Lettera 49 (Seconda Serie)

 

Lettera introduttiva

In questa lettera presentiamo gli atti del convegno “Migranti e migrazioni. Cause, opportunità e speranze” che si è tenuto il 18 maggio al Polo ex Fienile di Tor Bella Monaca.

Nel suo intervento Gianni De Robertis  ci ha detto che: “… le migrazioni non sono un’anomalia, ma sono costitutive dell’esperienza umana. Tutti siamo stranieri e pellegrini su questa terra. I primi cristiani dicevano di sé: noi siamo coloro che vivono accanto alla casa, viviamo in città, ma come pellegrini e stranieri (Eb 11, 13-16).  Il nome de La Tenda è proprio di chi sa di essere straniero, alla ricerca della patria. Se oggi parliamo di migrazione è perché si tratta di numeri che non sono mai stati così alti. Si conta che una persona su 7 ha lasciato la proprio città o il proprio paese. Di questi 700 milioni sono migranti interni, cioè che si spostano all’interno del proprio paese; circa 260 milioni sono migranti esteri e 60 milioni sono i migranti forzati e richiedenti asilo. Ciò che ci interroga non è solo il numero, ma anche il modo con cui avviene la migrazione. Quando gli italiani partono per lavorare all’estero, prendono l’aereo o il treno… ma molti altri non è così: devono affidarsi ai trafficanti, vivere viaggi che portano a condizioni inaccettabili.”

Nella sua relazione Giorgio Marcello parte  dalla costatazione che anche noi, come la sentinella di Isaia che chiede  quanto resta della notte,  “…siamo immersi nella notte del tempo presente e dobbiamo prendere atto che la notte è notte, mentre l’animo è proteso verso il giorno che sta per arrivare.

Riconoscere il tempo notturno, non equivale dunque ad una professione di pessimismo, ma è segno di speranza, che alimenta i tentativi di scorgere i segni del risveglio, le prime avvisaglie della luce a cui l’oscurità della notte prima o poi cederà il passo.

Uno dei segni che caratterizza il tempo notturno che stiamo vivendo è la crisi della coesione sociale, la frammentazione dei legami. In questa solitudine che ciascuno regala a se stesso si perde il senso del con-essere, cioè dell’esserci al mondo insieme.

Ne deriva la necessità di non assuefarsi alla notte, di alimentare il desiderio del giorno che deve arrivare, di coltivare aspirazioni di cambiamento. E, per quanto concerne il tema delle migrazioni, si tratta anche di prendere coscienza che, accanto a tante situazioni negative che ogni giorno catturano l’attenzione dei media, ci sono tante manifestazioni di solidarietà che dobbiamo imparare a riconoscere”.

Fedeli a questa impostazione che da sempre ci contraddistingue, quella cioè di non nasconderci la notte che ci circonda, ma di essere attenti all’alba che arriva nei mille segnali che intorno a noi ci parlano del risveglio delle coscienze e dello spirito di comunità, abbiamo dedicato la seconda parte del nostro incontro all’ascolto delle testimonianze di due migranti Osman dalla Somalia e Patricia dal Perù. Infine riportiamo il dibattito che ne è seguito.

Come al solito aspettiamo da tutti i nostri amici contributi e commenti.

Introduzione

di Chiara Flamini

Con il gruppo La Tenda, formato da persone che vivono in contesti diversi di Roma e dell’Italia, dalla periferia est di Roma, Torre Angela, a Ostia Nuova, passando per quartieri più centrali di Roma, come Monteverde e Aurelio, ma anche Martina Franca in Puglia, abbiamo cercato di approfondire il tema delle migrazioni, senza mai prescindere dalle realtà con cui veniamo in contatto, o meglio, dalle persone di diverse provenienze geografiche che incontriamo e con cui ci capita di istaurare anche relazioni di amicizia.

Ci sembra che l’incontro personale con l’altro, vicino di casa, seduto accanto a noi sulla metro, venditore al mercato, badante, sia ciò che più facilmente riesce ad abbattere i muri del pregiudizio e della paura. Paura che in questo momento entra in un cortocircuito perverso con il termine “sicurezza”. Il cortocircuito si ha perché non si parte dalla paura nei confronti di chi è diverso, non se ne indagano le cause per poi cercare i mezzi per abbatterla. Si parte invece dall’assunto per cui è necessario tutelare –e con ogni mezzo- la “sicurezza” dei cittadini (chissà perché solo italiani di origine!), dando per scontato che essi siano in pericolo, e quindi alimentandone la paura. Insomma, invece di abbattere la paura, la si alimenta, la si rende sempre più estesa e più grande.

Sono, quindi, importanti le parole, con i loro significati, perché possono accendere paure, diffidenze, tensioni, oppure aperture, legami, futuro. Definire la nave della Sea Watch, che ha appena soccorso 65 migranti a largo delle coste libiche, come “offensiva e pericolosa per la sicurezza pubblica” sottintende che su di essa ci siano persone capaci di crimini efferati. Sono davvero così gli uomini e le donne che vediamo arrivare sui barconi?

Ci sembra allora importante fermarci su tre termini, che aprono realtà non del tutto conosciute e veicolate dai mezzi di informazione: termini che possano favorire l’incontro con l’altro, abbattendo la paura.

Analizzeremo allora le cause delle partenze di tanti dal proprio paese: senza tale conoscenza, si perde la metà della storia di tante persone e si dà una leggerezza del tutto fuorviante allo slogan “aiutiamoli a casa loro”. La realtà appare allora complessa e piena di interrelazioni che ci coinvolgono senza che ne siamo del tutto consapevoli.

Ma conoscere le cause non è sufficiente per abbattere i muri della paura e dell’egoismo che serpeggiano. E’ necessario saper cogliere le opportunità che le migrazioni offrono: tra le altre, che verranno analizzate, l’apertura a mondi, a culture diverse dalla nostra, che non possono che arricchirci, dandoci uno sguardo più ampio anche sulla nostra realtà. Ne voglio porgere, solo per iniziare, una: immancabilmente, nelle mie classi, tra gli alunni più bravi, ci sono i figli di rumeni o di cinesi. Il loro impegno costante si muove spesso controcorrente rispetto alla maggior parte dei loro compagni. Non è questa un’opportunità per il nostro paese?

Infine apriremo lo sguardo sulle speranze… Speranza è una parola che ha (quasi?) perso significato nel nostro mondo “depresso”, che non osa più guardare al futuro, perché lo percepisce carico di sventure o povero di opportunità. E se, invece, ci lasciassimo contagiare anche solo dalla speranza che leggiamo negli sguardi di chi arriva sui barconi, salutando con gioia chi tende la mano? Quanta speranza muove i piedi di tante persone! Se il nostro mondo ne facesse tesoro, usasse tutto questo potenziale per riaccendere umanità, speranza e solidarietà nelle nostre vite sazie e, in fondo, scontente o disperate?

 

Vorrei infine leggervi due leggende prese dal Midrash (le più antiche interpretazioni e i più antichi commenti che sono stati compilati sul testo della Bibbia) e citate da Elie Wiesel in “Credere o non credere”. La prima riguarda Giobbe. Egli si trovava in Egitto allo stesso tempo di Mosè. Presente alla corte del faraone, era un suo consigliere allo stesso titolo di Yethro e di Balaam. Quando Faraone si domandò come risolvere la sua «questione ebraica», Yethro si dichiarò favorevole alla proposta di Mosè che chiedeva di lasciar partire il suo popolo, mentre Balaam si oppose. Consultato a sua volta, Giobbe si rifiutò di prendere posizione e rimase zitto. Ebbene, è questa neutralità, dice il Midrash, che gli valse le sue sofferenze future; in tempo di prove, di pericoli, nessuno ha diritto di scegliere l’astensione, la prudenza; quando la vita e la morte –o semplicemente la felicità- di una comunità umana sono in gioco, la neutralità è criminale perché aiuta, rafforza l’oppressore di fronte alla sua vittima.

La seconda leggenda non è meno straziante: si riferisce, nel Midrash, al passaggio del Mar Rosso. Le vittime designate sono salvate all’ultimo minuto, mentre gli oppressori affogano sotto i loro occhi. Momento di grazia così straordinario che gli angeli si mettono a cantare. Ma subito Dio li interrompe con il richiamo più umano e più generoso che ci possa essere: «Che vi prende?», gli dice in preda all’ira. «Le Mie creature stanno morendo nei flutti del mare e voi cantate? Come potete glorificarMi con i vostri canti mentre degli esseri umani stanno morendo?».

Presentazione Del Polo Ex Fienile a Tor Bella Monaca

di Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 Luglio

In questo spazio, il Polo ex Fienile di Tor Bella Monaca,  si svolgono attività educative per bambini e adulti rom e non. I rom che partecipano vivono nei campi ma anche in appartamenti nella zona. Svolgiamo anche attività culturali. Tutto ciò che facciamo potete trovarlo nella pagina facebook del Polo ex Fienile.

A Giugliano c’è una comunità rom di origine bosniaca da 35 anni. Questa comunità ha incontrato grosse difficoltà nel territorio, per esempio il comune non ha mai dato ai bambini rom la possibilità  di iscriversi nelle scuole del paese. I fratelli maristi accompagnano ogni giorno i bambini nelle scuole di  Scampia, quartiere di Napoli non è lontano. Le 450 persone, di cui quasi la metà bambini,  della comunità che vivevano in baracche poverissime o in roulottes fatiscenti sono state allontanate dalle forze dell’ordine ed è stato ingiunto loro, nonostante siano residenti nel comune, di uscire dal territorio di Giugliano. Prima si sono rifugiati a Villa Literno, poi a Castel Volturno, dove sono stati sgomberati per ordine del prefetto, infine, dal 10 maggio, in un’area abbandonata di Giugliano. In quest’area degradata non hanno acqua, luce, bagni. Dormono in macchina e il percorso scolastico dei bambini è stato interrotto. E’ stata un’azione fatta con violenza e con gravi violazioni dei diritti umani, nel silenzio mediatico. Abbiamo avviato, insieme a tre famiglie rom, un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, la quale, con procedimento d’urgenza, ha condannato l’Italia e ingiunto l’attribuzione di un’abitazione alle famiglie ricorrenti. Adesso faranno ricorso anche le altre persone che si trovano nell’area.

INTERVENTO DI GIANNI DE ROBERTIS

direttore della Fondazione Migrantes

Da un anno e mezzo mi hanno nominato Direttore della Fondazione Migrantes e da allora viaggio molto, per incontrare i migranti lì dove sono. In realtà sono più gli italiani che emigrano che i migranti che arrivano. Tutte le città europee sono piene di italiani. La Fondazione era nata per seguire gli italiani all’estero. Ora, oltre a continuare questo lavoro, ci occupiamo dei migranti che vengono dall’estero e anche di Rom, Sinti, giostrai, circensi…

Cercherò di condividere alcuni pensieri con voi, ma anche di ascoltare le vostre riflessioni e le vostre esperienze. Le migrazioni non sono un’anomalia, ma sono costitutive dell’esperienza umana. Tutti siamo stranieri e pellegrini su questa terra. Siamo paroikoi: para, dal greco, significa “accanto” e oikos, sempre dal greco, è la casa in muratura. I primi cristiani dicevano di sé: noi siamo coloro che vivono accanto alla casa, viviamo in città, ma come pellegrini e stranieri (Eb 11, 13-16). Il nome de La Tenda è proprio di chi sa di essere straniero, alla ricerca della patria. Quindi non vanno criminalizzate le migrazioni, perché sono avvenute durante tutta la storia dell’uomo. E, in più, la storia della salvezza è fatta proprio di questo camminare, di questo incontrarsi. Se oggi parliamo di migrazione è perché si tratta di numeri che non sono mai stati così alti. Si conta che una persona su 7 ha lasciato la proprio città o il proprio paese. Di questi 700 milioni sono migranti interni, cioè che si spostano all’interno del proprio paese; circa 260 milioni sono migranti esteri e 60 milioni sono i migranti forzati e richiedenti asilo. Ciò che ci interroga non è solo il numero, ma anche il modo con cui avviene la migrazione. Quando gli italiani partono per lavorare all’estero, prendono l’aereo o il treno… ma molti altri non è così: devono affidarsi ai trafficanti, vivere viaggi che portano a condizioni inaccettabili.

Quando sono stato a Lampedusa e ho ascoltato dal medico Bartolo e da altri testimoni i racconti delle tante violenze che i migranti arrivati hanno subito (le donne, prima di affrontare il viaggio si fanno punture di ormoni per andare in menopausa, perché sanno che verranno violentate), l’orrore mi ha assalito e c’è chi, dopo aver ascoltato, è scappato dall’isola… Il vedere i corpi dei morti con gli arti plurifratturati, perché questi uomini cercavano di uscire dalle stive dove stavano morendo asfissiati… Racconti, ricordi che non ti cancelli più dalla memoria. Si contano 30˙000 persone dal 2000 annegate nel Mediterraneo, più tutti coloro che non sappiamo e tutti coloro che muoiono nel deserto…

Papa Francesco il 1 gennaio 2018, giornata della pace, ha chiesto: “Perché così tanti rifugiati e migranti?”.

La prima causa è la guerra. Stiamo vivendo una “terza guerra mondiale a pezzi”. Naturalmente tutto questo è causato anche dal fiorente commercio delle armi. C’è gente che riesce a dormire la notte solo da quando è in Italia, perché nel proprio paese (ad es. il Congo) il sonno è interrotto ogni notte da sparatorie: “Quelli che dovrebbero proteggerci, i soldati, si trasformano in lupi e, dove sanno che possono, rubano, violentano…”. Quindi una situazione di estrema insicurezza.

Papa Francesco dice: “A volte le persone partono alla ricerca di una vita migliore, con il desiderio di lasciarsi alle spalle un futuro impossibile da costruire”. Oggi quando sentiamo parlare dei migranti economici, cioè di coloro che desiderano emigrare nella speranza di una vita migliore, ci sembra quasi un delitto… ma quando gli italiani partono, pur lasciano condizioni migliori di chi parte da altri continenti, ne capiamo le ragioni…

Nel nostro paese c’è ancora una certa “circolarità”: alcuni, molti partono,  e altri arrivano…. In tanti paesi dell’Africa partono in molti, che rappresentano le forze migliori, e non c’è chi li sostituisce… capiamo la situazione drammatica di chi resta.

Papa Francesco: “Si parte per ricongiungersi alla propria famiglia, per trovare opportunità di lavoro o si istruzione”. Ho conosciuto ragazzi afgani che sono partiti dal loro paese per poter studiare.

C’è anche chi fugge la miseria appesantita dal degrado ambientale. C’è un grande squilibrio nel mondo: da una parte persone eccessivamente ricche (l’1% della popolazione del pianeta possiede più della metà delle ricchezze mondiali) e dall’altra un aumento pauroso di miseria e di impoveriti.

Vogliamo affrontare questi problemi? La soluzione è chiudere i porti o impegnarsi a rimuovere le cause che rendono forzate tali migrazioni?

Dobbiamo difendere tutti e due i diritti:

  • diritto ad emigrare;
  • diritto a rimanere nella propria terra.

Chiudere i porti risolve il problema della migrazione? Se c’è un torrente che scorre, si fermano le sue acque mettendo uno sbarramento? Se una casa brucia, si impedisce di uscire da quella casa sbarrando la porta? Si risolvono i problemi aprendo i porti? Non è vero neanche questo: fare questo discorso è semplicistico. Le strategie da mettere in campo vanno coniugate tutte assieme: accogliere, proteggere, promuovere, integrare.

Vi segnalo un libro di Maurizio Bettini: “Homo sum”. Parla dell’accoglienza del profugo Enea sulle rive di Cartagine. La “perdita dell’umano” è un risvolto mortale per l’intera umanità.

“Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (Sono un uomo e niente di umano ritengo mi sia estraneo)  è una frase di Terenzio molto conosciuta, ma è interessante il contesto in cui è stata scritta. Appartiene all’opera “Il punitore di se stesso” che racconta di un uomo pentito per aver impedito il matrimonio del figlio con la ragazza che egli amava. Il figlio, in risposta al divieto del padre, era partito per l’Asia a combattere come mercenario. E il padre, sentendosi in colpa per essere la causa dell’infelicità del figlio, si sottopone a lavori pesanti senza fermarsi. Il vicino di casa cerca di aiutarlo, ma lui lo accusa di essere indiscreto. Al che il vicino di casa gli risponde con la frase riportata sopra: non è per indiscrezione che mi interesso a te, ma perché niente di ciò che è umano mi è estraneo.

L’autore, commentando questa frase, riporta un episodio avvenuto in Irpinia, su un pullman in cui c’erano delle amiche, signore di una certa età.  Ad un certo punto era salito un ragazzo africano, rifugiato. Quando Omar ha preso posto, le signore hanno iniziato a fargli domande: “Come ti chiami?”, “Da dove vieni?” E Omar ha iniziato a raccontare di sé. E le signore hanno iniziato a raccontare di mariti, figli che sono emigrati… Non si sono voltate dall’altra parte, ma si sono interessate di Omar e poi hanno raccontato anche le loro storie.

C’è chi parla della migrazione in termini generici e chi, invece, davanti ai numeri mette persone, volti, storie. Dobbiamo moltiplicare le occasioni di incontro.

Giovedì abbiamo avuto un incontro con 500 Rom e Sinti da papa Francesco. Questo raduno era nato dal desiderio di far conoscere, di far incontrare persone provenienti da varie parti d’Italia e lo scambio di storie di vita, di racconti, aiuta a superare i luoghi comuni, la paura del diverso. “Più che diversi, abbiamo imparato che siamo unici”, ognuno di noi ha una sua personalità, una sua ricchezza…

Occorre essere “ficcanaso” nel senso che occorre creare occasioni di incontro. Ci sono, girando l’Italia, moltissime realtà di accoglienza. Bisogna evitare il pericolo dell’isolamento, perché questo porta a scoraggiarsi, ci rende fragili. E’ necessario dare coraggio, mettere in rete chi sceglie di incontrare gli altri.

Migranti e migrazioni. Cause, opportunità e speranze

  1. di Giorgio Marcello[1]

Quanto resta della notte?

Nel Libro di Isaia, al capitolo 21, così si legge:

“Mi gridano da Seir:

Sentinella quanto resta della notte?

Sentinella quanto resta della notte?

La sentinella risponde:

viene il mattino, e poi anche la notte;

se volete domandare, domandate,

convertitevi, venite!” (Isaia 21, 11-12)

Sono i versi di un oracolo del profeta, con cui Dossetti, nel 1994, comincia una delle sue riflessioni più intense[2].

Nelle parole dell’oracolo, fa notare Dossetti, non c’è nessun riferimento ai pesi e alle speranze del giorno precedente, né rimpianto per il giorno prima. La risposta della sentinella lascia trasparire la consapevolezza che la notte va riconosciuta per quello che è, senza mascherature o finzioni. L’oracolo si chiude con un invito a mettersi in atteggiamento di conversione.

Affrontare la questione migrante, ci pone nelle stesse condizioni della sentinella. Nel senso che anche noi constatiamo di essere immersi nella notte del tempo presente, prendiamo atto che la notte è notte, mentre l’animo è proteso verso il giorno che sta per arrivare.

Riconoscere il tempo notturno, non equivale dunque ad una professione di pessimismo, ma è segno di speranza, che alimenta i tentativi di scorgere i segni del risveglio, le prime avvisaglie della luce a cui l’oscurità della notte prima o poi cederà il passo.

Uno dei segni che caratterizza il tempo notturno che stiamo vivendo è la crisi della coesione sociale, la frammentazione dei legami. In questa solitudine che ciascuno regala a se stesso, dice Dossetti, si perde il senso del con-essere, cioè dell’esserci al mondo insieme, e «la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole (di qui la fatale progressione localistica) sino alla riduzione al singolo individuo»[3]. Ne deriva la necessità di non assuefarsi alla notte, di alimentare il desiderio del giorno che deve arrivare, di coltivare aspirazioni di cambiamento. E, per quanto concerne il tema delle migrazioni, si tratta anche di prendere coscienza che, accanto a tante situazioni negative che ogni giorno catturano l’attenzione dei media, ci sono tante manifestazioni di solidarietà che dobbiamo imparare a riconoscere; e, ancor prima di questo, occorre che ci aiutiamo a raccogliere dati che ci permettano di articolare una narrazione che sia il più possibile aderente alla realtà dei fatti, al di là degli slogan propagandistici.

 

Prima di provare a mettere in evidenza alcuni di questi dati, qualche aspetto ulteriore della notte in cui siamo immersi.

 

La deriva securitaria delle politiche

Nel dibattito pubblico, il termine “sicurezza” è oggi uno di quelli più utilizzati. Negli ultimi anni, il significato di questa parola è cambiato profondamente.

In tutto l’occidente, dal secondo dopoguerra in poi, nel corso dei cosiddetti “trent’anni gloriosi” (1945-1975) la sicurezza sociale è stata sinonimo di protezione sociale assicurata dai governi a tutti i cittadini in quanto tali. In Italia, le politiche pubbliche orientate alla sicurezza sociale sono state uno straordinario strumento di innovazione, ed hanno reso possibile un ampliamento senza precedenti dei contenuti della cittadinanza. Sicurezza sociale ha voluto dire stato sociale, e cioè una sempre maggiore tutela dei lavoratori, l’introduzione del servizio sanitario nazionale, la scuola per tutti.

Dalla fine degli anni settanta è cominciata una crisi forse irreversibile dello stato sociale. La conseguenza è che oggi si tende a far coincidere la sicurezza con l’ordine pubblico, con il bisogno che hanno coloro che stanno meglio di preservare i privilegi acquisiti, e con la criminalizzazione dei poveri, su cui viene scaricata la responsabilità della loro condizione, e delle organizzazioni solidaristiche che si occupano dei poveri, in particolare di quelle che si interessano alla condizione dei migranti.

 

La paura e il rancore

Colpire duramente lo stato sociale, negli ultimi tre decenni, ha voluto dire scaricare le conseguenze della crisi non su quanti l’hanno innescata, ma sui cittadini che ne hanno subito i principali effetti. È stato autorevolmente sostenuto[4] che tutto ciò non sarebbe potuto accadere, senza una dose massiccia di stupidità da parte dei governanti, ma anche di una porzione non irrilevante di tutti noi. Ci siamo addormentati. In altri termini, la crisi e le sue conseguenze hanno messo in evidenza un vuoto clamoroso di coscienza politica, che non ha permesso finora una rielaborazione lucida di quello che è accaduto. A mano a mano che si percepiscono gli effetti della crisi, aumenta tra le persone la paura per il futuro, piuttosto che la consapevolezza delle ragioni del disastro.

Nel frattempo, anche in Italia aumenta a dismisura la percentuale di quanti sperimentano sulla propria pelle il carattere illusorio delle promesse (e delle aspettative) di crescita senza limiti. I numeri che segnalano l’aumento delle famiglie in povertà assoluta dicono «che allo “zoccolo duro” della povertà “tradizionale”, per così dire, si è aggiunto un inedito esercito di “nuovi poveri”. Di donne e di uomini, fino a ieri censiti tra i “salvati”, e oggi precipitati fra i “sommersi”. Persone che si consideravano “normali”, che conducevano una vita non diversa dalla maggioranza dei loro vicini, che facevano progetti di vita, avevano stili di consumo, coltivavano reti di relazioni tipici di una società affluente, che di colpo si sono ritrovati nell’indigenza radicale. Cittadini per i quali l’orizzonte si è rovesciato di colpo, come avviene nei naufragi»[5].

In questa situazione, la povertà dei più marginali viene percepita come una minaccia a cui tutti sono esposti, senza eccezioni. La paura di finire come loro genera rancore.

C’è chi sostiene che il risentimento diffuso verso le persone che migrano, verso i Rom, verso le persone senza dimora, costituisca il segno di una metamorfosi morale. Ovvero, di una regressione civile connessa ad una regressione sociale[6]. Il rancore che alimenta il comportamento pubblico di molti rappresenterebbe l’indicatore eloquente di una sorta di “malessere da perdita”, provocato dalla percezione dello scarto tra aspettative di benessere e fragilità sperimentata. Questi sentimenti sono la conseguenza di trasformazioni che hanno svelato l’illusione della crescita e la realtà di una progressiva decadenza, e danno luogo ad un conflitto orizzontale: non dei ricchi contro i poveri, ma degli impoveriti (o di chi teme l’impoverimento) contro altri poveri, più poveri, alla ricerca di un qualche risarcimento facile.

In questo quadro, la sicurezza non è più il complesso delle iniziative pubbliche per liberare i poveri e promuovere il pieno sviluppo di ogni persona, ma tende sempre più a coincidere con la difesa rancorosa dei propri privilegi, piccoli o grandi che siano, da parte di quanti percepiscono di stare scivolando lungo il piano inclinato della precarietà economica ed esistenziale.

È possibile evitare che questa slavina produca effetti ancora più rovinosi sui legami tra gli esseri umani?

 

L’indifferenza come riduzione della tragedia a dato statistico

È difficile dire se è più grave il rancore sociale, o l’indifferenza. Quest’ultima, spiega Grossman in una bellissima riflessione di qualche anno fa, è frutto di quel meccanismo che trasforma le tragedie in statistica.

Scrive lo scrittore israeliano: «la maggior parte di noi sembra quasi indifferente alla sofferenza di popoli interi, vicini e lontani, o a quella di centinaia di milioni di esseri umani poveri, affamati, ammalati, sia nelle nostre nazioni che in altre parti del mondo. (…) Con stupefacente facilità creiamo meccanismi che hanno il compito di farci prendere le distanze dalla sofferenza altrui. Riusciamo, nella nostra coscienza e a livello emotivo, a ignorare il nesso causale che esiste fra la prosperità economica delle nazioni occidentali e la povertà altrui; tra il nostro benessere e le vergognose condizioni di lavoro di altra gente; tra la qualità della nostra vita, i nostri condizionatori d’ aria e le nostre automobili, e le sciagure ecologiche che si abbattono su altri. (…) Noi non vogliamo assumerci nessuna responsabilità personale per le cose terribili che avvengono a poca distanza da noi. (…) Ci fa comodo – quando si parla di responsabilità personale – far parte di una massa indistinta, priva di volto, di identità, e all’apparenza libera da oneri e colpe»[7]. La citazione di Grossman ci dice che l’inconsapevolezza o l’indifferenza determinate da una coscienza politica debole e addormentata impediscono di vedere (e, per certi versi alimentano) le realtà mostruose che stanno intorno a noi: sono mostruosi i dati sulla distribuzione della povertà del mondo; sull’iper-sfruttamento delle risorse naturali e sulle minacce alla biodiversità che mettono a rischio la stessa sopravvivenza della specie umana sul pianeta; i dati sulle guerre e sulle sue conseguenze; sulla produzione e sul commercio delle armi; sull’aumento delle disuguaglianze; sulla diffusione delle situazioni di povertà estrema (segnalata dai dati sulla popolazione dei senza dimora in Italia, per esempio); sulla solitudine dei nostri quartieri e dei nostri condomini; sulle politiche approntate di recente per la gestione dei fenomeni migratori.

In questa prospettiva, prendere coscienza vuol dire superare ogni presunzione di innocenza. Su questo punto, ritornerò più avanti.

 

Un po’ di dati sulla questione migrante.

Nelle condizioni date, anticipare l’aurora forse vuol dire offrire una narrazione della questione migrante che sia alternativa a quella dominante, che addormenta le coscienze di proposito, anziché risvegliarle.

Si tratta di articolare un racconto che decostruisca le rappresentazioni manipolate della questione, e che metta in evidenza gli aspetti più significativi delle trasformazioni già da tempo in atto nel nostro paese.

Va detto, innanzitutto, che la questione migrante non costituisce una emergenza, e non è riducibile agli sbarchi (che peraltro si sono drasticamente ridotti, a seguito dell’entrata in vigore del c.d. decreto sicurezza). Il fenomeno migratorio è globale e assai complesso.

Non è in corso nessuna invasione. Si calcola che i migranti nel mondo siano attualmente più di 250 milioni (ovvero, il 3,4% della popolazione mondiale). Il continente che ospita più migranti è l’Asia (30,9%), seguita dall’Europa (30,2%)[8].

Del totale dei migranti, quelli cosiddetti forzati sono circa 70 milioni. La maggior parte di essi resta nei paesi limitrofi a quelli da cui scappano. In Europa ne arriva una percentuale minima.

A questo riguardo, meriterebbe un discorso a parte la questione dell’accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo in Italia. Nel corso degli ultimi anni, alcune esperienze significative, condotte nel basso, avevano prodotto un modello di seconda accoglienza – lo Sprar – che aveva segnato un vero e proprio passaggio di paradigma, sia pure con tanti limiti: da una concezione custodialistica e segregante, a percorsi centrati sulla persona. Questo modello, che si è sviluppato soprattutto al sud, ha dimostrato che pratiche di accoglienza rispettose della dignità delle persone fossero possibili, che tali percorsi potevano addirittura essere un volano di sviluppo locale per le aree più interne, che si vanno inesorabilmente svuotando. Il decreto sicurezza ha praticamente spento questa sperimentazione. La speranza è che nel futuro possa essere ripresa, in qualche modo.

 

I migranti non sono solo i rifugiati e i richiedenti asilo, ma sono una presenza che fa ormai parte del tessuto sociale del nostro paese. L’ultimo Rapporto di Caritas e Fondazione Migrantes segnala che «l’incremento dei nuovi italiani, dovuto al parallelo aumento sia delle acquisizioni di cittadinanza sia delle nascite nella componente straniera, mostra una crescente tendenza da parte delle comunità immigrate all’insediamento definitivo nel nostro paese»[9].

I dati relativi al 1 gennaio 2018 dicono che su 60 milioni e mezzo di residenti, 5 milioni e 200 mila circa sono stranieri (8,5% dei residenti); di questi, 3 milioni e 700 mila con permesso di soggiorno (2 milioni e mezzo con permesso di lungo periodo)[10].

Non è trascurabile il fatto che «l’invecchiamento della nostra popolazione è compensato dalla maggiore incidenza, nella popolazione straniera rispetto a quella italiana, delle fasce di età infantili e giovanili: entrando nel dettaglio, tra 0 e 9 anni (13,2% per gli stranieri vs. 8,4% per gli italiani) e in particolare della fascia della popolazione attiva (in età da lavoro) tra i 25 e i 44 anni (43,8% vs. il 23,6% rispettivamente)»[11].

Un segno innegabile di stabilizzazione dei residenti stranieri in Italia è rappresentato dal fatto che più della metà di essi (55%) sono arrivati in Italia prima del 2007. Il volto multiculturale del nostro paese traspare dal dato secondo cui, attualmente, in Italia sono presenti 195 nazionalità, su un totale mondiale di 232[12].

È importante considerare che la distribuzione dei residenti stranieri sul territorio non è omogenea. Le presenze più numerose, e più radicate, si registrano nelle aree che forniscono maggiori opportunità  di integrazione (27% Triveneto, 12% Emilia,  11,5% Lombardia, 4,5 % in media  al sud e 3,7% nelle isole)[13].

Un altro segno interessante di radicamento sul territorio è il numero di matrimoni con almeno un componente straniero. Nel 2016 sono stati celebrati 25.611 matrimoni di questo tipo (pari al 12,6% del totale dei matrimoni). Nella maggior parte dei casi, si tratta di italiani che sposano una straniera (56,4%), meno frequenti i casi in cui straniero sia il coniuge (17,3%); gli sposi sono entrambi stranieri in più di un caso su quattro (26,3%)[14].

Gli stranieri residenti non sono presenze parassitarie. Lo rivela, ad esempio il tasso di occupazione della popolazione immigrata, che è pari al 59% (del totale delle persone in età da lavoro) contro il 57,8% del tasso di occupazione dei lavoratori italiani. Con aspetti non irrilevanti di segregazione occupazionale: tra gli immigrati, i lavoratori non qualificati  sono il 35% circa, contro l’8% dei lavoratori italiani. Sul piano della retribuzione media, quella dei lavoratori immigrati è inferiore del 30% rispetto a quella degli italiani.

Non solo dipendenti: gli immigrati creano anche nuovo lavoro. Le imprese di cui la titolarità è in capo a  residenti  stranieri erano 366.426 nel 2016, il 3,5% in più rispetto all’anno precedente[15].

Il lavoro non mette tuttavia al riparo dal rischio di povertà, che per i residenti stranieri è pari a più del doppio rispetto agli italiani (54% vs 26,1%)[16].

Non è vero che gli immigrati sono portatori di malattie. I dati forniti dalla società italiana di medicina delle migrazioni (SIMM) dicono che sulla salute dei migranti incidono molto le condizioni  sociali che essi sperimentano quando arrivano da noi. Che non siano portatori di malattie infettive lo conferma il fatto che queste patologie sono in costante diminuzione, e lo sono state anche nel 2016, anno in cui si è registrato il numero più elevato di sbarchi[17].

Non è neanche vero che gli immigrati commettano più reati rispetto agli italiani. È vero invece che, a parità di reati, gli italiani fanno meno carcere, in quanto gli stranieri beneficiano meno delle misure alternative alla detenzione.

La presenza dei migranti non equivale ad una aggressione dell’identità culturale e religiosa degli italiani. Più della metà (57,5%) degli stranieri residenti in Italia sono cristiani, mentre i musulmani sono poco più del 28%.

La scuola. Il dato relativo al 2016/2017 dice che gli alunni stranieri nella scuola  italiana sono 826mila (cioè, il 9,4% del totale degli studenti). Più di 500 mila studenti classificati come stranieri (ovvero, il 60% del totale) sono nati in realtà in Italia. La distribuzione nelle scuole delle diverse regioni riflette la differenza territoriale della presenza degli stranieri immigrati in Italia (solo la Lombardia accoglie il 25%  degli alunni stranieri, contro il 2% della Calabria).

Qual è il loro livello di integrazione scolastica?

Da un lato, i dati disponibili dicono che la dispersione scolastica, sebbene diminuita negli ultimi dieci anni (dal 20,8% al 13,8%) continua a manifestarsi in maniera significativa, a carico soprattutto degli studenti meridionali, con background sociale e culturale  fragile, e degli studenti con cittadinanza non italiana. Il ritardo degli studenti non italiani dipende in larga misura dalle condizioni di partenza, ne deriva che un terzo circa dei ragazzi di 14 anni non italiani è in ritardo, di uno a più anni, nei confronti dei compagni di scuola italiani.

Per altro verso, i risultati del Rapporto Invalsi del 2018 dicono che  le scuole che hanno le performance migliori sono anche quelle (del Triveneto) che garantiscono una maggiore eterogeneità nella composizione delle classi. Dunque, i fatti dicono che non è vero che nelle scuole con percentuali alte di alunni stranieri la qualità della scuola peggiora. Al contrario, sembra che “l’eterogeneità di una classe può costituire un elemento dinamico, di scambio, di relazioni più ricche di opportunità tra tutti gli allievi”[18]. Le Linee guida per l’accoglienza degli alunni stranieri, varate dal ministero dell’istruzione nel 2014, suggeriscono di formare le classi in modo da mescolare il più possibile le diversità della popolazione scolastica, in modo che nella scuola si possano fare esercizi di mondo, come è scritto nel documento Diversi da chi?, redatto dall’Osservatorio ministeriale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura .

In generale, si ritiene che gli studenti stranieri costituiscano una componente fragile e bisognosa di aiuto, e spesso tutto ciò è vero, ed è importante che le scuole si attivino per garantire a tutti gli studenti che vivono percorsi accidentati – compresi gli stranieri – opportunità di integrazione scolastica. Ma c’è anche un altro aspetto, meno visibile e meno raccontato, e perciò non adeguatamente valorizzato, «quello degli apporti, o dei possibili apporti, dei ragazzi stranieri e delle loro famiglie: una competenza plurilingue (più bravi in inglese, dicono i dati Invalsi), un impegno e un’aspettativa verso l’istruzione da parte di alcuni gruppi di immigrazione che i nostri studenti e famiglie italiane non hanno più”[19]. In una indagine Istat del 2017 si afferma che “le relazioni degli alunni stranieri con gli insegnanti   sono migliori di quelle degli alunni italiani, in particolare nelle scuole superiori. Anche il rapporto con lo studio sembra nel complesso migliore di quello degli italiani»[20].

 

Superare la notte

Per uscire dal sonnambulismo attuale, forse non basta solo decostruire le rappresentazioni che sembrano oggi dominanti. Probabilmente, serve anche imparare a vedere le cose da un’altra prospettiva.

Ad esempio, quando parliamo di migranti, di rifugiati, solitamente utilizziamo questi termini per indicare l’altro da noi, lo straniero che varca i confini delle nostre città. Ma siamo sicuri che questa sia l’unica rappresentazione possibile? Nella città contemporanea, chi è il rifugiato, chi siamo noi?

In una delle sue letture talmudiche, Levinas affronta il caso delle città-rifugio, una istituzione biblica di cui si parla in Numeri 35[21]. Queste città vengono costruite per ospitare coloro che commettono un omicidio senza volerlo. Se il delitto è stato commesso senza intenzione di fare del male, non può essere perseguito in tribunale. Tuttavia, un parente stretto della vittima, chiamato «vendicatore del sangue» – o più esattamente goel hadam, ovvero «redentore del sangue versato» – il cui «cuore è riscaldato» per via del delitto commesso, ha il diritto di compiere la vendetta. Ma può esercitarlo soltanto al di fuori dei confini della città-rifugio, in cui l’assassino involontario si rifugia o si esilia, in base a quanto stabilito dalla legge di Mosè.

La città in cui l’omicida involontario trova riparo è insieme rifugio e condanna. In essa si realizza contemporaneamente la protezione di un innocente, e la punizione di chi è anche oggettivamente colpevole. Quasi come se non vi fosse una soluzione di continuità assoluta tra gli assassini involontari e gli assassini veri e propri. «L’imprudenza, la mancanza di attenzione, limitano la nostra responsabilità?», si chiede Levinas. E aggiunge: «Siamo noi abbastanza coscienti, abbastanza svegli, uomini già abbastanza uomini? comunque stiano le cose, occorrono città-rifugio, nelle quali questi semi-colpevoli, o semi-innocenti, possano soggiornare al riparo della vendetta»[22].

Questa istituzione antica ha qualcosa da dirci? Può offrirci qualche spunto di riflessione ulteriore rispetto al tema dei migranti e delle migrazioni, delle cause sottostanti al fenomeno migratorio, delle opportunità che questo fenomeno ci presenta?

Chi sono i rifugiati, nella città contemporanea? Chi sono i semi-innocenti, o i semi-colpevoli, che in essa trovano oggi riparo e protezione?

Dice Levinas, a commento del testo talmudico: «nella società occidentale, libera e civilizzata, ma priva di uguaglianza sociale, priva di giustizia sociale rigorosa, è proprio assurdo chiedersi se i vantaggi di cui dispongono i ricchi rispetto ai poveri – e tutti sono ricchi rispetto a qualcuno in Occidente -, non siano, attraverso una serie ininterrotta di cause, alla base dell’agonia di qualcuno, in qualche luogo? Non vi sono, in qualche parte del mondo, guerre e uccisioni che ne sono la conseguenza? Senza che noi altri, abitanti delle nostre capitali (…) abbiamo voluto del male a chicchessia?». Coloro che trovano rifugio nella città contemporanea siamo innanzitutto noi, dunque. «Le città nelle quali soggiorniamo e la protezione che, legittimamente, in forza della nostra innocenza soggettiva, troviamo nella nostra società liberale (…) contro tante minacce di vendetta senza fede né legge, contro tante forze riscaldate, non è, in effetti, la protezione di una semi-innocenza o di una semi-colpevolezza, che è innocenza ma anche colpevolezza, – tutto questo non trasforma le nostre città in città-rifugio o città per esiliati? E la civiltà (…), pur essendo una difesa necessaria contro la barbarie del sangue riscaldato e contro pericolosi stati d’animo, contro il disordine minacciante, questa civiltà non è un tantino ipocrita, troppo insensibile alla collera irragionevole del vendicatore del sangue e incapace di ristabilire l’equilibrio? Ci si può chiedere se la spiritualità che si esprime nella nostra maniera di vivere, nelle nostre rette intenzioni, nelle nostre buone volontà, nella nostra attenzione al reale, sia sempre sveglia»[23].

Dunque, uscire dalla notte, risvegliarsi, potrebbe voler dire anche cominciare a prendere coscienza della intrinseca ambiguità della cittadinanza occidentale, che protegge alcuni ed esclude altri, rivelando così la sua violenza implicita. Il forestiero, il rifugiato, il richiedente asilo che bussa alle nostre porte rivela a noi stessi chi siamo. Ci mette nelle condizioni di riconoscerci come esiliati, semi-innocenti e semi-colpevoli allo stesso tempo, nelle città che abitiamo. E quanto più alziamo muri per impedire agli altri di accedervi, tanto più si riduce la nostra semi-innocenza e cresce la nostra semi-colpevolezza.

 

La vita cristiana come risveglio

Vorrei chiudere questa riflessione con la citazione di due versetti della Prima lettera di Pietro, che possono essere di aiuto per individuare il cammino da intraprendere per risvegliarci dal nostro torpore sonnambolico. Si tratta di un cammino di conversione al Vangelo.

All’inizio della lettera, Pietro si rivolge ai suoi interlocutori,  definendoli «fedeli che vivono come stranieri, dispersi» (1 Pt, 1,1). Coloro che appartengono a Cristo, sono identificati come stranieri. Sembra che Pietro dia per scontato «che la presenza di cristiani nel mondo comporti un’esperienza di estraneità, di sradicamento. (…) Pietro li qualifica così, come se fosse la condizione normale della vita cristiana: coloro che sono segnati da un’esperienza di sradicamento, di diversità rispetto a quello che pure è e rimane l’ambiente in cui si è svolta e continua a svolgersi la loro esistenza quotidiana, familiare, professionale. (…) Per Pietro questa condizione di estraneità, di sradicamento è l’effetto di un’azione di Dio; questi cristiani sono diventati “stranieri in casa loro” per come sono stati sradicati e trapiantati nella relazione con il mistero di Dio che si rivela»[24].

Un po’ più avanti, nel capitolo 2 della lettera così si legge: «Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo» (2, 4-5). P. Pino Stancari così commenta: «la pietra viva è il corpo glorioso del Signore, colui che è stato crocefisso e glorificato. Quel Figlio scartato è il fondamento di un nuovo edificio che si costruisce in modo tale che qualunque scarto possa caratterizzare la condizione umana, qualunque rifiuto, qualunque situazione di frantumazione, di condanna e di dispersione, di fallimento e di sconfitta, tutto torna utile per la costruzione di quell’edificio che è fondato sulla pietra scartata»[25].

Più di un secolo dopo, l’autore della Lettera a Diogneto afferma che i cristiani «risiedono poi in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera»[26].

La novità della vita nuova, della vita in Cristo determina un modo nuovo di vivere e di stabilire legami. L’accoglienza del Vangelo permette di riconoscere nelle vite scartate – nei rifiuti umani della globalizzazione – non una minaccia incombente, e neanche semplicemente esseri umani da soccorrere (cosa peraltro doverosa e necessaria), ma i compagni di strada da privilegiare, poiché aiutano a comprendere qualcosa di essenziale della vita battesimale e delle relazioni tra noi. La conversione al Vangelo non è dunque un esercizio astratto. Essa ci fa sperimentare che siamo noi stessi stranieri e sradicati, anche se cittadini in piena regola; e ci fa riconoscere sul volto di ogni straniero, un volto fraterno. In questo senso, la conversione è l’equivalente di un risveglio.

 

[1] Ricercatore di Sociologia presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria. Insegna Politica sociale e Metodologia della progettazione sociale.

[2] Dossetti G. (1997), “Sentinella, quanto resta della notte?” (1994), in La parola e il silenzio, Il Mulino, pp. 299-311.

[3] Ivi, p. 302.

[4] Gallino L. (2015), Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino

[5] Revelli M. (2014), “Nemmeno la povertà è più quella di una volta”, 17 agosto su https://2011oraequi.blogspot.com

[6] Revelli M. (2010), Poveri, noi, Einaudi, Torino

 

[7] Grossman D. (2007), “Raccontare una storia per salvare gli uomini”, in La Repubblica, 12 settembre.

[8] Caritas e Migrantes (2018), XXVII Rapporto Immigrazione 2017-2018, Tau Editrice, pp. 2-5.

[9] Ivi, p.32.

[10] Ivi, p.35.

[11] Ivi, p.38.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, pp. 41-43

[14] Ivi, pp. 68ss.

[15] Ivi, pp. 44ss.

[16] Ivi, p. 83.

[17] Ivi, pp. 94ss. Vedi anche “Lo stato di salute della popolazione immigrata in Italia: evidenze dalle Indagini Multiscopo  ISTAT”, in Epidemiologia & Prevenzione. Rivista dell’Associazione italiana di epidemiologia, supplemento 1 al n. 3/4, maggio/agosto 2017.

[18] Caritas e Migrantes, cit., p. 66

[19] Ivi, p. 67.

[20] Ibidem.

[21] Levinas E. (1986), L’al di là del versetto, Guida, pp. 105ss.

[22] Ivi, p. 110.

[23] Ivi, pp. 110-111.

[24] Stancari P. (2017), “Una lettera da Roma per esortare e incoraggiare”, Commento alla Prima Lettera di Pietro (prima parte), in http://www.incontripioparisi.it, 7 febbraio.

[25] Stancari P. (2017), “La vita cristiana è piena e radicalmente nuova”, Commento alla Prima Lettera di Pietro (seconda parte), in http://www.incontripioparisi.it, 7 marzo.

[26] A Diogneto (2008), con Introduzione, edizione critica e commento di H.I. Marrou, Edizioni Studio Domenicano, Edizioni San Clemente, Cap. V, p. 63.

Testimonianze e dibattito

Osman – dalla Somalia:

Sono quasi da 10 anni a Roma, ho 30 anni e lavoro come mediatore culturale.

Perché ho lasciato il mio paese?

Vivevo a Mogadiscio, sono cresciuto in un collegio dove studiavo il Corano, l’Arabo, il Somalo … a 14 anni sono tornato a vivere con mia madre e mio fratello più grande.

Nel mio paese sia scuole che ospedali sono privati, quindi a 14 anni ho lasciato gli studi. Sono vissuto in famiglia fino ai 18 anni, giocando a calcio; a questo punto hanno ucciso mio fratello, per una vendetta tra etnie, quindi per paura di fare la stessa fine sono partito dal mio paese ed ho fatto un viaggio di 8 mesi per poter arrivare in Italia, attraversando Etiopia, Sudan, Libia. Quello nel deserto è un viaggio difficile e pericoloso, molti sono i morti per sete, per fame, per incidenti di macchina; noi siamo rimasti bloccati per un guasto per 12 giorni ed abbiamo esaurito quasi tutte le riserve; aggiustata la macchina, siamo ripartiti ed i trafficanti avevano un unico obiettivo: recuperare il tempo perso, perché per quel tragitto di 6 giorni prendevano 900 € per ognuna delle 32 persone a bordo di quel pick-up e 12 giorni di fermo era stata per loro una grossa perdita… Durante quella corsa folle è caduto un ragazzo e i trafficanti, che erano nella cabina, non hanno sentito ragioni alle nostre grida, hanno abbandonato quel ragazzo nel deserto, noi abbiamo potuto solo gettargli il suo zaino.

Ci avrebbero scaricato lontano da un paese, senza bussola, con una sola indicazione di dove andare, dicendoci che eravamo vicini, in effetti eravamo ancora molto lontani, ma non avevamo scelta, i trafficanti ci parlavano con le armi in mano.

Quando i trafficanti hanno abbandonato anche noi, assicurandoci che mancavano 3 o 4 chilometri al paese più vicino, eravamo contenti di poter finalmente camminare, ma non c’era nessun paese; dopo molte ore capimmo di non poter camminare sotto il sole, incominciamo a camminare di notte, passarono molti giorni e ad un certo punto per poter proseguire ho abbandonato il grosso zaino che avevo e poi abbandonai anche le scarpe, anche quelle mi erano di peso, perché mi stringevano i piedi che si erano gonfiati.

In questo percorso a piedi ci siamo più volte separati, perché ognuno per la grande disperazione, vedeva una possibilità che gli altri non condividevano, abbiamo fatto molta strada rimanendo in tre, finalmente siamo arrivati ad un piccolo villaggio, gli altri due non volevano entrare per paura di essere arrestati. Eravamo in Libia, io capii di non avere alternative, entrai in un ristorante, nascondendo i piedi senza scarpe sotto il tavolo, chiesi acqua e riso… ma non avevo più soldi, erano 21 giorni che stavo nel deserto, preferivo il carcere, non mi rendevo conto del mio aspetto: ero sporco, sudato, avevo gli occhi di fuori, sembravo un pazzo… quando si sono accorti che non avevo soldi mi hanno portato in cucina per lavare i pavimenti ed i piatti e quindi volevano cacciarmi, io gli spiegai che non avevo dove andare, così rimasi con loro in cambio di cibo ed acqua. Dopo alcuni mesi, inaspettatamente mi diedero 300 denari, partii ed andai a Tripoli; lì tutti si approfittavano dei vari gruppi che si fermavano, perché clandestini: se compri una cosa non ti danno il resto… e se cercavamo ragioni, sempre ci minacciavano di chiamare la polizia. Anche il proprietario della casa che avevo affittato con altri ha cominciato a chiederci sempre più soldi e anche molte volte in anticipo sul mese… capii che l’unica strada possibile era contattare altri trafficanti per raggiungere l’Italia.

Mi imbarcarono su un gommone con 75 persone, tutti sconosciuti; dopo tre giorni di navigazione, salvati dalla guardia costiera italiana, arrivammo a Lampedusa, da lì a Roma in un centro e dopo 4 mesi venni riconosciuto come rifugiato, ma dopo il riconoscimento mi ritrovai di nuovo in mezzo alla strada. Per fortuna attraverso la Caritas ed il centro Astalli, piano piano ho trovato un letto, un centro… un lavoro.

E oggi sono qui e cerco di aiutare chi è appena arrivato per i documenti o anche solo per dare un’informazione: dopo essere fuggito da una situazione di morte, sopravvissuto al deserto e poi al mare, si rischia di morire su un marciapiede per il freddo ed è molto importante che qualcuno ti dia le informazioni necessarie.

Bisogna sempre cercare di capire le cose, anche quello che succede ai rifugiati: se vedi una pecora che scappa, non occorre guardare la pecora, ma cosa c’è dietro la pecora per capire perché scappa.

Maurizio: Con 900 € invece di darli ai trafficanti non potevi prendere un volo Mogadiscio-Roma?

Osman: Tu, se vuoi, da Roma puoi prendere un aereo per Mogadiscio, un somalo non può prendere un aereo per Roma, non ci danno il permesso. Uno dei problemi della Somalia è la gran quantità di armi che girano, una pistola può costare 17 dollari, e questo crea una grande instabilità e paura generale. Ilaria Alpi, una giornalista italiana, è stata uccisa perché aveva scoperto il traffico di armi tra l’Italia e la Somalia: scambio di rifiuti tossici con le armi.

Patricia: Osman, grazie per la tua condivisione, tu in 8 mesi hai fatto tanta strada… più di quanto a volte si fa nel corso di una vita.

Io sono venuta quasi 15 anni fa dal Perù con un contratto di lavoro di cooperazione internazionale, il contratto è arrivato quando mio padre ha perso il suo lavoro. Io ero e sono molto legata alla mia famiglia e non avrei mai pensato di partire.

Con tutto il dolore che sentivo per il distacco, ho deciso perché mi era stato offerto un lavoro indispensabile per i miei e avrei avuto anche l’opportunità di continuare gli studi.

Il primo lavoro è stato come baby-sitter e la relazione è stata davvero molto bella; in contemporanea ho studiato Pedagogia sociale ed ora lavoro come educatrice privata. Con gli Scalabriniani faccio parte della missione latino-americana ogni domenica pomeriggio dalle 17 alle 19, facciamo anche la lectio divina e terminiamo con la messa in spagnolo.

La migrazione latino-americana è prevalentemente femminile; nei nostri incontri affrontiamo anche le varie difficoltà dei nostri lavori della nostra vita qui.

Nella mia esperienza ho avuto molta nostalgia, ma non paura. A via della Lungaretta 22/A abbiamo la sede del nostro gruppo latino-americano: è un punto di incontro e di riferimento dove abbiamo superato le barriere nazionali, ma ora è necessario andare oltre il nostro continente, aprirsi agli altri popoli. Dobbiamo contagiarci gli uni con gli altri.

Ci sono delle esperienze che incontriamo negative e questo, a volte, per alcuni diventa una chiusura definitiva.

Ogni due anni torno in Perù e sono fidanzata con un ragazzo brasiliano, sento che devo di nuovo decidere dove andare.

Paola Aversa: sono appena stata per 6 mesi a Gibuti con la Caritas che lavora con i bambini di strada.

Alcune piccole esperienze: la prima per 12 giorni, a Bosaso, un porto della Somalia, perché come Caritas siamo impegnati a seguire i bambini dei campi profughi per inserirli nella scuola, visto che queste sono a pagamento.

Qui ho conosciuto Paul Anthony Formosa, un cristiano maltese, responsabile della costruzione del porto di Bosaso per conto degli Emirati Arabi, innamorato del popolo somalo, molto attento ai bisogni delle famiglie che lavoravano per lui e dei loro figli, anche alle loro necessità sanitarie.

Il 4 febbraio, già tornati nel Burundi, giorno del bellissimo documento firmato dal Papa con l’Imam di Al-Ashar, abbiamo saputo che Formosa era stato ucciso, negli ultimi istanti solo una ragazza ruandese, che si chiama Rosin, gli è stata accanto, si è tolta il velo e lo ha ricoperto, per questo suo gesto è stata condannata a morte; per fortuna l’intervento del Vescovo le ha permesso di venire a Gibuti e da lì ora è in Belgio.

Neanche dalla bocca di Rosin, anche lei cristiana, ho sentito una parola contro il mondo musulmano; spiegava che sono veramente poche le persone che usano la violenza, i due popoli vogliono vivere in pace.

Un’ultima cosa: quando a Malta è arrivata la notizia dell’uccisione di Anthony, sui social era iniziata una “caccia” contro i somali rifugiati, minacce di ogni genere. La figlia di Anthony è immediatamente intervenuta e ha detto: “Mio padre ha amato molto il popolo somalo, nessuno usi il nome di mio padre per giustificare il proprio razzismo”.

Maria Dominica: Nel 2000 eravamo per un campo di lavoro a Bogotà e un giorno abbiamo percorso una strada centrale dove c’erano molti “senza fissa dimora”; pochi mesi dopo, il nuovo presidente ha fatto sgomberare quella strada e nessuno è riuscito a sapere la fine di quelle persone!

Un problema grave riguarda i minori non accompagnati in Italia: compiuti i 18 anni non verranno più seguiti dai vari centri e spesso si trovano senza protezione e senza documenti, “invisibili”, alla mercé della vita, per loro sarà sempre più difficile trovare lavoro.

Nel nostro quartiere facciamo almeno una volta all’anno un’eucarestia comune con Indiani, Filippini, Peruviani, ogni gruppo porta un canto, un racconto, una preghiera.

Stiamo seguendo dei bambini e ragazzi stranieri nei loro studi e gli insegnanti ci dicono che vedono molto più impegno da parte loro, rispetto ai coetanei italiani. Alcuni di loro vengono dalla moschea di Primavalle e le famiglie li spronano tantissimo.

Beatrice: Io vivo con la mia famiglia insieme ad altre 5 in una “comunità solidale” alla Collina del Barbagianni, essendo in tanti ci capita spesso che qualcuno da fuori ci chieda aiuto per una emergenza. Era il 25 dicembre 2015 e ci telefonarono chiedendo ospitalità per un uomo che vive nella strada con il suo cane perché avvicinandosi capodanno ed essendo il cane terrorizzato dai botti, cercavano rifugio temporaneo. Noi viviamo in una struttura accanto alla casa generalizia di alcune suore, a seguito della richiesta telefonica Andrea, mio marito, e la madre provinciale sono andati a conoscere quest’uomo in strada. Visto che in quel momento non c’erano spazi liberi, la suora decise di ospitarlo in una cappellina secondaria, utilizzata solo a maggio.

L’uomo ed il suo cane hanno vissuto da noi per alcuni mesi, poi lui ha deciso di tornare in madrepatria nella Repubblica Ceca. Lì però ha vissuto in solitudine, attraversando sofferenze enormi, gli hanno tolto il cane e lui alla fine ha deciso di tornare in Italia. Le donne che avevano fatto inizialmente da tramite, forse erano più preoccupate per il cane, perchè sparito il cane, quest’uomo per loro sembrava diventato invisibile.

L’incontro con quest’uomo ci ha permesso di capire quanto sono forti i nostri luoghi comuni, la grande difficoltà per uscire dalle categorie in cui mettiamo la gente e la necessità di tornare a vedere ciò che rende unica quella singola persona.

Gianfranco: oltre a maturare questa visione universale, che è un po’ la carta d’identità dei cristiani, anzi noi cattolici ce l’abbiamo nel nome, è inoltre necessario riconoscere la altrui e la propria vulnerabilità, l’altrui e la propria paura. L’incontrare, l’ospitare chi viene da lontano, ci aiuta molto a cogliere il nostro essere stranieri.

A causa del lavoro di mio padre, io sono stato in 11 scuole diverse e questo certamente mi ha creato ferite e disagi, non solo scolastici. Ma al contempo mi aiuta a cogliere le ferite altrui: mi pare importante sapere ripercorrere ogni tanto le mie fragilità e paure, per poter comprendere chi incontro, se al contrario nego il mio passato, le difficoltà dell’altro mi generano diffidenza e paura.

Dopo sposati per motivi di lavoro ci trasferimmo nel sud, facemmo parte della formazione delle coppie in parrocchia e ci trovammo in un consiglio pastorale in cui si organizzava la festa patronale con le sue processioni; dissi che mi pareva opportuno oggi riflettere sul senso di queste processioni, ed una persona mi rispose: “ma tu che c’entri, tu non sei di qui”.

Allora capii bene cosa significa “essere stranieri”. Ospitammo in seguito, nei “nostri traffici” familiari, un colombiano e facemmo la terribile trafila della Bossi-Fini, le tante difficoltà anche burocratiche che abbiamo attraversato, hanno dilatato i nostri orizzonti.

Occorre prendere consapevolezza delle nostre ferite e imparare a condividerle.

Maria S: ancora oggi, in Italia, si è stranieri tra nord e sud; occorre coraggio, senza deprimersi, affrontando ciò che è necessario.

Antonella: io sono stata per lavoro a 17 anni al nord e mi chiamavano “terrona”, mi prendevano in giro perché non conoscevo il loro dialetto; quando poi sono andata in Romania mi sono sentita accolta molto più che al nord d’Italia. Tornata in Italia ho sentito il bisogno di accogliere gli stranieri ed oggi lo faccio aiutando negli studi ragazzi e ragazze da ogni parte del mondo.

Gigi: vorrei tornare alla relazione di Giorgio, quando parlava della “paura rancorosa”. Il mio sguardo è dal mondo operaio romano, e mi accorgo che tutto nasce dal “rancore sociale” che viene prima della paura e prima della xenofobia; il rancore nasce quando ti accorgi che ti comincia a mancare la terra attorno ed invece di dirigere questo rancore verso chi ne è la causa, lo rivolgi verso chi ne subisce maggiormente le conseguenze, i più poveri, per questo è necessaria una coscienza politica.

L’accoglienza è fondamentale e va fatta, ma dobbiamo contemporaneamente interrogarci sulle cause della migrazione, siamo tutti corresponsabili. Occorre interrogarci e capire e agire per rimuovere le cause nazionali e internazionali.

Alberto La Porta: faccio parte dell’associazione Parisi-Polverari e noi abbiamo discusso un anno intero sul tema della migrazione; abbiamo appena avuto un incontro con un rappresentante di una ONG delle Acli che si occupa della cooperazione internazionale e sottolineava con un esempio l’importanza di affrontare i singoli problemi, avendo contemporaneamente  uno sguardo più ampio, quindi politico: a Casal Bruciato diceva, dove è sorta quella baraonda per l’assegnazione di una casa ad una famiglia Rom, il problema si è ingrandito perché la società non costruisce più le case popolari che sono necessarie.

Suor Luisa: ciò che vi racconto è intorno alla vita di un uomo con dipendenza da alcol che chiede l’elemosina davanti alla nostra parrocchia. Come aiutarlo? Innanzitutto partendo dalla necessità di superare l’io, perché da sola non avrei fatto nulla e la necessità di un gruppo capace di interagire, un gruppo capace di farsi rimettere in discussione dalla presenza di quest’uomo.

Il primo punto per noi, è stato non costringerlo a fare dei passi che lui non poteva fare; il secondo punto, che la sua vita deve aiutarci a cogliere le nostre fragilità.

Giuseppe: da parte dello Stato Italiano mancano norme capaci di leggere e strutturare una realtà migratoria che va cambiando nelle forme e nei numeri. Lo Stato ha delegato al Terzo Settore l’accoglienza, ma ha anche rinunciato a fare serie analisi politiche.

Alberto: ci diceva quell’esperto di una ONG-ACLI, che non esistono vie legali per entrare in Italia se si proviene da alcune parti del mondo.

Loredana: l’associazionismo sta facendo indubbiamente un lavoro prezioso, però forse troppo silenzioso, che non incide sulla realtà generale, quasi inesistente sui media, dobbiamo rioccuparci della scena politica.

Con dei ragazzi/e delle medie abbiamo fatto un programma sulla migrazione e devo dire che l’empatia è andata crescendo e contemporaneamente la capacità di interrogarsi sul contesto generale. Occorre recuperare anche la nostra storia, le nostre origini, che ci aiutano ad affrontare con maggiore complessità la realtà della migrazione.

Associazionismo, media, scuola… dovrebbero lavorare assieme per ridare alla politica un nuovo respiro.

Lorenzo: molto spesso mi capita d’incontrare persone che hanno una grande avversione nei confronti dei migranti, che ripetono cose che hanno sentito dire e ridire, senza neanche interrogarsi sulla verità di ciò che dicono. Per poter sbloccare una situazione di chiusura, non servono i ragionamenti, una lettura diversa, ma occorre favorire l’incontro tra persona e persona, tra una storia e l’altra; non serve portare cifre, non servono certo i telegiornali, ma occorre permettere che le persone si avvicinino, si ascoltino, si occupino di conoscere la storia, le tragedie che ci sono dietro un volto… questo è il primo passo indispensabile.

Poi occorre un secondo passo: approfondire le cause, perché quando parliamo di chiudere i confini, intendiamo dire che rinunciamo ai badanti per i nostri anziani, rinunciamo alle loro braccia nelle fabbriche, sulle nostre terre, con i nostri animali e soprattutto rinunciamo alle loro materie prime? La storia ci aiuta a conoscere che cosa abbiamo fatto con le colonie, ma è necessario anche conoscere ciò che stiamo facendo con le multinazionali.

Quand’ero ragazzo mi spiegavano che il compito di un medico dietro il ring del pugilato era per tamponare le emorragie e permettere al pugile di continuare quella barbarie, ecco oggi dobbiamo essere attenti perché insieme a tamponare le emorragie, occorre impegnarsi a rimuovere le cause di tali emorragie.

L’altro giorno ero ad un raduno di Rom e Sinti di varie parti d’Italia e raccontava un ragazzo di 24 anni: “mio padre non ci ha insegnato il romanè, per evitare che noi figli fossimo segregati”. Io che ho ascoltato i loro racconti ero impressionato dall’idea che per poter vivere dovessero “mimetizzarsi”.

Ecco di fronte a tanti popoli, culture e fedi, occorre aprirsi per dare a questa nostra cultura di cogliere le tante opportunità di vita e di respiro.

Chiara: guardando le case dello Sri Lanka, ripensavo alle case di Cuba dove ho vissuto e alle nostre case dove viviamo; è vero non possiamo molto contro le multinazionali che sono causa di tanta povertà nel mondo, ma certamente possiamo tornare ad uno stile di vita sobrio, rispettoso del tipo di vita dei più poveri. Occorre continuamente tornare alle nostre responsabilità verso la condivisione delle risorse e attuarla.

Mara: metà della mia classe è composta da bambini stranieri ed anche un bambino figlio di napoletani si sente straniero. L’altro giorno a ricreazione c’erano tre bambini: un napoletano, un tunisino e un ghanese, tre colorazioni di pelle, hanno fatto un gioco ed alla fine si sono abbracciati intrecciandosi… davvero un’interazione.

Nella stessa classe c’è una ragazzina italiana convinta di essere superiore agli altri perché italiana; io, pur insegnando scienze, non sono riuscita a convincerla che non esistono superiorità genetiche; poi, in questa classe a febbraio è arrivato un ragazzino albanese che non conosce l’italiano, quindi uso con lui una comprensione ed un aiuto speciali ed ho chiesto alla classe se fossero d’accordo su questo diverso atteggiamento. La ragazzina che si sente superiore è intervenuta: “ma di che cosa dobbiamo parlare? certo che è giusto”.

Micaela: ma allora ha ragione, è proprio superiore! (risata generale).

Mara: mi pare che l’atteggiamento di questa ragazzina mostra come certi pregiudizi si possono superare solo nella condivisione di vita, solo la frequentazione quotidiana permetterà a lei di capire che non ha alcuna superiorità su di lui.

Suor Luisa: occorre ritornare ad una cultura in cui al centro ci sia la persona.

Loredana: stiamo attenti anche a non tornare alla “regionalizzazione” della scuola, per cui molti alunni saranno “stranieri” in patria.

Gigi: forse la scuola è per molti aspetti l’ultimo presidio.

Giampiero: un primo punto: circa 2 anni fa la Merkel a causa della catastrofe siriana, accolse circa un milione di profughi… in conseguenza di questa sua azione, la sua posizione politica in Germania si è fortemente indebolita.

un secondo punto: intorno al 2015-2016 il ministro Minniti di fronte al crescendo della migrazione disse: “dobbiamo fermare quei barconi per difendere la democrazia”.

Cioè? Temeva che se fosse continuata la migrazione ci sarebbe stata una rivolta populista, antidemocratica, che avrebbe seriamente minacciato popolo e Parlamento. Oggi vediamo che Salvini sta cercando proprio questo. Certo non si doveva, né si poteva fermarli rimandandoli in Libia, ma si doveva intervenire su un piano politico che comprendesse un coinvolgimento ampio dalla base.

Mario Tronti in “Popolo perduto” raccontava il coinvolgimento delle tante “cellule di partito” nell’affrontare le situazioni nazionali e internazionali: rifletteva, discuteva, si accordava… Ora la situazione è cambiata è frammentata, occorre ritrovare, forse online, un nuovo modo ma che sia serio di confrontarsi, approfondire, partecipare in basso.

Se escludiamo la scuola, non c’è più un luogo dove fare politica, dobbiamo ritrovare il gusto del bene comune, della responsabilità collettiva, dobbiamo recuperare la responsabilità della nostra storia e non solo online.

Lorenzo  Chavelet: sono vissuto a Casal Bruciato. Un confratello aveva una casa popolare proprio a via Satta, quando ha deciso di andare in una casa per anziani, io ho scritto al Comune chiedendo a chi dovevamo consegnare le chiavi… nessuna risposta; quando i vicini si sono resi conto che non sarebbe tornato a casa, hanno fatto un buco alla porta per entrare, a questo punto ho chiamato la polizia che mi ha risposto: “abbiamo altro da fare”.  C’era un nostro conoscente, un padre di cinque figli, in graduatoria per una casa popolare da 13 anni, mi ha chiesto di poter entrare, abbiamo dato a lui le chiavi. Dopo tre mesi squilla il telefono, io ero all’estero in quel momento: “Buongiorno sono delle politiche abitative del comune di Roma, vorrei sapere se l’appartamento è pulito” al che rispondo: “era pulito, ora so che è occupato, ho ripetutamente chiamato il comune; martedì sono a Roma, mi richiami”

… Non ho ricevuto più nessuna chiamata.

Se chi ha il compito di amministrare, non si occupa dei beni comuni, ecco che prevale la legge della giungla, tutto in mano a chi urla di più.

Io ho lavorato per 40 anni in imprese di pulizia in uffici, occorreva essere sul posto di lavoro alle 6 ed alle 9 era finito, tutti italiani, quasi tutte donne, spesso madri sole o vedove, finito l’orario si recavano a casa di signore, molte delle quali erano impiegate in quegli uffici, molte di queste signore borghesi e cattoliche… ma che non pagavano i contributi. Ora la situazione si è complicata, perché ci sono donne polacche o rumene che fanno lo stesso lavoro, ma ad un prezzo più basso. I problemi nascono non a causa dello straniero, ma a causa della mancanza di una politica del lavoro che voglia gestire un lavoro dignitoso.

Marco: nel quotidiano, l’interazione tra culture diverse è molto maggiore di quello che ci fanno credere i media; tale interazione avviene non solo tra vicini di casa, nelle scuole, ma anche nelle fabbriche e soprattutto al nord. Di certo siamo passati da una politica in cui si parlava di “internazionalismo”, ad una politica in cui si parla di “sovranismo”, mi pare una grossa caduta di valori.

A Nuova Ostia, dove abito, abbiamo messo su una “lista civica” tra persone non iscritte a partiti, ma che voglia fare politica in basso; lista nata attorno ad un viceparroco da tanti anni impegnato nel sociale ed ha avuto circa 9000 voti.

Queste liste civiche hanno una maggiore capacità di pensare e muoversi rispetto ai grandi partiti. Ci stiamo legando ad altre liste civiche di altri comuni.

Sono necessarie persone che si impegnino politicamente, lontane però da logiche di mercato. Forse il nostro primo dovere è non credere alle varie informazioni pilotate, ma voler approfondire, conoscere la realtà per poter reagire.

Mio fratello è missionario in Niger, dove hanno da poco aperto l’Ambasciata Italiana, ma che ha l’unica funzione di permettere l’entrata dei militari italiani a protezione dei beni delle imprese italiane.