Lettera 49 (Prima Serie)

La Responsabilita’ Dei Cristiani Di Fronte Alle Attese Di Giustizia E Di Carita’ Nella Diocesi Di Roma

Considerazioni sulla conferenza stampa del Cardinale Vicario e sul prossimo convegno diocesano.

  1. Perché riparlarne?

Dopo gli interrogativi sollevati a proposito del prossimo convegno diocesano di romano nel precedente numero de La Tenda (dicembre 1973) e le riflessioni che ci sono sembrate imporsi dopo un primo confronto fra la lettera di don Roberto Sardelli (Cfr. La Tenda n.48) e il testo della conferenza stampa del Cardinale Poletti, riteniamo utile per noi e per gli amici esaminare in maniera particolareggiata il contenuto di questa conferenza stampa e discutere i molti problemi che essa pone ad ogni cristiano responsabile di Roma ed esigente d’una sua coerente e credibile chiarezza.

Diverse sono le ragioni che, a meno di un mese dal Convegno, ci inducono a questo esame. Innanzi tutto, vuoi o non vuoi, il Convegno si farà; esso quindi rappresenterà nella vita ecclesiale romana un momento più o meno chiaro, più o meno fecondo, ma pur sempre un momento reale; e come tale perciò, nel bene e nel male sarà un segno e non potrà essere ignorato. In secondo luogo, non si può negare a priori all’iniziativa, in se e nel suo articolarsi in così lungo tempo (forse trasformandosi), il merito d’una qualche buona intenzione che dall’inizio la sorregga (ancora tutta da intendersi – secondo buona fede – e conseguentemente da potersi giudicare e valutare) ed il merito (questo fuori discussione) dell’impegno concreto di molte persone che hanno lavorato in questi anni alla realizzazione dell’iniziativa medesima. In terzo luogo il Vescovo-Cardinale-Vicario ha speso la sua parola per convalidare il lavoro fatto e dare al Convegno il proprio “sostegno“.

Questa ultima ragione non sarebbe di certo determinante, dati alcuni precedenti e dei retroscena facilmente ricostruibili (ed in fondo umanamente comprensibili); la parola spesa tuttavia ( e questo è ciò che conta), il Vescovo l’ha resa autorevole, nella sostanza se non nella forma, richiamando in essa non estrinsecamente (lo si deve credere!) la Parola e autenticando quindi il suo invito alla responsabilità dei cristiani, di fronte alle attese di carità e di giustizia nella diocesi di Roma, con il richiamo, ben al di là di ogni analisi e convegno, alla Legge di Cristo di “portare i pesi gli uni degli altri” e di “rivestirsi di quell’amore che è vincolo di perfezione”.

Un simile richiamo (ed esso solo) può anche essere “l’inizio di un dialogo più profondo” e come tale, Convegno o non Convegno, ci sembra che vada accolto e meditato non genericamente.

2. Conferenza stampa o comunicazione ecclesiale?

Detto ciò, si deve subito osservare che, per quanto moderna possa apparire, l’idea o il gesto di un Vescovo che si serve di una conferenza stampa per comunicare alla sua diocesi una iniziativa che dovrebbe coinvolgerla interamente e integralmente è, a dir poco, singolare; e non si può non ricavarne l’impressione che non si sia fatta di necessità virtù.

Ma di quale necessità si sarebbe trattato? I tempi che stringevano, anche per essersi il Cardinale Vicario un po’ trovato addosso la cosa (che pure non doveva essergli sconosciuta quando era solo…….Vescovo) e il volerla risolvere, interpretandola a suo modo, e girare pagina? Le difficoltà obiettive di seguire le vie naturali anche se lente, della “comunicazione ecclesiale” su di un tema così politicizzato ultimamente come quello della “attesa di carità e di giustizia” intorno al quale la chiesa locale di Roma ha vissuto di recente i suoi conflitti più aspri, tema che pure in qualche modo, con il minimo d’occasione di divisioni per la comunità ecclesiale, bisognava cominciare ad affrontare perché l’autorità se ne potesse riappropriare dopo che per lungo tempo era sembrato sfuggire alla sua, di per sé legittima, competenza?

Sta il fatto che i cristiani di Roma hanno saputo del Convegno dalla stampa (ciascuno dalla sua e tutti dalla TV); e in fondo non se ne devono essere meravigliati troppo. Qualcuno anzi avrà pensato, leggendo le parole della conferenza stampa: “ Che bravi! Hanno fatto tutto da soli! Hanno lavorato anche per noi, in silenzio ed umiltà!”…

Qualcuno però s’è domandato (ancora una volta!), se il “comunicare” d’un Vescovo con la sua Chiesa (anche a Roma) non sia, non debba e possa essere qualcosa di più di un mero dare avvisi alla stampa; non ha il Vicariato stesso per le sue comunicazioni un apposito ufficio stampa? Perché confonderlo con l’ufficio vescovile del “comunicare”, del costruire, per la sua parte, ch’è quella più autorevole, la comunione nella sua Chiesa?

In effetti, sin dall’esordio giornalistico di questo Convegno, si intuisce che le cose non sono andate per il loro giusto senso ecclesiale. Sul perché si potrà tornare dopo il Convegno, con giudizio più sereno ed argomentato; certo però che mai come in questo caso – lo si può affermare sin d’ora – “silenzio ed umiltà” sono stati di troppo. La logica della Comunione avrebbe voluto che, per questa iniziativa, ampia e fattiva voce venisse data nella Chiesa di Roma sin dall’inizio e ad opera continua del Vescovo (o di chi per lui) a tutte le componenti, le esperienze, i carismi ecclesiali (parrocchie, comunità di base, ordini, movimenti, istituti, conventi, singoli religiosi e laici, etc.); e, soprattutto che il vescovo si fosse fatto, com’è naturale, lui stesso promotore diretto di responsabilità e di unità nelle comunità ecclesiali prima che altrove e quindi in quelle parrocchiali in primo luogo, sorde o dilaniate di fronte alle esigenze sempre pressanti, ma avvertite a loro intento in modo spesso contrapposti e inconciliabili, della carità e della giustizia in una città come Roma, attraversata sin dentro le persone medesime da egoismi, ingiustizie e sofferenze di ogni tipo.

Il Vescovo doveva “comunicare” un’iniziativa del genere, ma in senso profondamente e dialetticamente ecclesiale, sin dall’inizio affinché l’intera comunità si ripiegasse su se stessa nella confessione, nella preghiera, nella riflessione e negli impegni di fronte ad una problematica (quella della carità e della giustizia) che sempre la sorprendeva divisa, cioè confusamente spesso ma certamente in colpa e quindi non più se stessa, orgogliosa, distratta e pigra. Per dare alla stampa, ovvero al mondo l’annuncio del Convegno (che poi, così inteso, sarebbe stato un Sinodo diocesano, quale effettivamente una tale decisiva problematica avrebbe richiesto) sarebbe bastato un semplice ciclostilato dello ufficio-stampa del Vicariato nel momento che sarebbe stato suggerito dalla reale conversione comunitaria e personale dei cristiani, seguita dai Pastori con costante e premurosa compresenza. Con umiltà (questa volta si !) e con gioia (questa si da gridare al mondo!) il Vescovo e i Presbiteri avrebbero giudicato della maturità dei tale momento con un giudizio che, così preparato, non sarebbe potuto che risultare “comunicata” condivisione di responsabilità, nella penitenza e nelle decisioni e nei progetti, con i Popolo di Dio. Poco allora sarebbe importata la forma o le forme del Convegno (che si chiamasse o non si chiamasse Sinodo).

E’ andata esattamente all’incontrario. E così siamo a svilirci, a doverci svilire in questioni formali perché esse sono divenute fondamentali; fondamentali, purtroppo, solo negativamente.

Dopo la conferenza-stampa è iniziato nelle parrocchie l’aggiornamento, l’accelerata sensibilizzazione al fatto nuovo dei cristiani domenicani (equivocamente accarezzati, con ulteriore abuso dell’omelia – un’altra “comunicazione” sprecata – quale vera ed unica “opinione pubblica” della Chiesa).

Ancora una volta s’è evitato di imboccare l’unica via ecclesiale autentica anche se è quella più difficile ( e giustamente lo è): quella del rinnovamento delle singole comunità ecclesiali a partire da un richiamo autorevole e comunicativo alla Comunione (comunicativo nella e per la carità); la via della conversione della Chiesa visibile tutta, percorsa sì con consapevolezza pastorale delle difficoltà, ma anche e di più con fede sicura in Gesù Cristo, nella sua Parola e nell’Eucarestia.

Inoltre s’è evitato di intendere, frontalmente e complessivamente che la responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e giustizia nella diocesi di Roma, pone ai cristiani stessi dei problemi che sono prima della Chiesa e poi del “mondo”; dove il prima in questo caso non reclama un primato ma impone alla Chiesa, come istituzione e come fedeli, parecchie confessioni particolari di fronte al “mondo” (per responsabilità precise che essa ed essi hanno verso la giustizia a causa dei loro peccati “economici”) e, come comunità, una “confessione generale” di fronte a se stessa (per la responsabilità che essa ha verso la carità a causa della propria divisione.

Questa vicenda, ad ogni modo, sarà pur sempre servita a qualcosa se solo sarà riuscita a confermare che il problema della pubblica opinione della Chiesa e della pubblicità della vita della Chiesa non rimane alla superficie di quella ed ai margini di questa, ma, chiamando in causa la comunicazione, la comunità e la comunione emerge autenticamente, ai vari livelli delle vocazioni e dei carismi, dalle più intime profondità del mistero eucaristico ed al suo centro medesimo insondabile ma caritativamente sempre vivo, attivo e disponibile. E come tale esso esige sempre di essere riaffrontato e nuovamente risolto da una comunità ecclesiale viva, attiva, disponibile ed attenta ai segni dei tempi.

3. La ricezione ecclesiale delle analisi antropologiche.

Fatta queste premesse, si potrebbe dire anche che il resto è corollario… Proseguendo comunque nelle nostre considerazioni e nello sforzo di venire in chiaro d’una iniziativa che, lo si è visto, chiara non è (almeno dal punto di vista ecclesiale che qui maggiormente ci interessa) e la cui poca chiarezza ci sembra confermata o, meglio, evidenziata dal senso incerto d’una comunicazione vescovile che si propone sotto la forma “moderna” della conferenza-stampa, dovremmo di questa, ora, passare ad esaminare nel dettaglio la prima e la terza parte; quelle cioè dove il Cardinale Vicario ha parlato del Convegno come “ricerca ecclesiale” e che più direttamente pertanto attengono a quel “dialogo più profondo” cui siamo stati richiamati e dal quale, come cristiani, e a parte ogni riserva per quanto legittima, ci sentiamo naturalmente chiamati ed integralmente coinvolti.

Qualche osservazione però, prima, si impone, anche se per inciso e brevemente (e ben sapendo di toccare in un vespaio…), a proposito della seconda parte, quella cioè relativa all’analisi della città di Roma, cercando di ricondurre anche questa, e meno estrinsecamente di quanto appaia dal testo della conferenza-stampa, ai termini problematici d’un discorso più esplicitamente e vivacemente ecclesiale.

Non a caso, ci sembra, la stampa di ogni indirizzo ha parlato quasi esclusivamente di questa seconda parte, evitando accuratamente di collocarla, come invece andava collocata, nella prospettiva ecclesiale ricavabile dall’interezza del testo letto e diffuso e, al contrario, adoperandosi con tagli appropriati, sapienti ritocchi e rifusioni dei periodi, a tirare metodicamente acqua al proprio mulino politico; e così, fra l’altro, ripagando malamente la premura – per la verità eccessiva – del Vescovo che aveva ritenuto di doversi fare giornalista tra i giornalisti ancora prima che Pastore tra i fedeli a proposito d’un tema decisivo sì per la città, ma innanzitutto – visto che di Vescovo e non di Sindaco si trattava – per la Chiesa locale.

Ora, l’analisi di Roma presente nella conferenza-stampa tiene dietro ad altri documenti, espressi nel contesto ecclesiale romano da voci e da esperienze non insignificanti, che i medesimi mali in essa rilevati hanno denunziato con maggiore tempestività e con ben altro vigore; ricordiamo la lettera dei tredici preti ai cristiani di Roma, la lettera pastorale dell’abate Franzoni (e dei suoi collaboratori) “La terra è di Dio” e, ultima, la lettera di don Roberto Sadelli.

L’analisi fatta propria dal Cardinale Vicario rivela nei confronti delle altre una stesura che arriva più improvvisata che prudente; il tono vorrebbe essere forte e risulta invece ripetitivo; soprattutto, manca un riferimento esplicito alle responsabilità dirette e indirette che la Chiesa ha nel campo dell’assistenza e della carità a causa del “cattivo” funzionamento, se non proprio dell’esistenza stessa, dei numerosi enti, istituzioni ed istituti cattolici che operano nel suddetto campo; e non sembra proprio, a riguardo, che basti l’invito a far “meglio” (l’invito non dovrebbe essere, almeno talvolta, a non far nulla?!). Manca poi, di fronte alle ingiustizie, diciamo così, “urbanistiche”, un segno qualsiasi di aperto ripensamento dello scandalo ormai abituale rappresentato dalla scriteriata costruzione i nuove chiese e dal pullulare indiscriminato di edifici e istituti religiosi (e relative implicazioni speculative); scandalo e segno scandaloso di quella ottusità materialistica e di quella egoistica ispirazione che hanno reso Roma sempre meno comunità urbana e sempre più megalopoli se non giungla.

Sulle analisi, strumento della moderna conoscenza scientifica, e sulla loro recezione da parte della Chiesa, ovvero sulla acquisizione delle verità analitiche al discorso ecclesiale per una migliore verificazione della Parola, sarebbe inoltre proprio il caso oramai di iniziare un discorso più serio degli usi polemici o capziosi o inquisitori sino ad oggi tenuti ed invalsi. E la conferenza-stampa del Cardinal Poletti ne offre, ci sembra, una buona occasione.

Per diverso tempo, almeno ufficialmente, certa analisi sociologiche sono state bollate come politiche e quindi rifiutate a livello ecclesiale profondo; ora quelle stesse analisi sono state assunte come propria dal discorso autorevole d’un Vescovo (e addirittura rilanciate alle autorità civili); cosa è cambiato? Dalla conferenza-stampa non si capisce; gli accenni alla “politica come luogo teologico” sono estremamente fumosi (e la riprova ne è che la stampa ha potuto sguazzarvi dentro in tutti gli stili meno limpidi!).

Per uscire dalle passate condanne e dalle presenti appropriazioni indebite, ci sembra qui di dover sottolineare l’esigenza ecclesiale che di fronte ai risultati delle analisi antropologiche (sociologiche, psicologiche, economiche, giuridiche, ecc.) la comunità cristiana non chiuda gli occhi, anche e soprattutto quando tali risultati si presentano sgradevoli, inquietanti e sconvolgenti; e che invece ben aprendo gli occhi dinanzi ad essi e ricercando anzi una sempre maggiore pluralità delle fonti antropologiche di informazione, ne ricavi stimolo ad una migliore coscienza politica e, ancor prima (non nel tempo ma nella giustificazione di questo) ad una continua riconversione della fede in Cristo che le permetta, poiché essa è vincolo di perfezione nell’amore, di ritrovarsi sempre al di là, più avanti di quella coscienza politica, che al massimo può essere vincolo di giustizia ma pur sempre nella umana imperfezione, e da tale riconversione possa trovare nuove risorse per rendere sempre meno imperfetto quel vincolo politico di giustizia ch’è obbligo preciso anche, se non soprattutto, dei cristiani.

Non sembra che la conferenza-stampa e l’organizzazione del Convegno rispondano a questa esigenza. L’unilateralità sociologica dell’analisi recepita sembra più seguire una moda che non rappresenta una vera e propria scelta metodologica (incomprensibile d’altronde, per quel che s’è detto, in una recezione ecclesiale la cui “assolutezza” non può mai essere l’unilateralità analitica e l’esattezza dimostrativa, ma deve invece sempre restare fondata in Cristo e nel suo amore imprevedibile, gratuito, salvifico e fecondo, anche per una più profonda comprensione del dato scientifico). Perché, ad esempio, non vi sono considerazioni ed interpretazioni di tipo psicologico? Forse che in una società socialmente giusta o più giusta o meno ingiusta scompaiono o variano in proporzione l’egoismo e la nevrosi dei singoli?

Questa recezione ecclesiale, per le vie brevi, di una analisi socio-politica (per di più alquanto semplificata) non sembra pertanto meritare quella unanimità di consensi che la stampa le ha tributato con eccessiva e quindi sospetta facilità; essa anzi aggiunge ulteriori elementi di confusione all’iniziativa del Convegno e al discorso complesso che le è sotteso e che perciò rimane ancora tutto da chiarirsi (e forse addirittura da affrontarsi come si deve).

Affermazioni come “la Chiesa alla società di oggi ha la vocazione di trasformarlo e di ordinare l’orientamento del suo divenire personale e collettivo” arrivano in definitiva poco convinte, semplicistiche e quasi manualistiche. Un’analisi più approfondita teologicamente e articolata scientificamente non potrebbe ignorare che un mondo del genere, al di là dei modelli politici alternativi in gioco, è il prodotto di quella ideologia tecnologica (scientifico-tecnico-produttivo-consumistica) che tutti li pervade eli precede e in vario modo li fonda e li giustifica, fondando e giustificando ad un tempo le analisi come suo e loro strumento primario di conoscenza; cosa ha da dire la Chiesa a questa più sottile ideologia?

Si potrebbe opporre a quanto sopra che il Convegno non voleva essere un Sinodo; ma con questo si argomenterebbe solo ulteriormente, per ciò che sin qui si è detto, che esso non poteva non esserlo e che, essendo stato invece pensato e realizzato diversamente, non poteva finire se non negli equivoci, nelle improvvisazioni ecclesiali e nei conseguenti, sempre possibili, da più parti, tentativi di strumentalizzazione e di interessate (se non programmate) deviazioni verso fini reconditi.

Dove si dimostrerebbe ancora una volta (ma non ce n’era affatto il bisogno!) che non basta il “sostegno” del Vescovo per rendere veramente ecclesiale una iniziativa; occorre il completo coinvolgimento in un progetto e nell’operare autentici della fede (e dell’intelligenza) e del Vescovo e della comunità e dei presbiteri, nell’unità, energicamente perseguita degli intenti e intensamente pregata, dello Spirito.

4. La preparazione del Convegno.

Tornando ora al testo della conferenza-stampa e a quelle sue parti, la prima e la terza, che più direttamente attengono al Convegno come “ricerca ecclesiale”, si può affermare e riaffermare, dopo quanto detto precedentemente in linea di principio, che tutte le direzioni seguite nella promozione e nell’organizzazione del Convegno appaiono da un punto di vista ecclesiale oscure nel punto di partenza, tortuose negli itinerari e vaghe, se non equivoche, nelle mete. E non ci si venga a dire che ci perdiamo sul “come”, poiché in questo caso, lo si è già visto (e forse lo si vedrà meglio dopo il Convegno), il “modo” riguarda la sostanza della comunione ecclesiale e la pregiudica.

Lo ripetiamo perché è fondamentale: cosa significa che il Vicariato ha “sostenuto” l’iniziativa di un incontro a carattere diocesano? Chi ha “preso” allora questa iniziativa? A quale livello? In quale contesto? Per quali ragioni? Con quale intendimento? Con quanta autorevolezza? E con quali speranze?

Anche mettendo da parte queste domande, una volta che il Vicariato aveva deciso di “sostenere” l’iniziativa, non ne doveva risultare una radicale trasformazione? Non doveva cioè saltare in primo piano l’esigenza di un paziente e metodico lavoro di coinvolgimento dell’intera comunità ecclesiale di Roma a livello di autorità, di comunità, di vocazioni e di carismi? E solo in seguito all’effettivo accadere e produrre d’un simile lavoro ritrovarsi in un Convegno che lo esprimesse (e non viceversa!)? “Un incontro di meditazione dell’intera comunità cristiana di Roma” sul piano concreto sarà sempre una riunione ristretta; non preceduto e preparato da un’adeguata opera di riflessione e di integrazione comunitarie, scadrà inevitabilmente di fatto in atti di demagogia o di retorica ecclesiali. Diciamolo chiaramente: chiamare da un giorno all’altro il Popolo di Dio in Roma a raccolta in un Convegno diocesano è una grave presa in giro o una leggerezza gravissima (naturalmente al di là d’ogni buona intenzione).

Il Comitato promotore ha tentato un lavoro del genere (che non spettava a lui promuovere, lo si è visto); ma, soprattutto agli inizi, il suo agire per proprio conto, senza una chiara ed autorevole investitura, gli ha chiuso quella unica porta aperta sulla comunità ecclesiale che, volenti o nolenti, è rappresentata dai preti e dai parroci in modo particolare; il “silenzio e l’umiltà” hanno fatto il resto! In ultimo, il “sostegno” vescovile e l’accettazione del Consiglio presbiterale hanno un po’ cambiato la situazione e qualcosa s’è mosso; ma non era troppo tardi? Non si poteva, se non altro, rimandarlo questo Convegno?

La figura delle cinque commissioni che hanno lavorato nei cinque settori di Roma (Centro, Nord, Sud, Est, Ovest) induce poi un’altra considerazione: questi settori sono stati pensati per una esplicazione, più aderente alla complessa realtà urbana di Roma, della funzione episcopale; perché allora proprio in questa circostanza non si è dato in carico ai vescovi di settore (e perché essi non se lo sono preso, visto che in qualche modo gli doveva pur spettare ?!) di seguire con premura pastorale un’iniziativa in apparenza laica ma implicanti le sorti della comunità in una problematica decisiva per la sua unità? Non è certo questo il modo migliore per dimostrare e testimoniare che l’autorevolezza della Chiesa è ben altro dall’autoritarismo del potere e dal suo vuoto formalismo, è una istituzione di servizio; questo anzi è il modo peggiore: usare un’istituzione, prevista per essere riempita di viva ed amorevole iniziativa, nella sua vacuità burocratica e nella sua inerte materialità esclusivamente.

Ancora una volta dunque, per varie ragioni, è chiamata in causa la “singolarità” della funzione episcopale a Roma o, meglio, della disfunzione di un’autorità vescovile la cui apparente articolazione è più segno di vacanza (dell’unico autentico titolare) che non di attivo e prudente pluralismo.

Non c’è allora da meravigliarsi, in questo “clima” poco ecclesiale e di formalismo organizzativo (per di più inefficiente, né poteva essere altrimenti) che le commissioni fossero difficilmente reperibili (ma chi ne aveva saputo qualcosa?) e che sia mancato quasi del tutto quel “documento di lavoro” che doveva con la sua “ampia diffusione” assicurare unitariamente la riflessione della diocesi in un “simile sforzo di rinnovamento”; né che esso, quando è comparso (in qualche recentissima riunione di settore), si riducesse ad un povero foglio di circostanza per gli ignari e spesso increduli o sospettosi convenuti.

C’è da meravigliarsi invece (e come!) che il Consiglio Presbiterale non abbia saputo far altro (per ciò che s’è potuto sapere dai soliti disagevoli spiragli….) che esprimere un impegno di realizzazione concreta delle linee operative che emergono dalle indicazioni della conferenza-stampa del Cardinal Poletti e emergeranno dal Convegno del prossimo febbraio”. Passi l’ossequio al Vicario, a parte la formula contorta (“la stretta comunione del Consiglio presbiterale col Cardinal Vicario e con i suoi pastori vuol essere già un segno importante per l’efficacia dell’azione pastorale”…..); ma è possibile che i preti romani si accontentino di una conferenza-stampa per riconsacrare una faccenda che negli anni scorsi s’erano ritrovati spesso a scansare in sacrestia come uno dei tanti “impicci” laici che affollano le giornate dei responsabili di parrocchia? E ancora: che forma di collaborazione è quella di dare un previo consenso a dei risultati che ancora si debbono vedere e che non si dovrebbero ancora sapere quali saranno? Profezia o … cose di corridoio? Ne riparleremo a cose fatte….

Una domanda “semplice” per concludere su questo punto: ma perché neppure adesso (a cose quasi fatte) è stata mandata una circolare, fra le tante a tutte le parrocchie per informare della questione la comunità e far dibattere le forme e i contenuti della partecipazione al Convegno?Le ragioni sono le stesse che hanno tenuto nascosti a almeno non pubblicizzati i recapiti delle commissioni? Ancora “silenzio ed umiltà”? O ancora ragioni organizzative? O non, come a noi sembra oramai più verosimile, difficoltà di fondo?

5. La strutturazione del Convegno.

A questo punto delle nostre considerazioni le iniziali teoriche perplessità di fronte alla concreta possibilità per il Convegno di essere “un incontro di meditazione dell’intera comunità cristiana” divengono fondata e doverosa incredulità. E quando Balducci, in una recentissima riunione Romana con Franzoni, l’ha chiamato “Assemblea ecclesiale romana” addirittura, crediamo proprio che egli, in un momento di ottimismo assemblearistico, abbia prestato orecchio piuttosto alle aperture sociopolitiche (peraltro incerte e tutte da dimostrare nel loro significato positivo) che non alle sicure incertezze ecclesiali delle parole del Cardinal Poletti.

Il Convegno si svolgerà dal pomeriggio di martedì 12 febbraio al pomeriggio di venerdì 15 (ma perché in giorni tutti feriali). In pratica fra liturgie, spostamenti, relazioni, rielaborazioni, rimarranno sì e no un paio di giorni durante i quali cinque gruppi logisticamente separati dovrebbero prendere conoscenza del lavoro fatto dalle commissioni, discuterlo nel quadro delle indicazioni presenti nelle due relazioni introduttive (una sociologica e l’altra teologica) e fornire al relatore di chiusura il materiale aggiuntivo e critico per le conclusioni e le decisioni operative.

C’è da presumere che le presenze saranno stereotipate secondo la figura del consenso e del dissenso scontati; gli spazi di libertà e di dialogo, già ristretti ( e peraltro puramente discorsivi), non potranno che essere ancor più limitati dalle esigenze pratiche della conduzione del Convegno( che ad un certo punto dovrà pure in qualche modo chiudere e concludersi). Non mancheranno (ed anzi già si annunciano numerosi!) i politicanti alla ricerca di una tribuna sin troppo comoda (ma vi saranno ottimi moderatori, assicura la segreteria…).

Assente sarà, come al solito, il Popolo di Dio, cioè le comunità, cioè la Chiesa stessa; e questo non perché oceaniche schiere di cristiani non si presenteranno al Convegno, in quanto, se anche lo facessero, l’assenza resterebbe. Infatti, nella Chiesa, il Popolo di Dio non è rispettato quando viene ammucchiato in un ambiente o in una piazza, bensì solo allorché di fatto esso è partecipe nella e dalla sua comunità, e non destinatario, da una cattedra di dubbia autorevolezza, delle decisioni che riguardano l’essere in un modo o nell’altro della vita ecclesiale.

Dichiarare aperto a tutti un Convegno ecclesiale è una implicita dichiarazione di fallimento, è un gesto di disinvoltura e di disponibilità solo apparenti, compiuto per non confessare la divisione esistente, per non impegnarsi in un lungo e difficile lavoro penitenziale; è un gesto doppiamente equivoco: reclama a sé dei meriti e dà a ciascuno l’occasione di vantare i propri; si appaga della propria intenzione ed evita così di andare al fondo, assai meno piacevole, delle questioni fondamentali. Un Convegno del genere non può che essere convenzionale (così come, d’altronde, alla lettera, ogni Convegno; ed è per questo forse che un “convegno ecclesiale” ha poco senso).

Non ci sarà da meravigliarsi quindi se alla fine verranno fuori “conclusioni ed “istanze programmatiche” scontate; se, ad es., la comunità parrocchiale si dovrà sorbire l’aggiunta, non certo vivificante, d’un qualche nuovo impegno amministrativo della parrocchia (come un ufficio della Caritas diocesana o l’assistente sociale interparrocchiale), se la sorbirà senza scampo e sorpresa, con buona pace di quei pochi (come noi) che ancora credono che dalla parrocchia possa venire qualcosa di buono!.

Se poi invece le conclusioni del Convegno non saranno conseguenti a questi ammantati presupposti….. alleluia! Significherebbe proprio che lo Spirito (anche a Roma) spira dove e come vuole!

Certo non è questa imprevedibilità dello Spirito che doveva tenere presente l’estensore della conferenza-stampa quando invitava alla “vitalizzazione delle comunità di base, alla fiducia nella loro libertà, alla promozione della loro creatività” oppure quando, en passant, parlava, come mira del Convegno, “d’imprimere un tono più personale ai rapporti, a tutti i livelli, nell’ambito della comunità ecclesiale”; non era questa perché…. dove la ritroviamo concretamente nella strutturazione del Convegno, ricercata con un suo ruolo e delle legittime e fiduciose aspettative? E allora: ancora una volta tutte parole?

6. La possibile esperienza diversa d’una comunità ecclesiale.

Cosa potrebbe e dovrebbe fare a questo punto una comunità ecclesiale di fronte all’avvenimento di questo Convegno che, malgrado tutto, la riguarda così da vicino?

Ignorarlo, per le ragioni che si diceva all’inizio, non sembra giusto; i dubbi su “silenzio ed umiltà” passano in secondo piano di fronte alla dichiarata volontà di fare del Convegno “l’inizio di un dialogo più profondo”. Le offerte di dialogo non possono essere respinte, in nessun caso; l’accoglienza, però, va indirizzata non ad un dialogo ecclesiale che è comunicazione, nella comunità e fra le comunità, attenta ed esigente proprio perché, in quanto strutturalmente caritatevole, ha per suo unico fine l’unità nella comunione; e si tratta perciò di un fine che invita alla sostanza e non agli accomodamenti formali.

Al Convegno pertanto, con molta semplicità, ci si potrà anche andare; e sarà anche bene parlare criticamente e costruttivamente per testimoniare d’una accettazione non succube e passiva dell’iniziativa e dei possibili ed in fondo non difficilissimi modi di superarne gli errori di impostazione e di strutturazione. Prima o poi, tuttavia, dovrà essere cercata l’occasione, particolare per ogni comunità (e, indotta o risentita, questa non dovrebbe mancare…), perché questo andare al Convegno sia veramente l’inizio d’un più profondo dialogo ecclesiale.

La comunità è divisa (e sa di esserlo) di fronte alle attese di carità e di giustizia; essa quindi deve ri-unirsi come comunità, deve tarmare ad essere se stessa; deve riconvocarsi innanzitutto come assemblea penitenziale e confessare i propri conflitti e ricercare le vie del loro superamento approfondendo la preghiera, la riflessione ed i rapporti interpersonali ad ogni livello; la nuova celebrazione della comunione non potrà non essere la fonte prima d’ogni nuova risposta (dalla più modesta alla più impegnata) alla richiesta spesso drammatica di responsabilità che la città e la diocesi di Roma pone ai cristiani.

Questa ricerca ecclesiale non potrà che essere in ogni aspetto diversa dal Convegno; essa infatti chiama in causa innanzi tutto e direttamente la singola concreta comunità ecclesiale per ciò che essa è realmente hic e nunc, non per la sua estensione territoriale ma con i suoi effettivi, per quanto affievoliti o lacerati, legami comunitari, aperta sì, ma non astrattamente, alla realtà e ai problemi delle altre comunità, quelle più prossime soprattutto (non le migliori e lontane…i nuovi santuari…tutti a S. Paolo…), aperta sì ma non evasivamente alla realtà ed ai problemi del mondo, quello più prossimo soprattutto (non il più affascinante e lontano… la nuova Terra Santa…tutti nel Vietnam…).

Si cercheranno quindi le esperienze comunitarie, anche se mediocri, più vicine materialmente alla propria, quelle del quartiere magari; si cercherà di instaurare con esse un rapporto “epistolare” (anche se non si ignoreranno gli eventuali insegnamenti di quelle più lontane o lontanissime). Si cercherà il Vescovo, magari “solo” quello di settore, affinché si curi o almeno venga sollecitato a curarsi di mediare quei conflitti per i quali un parroco o un presbitero non è all’altezza o nei quali questi stessi sono parte in causa (come accade così di sovente!).

Dalla lenta riscoperta della struttura caritativa della comunione eucaristica emergeranno sicuramente anche le proposte e gli impegni quotidiani, coerenti concretamente con le analisi rimeditate intorno alla Parola. Si intenderà meglio cosa possa significare per la giustizia che il Signore “annunzierà con fermezza il diritto alle nazioni” e che “la pienezza della legge è l’Amore”; e perché fra giustizia, diritto e carità è quest’ultima ad avere sempre il primato. Se ciò non è chiaro –e nella conferenza-stampa sostanzialmente non lo è- si finisce col togliere alla giustizia della politica e alla legge del diritto ciò che spetta loro in proprio e si fa di tutto una gran confusione. E di confusione oggi nella Chiesa locale di Roma sembra veramente che ce ne sia già sin troppa! ….

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cari amici,

vi segnaliamo un interessante volumetto, pubblicato in questi giorni da “Ora Sesta”, nella collana “cristiani a confronto”, che raccoglie due importanti documenti che riguardano la chiesa locale di Roma e che noi abbiamo riportato sulle pagine de “La Tenda” (nn.33 e 48).

Il primo documento, noto come la “lettera dei 13 preti”, appunto perché sottoscritto da 13 preti e religiosi di Roma il 23 febbraio 1972, viene pubblicato arricchito da un ampio e vivace dibattito (tratto da registrazione da nastro) che ha preceduto la stesura e la firma del documento. In appendice alla “prima lettera” vengono inoltre pubblicate le “Note esplicative” ossia i fatti, descrizioni e dati statistici che fondano e documentano il testo della lettera. La seconda “Lettera ai cristiani di Roma” è di Don Roberto Sardelli ed affronta i temi proposti per l’Anno Santo nel contesto della realtà civile e religiosa di Roma.

Il Volumetto, intitolato “Lettera ai cristiani di Roma” può essere acquistato al prezzo di L.1.300 nelle librerie o richiesto a: Ora Sesta Edizioni – V.Crescienzio n. 58 Roma.

Bilancio Di Un Anno Di Attivita’

La Tenda si affaccia al suo sesto anno di vita. Crediamo che la migliore presentazione del ciclostilato per chi non lo conosce consista in questo: nella capacità che ha dimostrato di durare, di mettere radici, pur nella sua povertà, in tutti i sensi.

In tutto questo tempo abbiamo avviato parecchi discorsi, alcuni li abbiamo sviluppati e ripresi in più occasioni, altri sono rimasti agli inizi. Ciò che abbiamo tentato è di seguire un certo filo conduttore, che pensiamo di non aver inventato ma di aver scoperto con un po’ di attenzione e di pazienza, nel vivere i fatti della nostra Chiesa locale. Forse questo filo non sempre risulterà evidente nel lavoro che abbiamo presentato e ciò è senz’altro da imputare a noi; probabilmente comincia a divenire necessario mettere in colonna tutta una serie di dati e di intuizioni e tirare alcune somme. Sarà quello che faremo nei prossimi numeri de “La Tenda”, specie per alcune problematiche che riteniamo basilari per l’avvenire della diocesi.

Il consenso, in questi anni, non è mancato, come non è mancato l’aiuto finanziario, quanto era necessario per andare avanti. Forse ai molti consensi manifestatici nelle più diverse occasioni avrebbe potuto far seguito un intrecciarsi di dialogo che spesso non c’è stato. Non ce ne rammarichiamo oltre misura, ben sapendo quanto sia difficile oggi trovare la possibilità di incontrarsi ed il tempo per mettersi a scrivere, anche se per il futuro ci auguriamo che ciò possa avvenire un po’ di più. Nei limiti del possibile noi restiamo a disposizione per gli incontri che i lettori vorranno sollecitarci, come anche ci auguriamo di poter realizzare, anche nel 1974, qualche pomeriggio domenicale di studio e di dibattito su temi specifici.

Siamo veramente spiacenti per il ritardo col quale avete ricevuto alcuni numeri del ciclostilato. Ciò non è dipeso dalla nostra volontà, ma dalla organizzazione del servizio P.T. che, malgrado gli sforzi degli addetti, mostra tutta la sua inadeguatezza. Ricordiamo che siamo a disposizione per le richieste di numeri mancanti, salvoquelli nel frattempo esauriti.

Vorremmo anche ricordare che, secondo l’impegno che ci siamo presi a suo tempo, dobbiamo procedere ad una nuova verifica dell’indirizzario, essendo trascorsi due anni dall’ultima verifica. Tutti i lettori sono pregati di voler gentilmente rispedirci il foglio allegato. Anche coloro che pensano di farlo a voce o che ci hanno di recente riaffermato il loro interesse per “La Tenda”, inviandoci magari un contributo-spese, ci faciliteranno molto il lavoro se si serviranno del modulo. Lo stesso potrà anche essere utilizzato per comunicarci nuovi indirizzi di amici per l’invio del ciclostilato o per farci avere suggerimenti, osservazioni, critiche, ecc.

Attualmente “La Tenda” viene inviata a 1054 indirizzi, fra i quali molte comunità, parrocchie, gruppi spontanei, ciclostilati, ecc.

Abbiamo fino ad oggi evitato di richiedere una quota di abbonamento e continueremo in questa direzione. Non vogliamo infatti privare del ciclostilato coloro che non hanno la possibilità economica di sostenere la spesa di un abbonamento. Gli amici che sono in grado di farlo, e nella misura che crederanno opportuna, potranno servirsi, come in passato di un semplice bollettino di conto corrente postale, che va intestato nel modo seguente: ccp n. 1/44109 –Solinas – via G.B. Falcone, 6 Roma.

Fino ad oggi, grazie a Dio, non ci è mai mancatoli sostegno degli amici. Siamo certi che sarà così anche per il futuro.

Il bilancio consuntivo di quest’anno risulta un po’ superiore rispetto a quello del 1972 e prevediamo ancor più elevato quello del 1974, per l’aumentato costo della carta. Vi indichiamo di seguito le voci di bilancio:

Spese: differenza passiva 1972 £ 60.123

acquisto carta testate 224.000

spedizione in abbonam. postale 34.080

francobolli per arretrati ed estero 38.700

inchiostro ciclostile 38.500

cancelleria 7.640

totale spese £ 403.043

Entrate:contributo degli amici £ 381.405

differenza passiva 21.638

£ 403.043

Nel prossimo numero contiamo di pubblicare l’indice delle annate 72/73, cosa che non abbiamo potuto fare ora per mancanza di spazio.

Col proposito di continuare il nostro lavoro con sempre maggiore impegno, vi salutiamo fraternamente.

Francesco e Monime Cagnetti v. G.Vestri, 45 tel. 5345312

Tancredi Carunchio via Val Varaita, 8 tel. 8107366

Claudio e M. Vittoria Della Porta v. T. Levi Civita, 35 T.5579229

Maurizio Firmani via Valtellina, 59 tel. 533280

Franco e Giuseppina Lembo via Pian due Torri, 86 Tel. 5282359

Paolo e Emanuela Paramucchi via Conca d’oro, 221 Tel. 8108716

Alfredo e Solange Robino via Jenner, 163 Tel. 539184

Gianfranco e Maria Solinas via G.B. Falcone, 6 Tel. 5267837

Franco e Resy Ventura via Campo Peloro, 10 Tel. 8926670

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