Lettera 7 (Seconda Serie)

Cari amici,

in questa lettera continuiamo la pubblicazione dei testi del Convegno “I poveri e la chiesa” che, come sapete, si è svolto presso la Parrocchia dei SS. Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela Roma il 13 ottobre scorso.

Pubblichiamo ora il commento al documento che il Cardinale Lercaro consegnò a Paolo VI che Ghislain Lafont ha svolto durante il Convegno e il piccolo dibattito che ne è seguito, con le sue conclusioni. (Ghislain Lafont è monaco e teologo, dell’Abbazia de “La Pierre-qui-vire” in Francia, ha insegnato in molte università tra cui la Gregoriana e S. Anselmo a Roma, attualmente è procuratore a Roma per l’Ordine Benedettino Sublacense. Ha scritto tra l’altro: ” Dio, il tempo e l’essere”, “Storia teologica della Chiesa Cattolica”, “Immagine della Chiesa Cattolica”)

E’ questo un testo particolarmente ricco, ma, come a volte capita per le cose più importanti, di facile lettura. Ne anticipiamo in questa pagina alcune frasi:

“Anzi tutto, l’intuizione mistica, per così dire, della povertà nel Vangelo, intuizione dunque di Gesù povero e del fatto che questa povertà, che caratterizza il mistero di Gesù, deve essere anche la caratteristica della Chiesa… A tale intuizione positiva, fa seguito, nell’introduzione del testo, una considerazione un po’ rattristata, cioè che la chiesa concretamente non ha ancora capito perfettamente questa realtà di Gesù, e sia sul piano teorico sia sul piano della vita pratica non vive questa povertà di Gesù, e che forse la chiesa dovrebbe lottare contro una situazione della società che non ha niente a che fare con il Vangelo…

Lercaro dice che non si può parlare di attenuare l’opulenza con elementi che permetterebbero di restaurare un certo equilibrio, più o meno. No. Il divario è assoluto. Non si può lavorare a un risanamento della società opulenta, che potrebbe diventare una società più o meno aperta a tutti. Dice che la società opulenta è la degradazione dello sviluppo umano globale come universalità. Perché? Perché, essendo privilegiata, cerca di difendere i suoi privilegi.”

Nota di servizio: come già abbiamo scritto queste lettere dedicate agli Atti del Convegno “I poveri e la chiesa” ci servono anche come test per l’indirizzario sia postale che elettronico, per cui invitiamo chi riceve questi testi a darci un segno di gradimento. Dal n° 10 le lettere saranno spedite solo a chi ne avrà fatto richiesta. Come già dicevamo chiediamo in particolare alle Parrocchie che desiderano ricevere la nostra lettera di mandarci un indirizzo mail funzionante o di avvertirci se quello con indirizzo VicariatusUrbis è attivo.

Sommario della 7° lettera:

  1. Analisi del documento del Cardinale Lercaro di Ghislain Lafont
  2. Domande a Ghislain Lafont degli intervenuti al Convegno
  3. Risposte e conclusioni di Ghislain Lafont

“Analisi del documento del Cardinale Lercaro ”

di Ghislain Lafont

Mi è stato affidato il compito di presentarvi il documento del Cardinale Lercaro Appunti sul tema della povertà nella Chiesa. Se avessimo avuto il tempo, avrei cercato di fare tre parti : la prima sarebbe la presentazione del documento, ciò che farò adesso; dopo forse una certa valutazione teologica del documento di per sé; poi, cosa possiamo fare oggi di questo documento, quarantatre anni dopo la sua pubblicazione, la sua “fabbricazione”, diciamo.

Faremo soltanto il primo punto. è il più facile. Le due altre parti sarebbero più difficili, perché si deve capire che il ‘problema’, o il ‘mistero’ o la ‘questione’ della povertà si è sempre presentata nella Chiesa ed è sempre stata molto difficile. Pensiamo, ad esempio, al caso di Francesco: è molto vicino al caso di Pietro Valdo. Ambedue avevano le stesse intuizioni. Uno si è man mano emarginato, l’altro è rimasto nel seno della Chiesa. Pensavo anche a P. Gauthier, di cui si è molto parlato al momento del Concilio : anche lui si è allontanato dalla Chiesa, che voleva più serva e povera.. Ogni volta che noi entriamo in questo problema, abbiamo, direi, la tentazione di fare una Chiesa un po’ parallela, perché non è tanto facile allora di stabilire delle relazioni giuste con la Chiesa ‘ufficiale’, che è anch’essa la Chiesa di Gesù Cristo.

Dunque, a livello teorico, e anche a livello pratico, è una cosa molto difficile, delicata. Dobbiamo custodire le intuizioni spirituali, nel senso forte della parola “spirituali”, e d’altra parte non dobbiamo fare una seconda Chiesa. Questo per noi è una sfida.

Presentazione del documento

La struttura del documento, che avete quasi tutti sotto gli occhi, si lascia facilmente vedere. Sono due parti: la prima dà alcuni punti fermi di orientamento dottrinale sulla povertà ; la seconda parte contiene alcuni suggerimenti pratici secondo una certa scadenza: ‘Immediatamente’ cioè al momento quando il cardinale scrive; ‘dopo il Concilio’, senza lasciare un troppo grande intervallo ; ‘a più lungo termine’, ma non così lungo che si dimentica di continuare. Poi c’è una breve conclusione. E tutto questo è preceduto da una introduzione, sulla quale comincio a dire qualcosa.

L’introduzione

L’introduzione è l’espressione di due sentimenti. Anzi tutto, l’intuizione mistica, per così dire, della povertà nel Vangelo, in secondo luogo però, la constatazione che troppo spesso lasciamo perdere tale intuizione nel comportamento concreto della Chiesa. Intuizione dunque di Gesù povero e del fatto che questa povertà, che caratterizza il mistero di Gesù, deve essere anche la caratteristica della Chiesa. Dico “intuizione mistica” perché si tratta di una contemplazione di Gesù Cristo che è stata fatta dalla Chiesa in diversi tempi, ma forse di più da, diciamo, cento, cento cinquanta anni. C’è un nome che non è stato detto, mi sembra, nelle relazioni previe, quello di Charles de Foucauld. Penso che lui è una persona che ha veramente voluto vivere come Cristo povero, Cristo annientato, Cristo il carpentiere di Nazareth, e mi sembra che l’influsso di Charles de Foucauld è stato determinante nella chiesa contemporanea. Si potrebbe parlare qui delle Piccole Sorelle e dei Piccoli Fratelli di Gesù, che non sono una fondazione di Charles de Foucauld, ma si ispirano molto a lui, e hanno avuto, mi sembra, la pratica giusta. Loro sono forse i soli che hanno, almeno per il momento, evitato l’arricchimento che sembra quasi inevitabile per i religiosi. I religiosi cominciano sempre poveri e man mano finiscono ricchi! L’intuizione del Padre de Foucauld su Gesù povero si esprime nella sua formula: “Gesù ha tanto amato l’ultimo posto che nessuno ha potuto rapirlo a lui”. Ora questa intuizione l’abbiamo anche noi in una certa misura. Mi sembra che tutti i nostri discorsi suppongono da parte nostra una contemplazione, ma prima di tutto una grazia, che forse non è data a tutti nella stessa maniera, ma sopravviene a un momento all’altro della vita: una contemplazione della figura di Gesù povero.

Il cardinale Martini ha fatto all’inizio del volume degli Atti del Sinodo di Milano, dieci, quindici anni fa, una bella analisi della Chiesa, che è centrata sulla figura dell’agnello. Gesù come agnello, ma l’agnello immolato, l’agnello povero. Dunque, questa è l’intuizione di Charles de Foucauld, che è stata anche quella di tanti nella chiesa del secolo passato, quella anche dei vescovi Camara e Romero. Per cui, Gesù è povero, non soltanto a livello del denaro, ma manifesta una povertà forse ancora più profonda: la povertà non sarebbe come una certa definizione di Gesù? E’ tanto rivoluzionario che se veramente la povertà fosse una definizione di Gesù, sarebbe ancora una definizione di Dio. In questo senso, parlare della povertà e dunque, come dire, parlare di povertà è forse un terremoto per tutta la teologia, la spiritualità e la pratica della Chiesa.

A tale intuizione positiva, fa seguito, nell’introduzione del testo, una considerazione un po’ rattristata, cioè che la chiesa concretamente non ha ancora capito perfettamente questa realtà di Gesù, e sia sul piano teorico sia sul piano della vita pratica non vive questa povertà di Gesù, e che forse la chiesa dovrebbe lottare contro una situazione della società che non ha niente a che fare con il Vangelo. Dunque, povertà di Gesù è esigenza per la chiesa di trovare non soltanto una spiritualità, nel senso un po’ basso della parola, ma una pratica, una condizione, una trasformazione in una chiesa povera.

Realismo della povertà

Apro qui una piccola parentesi per dire come io sento le cose. Si è molto parlato durante il Concilio della “Chiesa serva e povera”, era un po’ la definizione. Io appartengo alla chiesa di Francia, che grazie a Dio comincia a essere serva e povera, forse non soltanto a livello del denaro, ma a livello di una povertà generale. Abbiamo pochi preti, il che ci conduce a purificare un po’ l’istituzione, a trovare altri cammini, e forse a dare nascita ad un altro tipo di preti. Abbiamo anche dei problemi di denaro a livello ecclesiale. Dato che la popolazione praticante diminuisce, c’è meno denaro, al punto che certe diocesi sono più o meno in rosso. Al livello dell’opinione pubblica, nei giornali si parla pochissimo della chiesa. Non c’è disprezzo, è peggio : la Chiesa non è più vista. Si parla forse di personalità un po’fuori norme, come il cardinale Lustiger o l’Abbé Pierre, ma abitualmente non se ne parla. In questo senso siamo poveri, e perché siamo poveri a questo livello del riconoscimento, siamo molto poveri un po’ a tutti i livelli. Non è facile vivere così, e neanche capire che cosa significa. Però è probabilmente una grazia. Questa è una parentesi, per dire che “chiesa povera” significa non soltanto povera di denaro, ma povera di reputazione, di riconoscenza, non è quasi niente. Io penso di non esagerare

Ritorniamo a Lercaro. L’intuizione spirituale è dunque di Cristo povero, il Cristo di Matteo 11, 25, che dobbiamo condividere. Dobbiamo chiedere a Dio di darci questa intuizione, di conoscere Cristo anche a questo livello, con la magnifica intuizione di Paolo nella lettera ai Filippesi : “conoscerlo, la potenza della sua Risurrezione e la comunione alle sue sofferenze”. Questo è fondamentale.

La società opulenta e il suo contrario

Dopo l’introduzione, la prima parte tratta i punti dottrinali. Mi sembra che Lercaro fa una opposizione tra la “società opulenta”, che è la nostra, e la società che dovremmo iniziare, che dovremmo promuovere. Il suo modo di procedere è piuttosto polemico, nel senso (‘polemos’ significa guerra), che c’invita a rovesciare un idolo e far sorgere altra cosa. Lercaro però non definisce questa società opulenta; si potrebbe dire che non c’è bisogno di una definizione, basta aprire gli occhi. ? E’ vero, però una definizione aiuta a situare un po’ i valori. Comunque Lercaro la mette in contrasto con il modello ideale che lui propone : “nella società opulenta abita una chiusura che preclude in radice la possibilità di un universalismo coerente, di essere e di apparire a tutti come rispettoso della dignità e della sostanziale parità di diritto per ogni uomo, per ogni popolo e ai beni della creazione”. Dunque, l’ideale che si oppone alla società opulenta è un universalismo coerente, che permette a ciascuno di avere, diciamo, parte alla dignità normale, media, per così dire, dell’uomo, una sostanzialità di diritto per ogni uomo ai beni della creazione, beni materiali o ancora beni culturali, beni spirituali. Dietro l’attacco alla società opulenta c’è dunque il profilo di una società ideale, nella quale tutti, universalismo, sarebbero in grado di approfittare e di lavorare, a tutti i beni della creazione. Questo è l’elemento positivo che ho trovato in questo testo. L’elemento negativo è ugualmente forte : Lercaro dice che non si può parlare di attenuare l’opulenza con elementi che permetterebbero di restaurare un certo equilibrio, più o meno. No. Il divario è assoluto. Non si può lavorare a un risanamento della società opulenta, che potrebbe diventare una società più o meno aperta a tutti. Per cui non si può metterle una benda e sanare le ferite, perché è totalmente corrotta, in un certo senso. Dice che la società opulenta è la degradazione dello sviluppo umano globale come universalità. Perché? Perché, essendo privilegiata, cerca di difendere i suoi privilegi. Il testo utilizza diverse parole, tipo ‘autarchia’, ‘autoaffermazione’, ‘autogiustificazione sistematica’. Io vorrei insistere sull’espressione “auto”. Auto significa se stesso, io… è vero, perché se sono opulento, e gli altri non lo sono, io devo difendere la mia opulenza. Ma siamo tutti così, no? Dal momento che abbiamo una piccola cosa, la difendiamo, un po’. Dunque, direi che la società opulenta porta all’estremo questa tentazione che abbiamo di essere persone “auto”: io, io. Autogiustificazione, e direi relazioni esclusive tra le persone “auto”, che difendono insieme i loro diritti. E questo in un certo senso è un elemento perverso, perché forse se per caso vorrei io fare qualcosa di giusto, visto che sono legato agli altri, non lo potrei : non si può prendere una strada se gli altri non vengono con me. Dunque l’uomo “auto” è anche prigioniero di tutte le persone che sono insieme a lui. Un uomo opulento, una società opulenta; e non siamo liberi di fronte alla società opulenta alla quale apparteniamo, perché è un tutto che difende i suoi privilegi.

La perdita del senso religioso

Qui, si può aggiungere una considerazione che si trova in un altro documento : una conferenza fatta in Jounièh, penso che è in Libano, sulla povertà nella Chiesa. Ivi dice che la conseguenza di questa società opulenta è la perdita del senso religioso dell’uomo, perché l’uomo che è totalmente centrato sul possesso di beni, di ogni tipo, a cominciare dai beni materiali, è chiuso su se stesso, è autarchico, autoaffermante, e dunque si chiude a ogni trascendenza, non ha più bisogno di sacro. E lui dice: è una irreligiosità ancora più grande dell’ateismo-marxismo, perché è la scomparsa assoluta del divino. E mi sembra che questo, di fatto, quando guardiamo in modo attento, è veramente il caso della società opulentissima nella quale siamo, perché oggi non siamo più la società opulenta di Lercaro, siamo la società opulentissima. E veramente, non c’è più posto per Dio. Dio è, mi sembra completamente inesistente, al livello delle istituzioni, della parola; non abbiamo niente a che fare con lui. L’idea stessa di Dio non c’è, perché siamo opulentissimi, dunque abbiamo un totale; opulentissimo significa il tutto, il totale, e più ho un totale di beni, meno c’è apertura. E non c’è più neanche il senso di un’apertura possibile. Su questo punto Lercaro è molto forte, molto forte. Lui pensa che la perdita del senso spirituale è il difetto fortissimo della società moderna. Mi ricordo la prima volta che ho incontrato il cardinale Silvestrini, mi ha detto anche lui che il liberalismo aveva fatto più torto alla Chiesa che non il marxismo : almeno il marxismo era, anche se falso, un certo vangelo, una certa speranza, un certo ideale. Nel liberalismo: non c’è più niente. Il sacro non ha più posto. E io trovo che veramente siamo senza parole di fronte a questa inesistenza di Dio nel mondo contemporaneo. Tale era anche il sentimento di Lercaro: dice, (questa è la sua espressione) “peggio del paganesimo primitivo”, perché il paganesimo primitivo almeno aveva degli dèi, adesso non ci sono più. Ci sono, perché si idolatra il denaro, eccetera, ma non è più il vero divino, sono dèi totalmente immanenti. Ecco, autolatria, dice, chiusura ai fratelli, perché “auto”, autarchia, è contrario all’apertura, alla differenza, all’altro. E quella descrizione del cardinale Lercaro è molto forte, avrei voluto che desse un’analisi un po’ più sviluppata del perché, come, da dove viene, come possiamo capire le strutture di questa società.

Proposte positive

Quale sarebbe allora l’ideale e la realtà da opporre a questa società opulenta, nell’autarchia, nella chiusura ai fratelli e nella chiusura al divino e alla trascendenza ? Qui dice una cosa negativa e delle cose positive. La cosa negativa, l’aveva già detto: non si può lavorare dentro la società opulenta. E’ molto forte : Non pretendete di mettere una certa moderazione in questa società, moderarla: è troppo opulenta, troppo squilibrata. Non cercate degli elementi per equilibrare questa società. Non lavorate in questa società sperando di migliorarla, non è possibile. E’ intrinsecamente perversa nel senso nel quale Pio XI diceva che il marxismo era intrinsecamente perverso! Lercaro parla allora più volte di ‘rovesciamento’, bisogna rovesciare questa società. In fatti,bisogna riconoscere che la Chiesa aveva trovato il suo posto ‘moderato’ nella società opulenta. E poiché se questa moderazione non bastava, i religiosi sono sopravenuti con i cosidetti ‘consigli evangelici’: se la chiesa era moderata e praticava una povertà moderata, l’equilibrio veniva allora dai religiosi, che hanno loro una povertà perfetta. Almeno è la teoria: da una parte moderare la società opulenta, dall’altra i religiosi sarebbero lì per mettere un elemento quasi eccessivo, ma che equilibra l’opulenza degli altri; si capisce un po’ questa visione. E lui dice: no, no. Però, è facile dire no, ma se lo facciamo, se lo facessimo, e : come farlo? Dunque in questo testo c’è una potenza rivoluzionaria.

Si tratta dunque di rovesciare, mettersi nella mente e nel cuore “dobbiamo rovesciare” ma per ritrovare la vera povertà. Lercaro però è consapevole che non si può rovesciare immediatamente, in un colpo, ma è possibile lavorare a un rovesciamento, di capire che si tratta di cosa nostra: rovesciarci. Non rovesciare la società opulenta, che sarebbe rovesciar-li, ma rovesciar-ci, noi, perché siamo dentro. Ad esempio, penso che la maggioranza di voi avete forse una carta bancaria, dunque un ‘denaro virtuale’ nella tasca. E’ diventato quasi necessario : non si può non fare così, perché non avere una carta bancaria non è molto comodo oggi, perché tante cose si pagano così. Se voglio comprare un volo, perché questo mi capita, anche un volo low cost, che non costa molto, va bene, posso unicamente farlo tramite internet, dunque devo primo avere un internet, e secondo pagare con la carta bancaria. Bisogna rovesciare… C’è da dire che non sono delle proposte gentili, è che non è soltanto per gli altri quello che il cardinale dice. Ma come fare ?

Dunque, rovesciare. E per questo rimettere al centro della nostra missione e della nostra teologia il mistero di Cristo crocefisso. Una teologia basata sul mistero di Cristo crocefisso: rimettere tutta la questione alla luce della croce di Cristo. Dunque, riformare la cristologia. Questa, quando eravamo più giovani, era centrata sull’incarnazione del Verbo di Dio, una cristologia dell’incarnazione, insistendo molto su “il Figlio di Dio si è incarnato”. Cristologia dell’incarnazione, con insistenza sulla divinità. La croce veniva “perché abbiamo molto peccato”: è morto per i nostri peccati. Dunque, il figlio di Dio e i peccati dell’uomo, il figlio di Dio incarnato e la redenzione mediante il sangue di Cristo. E questo rimane ancora il modo abituale di pensare il cristianesimo nella mentalità della gente. Lercaro propone di andare più avanti: la croce di Cristo sarebbe, diciamo, la chiave d’intelligenza di Gesù. Capirlo prima di tutto come morto e risorto: il mistero pasquale come centro della cristologia. Questa proposta che non era Lercaro l’unico a fare, si è sviluppata negli anni successivi, adesso mi sembra che cominciamo veramente a pensare la cristologia sulla base della croce e della resurrezione. Il che pone delle domande non facili da rispondere sulla incarnazione: come era veramente figlio di Dio quest’uomo che è morto e risorto? “Per comprendere, scrive Lercaro, il momento attuale e la funzione non di perfezionamento soltanto, ma di salvezza simpliciter, storica oltre che metastorica, che può esercitare oggi la povertà evangelica, occorre reinserire e reintegrare la povertà stessa nel quadro complessivo di tutta la storia della salvezza e particolarmente in rapporto al punto nodale di questa storia, cioè la croce di Cristo” (vedi La Tenda n° 6 pag. 4, 5 3 6). Il punto nodale della storia della salvezza è la croce di Cristo. Si potrebbe dire: Chi parla, Lercaro o Lutero? Per dire che se si legge un po’ con una certa cultura teologica, si vede che questo documento è esplosivo, anche a livello teologico.

Dunque rifare la cristologia: per rovesciare l’opulenza e ritrovare il senso del sacro, rimettere tutta la storia e dunque la povertà o la ricchezza alla luce della croce di Cristo, diciamo del mistero pasquale. Poi, un’altro elemento: fare uno studio in profondità della beatitudine dei poveri, che è la prima nei due vangeli. Ma voi sapete che l’espressione di Matteo è più generale, “beati i poveri in spirito”, dunque lo spirito contro la carne, ma in maniera forse generale. Invece in Luca la povertà è veramente la povertà critica: non avere niente. Le quattro beatitudini di Luca sono molto concrete: “beati i poveri che non hanno niente”, coloro che piangono, realmente, perché soffrono realmente. Allora non prendere queste cose in un modo solamente spirituale, ma ritrovare il senso della povertà evangelica reale.

Alla società opulenta Lercaro non oppone immediatamente un altro tipo di società non opulenta, perché lui non sa che cosa è, e neanche noi. Ma indica i criteri per stabilire questa società anche a livello sociologico, che sarebbe di ritrovare il senso fondatore della croce di Cristo e della beatitudine dei poveri. Secondo me questo apre un campo molto difficile perché la povertà è il denaro, concretamente. Ora, tutti noi abbiamo bisogno di denaro, no? E dunque si deve fare una teoria del denaro non soltanto negativo, come sarebbe una cosa facile, ma: che cos’é un denaro povero? La domanda è facile, la risposta è difficile.

Suggerimenti

La seconda parte mi sembra molto interessante, perché lui propone, – e qui si vede che non è un teologo a livello tecnico, diciamo, ma è anche un pastore – di fare dei piccoli passi.

1. Il primo immediato, per lui, dei piccoli passi sarebbe per i vescovi : diventare veramente dei vescovi e non dei signori. Propone dunque di rinunciare ai titoli ‘eccellenza, eminenza, eminenza reverendissima’: l’abbandono dei titoli aulici, l’uso di segni comprensibili, un tenore di vita semplice. Questo non è niente? E’ qualcosa. Quando un vescovo è chiamato abitualmente ‘padre’, man mano si percepisce come un padre, quando si dice eccellenza, man mano si prende come un’eccellenza. Le parole non sono neutrali, dunque era un piccolo passo, ma era un passo.

Primo elemento, dunque, è semplificare, perché le vesti, i nomi, la parola sono delle cose umane e profonde. Dimmi come sei vestito e ti dirò chi sei. Dimmi i nomi con i quali tu sei chiamato e ti dirò chi sei. E questo era il primo punto. L’idea era che facendo così, man mano si cambia la mentalità e dunque si cambiano anche gli atteggiamenti concreti.

2. Il secondo punto, seconda fase, per tutti i fedeli. Interessante perché quando parla a tutti i fedeli, parla a tutti i fedeli direi piccolo-borghesi che siamo tutti noi. Chi sono coloro che vanno in chiesa? Sono i piccoli borghesi, o grandi borghesi, ma sono borghesi, comunque, almeno negli anni Quaranta. Come diceva, con un’altra parola, mi sembra Romero, quando si racconta la vita di uno: “era povero, però buon cattolico”. ‘Però’ era nel modo di scrivere le leggende dei santi. Dunque povero vuol dire non cattolico, non buono,… ‘però’ era di una buona famiglia!… Lercaro allora dice a questi borghesi, che erano forse la massa della chiesa a quell’epoca, al suo tempo, di ritrovare mediante dei mezzi liturgici nuovi modi di fare, per una trasformazione delle pratiche di penitenza; ritrovare man mano il senso della povertà e del legame tra tutti i cristiani a questo livello. Ridare a tutti i cristiani il senso un po’ reale di cosa significa essere cristiani, ritrovare nella vita concreta una certa austerità che man mano renderà più sensibili al mistero della povertà. Ci sono state tante discussioni ad esempio sul digiuno; si è detto che il digiuno non è soltanto non mangiare carne il venerdì ecc., il digiuno invece è l’aspetto “negativo” della carità: per poter dare tu devi digiunare, tu devi dare ciò che hai, dunque digiuno come attenzione al prossimo, dargli le cose che tu hai e quindi privarti di queste cose. Quindi la trasformazione dell’ascesi nel senso della condivisione con gli altri.

3. Il terzo tempo, e lui dice in una fase successiva, ma non troppo, dopo la chiusura del concilio: una rivoluzione teologica ecclesiale, quella di cui ho parlato prima: che si compiano realmente gli approfondimenti dottrinali necessari. Ricentrare tutta la teologia sulla croce e la Croce di Cristo. Questo evidentemente porta con sé una rivoluzione anche della pratica della Chiesa, perché si la croce di Cristo è al centro della nostra fede, la chiesa anch’essa è continuamente crocifissa e risorta. Lercaro riprende a partire da questo i doveri del magistero supremo, il magistero dei singoli vescovi: ripuntare in modo decisivo sul mistero della povertà e dunque sui poveri. Questo si è fatto dopo con la formula, “opzione preferenziale per i poveri”.

Dunque, il magistero, i vescovi, i sacerdoti, i religiosi e il popolo cristiano: riproporre per ciascuna categoria un modo nuovo di vivere e, in questo senso, suscitare un’altra struttura ecclesiale.

Ho scritto, e mi scuso di fare allusione a me stesso ma è forse più semplice, ho scritto un libro che si chiama “Immaginare la Chiesa Cattolica”, che è stato tradotto in italiano, e non l’ho fatto per immaginare così, ma ho cercato, dopo il concilio durante dieci o quindici anni di vedere cosa sta sotto queste affermazioni del Concilio. Nel concilio ci sono diversi documenti su questo punto; ma come strutturare questo? Mi sono accorto che dietro c’era una trasformazione che era molto più grande, e per essere logici con i documenti dobbiamo riformare anche tutta la struttura della Chiesa.

Abbiamo nei documenti del Concilio dei pezzi di affermazioni: la Chiesa in se stessa, il rapporto della Chiesa con gli ortodossi, con i non cristiani…, dunque sono dei pezzi, ma se tu vuoi avere una visione sintetica, che cos’è la chiesa e allora tu vedi che la chiesa da venire è molto diversa da quello che era prima. Dunque la domanda : perché era così prima? e perché oggi dobbiamo fare questo passo? e terzo quale sarà l’influsso di questa trasformazione della chiesa sul mondo? E io penso che con queste proposte Lercaro immaginava, prima di me e molto meglio, la chiesa futura. Pensava che questa chiesa futura poteva nascere non dalla teoria ma passo passo con atteggiamenti un po’ diversi che mano a mano portassero a un cambiamento. Si dice “quando io metto mano al funzionamento della struttura, tutto il corpo va dietro, e quindi voleva cominciare a mettere mano a questo”. Purtroppo c’è stato negli anni successivi un momento di paura “se mettiamo mano al funzionamento della struttura, tutto cambia, ora la struttura non vogliamo cambiarla, quindi togliamo la mano”, è logico.

Ecco questa è dunque la presentazione del documento. Rimarrebbe da vedere: 42 anni dopo, quale è il suo significato, cosa è stata fatta, come riprendere il lavoro ?

Domande a Ghislain Lafont:

Gianfranco Solinas: abbiamo uno spazio di dibattito e domande ai relatori, poi interverrà ancora Ghislain.

Marcello Vigli: Sono Marcello Vigli, del gruppo romano delle comunità cristiane di base. Vi ringrazio innanzitutto dell’iniziativa perché mi sembra che, nel deserto romano, rappresenti un po’ di luce in questo momento. E vi porto il saluto della segreteria nazionale delle comunità di base, che ha già mandato per e-mail un saluto, ma che per i soliti drammi telematici non è arrivato. Rosario Carli che è a Milano e che è appunto responsabile della nostra segreteria nazionale mi ha detto, se tu vai, porta il saluto delle comunità di base.

E poi c’è la mia, di presenza. Dunque, con gli amici de “La Tenda2 abbiamo fatto molta strada insieme. Virgilio Maccone, che forse qualcuno di voi ricorda tra i fondatori de “La Tenda”, è stato il responsabile finanziario e per la stampa del primo bollettino romano delle comunità di base, quando le comunità di base a Roma erano circa una ventina. Poi si sono assottigliate, come sempre succede, ed oggi siamo rimasti in pochi. Però, mi interessava intervenire nella impostazione data sia da Solinas sia da Cagnetti quando accennavano all’idea che c’è una realtà di cristiani poveri, che praticano la povertà, portano avanti l’esperienza che abbiamo sentito adesso, e quelle che sentirete dopo lo stanno a testimoniare, che ci fanno dire che effettivamente il messaggio conciliare si è in gran parte realizzato. Ma poi c’è invece quella che Nicolino Barra, una volta che ci trovammo a parlarne, chiamava la chiesa parlata. Quando cercammo di capirci in che cosa si differenziava, lui disse: “Senti, Marcello. C’è il calcio giocato e il calcio parlato. Il calcio parlato è quello che in televisione o nei bar dal lunedì al sabato trova la gente a discutere su come sono andate le partite. E poi c’è quello che gioca. A me della chiesa parlata interessa poco”. Ecco, io penso che invece noi, che bene o male siamo nella base della chiesa, nella realtà delle parrocchie, come disse quel libro di Marco Politi di qualche anno fa, in cui ha dimostrato che in Italia c’è una realtà ecclesiale vivacissima, sul piano assistenziale, sul piano dell’impegno sociale, sul piano dell’impegno culturale, viviamo realtà delle quali non filtra nulla al livello delle gerarchie. Ecco, io penso che quelli che operano a dimensione di base, debbono anche sentirsi responsabili della chiesa che invece appare sui giornali, per cui quando si parla di chiesa a chi si pensa? A Ruini, a Betori, magari anche a Bagnasco, al Papa, e a questa realtà si guarda con una certa indifferenza. E io con altri mi trovo spesso a muovermi sul piano della battaglia per la laicità delle istituzioni con altre organizzazioni non cristiane. Bene, e mi guardano con una certa sufficienza: sì, tu dici queste cose, ma intanto la tua chiesa fa ben altro. E se stiamo seguendo in questi giorni, in qualche modo, una molto strumentale campagna sulla ricchezza della chiesa, ci rendiamo conto di come effettivamente spesso l’idea che ci sia una chiesa povera di fronte a una chiesa ricca sia uno degli interrogativi che spesso l’opinione pubblica si pone. Che rapporto c’è fra questa chiesa reale e la chiesa ufficiale? Ci contentiamo di sapere che in Francia la chiesa reale se ne infischia della chiesa ufficiale o in Italia abbiamo una responsabilità, dato che all’Italia si guarda, perché in Italia c’è la sede del papato? Grazie.

Franca Travaglino: Io vorrei fare una domanda molto semplice che potrebbe essere anche banale, o dipende dal fatto che io mi confronto con una realtà differente. Vorrei che mi fosse chiarito che cosa si intende per evangelizzazione dei poveri.

Chiara Flamini: La risposta alla domanda di Franca è troppo difficile, ma mi ha fatto venire in mente un rovesciamento, cioè quanto il povero Gesù ci evangelizza e quanto noi siamo evangelizzati dai poveri, oppure quanto noi poveri, tra noi ci evangelizziamo condividendo la nostra esperienza.

Luciano Mariani: Io volevo dire solamente una cosa. Tu hai detto che il documento è esplosivo e io ripeto quello che già ci siamo detti prima, che dal 1964 come esplosione siamo andati un po’ maluccio. E un’altra cosa che dicevi, sul fatto della Francia. Sul fatto della Francia, è differente da quello che capita in Italia proprio per quello che diceva prima l’amico, che noi abbiamo la sede, non dico la santa, dico la sede, mentre in Francia e in Spagna questo non avviene. La mia domanda è questa. Un domani che riusciremo a liberarci da questa catena che ci opprime e che a me, per esempio, mi dispiace dirlo in pubblico, ma è la realtà, molti amici lo sanno, mi fa perdere la speranza, se posso sperare in un futuro come la Francia, la Spagna e tante altre nazioni. Grazie.

Giampiero Forcesi: Due cose volevo dire: una, siccome mi è capitato tanto tempo fa di studiare per una tesi di laurea proprio il cardinal Lercaro, volevo riferire questo, perché mi ha colpito molto quando lo studiavo e anche adesso. Lui, quando è arrivato a Bologna come vescovo, veniva da una diocesi più piccola dell’Emilia, era un vescovo-signore, proprio un vescovo-re, si potrebbe dire. La macchina andava avanti con poliziotti, con motociclette, con la macchina dietro, era così, i primi anni. Ha fatto tutta la sua battaglia contro il comunismo di Bologna e in una maniera, in una contrapposizione fortissima. Certamente l’amicizia vera, profonda con Dossetti lo ha, come dire, penso aiutato in un percorso, in una evoluzione che è sua, tutta sua, della sua persona, ma certamente la vicinanza di Rossetti lo ha aiutato molto. E anche questi documenti di Lercaro, per lo studio che ho fatto io, devono moltissimo alla personalità e alla radicalità di Dossetti. Ma, detto questo, resta il problema dell’amicizia tra queste due persone, insondabile, secondo me, sino alla fine non si riesce a distinguere ciò che è di uno e ciò che è dell’altro, come dire. Ma volevo dire una piccola considerazione; il padre diceva prima la povertà come virtù o l’impegno per i poveri. Queste due dimensioni.

Io credo che nell’esperienza che ho fatto io, per esempio di impegno personale, se sottolineiamo di più l’impegno per i poveri, che pure, è difficile dire, ma insomma che ha una concretezza enorme, un’importanza fondamentale, però, diciamo, se nell’esperienza nostra non riusciamo ad accompagnarlo con una dimensione personale o di gruppo, di una piccola comunità, di beatitudine della povertà, cioè dell’esser poveri, del tentare… è difficile, è difficile, è difficile, ma per mille motivi è difficile, ma se non è un’esperienza personale si isterilisce. Molta teologia della liberazione, per esempio, che noi abbiamo vissuta un po’ più da lontano, perché non abbiamo molto praticato la teologia della liberazione in Italia, però l’abbiamo, come dire, condivisa, sostenuta, abbiamo letto i libri, li abbiamo diffusi, eccetera, però io personalmente ho sentito come un girare su se stessa di una certa teologia, cioè, troppo, anche quella politicizzazione, che poi è importante la politica, perché dobbiamo cambiare il mondo, la società, però se non si rende vivo e con una dimensione spirituale, una caratura spirituale forte il discorso per i poveri attraverso una condivisione, una vita povera di ciascuno, lo sforzo di ciascuno di essere, non si passa, non cresce una chiesa diversa. Non è soltanto l’impegno per i poveri che può cambiare, ma è una riflessione sull’esser credenti, è comunque una dimensione molto personale di vita più aperta alla preghiera, al mistero, e in questo senso accompagnare la vita dei poveri, altrimenti così è tanto difficile cambiare.

Lorenzo D’Amico: Volevo chiedere a Ghislain se è possibile riprendere in mano il terzo punto, che non ha potuto sviluppare: che cos’è oggi, l’oggi come ci interroga su questo tema e giustamente Ghislain diceva, questo aspetto qui avrebbe bisogno per lo meno di una giornata. Però qualcosa, ecco, qualche punto, qualche sollecitazione di ricerca, questo sarebbe, secondo me, utile. E la seconda domanda a Ghislain in quanto monaco: un aiuto a trovare una risposta, perché c’è un atteggiamento, di fronte a un problema nuovo che è importante, che ci interroga, potrebbe esserci una risposta dicendo “ma io ormai ho tutte le idee chiare, non ho bisogno di rimettere in discussione nulla”, e noi sappiamo che poi è la morte della ricerca. Sulla sponda opposta invece, troviamo persone che dopo anni di interrogativi, dopo anni di vita di condivisione, a un certo punto si sentono come alle corde, con le braccia appoggiate sulle corde in preda all’avversario che colpisce e ci si arrende, si perde la capacità di perseverare in un cammino che invece è quello giusto. Allora, che cosa ci può aiutare nel vincere la nostra rigidità, la nostra durezza, la nostra sapienza definitiva, da una parte, e che cosa ci aiuta a perseverare quando capiamo che la strada è proprio quella giusta.

(xxx): Volevo solo aggiungere rispetto ad un’osservazione che è stata fatta, due dati della mia piccola esperienza. La prima è quella della chiesa inglese, parlavo una decina di anni fa con un amico sacerdote, mi raccontava come era stato nominato il primate inglese, quello che adesso sta per andare in pensione, Williams. Dopo una larghissima consultazione del clero e di tutto il laicato, i tre nomi sono venuti a Roma e Roma li ha accettati. Voglio aumentare qualche motivo di speranza. Questo è un dato, come dire, che mi ha colpito molto, e mi colpisce rispetto a quel signore che diceva “ma certo”. Un’altra cosa: recentemente parlavo con un’amica portoghese. Anche lì sono rimasto letteralmente sorpreso, questa è freschissima, invece, lasciamo stare il resto che non interessa, ma insomma le idee dell’episcopato sono totalmente diverse, ecco, sono molto aperti. E allora io sono entrato in crisi: con Roma come si fa? Ma non ho avuto ancora il coraggio di formulare l’osservazione che adesso mi propongo di espletare. Penso che la chiesa è universale, di per sé, e quindi incida, è una domanda che faccio al padre Ghislain. Grazie.

Paolo Rubeis: Ringrazio di questa opportunità che mi avete dato. Ho seguito con molta attenzione le parole del padre Lafont, sono rimasto un po’ preoccupato per alcune espressioni fatte negli interventi quando si va a contestare in toto, anzi chiedere quasi come una benedizione la scomparsa della chiesa ufficiale oppure altro. Perché, attenzione, tutto quello che ci stiamo dicendo è tutto sacrosanto, a mio parere, ma deve rimanere dentro la chiesa, con lo spirito di cambiare questa chiesa, perché se no siamo fuori. Come ha detto il padre prima, Lutero, Valdo e altri sono partiti da cose molto belle e importanti, e sono finiti dall’altra parte. Quindi, credo che sia importante coltivare questo spirito, e in effetti la chiesa istituzionale si è allontanata molto dai principi del vangelo, ma ora rimaniamo dentro questa chiesa per cercare di cambiarla, non auguriamoci che scompaia.

Luciano Mariani: Non ho detto, scusi, che la chiesa deve scomparire, io ho detto che c’è qualcosa che deve cambiare, cioè ho parlato della Francia e della Spagna appunto perché lì la chiesa c’è, ma è cambiato qualcosa.

Carlo Travaglino: Prima di tutto io penso che sarebbe molto opportuno chiarire un po’ i termini, perché sinceramente io penso che teologicamente si rischia anche una confusione nella comprensione di certe realtà, perché si sta parlando di chiesa, e i riferimenti poi pratici sono alla gerarchia, sono alla struttura. La chiesa è una cosa, è una realtà complessa, di cui la gerarchia fa parte. Ma quando parliamo di certe devianze dal concilio, queste non riguardano la chiesa, questo riguarda la gerarchia. Io ricordo che questa devianza è cominciata subito dopo il concilio. Certo poi l’ha sviluppata Giovanni Paolo II e oggi la si sta portando a compimento. Voi pensate che il famoso documento di Lercaro, firmato da 500 vescovi, dopo poco con Lercaro ne restarono 100, ci fu un’apostasia dal documento di ben 400 vescovi, e non è poco questo. Si parlò della chiesa dei poveri che era il sogno di Giovanni XXIII, che non fu capito. Io ricordo che in quel tempo ero nella Consulta generale ed ebbi un contrasto con il vescovo Nicodemo come membro della Consulta, vescovo di Bari. Rientrando a Roma, durante una seduta della Consulta a Via della Conciliazione, io riferii in Consulta questo contrasto sul tema conciliare anche della povertà, ma era delle associazioni, dello stare insieme, della fraternità, eccetera, ricordo che mi mise a tacere, Nicodemo, che io parlavo come membro della Consulta generale, che il vescovo era lui e lui decideva le cose, Concilio o non Concilio. Ricordo che durante questa assemblea il segretario della Consulta mi interruppe e mi disse: devi capire, Carlo, che gli ultimi a capire il concilio e ad attuarlo saranno i vescovi: Perché, Juan Arias, teologo spagnolo, mi spiegò che lo Spirito Santo aveva lavorato molto nel Concilio, aveva faticato, e dovette addirittura bloccare l’attività, la comprensione dei vescovi per portarli a firmare dei documenti di cui non si rendevano conto. Si sono resi conto dopo, e hanno cominciato a fermare il cammino di Giovanni XXIII. In quel tempo io, per ragioni anche di servizio, dovevo seguire passo passo questi passaggi, e ricordo come si cominciò subito a parlare della chiesa non più dei poveri, è una sottigliezza, ma per i poveri, e fu la prima sottigliezza per minare le fondamenta della tesi che aveva annunciato e dell’annuncio, anzi, di Giovanni XXIII. E

poi si passò alla chiesa per i poveri. E fu il primo stravolgimento. Poi arrivò don Giussani. Sono piccoli episodi, ma significativi, e il suo movimento studentesco, a parte che voleva minare il movimento studentesco dell’Azione Cattolica, ma c’era già il concetto di comunione che si faceva strada, che doveva sostituire quello dei poveri. Cioè, non più Chiesa dei poveri, ma Chiesa comunione, comunione con chi? Con il potere. Cioè, praticamente, la spartizione di vita con i poveri diventava obbedienza alla gerarchia. Oggi si sta portando avanti questo concetto. Si sta recuperando il concetto di chiesa-comunione.

Io dico che questo convegno è veramente una grande speranza e io personalmente ringrazio il Gruppo de La Tenda per averlo organizzato. Perché questo è il convegno della chiesa, questa è la chiesa, che fa emergere i veri valori che il Concilio ha tentato di annunciare e che altri, che avrebbero dovuto sviluppare, hanno cercato di affossare. Però la speranza c’è, perché questa chiesa dei poveri esiste. Il problema forse è come ampliare questa chiesa dei poveri. Io vedo qui il n. 125 del documento che pone il problema, cioè come fare per partecipare, per non partecipare alla società dei pochi avvantaggiati e partecipare invece alla società dei molti esclusi. Questo è il problema. Allora credo che bisognerebbe veramente insistere su questi convegni, ma non per fare una chiesa parlata, come ha ricordato Marcello, perché anche la gerarchia parla dell’attenzione ai poveri, ma quella è una chiesa parlata, ma la chiesa reale è questa. Però bisogna moltiplicare queste cose qui, perché c’è stato uno stravolgimento. La maggioranza del Concilio poi è diventata minoranza, perché la maggioranza si è spostata. Cioè quello che il Concilio voleva, oggi è presente nella minoranza della chiesa, una minoranza che non fa chiasso, perché il chiasso lo fa più chi ha il coltello dalla parte del manico, però non significa che non sia vita. Allora bisogna moltiplicare questa vita, cercare di fare dei passi concreti, di smetterla con la chiesa parlata, e io ricordo ancora quello che opportunamente, molto efficacemente ci ha ricordato Marcello, di realizzare questa partecipazione alla società dei molti esclusi, cercando di parteggiare meno per gli avvantaggiati. Noi abbiamo visto che è possibile farlo.

Voi avete sentito il messaggio di Sara. E’ un’esperienza, quella, esperienza, non sono parole, quelle. Quella è traduzione di una realtà di vita. Allora io mi domando, se questo lo possono fare delle persone semplici, come Sara, dei malati, dei poveri, perché non possiamo farlo anche noi? Bisogna darsi forse una mossa, come si dice solitamente, e c’è meno paura di chi sta sulle poltrone e avere più amore per chi sta sulla sabbia. Grazie.

Gianfranco Solinas: Penso che anche il concetto di comunione dovremmo riprecisare, perché è stato uno dei fondamenti del cammino della Tenda, perché le parole poi vengono variamente declinate e interpretate, ma la dimensione comunionale va poi riscoperta.

Maria Dominica Giuliani: Gli interventi mi hanno fatto venire in mente di comunicarvi una cosa. Questa estate con alcuni del Gruppo Solidarietà Internazionale della nostra chiesetta di San Leone a Largo Boccea siamo andati a Kinshasa per due settimane di campo di lavoro e solidarietà. E oltre alle cose che abbiamo fatto, soprattutto che abbiamo vissuto, la cosa bella che mi sono portata dietro è una grande speranza, perché ho visto, anche dal punto di vista proprio della chiesa, perché ho visto come in uno stato come la Repubblica Democratica del Congo, in questi dieci anni terribili di guerra che ha vissuto, il ruolo della chiesa è stato in mezzo alla gente, per rendere ognuno consapevole del proprio diritto, di quello che era un discorso di pace, a tal punto che, sì, abbiamo trovato una situazione molto disastrata, veramente la peggiore come Paese che abbiamo visitato in questi anni, però ci siamo portati a casa tutti quanti la sensazione di un popolo consapevole dei propri diritti, consapevole di quello che sono le sue risorse, risorse di ricchezza, ma anche di ricchezza personale. Questo, una parte di questo è stato un lavoro condotto a livello capillare dalla chiesa, e anche la rete di comunicazione, poiché le strade non ci sono più, passano attraverso l’osservazione attenta di eventuali sconfinamenti di armati che arrivano, ha come capo il vescovo della zona, che può rilanciare le notizie, l’unico che è forte per questo. E questa è una cosa molto bella, perché veramente è una chiesa che vive in mezzo. L’ultima nota che volevo fare è questa: a un nostro amico, vicario episcopale di Kisangani, che ci raccontava, appunto dall’altra parte, le cose come avvengono, una chiesa non tanto di missionari ma una chiesa locale che è viva, allora gli abbiamo fatto come battuta: che ne pensi del documento che è uscito adesso per il ripristino della messa in latino, cosa ne pensano i vescovi del Congo? Lui ci ha guardato così e ha detto: quelli sono fatti dell’Europa.

Risposte di Ghislain Lafont

Fedeltà alla Chiesa

Comincerò dall’intervento del signore che parlava della fedeltà alla Chiesa. Ho detto nella mia relazione che non dobbiamo comunque mai separarci dai nostri pastori: la differenza tra Valdo e Francesco è che il secondo è rimasto nella chiesa ed è stato finalmente più efficace. Dunque su questo punto non c’è discussione. Però la difficoltà concreta è molto grande Si parlava di speranza… un aspetto della speranza, forse, in questo tema, è di non lasciare questo legame né mentalmente né concretamente perché siamo cristiani, cattolici, questo è sicuro.

Evangelizzare : cosa è ?

Rispetto alla domanda della signora Franca: “cosa è l’evangelizzazione dei poveri?”; mi ricordavo, ascoltandola, il titolo di un libro di un sacerdote che appartiene a un istituto francese di evangelizzazione dei poveri, che si chiama “figli della carità”; lui è andato in missione in diversi paesi e poi ha scritto questo libro che si chiama: “I poveri mi hanno evangelizzato”. Questo può essere una parte della risposta alla domanda: cosa è il vangelo e cosa è allora evangelizzare? Più vado avanti nella mia vita che è vicina alla sua conclusione e più penso che il vangelo si riassume in due realtà: primo la persona di Gesù, conosciuta attraverso la lettura del vangelo, la meditazione, la preghiera e la seconda sono i comandamenti del Signore, cioè: amare Dio con tutte le nostre forze e il nostro cuore e amare il prossimo come noi stessi; forse il più importante non è il primo ma il secondo perché molte persone possono capire che l’altro è portatore di diritti e possono allora darsi da fare per far rispettare questi diritti senza aver precisamente una idea molto chiara su chi è Dio. Anche noi forse non abbiamo una idea molto chiara su chi è Dio… io penso che più andiamo avanti nella vita, più è oscuro questo fatto. Dunque in che senso i poveri possono evangelizzarci? Perché stando tra loro vediamo cose stupende che sono…evangeliche! Un esempio: mi è capitato di andare in Brasile anni fa ed ho visitato una favela e una suora che mi guidava in questa favela mi diceva: “queste donne sono stupende; quando una donna si mette con un ragazzo, il matrimonio viene o non viene, ma comunque i figli vengono e quando ci sono 5 o 6 bambini, il ragazzo, molto spesso disocuppato e incapace di nutrire la famiglia si scoraggia e se ne va ; allora la donna resta sola con i suoi figli, senza niente. Ebbene, quando per caso la ragazza riceve anche solo un litro di latte, non so come o perché, la prima cosa che fa è chiamare la vicina che sta nella sua stessa situazione e condividere quel litro di latte tra i suoi sei bambini e quelli della vicina…togliere il latte ai suoi bambini per darlo a quelli dell’altra mamma! Questa per me è una immagine della vita di Dio : Dio si dona senza limite! E questo esempio è veramente estremo, togliere un po’ di cibo ai propri bambini per darlo a quelli della vicina significa possedere una intelligenza su cosa è l’umanità, cosa è l’essere umano dentro una povertà enorme. Questo non è scritto sui giornali o neanche sul catechismo della chiesa cattolica…ma sono realtà che si vivono! Io lo so perché quella suora me l’ha detto e di questi casi ce ne sono tanti e ci evangelizzano perché io ad esempio questo gesto non lo avrei fatto…noi siamo evangelizzati in questo senso; forse in un luogo dove vivono i lebbrosi si vedono cose che non si vedono da nessuna altra parte e allora se vogliamo annunciare Gesù Cristo dovremmo conoscere e far conoscere Gesù Cristo che è già presente. Però non bisogna avere uno sguardo ingenuo sulla povertà: il peccato si trova anche tra i poveri, non è che i poveri sono tutti santi e i ricchi tutti egoisti, ci sono poveri anche molto egoisti; per questo per me (e credo non solo per me) forse la causa del nostro tempo è di avere capito, forse come nessun tempo nel passato che è l’Amore il valore fondamentale…e forse ci volevano duemila anni per capire questo…

Chi è Dio ?

Quando noi la domenica andiamo alla messa sentiamo il sacerdote che dice: “Dio Onnipotente ed Eterno” e questo corrisponde ad una certa visione di Dio: la potenza di Dio, l’eternità di Dio; questo è vero, nessuna contestazione al riguardo. Però pur belle che siano (perché sono pezzi di

teologia meravigliosa) le collette della domenica hanno dietro una idea di Dio con questo aspetto potente ed eterno, il massimo che poteva dire la gente di allora. Ma noi oggi insistiamo sulla parola di Giovanni : Dio è Amore. Amore significa qualcosa: dare la vita per gli altri, oppure ricevere la vita dagli altri, Dio come circolazione di Vita: la donna della favela faceva questa circolazione. Io penso che questo non è soltanto un pensiero spirituale edificante ma un progresso nella teologia: siamo passati dall’Uno, dall’Essere, dall’Eterno, dall’Onnipotente, che conserviamo certo ma tenendo presente ma riteniamo che questi attributi splendidi debbono essere interpretati all’interno dell’Amore! Potremmo fare un discorso senza fine su questo punto. Dunque dobbiamo partire da tutte le relazioni di Amore che vediamo a tutti i livelli là dove siamo per far emergere la figura di Cristo perché c’è!

Nello stesso tempo abbiamo avuto l’idea che Cristo è risorto e il suo Spirito è comunicato, ma immediatamente il pensiero era che lo Spirito è comunicato alla Chiesa, quindi a un circolo limitato, alla Chiesa mediante i sacramenti, e abbiamo riflettuto in questo quadro che è vero. Non dico che non sia vero, eppure se Gesù è risorto, se il cuore di Gesù è aperto, il suo Spirito è in e per tutto il mondo! Dobiamo trovare “gli occhiali” per vedere dove si trova questo Spirito e aiutare la gente a nominare ciò che vedono.

In questo senso anche i dialoghi tra le religioni non significano niente, se non che lo Spirito lavora bene al di là delle nostre frontiere anche se le nostre frontiere hanno una qualità ed una ricchezza che altre non hanno.

Dunque evangelizzazione è fare emergere il Vangelo che si trova, e nel fare emergere c’è un più, una realtà di più della tua realtà, che dare un nome a ciò che vivono è già una cosa di più.

La Speranza

Più volte è apparso in questi interventi il tema della speranza. Mi ricordo un mio abate, che oggi é partito in Africa per aiutare; mi diceva che, nella sua esperienza ventennale di abate, ha potuto vedere che la tentazione e anche il peccato più grande è di mancare di speranza, di non sperare più. E nel mondo nel quale siamo, è un dono che ci è fatto: di poterci appoggiare sull’Amore, sulla Potenza Amante di Dio per essere sicuri che c’è un futuro di Bene! Mi sembra che questa è una scoperta di oggi. Forse abbiamo avuto bisogno di duemila anni per capire questo. Quando Gesù è risorto, gli apostoli pensavano che Lui sarebbe tornato presto… Perché allora duemila anni e più ? Forse l’umanità doveva ancora imparare, diventare più consapevole della realtà vera, lasciarsi trasformare.

Dobbiamo sperare nel futuro perché la Verità non è dietro ma avanti! Altrimenti Dio non avrebbe creato il tempo! Perché lo ha fatto? perché ha avuto fin dall’inizio la visione del Cristo totale. Però secondo le sue disposizioni, per raggiungere questo ci vuole un tempo che è fatto di momenti difficili: rotture, crisi, riconciliazioni a livello del kosmos, a livello dell’umanità. Andiamo sempre avanti! il progresso è più importante delle cose che non funzionano. La tentazione è sempre quella di guardare indietro, lamentarsi che “il passato era meglio!”. Non è vero: il presente è buono! Anche se dire questo è un atto di fede, perché il mondo come noi lo vediamo non funziona bene, soltanto la fede ci dice che funziona bene (e ci aiuta a scoprire dove si trova il bene!) Io stesso faccio fatica ogni giorno a ridare un po’ di vita alla mia “non-speranza”, ma solo cosi possiamo costruire il Corpo totale di Cristo, e questo spiega che abbiamo avuto bisogno di duemila anni per capire che l’amore è il valore supremo, prima anche della verità.

“Fare per” o “essere con” ?

C’è una grande differenza tra la povertà come virtù e la povertà come impegno per i poveri. Mi sembra che la differenza tra questi due aspetti della povertà è, in altre parole, tra un “fare qualcosa per i poveri” e un “vivere qualcosa con i poveri”…e questa è tutta la differenza. Perché se faccio “per” io sono altrove! Certo, si deve fare comunque qualcosa per i poveri e tutti non possono vivere condividendo la povertà in modo totale, ma l’ideale sarebbe non “fare per” ma: “vivere con”. Non dare delle cose, ma aiutare le persone come ci aiutiamo noi, crescere insieme.

La sfida per noi che nella maggior parte non siamo poverissimi, – abbiamo i nostri obblighi di famiglia e lavoro ,- è : “Come possiamo “vivere con”?…Ci sono molti modi, con un po’ di

immaginazione. Ognuno deve chiedersi ed immaginarsi: “cosa significa e come posso nella mia vita “vivere con” i poveri! E con quali poveri…Un esempio, il cardinale Casaroli andava alla prigione dei giovani a Roma e passava tempo con loro…

Per capire meglio questo passaggio del “fare per” all’ “essere con”, si può presentare una visuale d’insieme sulla cultura. Il mondo antico, e forse adesso nelle culture non europee, la gente si organizza quasi spontaneamente a modo gerarchico. Al culmine, c’è un dio unico sconosciuto, poi, secondo un certo ordine, gli spiriti, gli dei, e, al più basso, gli uomini. Questo ordine celeste si ritrova sulla terra : il re e i nobili, i pontefici e i sacerdoti sono “superiori”. Sotto loro, ci sono altri ordini. In basso, gli operai di ogni genere, e sotto il basso stesso, gli schiavi. Questa gerarchia è un dato indiscutibile : cosi è e va il mondo. Tale era il mondo nel quale è entrato il cristianesimo, il quale ha interpretato gli elementi rivelati nel Vangelo in questa prospettiva gerarchica. La teoria è stata fatta alla fine del secolo V° da un autore anonimo, il “Pseudo Dionigi aeropagita”. Però, nel cristianesimo, è sempre stato un sforzo per umanizzare tale gerarchia e, per quanto riguarda il nostro problema, per prendere in considerazione i poveri, sulla base della fede nell’universalità della salvezza: a un certo livello, siamo tutti uguali. Di là viene la cura dei poveri, i doveri verso i poveri, sui quali insistono molto i grandi vescovi dell’Antichità, come ad esempio S. Giovanni Crisosostomo. Cosi, in un mondo gerarchico, “si china sui” poveri, “si fa delle cose per i poveri”…Finché ha durato la struttura gerarchica della civiltà, gli uomini di Chiesa hanno sottolineato il dovere dei nobili, ricchi etc. nei confronti dei poveri e i santi si sono distinti nella loro carità per i poveri. Nel seicento francese, abbiamo avuto S. Vincenzo di Paola…Quest’elemento della “carità per” è il primo apporto della Chiesa ai pagani. Un monaco, che ha vissuto molto in un paese buddista, mi diceva : “i monaci buddisti sono benevolenti, ma non benefacienti”; questo cambia adesso, ma l’influsso viene dal cristianesimo. Un’amica mia, che ha fatto un longo soggiorno nell’India mi diceva lo stesso: il progresso politico, tecnico etc. è enorme ed ammirevole, ma non si “sente” l’amore cristiano. In questo senso, l’opera di Madre Teresa è la vera introduzione del cristianesimo in India. – Però, oggi, la civiltà è cambiata oppure va cambiandosi. L’idea gerarchica sparisce, e l’uguaglianza fondamentale di tutti gli uomini viene al primo posto. Ciò non sopprime le diversità, neanche nella Chiesa, però le relativizza. Allora, man mano l “essere con” tende a sostituirsi al “fare per”. Questa sostituzione è dolorosa, e la lotta collegatale definisce forse la situazione de la Chiesa oggi.

Voglio fare un esempio, senza essere polemico e forse sbaglio: vedo una grande differenza tra le Piccole Sorelle di Gesù e le suore di madre Teresa , perché le prime vivono “con” i poveri e le seconde vivono “per” i poveri ed anche se è una cosa grande vivere “per”, danno tutto ciò che possono, ma le suore di madre Teresa con il loro modo di vita non pongono nessuna questione a una società gerarchica perché dietro a questo modo di vita c’è la visione di una società gerarchica! Ci sono i poveri e dobbiamo soccorrere i poveri.

Invece, il “vivere con ” corrisponde alla scoperta dell’uguaglianza fondamentale degli uomini e alla scoperta dell’aspetto carismatico e “non gerarchico” delle funzioni diverse. Una persona, uguale alle altre, ha un dono, e questo può essere il dono di fare il capo, nella società o nella Chiesa (e in questo caso, è un dono che viene dallo Spirito, è riconosciuto e eventualmente consacrato dalla Chiesa e nella Chiesa); ma questo non vuol dire che tale persona ha o è una essenza superiore! E’ un idea teologica particolarmente importante nel Concilio, nessun dono è un potere ma un servizio. Il potere è gerarchico, viene da Dio e scende su Gesù Cristo de di là su degli eletti; il servizio viene dallo Spirito e spinge ad essere come Cristo! Questo suppone una sistemazione ecclesiastica molto diversa!

Non dico che siamo tutti uguali nel senso che non ci sarebbe bisogno di vescovi e sacerdoti (o, nello Stato di persone come si dice ‘esponenti’) ma dobbiamo interpretare tutto in una visione più pneumatica che istituzionale. O dire che l’istituzione viene dal dono dello Spirito; una istituzione che provenisse unicamente dai poteri comunicati da Cristo come Potente prescinderebbe dallo Spirito! Io credo in una istituzione carismatica e questo mi sembra molto ortodosso. Quando ad esempio vediamo l’ordinazione di un vescovo, c’è l’imposizione delle mani e si dice: “che lo Spirito scenda su di te” e quindi “fai attenzione a conservare questo Spirito che ti è dato”. Ora

troppo spesso noi diamo immediatamente una interpretazione di struttura che è una visione gerarchica di ciò che è un dono spirituale!

Alla fine cambia poco ma invece cambia tutto. Un ordine nella Chiesa c’è, le differenze ci sono, l’autorità c’è, l’obbedienza c’è; ma tutto è come un gioco spirituale all’interno di un corpo animato dalla carità dello Spirito Santo. La teoria teologica di questo non è ancora stata totalmente elaborata e suppone questo spostamento teologico di cui parlava Lercaro: dobbiamo passare ad una teologia cristiano-pasquale: sofferenza, resurrezione, dono dello Spirito Santo, allorché abbiamo per secoli privilegiato la teologia della “incarnazione del Verbo”…Non dico che Cristo non sia il Verbo ma il Verbo in quanto è morto, risorto e comunica lo Spirito! Dietro a queste due visioni c’è una trasformazione teologica che occupa i teologi da più di 40 anni! E siamo ancora all’inizio.

La difficoltà del concilio Vaticano II è che è arrivato in un momento in cui la Chiesa era concretamente strutturata su due grandi valori: il papa e il prete. Il Concilio ha parlato del Popolo di Dio e ha messo in valore anche il vescovi e i laici. Ma dopo, hanno voluto aggiungere quest’ultimi ma senza cambiare niente sul papa nè sul prete. In fatti, non è possibile: il tutto quindi avrebbe dovuto essere ripensato. Dopo è arrivato Giovanni Paolo II che ha introdotto una nuova dinamica, quella della nuova evangelizzazione. Il Concilio Vaticano non si occupava di per sé di una nuova evangelizzazione ma di riformare, cambiare la forma della Chiesa cattolica, in se stessa e nelle sue relazioni con le altre Chiese, le altre religioni, il mondo degli uomini. La prima cosa da fare, a mio avviso, era la riforma istituzionale per farne davvero una istituzione “pneumatica”, spirituale! E solo dopo che questa riforma fosse stata fatta sarebbe stato possibile avviarsi verso la nuova evangelizzazione! Ma il papa Giovanni Paolo II ha detto esplicitamente: “se avessi voluto riformare la chiesa non avrei avuto il tempo di fare quello che dovevo fare!”. Dunque ha fatto una scelta, ma questa scelta non era innocente: cambiava la dinamica del concilio da una dinamica di riforma a una dinamica di nuova evangelizzazione, secondo però i criteri di sempre; era un altro discorso. Allora, i teologi cristiani che avevano aspettato una riforma dinamica e carismatica sono rimasti un po’ delusi.

Dobbiamo però sperare, cioè appoggiarci sulla potenza amorosa di Dio, aspettare dunque, ma anche favorire il più possibile da parte nostra, la ripresa della riforma della Chiesa, la sua evoluzione nel senso della povertà di Cristo, delle istituzioni veramente spirituali, dell’ “essere con”, dell’essere- evangelizzati per evangelizzare meglio ecc. Une grande sfida ad accogliere con umiltà ma anche decisione e perseveranza.

 

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