per un anno.., un condominio molto grande, ci sono più di trenta famiglie dentro!, nella via principale di Caserta, la via che porta alla reggia, i condomini non erano d’accordo: ecco è nata un’altra conflittualità con le persone del posto, perché queste pensavano chissà che succederà adesso! Nel nostro condominio, nella nostra bella zona tranquilla chissà che bordello uscirà! Tutti saranno tossicodipendenti, chissà cosa succederà, hanno cominciato a mandarci raccomandate trovando mille scuse : che la nostra caldaia non funzionava. tante cose.. ci buttavano giù l’acqua, addirittura, dai terrazzi più alti, perché noi eravamo al primo piano… Noi d’accordo con le ragazze abbiamo detto: questa è una battaglia che dobbiamo viverla insieme, dobbiamo conquistare il nostro spazio insieme, di dignità, di liberazione insieme, se alla violenza, agli ostacoli, rispondiamo con altrettanta arroganza, violenza, è la strada perdente. Bene diamo il tempo che ci conoscano, abbiamo capito che erano pieni di paure. Sapete noi abbiamo tante paure del diverso, dell’altro: ragazze di colore che vengono poi dalla strada, pensate quante paure che ci vengono. Ma lasciate il tempo che ci conoscano; oggi a distanza di anni sono orgogliosi di averci lì e se chiedono una ragazza per fare i lavori in casa o per affidargli i figli, e voi capite, per una famiglia affidare i figli vuol dire affidare la cosa più preziosa, il bene più prezioso, più grande che hanno, vengono a chiederlo a noi, alle nostre ragazze.

Vedete il cammino: questo vuol dire camminare dentro, starci dentro, con uno stile con la diversità.

Ecco un modo di essere, di presenza, e poi tutto un lavoro con le istituzioni perché è vero, come vita religiosa, noi possiamo fare grandi cose , possiamo, ripeto, creare un’isola dove si può vivere bene, diamo assistenza, diamo tutto; no, noi ci siamo presi cura anche di quel territorio, un territorio di una città come Caserta perché queste risposte debbono imparare a darle anche le Istituzioni, anche le Istituzioni debbono maturare, crescere insieme con noi, insieme con queste ragazze, dentro i problemi, coglierli ed imparare a dare loro delle risposte. Noi dobbiamo provocare, stimolare , quante battaglie con le Istituzioni : quando i primi tempi andavamo in Questura, guardate non è facile, la questura poi

sapete queste grandi strutture, sono tutti uomini, gli operatori di polizia tutti maschi : trovano suore che vanno a parlare di temi come la prostituzione, portare poi tematiche legate alla sessualità, legate al sesso. Pensate! Non vi dico! Che hanno queste suore da venir qua su ‘sti problemi….Capite? E’ stata una battaglia non indifferente da portare avanti.

Lo stesso anche con la Chiesa eh! I preti sono uomini, tutta una realtà anche lì di presenza maschile.

Guardate noi abbiamo combattuto molto con questa realtà, ci siamo scontrate tante volte con questa realtà. Mi piace anche qui, poi chiudo, lasciarla come provocazione, poi a Caserta è arrivata da sei anni anche una comunità di religiosi, di Padri Sacramentini e con loro è nato anche un cammino di amicizia, di fraternità e di confronto anche su questi temi, ed hanno accolto questa nostra provocazione perché abbiamo detto : “ noi per il mondo femminile ci siamo ma chi pensa agli uomini? Perché sono convinta che oggi l’identità maschile dell’uomo è in grande crisi. Anche la Chiesa si trova in difficoltà perché è fatta per la maggioranza della sua istituzione gerarchica, come sentivo stamattina, di uomini Ed è in difficoltà , oggi, perché l’uomo si identifica col potere, perché non è possibile che si possa parlare oggi di novemilioni di clienti. Chi alimenta questo traffico? Chi favorisce questa schiavitù? Le ragazze sono delle vittime. Nove milioni! Quindi non pensiamo che è solo l’ammalato che ha delle difficoltà pensiamo anche qua, è l’uomo normale. Una “normalità” che vive questa esperienza che usa il corpo di una persona. E allora abbiamo lanciato anche questa provocazione a questi padri sacramentini nostri amici : “Pensate. Cominciate anche voi a fare percorsi di formazione” forse anche l’uomo si trova oggi in difficoltà nella sua identità, nella sua comprensione di uomo.

Noi donne, forse perché siamo minorità, ci siamo sempre sentite un po’ povere, abbiamo sempre portato avanti anche un discorso di riflessione, ci siamo interrogate, oggi è tempo che anche l’uomo si interroghi e allora vi prego in questa chiesa riflettiamo insieme, portiamo avanti percorsi insieme di riflessione uomo e donna perché la Chiesa l’umanità hanno bisogno veramente di volti di uomini e di donne veramente liberi e liberanti : è il cammino che la Chiesa è chiamata a fare. Non siamo noi che liberiamo i poveri , insieme dobbiamo crescere , cambiare i nostri stili, e diventare persone amanti , libere e liberanti. Grazie. Se volete conoscere di più della nostra esperienza abbiamo scritto modestamente, umilmente, un libro che racconta questi dodici anni di esperienza di Casa Ruth, ecco tutto questo percorso vissuto. Grazie (Rita Giaretta Non più schiave Edizioni Marlin Napoli)

Comunicazione della Casa Famiglia “Il tamburo di latta” di Salerno

Paolo Romano

Mia moglie non c’è, è sempre assente da questi momenti pubblici. Con un termine che non mi piace, la famiglia viene chiamata chiesa domestica. A me è più simpatico parlare di famiglia operaia. Se comunque si parla di famiglia “chiesa domestica”, Donata rappresenta la chiesa giocata e io la chiesa parlata. Ogni volta che c’è da fare una comunicazione pubblica lei scompare; peccato, perché oggettivamente la nostra è un’esperienza di coppia vissuta nella normalità. Ci tengo a dirlo perché è vero.

Mettere in evidenza un’esperienza può farla sembrare irraggiungibile, mentre quello che noi facciamo è estremamente normale. Siamo una famiglia, io, mia moglie, i miei due figli e abbiamo una casa grande, perché per fortuna siamo benestanti. Questa casa grande l’abbiamo aperta all’accoglienza di ragazzi. Da 16 anni condividiamo questa esperienza di accoglienza. Sono passati per casa una trentina di ragazzi; sono venuti ad ondate, tre-quattro persone per volta, e li accompagniamo per parecchi anni. Sono solitamente adolescenti, affidati dal Tribunale per i minorenni e dal servizio sociale. Essi vivono un’esperienza di allontanamento dalla famiglia naturale, per risolvere un po’ di problemi. Si tratta di problemi che non si risolvono tanto facilmente, perché solitamente si ricorre tardi alle comunità e alle famiglie affidatarie, al termine di un percorso di emarginazione. Quindi i ragazzi che arrivano nelle case famiglia non sono ragazzi a rischio, ma ragazzi che hanno già corso il rischio, ragazzi già nel pieno della devianza, per cui quello che si fa è un recupero. Talvolta, quando sono cresciuti, li si accompagna verso una vita autonoma, senza la possibilità di un ritorno in famiglia.

Dico questo anche per sfatare il mito che le comunità possano risolvere i problemi. Si tratta di piccoli tentativi e il nostro è un accompagnamento molto normale di condivisione con queste vite. Per tale motivo noi cerchiamo di non evidenziare una differenza tra i nostri figli e gli altri figli, pur se ovviamente un diversità c’è. La nostra famiglia è aperta come ogni altra al quartiere, per cui c’è posto per il gruppo scout, la parrocchia, il gruppo sportivo, la scuola. Insomma, è una vita normale condotta avendo questa apertura temporanea della propria casa agli altri.

Fondamentalmente tre sono i motivi del mio imbarazzo, questa sera. Prima ho detto che non mi sento la persona della coppia più adatta a parlare anche perché Donata, mia moglie, è quella che vive maggiormente, come mamma, una serie di problemi. La seconda cosa è che non mi sento povero dal punto di vista economico. D’altra parte, mi sento molto ricco perché tutte le esperienze che faccio con i ragazzi sono un continuo arricchimento e lo è anche la rete di famiglie affidatarie che abbiamo creato, che si chiama “Bambini, ragazzi e famiglie al sud”. Io, comunque, mi sento molto ricolmo di beni, per usare un termine evangelico. Il terzo limite grosso, per cui ho faticato molto ad accogliere l’invito pressante di Gianfranco, è la dimensione religiosa. La mia esperienza non ha, come altre, una dimensione religiosa. Molti di noi sono credenti, ma il nostro è un gruppo laico, soprattutto è un gruppo che non fa un lavoro che invece è importantissimo e prezioso, che è quello di ricerca teologica. E’ un gruppo totalmente, anzi, sin troppo laico. E’quello che capita normalmente nel mondo del volontariato. Guai a pensare che questa esperienza di chiesa viva possa essere fatta solo dentro gruppi che siano di volontariato cattolico. Con il passare degli anni spero che questo termine diventi sempre più desueto. Anche se tuttavia l’associazione non ha un connotato religioso, nella mia esperienza personale è servita molto l’esperienza ecclesiale che abbiamo fatto da giovanissimi. Mi fa piacere, questa mattina, sentir nominare Juan Arias, che era una mia lettura da adolescente, e ci sono alcune frasi che poi rimangono un po’ nel cuore, come penso sia per voi. C’era un brano, nel libro di Arias ”Il Dio in cui non credo” in cui, tra l’altro, diceva: io non credo nel dio che è difeso da quanti non si macchiano mai le mani, non si affacciano mai alla finestra, non si gettano mai in acqua”. Sono quelle cose che poi ti porti dentro. Per quanto mi riguarda, alla prima occasione sono fuoriuscito dal seno protettivo della parrocchia, anche se vi si facevano discorsi importanti, per vivere una dimensione di chiesa un po’ più radicata. Anche nel nome “L’Ipotenusa” che abbiamo dato alla nostra esperienza e poi in quello dato alla casa famiglia “Il tamburo di latta”, abbiamo tentato di non avere riferimenti ecclesiali, proprio per aprire la porta ad altre persone che volessero affacciarsi all’esperienza del volontariato. Ci siamo chiamati Ipotenusa perché è chiamato così il lato più lungo di un triangolo, che unisce i due cateti, che sono, nel nostro caso, il pubblico ed il privato. Allora si esaltava il mondo del privato sociale, che era concepito un modo di essere cittadini responsabili nel privato, agendo però concretamente nel pubblico. Il tamburo di latta è il titolo di un libro di Grass, premio Nobel per la letteratura nel 1999: noi l’abbiamo preso come nome per la casa famiglia nel 1991. E’ la storia di un bambino che dice di non voler crescere e suona un tamburo di latta per manifestare il suo disagio, la sua protesta, la sua non voglia di partecipare ad un mondo che non lo vuole accogliere.

Volevo raccontarvi rapidamente gli sviluppi della nostra esperienza, non per far capire quanto siamo bravi, ma per spiegare quanto è problematica una esperienza, quando diventa più grossa. All’inizio è tutto bello, un po’ come la fase dell’innamoramento; si vive l’entusiasmo che ho sentito nel primo gruppo che si è presentato; poi, come diceva Giorgio, le esperienze si istituzionalizzano. Noi abbiamo costituito un centro socio-educativo per ragazzi disabili ed altre 5 case famiglia: due nel campo della psichiatria, una nel campo della disabilità. Insomma la cosa è diventata molto grande. Abbiamo gestito per qualche anno anche una azienda agrituristica. Sono state tutte iniziative per accogliere persone e famiglie in difficoltà, avendo come filosofia il superamento della istituzionalizzazione, della ghettizzazione delle persone in manicomi, in istituti per minori, in centri di riabilitazione per disabili. Abbiamo operato sempre con lo stesso modello, facendo piccole comunità di 4-5 persone immerse nei territori normali, nel quartiere, in condominio, al terzo piano, al quinto piano, facendo sì che la comunità diventasse corresponsabile. Poi questa cosa col passare del tempo si è istituzionalizzata. Infatti, le cose si complicano quando l’intervento non può essere portato avanti solo da poche persone e soprattutto quando un servizio, che comunque risponde ad un bisogno, non è più gestibile come esperienza di volontariato. Abbiamo infatti creato varie cooperative sociali e quindi siamo approdati al mondo del terzo settore. Non so quanti di voi abbiano esperienza di questo mondo perché lo conoscono in quanto volontari o in quanto cooperatori. Come accennava molto bene Giorgio, si è proprio smarrita la strada. I gruppi e anche le cooperative, oggi come oggi , anche del mezzogiorno, sono molto autocentrate sul servizio, sull’organizzazione, sulla sopravvivenza, sulla ricerca di fondi. Si è dimenticato fondamentalmente lo spirito che è alla base, la dimensione fondamentale del superamento della povertà ed, allo stesso tempo, la condivisone della povertà.

Mi ha scioccato una notizia che mi porterò a casa, quella del piccolo vescovo che da Napoli va a Roma senza soldi, raccogliendo passo passo i soldi per proseguire. Questa dimensione il terzo settore e il volontariato l’ hanno totalmente smarrita. Siccome si vive in una dimensione di servizio spesso delegato dalle istituzioni, l’unico “cliente” diventa il Comune, il Piano di zona, per cui le organizzazioni, anche la mia, finiscono per perdere il contatto con la realtà, con i cittadini, per cui tutte le cose belle che si facevano prima non si fanno più. Ci siamo arricchiti ma non di cose belle. Di soldi non ci siamo sicuramente arricchiti. Noi siamo poveri, il volontariato nel mezzogiorno è povero, la cooperazione sociale è poverissima. Proprio per questo, al Sud, avremmo teoricamente una posizione di vantaggio per ripensare il senso del nostro cammino; invece facciamo un salto e direttamente cerchiamo le risorse economiche per sopravvivere.

Invece dovremmo cercare le risorse di comunità. Io mi permetto sempre di consigliare i miei amici, anche se nella mia realtà sono una voce poco seguita, sul fatto che in queste realtà in cui si opera con i disabili, i matti, gli extracomunitari, il lavoro non può perdere di vista il contatto con la povertà e con la risposta al bisogno.

Volevo raccontarvi una favola del teologo Gianno Rodari. Rodari non è un teologo ma, negli scrittori, così come in tutte le persone, si possono vedere in quello che scrivono dei barlumi di Dio. Il titolo: “Giovannino, il bambino distratto”. Giovannino è un bambino distratto; esce di casa e, uscendo, per distrazione mentre fa una cosa perde un braccio; si distrae perché ha visto una cosa bella, oppure si ferma davanti ad una vetrina, poi si volta, vede un cane che scodinzola, e perde un orecchio. Poi perde anche una gamba. Poco alla volta perde per strada vari pezzi e il droghiere , l’infermiere, il commerciante, tutti quelli che lo conoscono, raccolgono questi pezzi e li portano alla mamma, per cui Giovannino, quando finalmente la sera si ricorda che deve tornare a casa, trova la mamma che lo accoglie e che dice:” Giovannino, ecco qua tutti quanti i tuoi pezzi, come al solito sei stato distratto, hai perso tutti i pezzi per strada. Non ti preoccupare, adesso ti ricompongo e ti voglio sempre molto bene”. Non c’è il finale, Rodari lascia la favola così, un po’ in sospeso. L’interpretazione che solitamente si dà è: chi siamo noi? Noi siamo la mamma e siamo il quartiere, la comunità che accoglie questo ragazzo.

C’è bisogno che una comunità responsabile, non solo la famiglia, si faccia carico di questo bambino distratto, si faccia carico di un barbone, di una prostituta, di una persona in difficoltà. Il contributo di tutti, non solamente dei professionisti sociali, non solamente della famiglia, non solamente delle istituzioni: con il contributo della comunità e della società si da la possibilità ad una persona di ricomporsi.

A proposito del ragionamento di stamattina e di oggi pomeriggio, io invito me stesso e anche voi a metterci nei panni di Giovannino, perché anche noi, andando per strada, nelle vicende della vita, perdiamo i pezzi per strada. Io, ad esempio, quando sono uscito la prima volta da casa, avevo 18-20 anni, ho cominciato a fare questa esperienza e mi sono poi dimenticato di tornare a casa. Immagino sempre casa mia come era 30 anni fa’, con il tavolo da disegno, i libri aperti sul tavolo, così come sono rimasti. Quindi anche a noi capita di fare mille cose e di perdere pezzi per strada, mentre facciamo queste cose. Mi auguro che questo convegno sia l’occasione per recuperare reciprocamente i nostri pezzi, per ricomporci come gruppo e comunità, per dare una risposta ai bisogni dei ragazzi.

Il Gruppo “La Tenda” è formato da:

Franco Battista, Torre Angela Roma

Gruppo La Tenda

c/o Lorenzo D’Amico

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Tina Castrogiovanni, Ostia Nuova Roma

Lorenzo D’Amico, Torre Angela Roma

Maurizio Firmani, Monteverde Roma

Chiara Flamini, Torre Angela Roma

Alessia Galici, Ostia Nuova Roma

Maria Dominica Giuliani, Aurelio-Boccea Roma

Luigi Mochi Sismondi, Torre Angela Roma

Liliana Ninchi, Ostia Nuova Roma

Marco Noli, Ostia Nuova Roma

Solange Perruccio, Monteverde Roma

Umberto Sansovini, Ostia Nuova Roma

Gianfranco Solinas, Martina Franca Taranto

Antonella Soressi, Ostia Nuova Roma

Micaela Soressi, Ostia Nuova Roma

Daniele Trecca Ostia Nuova Roma