Lettera 48 (Prima Serie)

Lettera Ai Cristiani Di Roma, Di D. Sardelli

Ai componenti del Consiglio Presbiterale.

Caro Confratello,

penso sia utile esporti alcune note perché la “lettera ai cristiani di Roma” venga letta nella sua giusta visione:

  1. Essa è il frutto di cinque anni di lavoro paziente e duro tra i baraccati dell’Acquedotto Felice. Vi si riflettono il loro linguaggio, i loro limiti, la “loro profezia, il loro richiamo, i loro dolori, le loro umiliazioni, la loro speranza, le loro lotte. La loro durezza non deve chiuderci nel rifiuto, ma deve farei chiedere se il nostro orecchio non si sia abituato a espressioni intellettuali e protocollari spesso vuote ed equivoche. I baraccati hanno fatto a me un dono se vero. Io l’ho accolto anche quando mi veniva la tentazione di fuggire, e l’ho fatto diventare parte di me stesso. Ora trasferisco questo dono a coloro, che a Roma si dicono cristiani, nella speranza che non si faccia del genere letterario il nocciolo della questione.
  2. L’occasione immediata della lettera è stata la prevedibile celebrazione dell’Anno Santo nel 1975. Ora che questa data è stata confermata, la “lettera” rappresenta un primo suggerimento alla nostra chiesa circa il modo di prepararsi a quella celebrazione. Riconosco che a Roma i problemi sono complessi, ma se non si procede ad una semplificazione si rischia di rimanerne schiacciati. Forse questa è l’ora della colomba.
  3. Mia costante preoccupazione è stata quella di non far filtrare nemmeno l’ombra di un’offesa. Per convincere non è necessario offendere. Se qualche frase suonasse offesa, sarebbe profondamente involontaria e quindi da scrivere sul libro della buona fede.
  4. Le persone chiamate in causa non devono ritenersi offese. Ho cercato di non fare questione di persone. Noi veniamo e andiamo. Ciascuno di noi deve portare il suo contributo all’espansione ed alla purezza della Sposa del Cristo. E’ questa che rimane nel tempo a testimoniare la luce di Dio. Ma le nostre opere devono essere vagliate da questa luce e se trovate imperfette e tali da offuscare la chiarezza della Parola di Dio, abbiamo il dovere di rinnovarle o di lasciarle morire con il tempo. Non possiamo accettare che le nostre opere siano misura di se stesse.
  5. Il mio comportamento sacerdotale obbediente e disponibile non si è mai associato a contestazioni ambigue. Piuttosto ho preferito soffrire la solitudine. Comunque credo che siamo tutti sulla stessa barca e quindi tutti bisognosi di penitenza, e di correzione. Noi siamo innovatosi perché apparteniamo a Cristo. Lui non è stato un conservatore. Credo che in un serio impegno di rinnovamento della chiesa possano trovare posto tante energie emarginate.
  6. Non chiedo che voi del Consiglio Presbiterale accettiate “sic et simpliciter” ciò che ho scritto. Spero solo che, quanto ho ritenuto mio dovere religioso dire, sia oggetto di riflessione e di libertà discussione nella chiesa. Non ci si affretti a chiudere il cuore là dove il Signore potrebbe chiederci di aprirlo. Il saggio Gamaliele direbbe: “Se l’opera viene dagli uomini cadrà, se viene da Dio non si potrà distruggere” (Atti, 5, 38).
  7. E’ con questo spirito che non rimango sul palco a raccogliere l’applauso, ma nel silenzio, nella preghiera, nella penitenza e nel servizio dei fratelli oppressi, accompagno ciò che ritengo annuncio del vangelo. Dio guidi i nostri passi. Non vorrei che egli mi rimproverasse per non aver fatto ciò che la coscienza mi imponeva di fare.
  8. Con la rinunzia a seguire un popolo che amo, intendo portare un contributo personale di penitenza alla penitenza che dovrebbe coinvolgere tutta la chiesa. In una società che crede di aver trovato la sua gioia nella permissività, noi dobbiamo ricordare che ogni gioia vera nasce dalla croce e dal rinnegamento di se stessi.
  9. Rimetto nelle tue mani questo documento, quale componente del Consiglio presbiterale. Fin dal 4 giugno scorso la “lettera” è nelle mani del Vescovo e del Cardinale Vicario. Non do alla “lettera” alcun carattere di riservatezza. I destinatari rimangono i cristiani di Roma. Sarei contento se il consiglio Presbiterale ne promuovesse la diffusione nelle parrocchie, nelle comunità religiose e di base, impegnando tutti i cristiani a discutere con compostezza e a far conoscere al Vescovo i loro pareri. Potrebbe essere un momento di educazione al senso della chiesa e un tentativo per superare le divisioni e le reciproche scomuniche psicologiche. I sospetti devono cadere per aprire la strada all’unico criterio guida possibile: il Vangelo. Io stesso rimango disponibile per presentare ovunque il documento.

Fraternamente

Roberto Sardelli

Prete della chiesa di Roma

2^ Lettera Ai Cristiani Di Roma

– Premessa –

  1. Anno Santo – L’Anno Santo del 1975 richiamerà a Roma milioni di persone. Lo scopo di questo viaggio dovrebbe essere quello di prendere contatto con la chiesa che è sede del successore di Pietro e dare così alla nostra fede un segno visibile di unità. Non sarà certo la moltitudine dei poveri a venire a Roma. Ma la loro assenza e il loro silenzio dovrebbero pur dirci qualche cosa. Invece la venuta di tant’altra gente ci impone il dovere di riflettere. Sarebbe dannoso dar corso alla celebrazione per il solo motivo che essa è tradizionale. Le tradizioni create dagli uomini non possono sostituirsi alla Parola di Dio (Matt. 15,3). Quindi dobbiamo verificare se siamo o no fedeli a questa Parola. E’ questo il problema che deve metterci in discussione. L’organizzazione dell’Anno Santo può attendere. Può anche essere cancellata dal calendario.
  2. Anno di riconciliazione – Ho la chiara impressione che questo anno Santo non sia atteso da nessuno. Tanto meno dai poveri. Non ci sono i presupposti della desiderabilità. E’ sintomatico che il nostro Vescovo annunciando il giubileo, abbia parlato di “riconciliazione”. E la prima riconciliazione da farsi sarà questa: sanare l’offesa dei fratelli contro i fratelli, rispondere all’appello della giustizia che sale dagli oppressi, ristabilire la pace con il Patto di Dio (Is. 1,17; Am. 5,24). Ora che l’anno santo è stato proclamato, questa lettera non vuole essere che una proposta alla chiesa di Roma chiamata dal Vescovo a prepararsi con dignità all’anno della riconciliazione.
  3. Gregge senza pastore – Non potremmo fare tutto ciò se ognuno noi continuerà a camminare per conto suo. Pochi si chiedo se questo è il modo di rispondere alla chiamata di Dio. Chi è impegnato sul campo della testimonianza è lasciato a se stesso, libero di prendere qualsiasi iniziativa purché non pretenda di coinvolgere gli altri. E’ così che la testimonianza da individuale non diventa di chiesa. Ciò non toglie che in Roma esiste un “resto” che nell’umiltà, nella concreta solidarietà con gli esclusi, nella preghiera, nell’obbedienza, crea un domani di speranza.
  4. Storie nostre – Io ho scelto i poveri. Da cinque anni vivo con loro e per loro. Ma intorno alla mia scelta si è creato un cordone sanitario perché la chiesa non potesse risentirne. Perché il sonno dei sazi non venisse turbato. Mi si disse che i superiori non potevano compromettersi con la mia particolare esperienza. Però non esitavano a compromettersi con l’esperienza dei cappellani militari, delle parrocchie ridotte al rango dei ricreatori, delle indecenti feste patronali, dei politici che opprimono, dei prelati che vivono nel lusso. Io dovevo accontentarmi del “lasciar fare”. Ma non si “lascia fare” un prete che rischia, ci si mischia nella sua presenza in un ambiente zeppo di difficoltà. Si diventa un tutt’uno. I suoi dolori e le sue gioie dovevano diventare i dolori e le gioie di tutti. Anzi più che altrove ci si doveva coinvolgere nella mia scelta. Mi si doveva stare vicino più di chiunque altro. Invece si fece a gara per essere assenti. E’ che la nuova arma di persecuzione non è più il rogo, ma il silenzio.
  5. Ha ragione il nostro vescovo – Fa bene il nostro vescovo ad avvertirci di fare attenzione perché il mondo può travolgerci, farci suoi e non più di Dio. Ma perché questo pericolo sia evitato, che cosa bisogna fare? Dobbiamo innalzare di nuovo le mura che ci separavano dal popolo? Dobbiamo di nuovo farci scambiare per impiegati dell’ufficio anagrafico? Dobbiamo mettere di nuovo in vendita il ministero dei sacramenti? Dobbiamo continuare ad usare dei privilegi della condizione clericale? Non possiamo. Il vescovo piuttosto deve esserci vicino, suggellare un’unione che è inconcepibile per i figli del mondo, dare sbocco ecclesiale alla nostra testimonianza del vangelo. I rischi vanno affrontati insieme e non prendendo le distanze da noi quasi a farci sentire figli poco fidati. Alcuni preti lavoratori sono stato pregati di non farsi vedere in parrocchia perché “poco graditi”. Altri sono stati invitati dal nostro vescovo ausiliare ad andare a lavorare al di fuori della sfera di azione pastorale. Eppure siamo preti inobbedienza al Vangelo e all’insegnamento del vescovo. Ma tutte le proposte nate in questa baracca sono state sabotate. Così non si serve la chiesa, ma si amministra una proprietà privata.

LA CHIESA CHE E’ IN ROMA

  1. La nostra chiesa – Ecco, tra di noi c’è chi crede di poter esaurire la Parola del Signore nei pensieri, anche se legittimi e doverosi, del mondo. Spesso ci si morde la coda in una contestazione sterile. Non si contesta con sacrificio di se stessi, ma con le parole. Spesso è talmente priva di Spirito, che vi si uniscono persone che non hanno nulla a che vedere con la chiesa del cristo, e che escludono l’incontro con Dio come con cosa di cui si può fare anche a meno. La vita la si fa risiedere nel popolo. Noi invece dobbiamo proclamare a tutti i venti il primato di Dio. E’ un atto di fedeltà anche verso l’uomo che non deve essere illuso. Certa contestazione non fa che ingrandire l’aspetto sociologico della chiesa privandola del suo proprio religioso e dell’anima che essa è chiamata a portare nel mondo. Non fa che continuare a sinistra l’equivoco di una chiesa che crede più nella potenza del mondo che nella croce che il mondo ha decretato per Cristo e per i suoi discepoli.
  2. Signore, Signore…. (Matt. 7,21) – Ma c’è, anche chi, e sono i gruppi più pericolosi perché agiscono nel silenzio proprio delle sette, vanifica il messaggio di Dio dimenticando le creature e i loro problemi (Mt. 25,34). Questi gruppi carismatici senza controllo non fanno che ripresentare un’antica tentazione angelica che ci fa guardare alla lotta per il pane e per migliorare la convivenza umana con animo di superiorità e come a cose indegne di chi è cittadino del cielo. Essi sono più eredi di una filosofia che del Vangelo. Sono testimoni più della morale borghese che della morale dei profeti. Hanno creato un Cristo neutrale nelle cose che ci agitano sulla terra. Un Cristo che non rischia. Un Cristo che non esiste (1^ Gv. 4,20). Sono testimoni di se stessi.
  3. Progressisti ad ogni costo – Abbiamo anche preti e fedeli che partecipano a manifestazioni dove viene propugnata la legalizzazione dell’aborto. Solo caduti in un fosso talmente profondo da cui non è più possibile vedere la grandezza della vita e il rispetto che le si deve come a riflesso di Dio. Hanno accettato anche essi la scala dei valori che la società borghese impone a tutti.
  4. La fata morgana del rinnovamento – Spesso il riformismo dominante fa somigliare la curia romana ad un parlamento di fine legislatura, ed i fedeli a cittadini corporativisti. La …iriade di “leggine” che ne escono sono direttamente proporzionate alla decadenza del senso ecclesiastico. L’urgente riforma della chiesa non si avrà mai facendosi prendere dalla frenesia delle “leggine”. La vera riforma della chiesa, cioè di tutti noi e delle strutture umane, nasce da uno sforzo costante di unione a Cristo. Fare come lui ha fatto (Gv. 13,14). Avendo conosciuto l’amore che per primo Dio ha avuto per noi, abbiamo la responsabilità di manifestarlo agli uomini senza mai tacere o recidere i legami con la fonte della bontà. Nessuno di noi può tirarsi indietro giustificando la sua inerzia con l’inerzia altrui. Non possiamo continuare a giocare a rimpiattino. Inerzia e riformismo non saranno mai elementi di purificazione e di chiarezza, ma punti di confusione e “fata morgana del rinnovamento”.
  5. Il seme della Chiesa – Ma accanto a queste divisioni c’è un “resto che ancora prega e crede. E’ il “resto” che dovremmo sentire più vicino perché è da esso che potrà nascere il rinnovamento della nostra vita cristiana. Non dai dibattiti ad alto livello. Non dalle aule universitaria. Non dai documenti altisonanti. Ma da una professione di fedeltà al piano della esistenza spesso folle e sacrificata, silenziosa e fiduciosa nella virtù della Parola di Dio. Questa è la chiesa del silenzio esistente a Roma e alla quale non diamo credito di magistero. Non interpellata, non ascoltata. Ma capace di ridarci il senso della potenza del Signore che si afferma attraverso la debolezza della creatura (1 Cor. 1,20-31). E’ questa la chiesa della speranza che lo Spirito custodisce unita al mistero del Salvatore. E’ una chiesa fatta di stolti secondo il mondo, di deboli secondo gli uomini, di ignobili, di disprezzati, di ignoranti ( 1 Cor. 1,26). Si trova non nei quartieri nobili, non tra i sapienti, non tra i ciarlatani della rivoluzione, ma nei baraccamenti, negli ospedali di ultima categoria, nelle campagne, intorno a molti preti che vivono la condizione di emarginati, nei nuovi ghetti di Roma. Se solo le dessimo ascolto, uno spiraglio di luce si aprirebbe nella crisi della chiesa perché saremmo invasi dalla grandezza di Dio che vive chiusa in quella piccolezza. Pochi la cercano. I poteri politici la reprimono, il potere del denaro tenta di dividerla e di conquistarla alla sua civiltà. Se non apriamo gli orecchi a questa profezia, il rinnovamento della chiesa e la evangelizzazione di Roma rimane un sono. Non chiediamo a questo “resto” silenzioso di parlarci perché spesso non ha parola. Piuttosto prendiamo dalla sua vita. Possiamo e dobbiamo farlo. Dobbiamo ricomporre l’unità perché non si possa più dire “io” e “tu”, ma “noi”. Il “noi” della chiesa accumunata della stessa persecuzione e nella stessa storia, nella stessa soggezione allo Spirito non monopolizzato, ma anima e guida della Comunità verso il Vero.
  6. Abbiamo paura dei profeti – In questa chiesa ci sono ridotti al silenzio. I superiori hanno emesso su di loro giudizi (negativi) che hanno trovato accoglienza nel terreno parrocchiale. Questa “corrispondenza d’amorosi sensi” ha creato l’isolamento. Non si ama chi “mette in chiaro i nostri peccati per cambiare, la nostra sorte” (Lam. 2,14) E’ tenuto in onore “il profeta dai vani e menzogneri discorsi” (Lam. 2,14). Io stesso da cinque anni non ho avuto più occasione di predicare Cristo in una chiesa romana. Sono responsabilità gravi che dovrebbero pesare sulla coscienza di tutti. Invece se ne è contenti. Qualcuno ha goduto per dopo la lettera dei 13 preti, da D.C. ha vinto ancora. Sono risposte rivelatrici della puerilità in cui si pasce buona parte del clero romano. Una chiesa che chiude la bocca ai suoi profeti non può progredire nella santità. Non possiamo pretendere di avere una chiesa che ha fame e sete di giustizia, di essere fedeli al patto di Dio, se spegniamo la predicazione in coloro che ne manifestano l’urgenza.
  7. Il sottoproletariato ecclesiastico – Ma continuerà ad essere così finché si diventa vescovi attraverso una selezione preoccupata più del potere, del privilegio da conservare, del rispetto della costituzione repubblicana che del servizio umile e profetico. Spesso abbiamo assunto il medesimo atteggiamento degli stati: non più ascolto degli umili, ma emarginazione. Non più cambiare rotta, ma conservazione. Ingoiare il più possibile perché l’organismo so consolidi sempre di più. E’ così che è nato un sottoproletariato ecclesiastico formato da fedeli e da sacerdoti che hanno diritto alla parola e che sono il seme più appassionante della chiesa e della nostra speranza.
  8. Diamo ossigeno all’episcopato – All’episcopato italiano succede quel che succede alle famiglie europee: il ripetersi di matrimoni tra di loro ne ha provocato delle tare. Bisogna rinsanguare l’episcopato, non scegliendo i vescovi sempre nelle curie e qualche volta nelle parrocchie, ma allargando le possibilità di scelta, che nella chiesa sono vastissime. Ci sono tanti preti che lavorano nei campi, nei cantieri, nelle officine, inesperti nella conoscenza del codice canonico, ma che conducono la loro vita impegnata alla luce del Vangelo. E’ con questi che l’episcopatp potrebbe riprendere l’iniziativa pastorale. Ricordiamoci che alcuni santi vescovi della chiesa furono scelti, fra il popolo, non ancora battezzati.
  9. Il primato del Vangelo – Il vangelo deve essere messo in pratica liberato da tutti quegli involucri che ne imprigionano la forza. L’amore deve essere lasciato libero nella chiesa. Cristo ci ha liberati dalla paura. La paura è figlia del mondo. L’amore viene da Dio (1 Gv. 4,18).
  10. I sacramenti – I sacramenti nelle chiese vengono distribuiti come oggetti in un supermercato. Nonostante tanti buoni discorsi. Si va avanti ancora con l’equivoco di 10 nati, 10 battezzati, 10 cresimati, 10 comunicati, 10 sposati in chiesa. E cosi cerchiamo di evitare l’ora della verità. Ciò non succede solo a Roma. Per anonimo decreto si è deciso che la fede, si trasmette per cromosomi. Abbiamo imprigionato il libero dono di Dio nei nostri schemi, temendo ogni azione di verifica. Le parole dell’apostolo dovremmo sentirle come rivolta a noi “Voi tenete prigioniera la verità nell’ingiustizia” (Rom. 1,18). Si parla di Roma cristiana facendo coincidere lo stato anagrafico con lo stato di fede. Si parla di parrocchie di 80 – 50 – 30 mila “anime” sol perché ci sono 80 – 50 – 30 mila persone. Il guaio è che si creano strutture pastorali per tutte quelle persone rifiutando di prendere atto del fatto che i cristiani sono molto meno numerosi e vanno per essere sempre di meno. Per tutti gli altri occorre una diversa azione pastorale. I sacerdoti mancano perché vogliamo tenere in piedi una struttura pastorale senza fondamento. Se coraggiosamente prendessimo coscienza della situazione ci accorgeremmo che i preti a Roma sono troppi.
  11. Un po’ di cifre – Mentre solo 30 persone su 100 avvertono il dovere di partecipare alla mess domenicale, 97 su 100 pretendono di ricevere i sacramenti, minacciando, in alcuni casi, di ricorrere alla Questura se il parroco esita. Sono sacramenti richiesti unicamente per accreditare la nostra posizione sociale. Se poi consideriamo che solo il 93% ammette di credere in Dio dobbiamo concludere con dire che tra coloro che chiedono i sacramenti c’è un pericoloso 40% che non crede in Dio.
  12. Non possiamo più – Ecco, i segni della fede, sono diventati fatti di società e magia. Non possiamo più parlare di Battesimo, ma di rito della nascita. Non possiamo più parlare di Eucaristia, ma di festa della primavera. Non possiamo più parlare di Matrimonio, ma di rito della fecondità controllata. Gli stessi corsi di preparazione al matrimonio non sono occasione per la scoperta di Cristo, cristo è un dato presupposto, ma corsi per aumentare le nostre conoscenze di psicologia e di fisiologia. E noi ci accontentiamo di queste ipocrisie perché siamo incapaci di proporre all’uomo un concreto esempio di vita alternativa, di vita cristiana in comune.
  13. Feste pagane – In alcune parrocchie l’85% dei bambini che hanno fatto la 1^ comunione, già la domenica seguente non ritornano più in chiesa. Vi ritornano a chiedere i certificati per il matrimonio. Ma siccome abbiamo abbassato le cose di Dio a segni del mondo, continuiamo imperterriti a distribuire comunioni. Le stesse solennità cristiane che ci ricordano la vita del Signore, e che dovrebbero trovarci in ginocchio, sono state trasformate in occasione di baldoria, di consumi indecorosi, di ubriacature, di dimenticanza di chi soffre, di veglia nelle gozzoviglie. Queste solennità non segnano un avvicinamento al Cristo, ma un progressivo allontanamento da Lui. Questo è quello che si vede e che fa “arrossire i poveri” (1 Cor. 11,22). A Corinto la sfacciataggine dei ricchi impediva la comunione fraterna, ma S. Paolo aveva il coraggio dell’accusa aperta: “voi, cos’ facendo, disprezzate la chiesa” (1 Cor. 11, 20-34).
  14. Regime di disubbidienza – In moltissime chiese l’ora della messa domenicale è l’ora delle vanità e delle sfilate di moda sotto gli occhi dei parroci e di suore compiacenti. Anzi, riviste come “Famiglia Cristiana” stimolano l’esibizionismo ponendosi più il problema di essere alla pari dei tempi che alla pari del Vangelo. Ciascuno è libero di essere stolto, m noi non possiamo farci diffusori di stoltezze. Dobbiamo riprendere nelle nostre mani i fili della severità del discorso cristiano, altrimenti i poveri continueranno a lasciarci e ci ritroveremo circondati di sicurezza e di benessere borghese. Noi che siamo chiamati a voltare le spalle alle sicurezze, ai miti del mondo, alla carriera, al successo, viviamo in regime di disubbidienza alla nostra vocazione. Ricordiamoci che siamo gli ascoltatori della Parola del Maestro: lasciate che i morti seppelliscano i morti, voi venite e seguitemi (Mt. 8,22). Guardate i gigli del campo e gli uccelli del cielo (Lc. 12,24 ss.).
  15. I poveri. non sono onorati – Il povero non è onorato nella nostra chiesa. Non ne condividiamo l’esistenza, nè le lotte, né le speranze. E per tranquillizzare le nostre coscienze sporche, arriviamo a dire che i poveri non ci sono più. Più volte i miei fratelli inermi sono stati maltrattati dalla polizia. Ed io con essi. cercavamo di affermare il nostro diritto alla dignità. Avrei voluto avere vicino il vescovo. Eventualmente a prenderle con me, se fosse stato necessario. Non sarebbe estraneo alla storia dei vescovi essere perseguitati dai potenti di questo mondo. Invece i medesimi poliziotti che tentavano di chiudere la mia bocca, andavano poi ad onorare e a proteggere il mio vescovo. Dov’è la testimonianza del Cristo? Nella persecuzione o negli onori del mondo? Dovremmo essere più pronti a non perdere molte occasioni per testimoniare la carità di Gesù.
  16. Piccolo esempio – Sono venuti a distruggere una baracca dove io volevo iniziare ad un mestiere i ragazzi che mi circondavano. Quei ragazzi che la città rifiuta e costringe alla violenza per creare l’alibi alla sua violenza più antica. Quella baracca era il simbolo, della nostra volontà di vivere: si voleva affermare che, al di sopra delle cose, e delle leggi, c’è l’uomo. Sperai fino all’ultimo che il mio vescovo venisse a consolare chi cercava consolazione, ma invano. Siamo educati male: vediamo con simpatia l’autorità. Vediamo con sospetto e contrarietà ogni agitazione di popolo. Siamo sulla sponda opposta. Invece dovremmo essere il prolungamento visibile dell’occhio di Dio. Egli “vede quando uno opprime i prigionieri e falsa il diritto dell’uomo” (Lam. 3,34).
  17. Le parole della condanna – Ricordiamoci che la lontananza dei poveri è segno della lontananza del Povero. Una chiesa che ignora il ricco non può che fare sue le parole della condanna “Anima mia tu hai messo in serbo molti beni per parecchi anni: riposati, mangia, bevi e godi” (Lc. 12,19).
  18. L’ospitalità – L’ospitalità che è norma di vita cristiana, non è praticata nella nostra chiesa. La riteniamo una tipica espressione della cultura orientale. E cosi ci siamo liberati di una parola di Gesù. Egli ci ha ordinato di non tacere nemmeno una virgola. Migliaia di persone a Roma non hanno dove posare il capo. Molti ecclesiastici hanno l’imbarazzo della scelta tra le abitazioni lussuose che posseggono. Siamo schiavi della roba, dei palazzi, dei parchi che circondano le case religiose, dei terreni. Diciamo di non poterli vendere, di non poterli affittare, di non poterli aprire al pubblico, di non poterli donare. Le leggi civili volute da noi soffocano la carità. E mentre i figli mancano del necessario, il padre è attorniato dal superfluo. Non sono questi i rapporti di paternità, ma di padrone con i servi. Qual è quel padre che riserva a suo uso esclusivo i beni e non ne fa parte ai figli? Siamo gravemente fuori dalla legge del Vangelo.
  19. Non un fede – Quando non si lotta per un tetto, per dare un letto alle migliaia di famiglie baraccate, non un fedele si è fatto avanti per offrirci ospitalità. Le parrocchie e le congregazioni religiose hanno risposto con chiari rifiuti. Molti si comportano come davanti ad una parola mai udita: Eppure dovrebbe esserci familiare. Il Signore ce lo ha detto: “conduci i raminghi a casa tua, se vedi un ignudo ricoprilo. Non disprezzare chi è carne ed ossa come te” (Is. 58,7).
  20. Le opere dell’amore – Alcuni orfanotrofi, ospizi, scuole, ospedali che come cristiani abbiamo costruito in questa città, non si possono chiamare opere dell’amore. Essi non sono segni dell’amore , ma di sfacciata ricerca del profitto e punto di appoggio della lotta di classe dei ricchi contro i poveri. Spesso questi ultimi vengono divisi dai primi. Il personale, il trattamento, i cibo, le cure migliori sono riservate ai ricchi. C’è da piangere se un giorno si va a visitare un ospizio per signore ricche, e un altro giorno si va a visitare un ospizio per i poveri. E’ il campo di concentramento e dell’abbandono. Cristo è ancora messo in croce per le nostre mani. Queste disuguaglianze esistono solo in virtù del denaro. Anzi su chi non ne ha dobbiamo riversare le maggiori cure (Lc. 14,13). E che dire delle decine di cliniche private dove solo i ricchi hanno accesso, ed in cui le congregazioni religiose femminili inviano il loro personale migliore? Spesso ho assistito al dramma di alcune di queste suore portate al limite della rottura tra l’obbedienza ai loro superiori e l’obbedienza al Vangelo che le invitava al sollievo di Lazzaro curato dai cani (Lc. 16,21).
  21. Chiudiamo – Se vogliamo essere credibili, chiudiamo le scuole di Trinità dei Monti, il Massimo, Il S. Maria, il S. Giuseppe, le Dorotee, Il S. Gabriele, il Nazzareno e tutte le altre scuole riservate alla ricca borghesia economica e politica, nonché a quella nobiltà che finanche le leggi civili sono arrivate ad abolire e che noi teniamo praticamente ancora in auge. Quelle scuole sono i luoghi in cui si preparano gli oppressori di domani. E’ lì che si addestrano i persecutori più sottili del Cristo e della Chiesa. Quelli che ci perseguiteranno accarezzandoci. Quelli che demoliranno la chiesa costruendoci i templi. Quelli che ci faranno tradire dandoci gli stipendi. Quelli che ci faranno essere uomini di poca fede assicurandoci tutto.
  22. Precisazione – Mai nessuno potrà toglierci ciò che Cristo ha donato alla sua chiesa. Il servizio di Pietro, degli apostoli e dei loro successori sta tra queste cose ferme ed intangibili. Ma accanto all’autorità egli ha voluto mettere i profeti, i guaritori, i dotti, gli operatori di miracoli (1 Cor. 12,1). Sarebbe triste questa chiesa in cui non ci fosse posto per i doni di Dio, o in cui per amore di sicurezza venissero taciuti. Guai a coloro che con le opere o col silenzio fanno della chiesa un covo dove si trovano bene i gaudenti, i sazi i borghesi, gli ambiziosi, gli usurai i politici immortali, i militari, che hanno responsabilità nelle armi.

LA CITTA’ DI ROMA

  1. La nostra città – Lo dicono gli stessi magistrati: questa città sta diventando una scuola di violenza e di prepotenza. La morale fascista vi ha messo le radici. Per il povero non c’è che umiliazione e offesa. Si va costruendo una città che non è dimora dell’uomo, ma serraglio per bestie. A ghetto si sostituisce ghetto. A Prato Rotondo si sostituisce la Magliana. All’Acquedotto Felice Ostia, alla Borraccia Marcio Rutilio. Saranno ghetti più degni, ma sempre ghetti rimangono. Privi di amore. In essi l’uomo verifica in pieno l’offesa di non essere chiamato alla partecipazione politica. E si fa dire loro bene ciò che è male. Si fa loro chiamare democrazia ciò che è sporco gioco di potere. Si fa dire politica popolare ciò che è silenzio del popolo.
  2. La disoccupazione – La disoccupazione è una piaga talmente larga che gli stessi uffici responsabili si rifiutano di far conoscere. Ed essa non è un incidente evitabile, ma linfa vitale del sistema politico ed economico. Questo per rafforzarsi deve stimolare la delinquenza, l’ignoranza, la disoccupazione, la contestazione degli studenti, il disinteresse. E mentre il miraggio della capitale attira gli emigrati, i poteri politici non creano le strutture per riceverli. Mancano scuole, ospedali, case, trasporti. Un pover’uomo per lavorare 8 ore deve rimanerne 12 fuori di casa. I fitti degli alloggi assorbono il 50-60% del salario. Sono queste ruberie che consentono alcune ricchezze. Sono quei ricchi che poi diventano benefattori per la costruzione delle nuove chiese. Vicino a qualche tempio c’è per loro un “Dominus retribuit” a tutte lettere, e poi i loro nomi e cognomi. Nomi e cognomi conosciuti dai poveri come oppressori. E noi lì, a far lapidi commemorative agli oppressori.
  3. La prostituzione – La prostituzione ufficiale e ufficiosa raggiunge punte sempre più alte. Essa viene pratica sulle piazze e sulle vie senza ombre di pudore. 2 romane su cento esercitano la prostituzione. Non parliamo della rigogliosa prostituzione maschile. Il sesso si va affermando come il vero dio della nostra epoca. Non basta invocare la repressione. Bisogna che noi cristiani togliamo il consenso a questa città che ha fatto della purezza la virtù dei fessi. Non possono essere diversi i frutti di un potere che si consolida nella misura in cui si corrompono i costumi del popolo.
  4. La droga – Roma è la città dove esiste il maggior numero di giovani che hanno provato la droga. Si parla del 30%. 150 mila giovani! La scuola che dovrebbe essere luogo di severità, prepara alla sopraffazione del debole. Il debole ricorre alla droga. Questa. non è che la manifestazione di una radice malata. La violenza che esplode, le malattie mentali, l’aborto, il suicidio dei giovani, hanno come origine immediata una civiltà che non vede più nell’uomo la creatura privilegiata, ma nei profitti e nei consumi lo scopo della vita. La corruzione questa città la cova nel suo grembo.
  5. I segni del malessere. Tutta la città è presa dalla corsa al benessere. Anche i miseri vi sono travolti. Bisogna dar loro l’impressione di star bene. Anche se poi la girandola di cambiali li seppellisce sotto una schiavitù peggiore della prima. Il tutto fa parte di una cinica programmazione che vuole i poveri integrati nel sistema e non più portatori di rinnovamento e depositari di una cultura che la nostra società vuole distruggere. S’è creato il culto del potere. Si incoraggiano le masse per ottenere maggior potere. Pochi si impegnano a educare e a dare coscienza all’uomo. Quella coscienza che sola potrebbe far sperare in un uso legittimo e rispettoso del potere. Siamo all’inizio dell’integrazione. E il povero integrato non è segno di civiltà, ma segno di sottosviluppo culturale, politico, religioso della città. E’ segno della violenza del forte sul debole. Tutti hanno paura di andare contro corrente. Si accetta a cuor pacifico che la verità è nella corrente di maggioranza. Ed intanto i poveri vendono sulla bancarella del comunismo tutti i loro valori. Vendono la loro primogenitura per il solito piatto di lenticchie.
  6. Ubriachi – L’intelligenza dell’uomo viene portata all’ammasso. Non viene stimolata la ricerca, ma si lavora perché tutti la pensino allo stesso modo e siano impegnati nella gara dei sorpassi sociali e delle ambizioni. Se chiamiamo questa libertà, allora chiameremo virtù i casini e giustizia la confindustria. Sì, assistiamo proprio a questo capovolgimento di valori. La stessa chiesa teme di essere richiamo ad una inversione di rotta. Chi ha titoli e privilegi da vantare si fa avanti senza ritegno. E si reputa imbelle colui che non ne ha. Non si ragiona in base al diritto, ma in base alla raccomandazione che uno può procurarci. Le parole rinuncia, rinnegamento di sé per seguire Gesù (Lc. 9,23), amore, sono forestiere in questa città. Siamo come ubriachi nella lotta per il solo pane. Non vogliamo sentire parlare di vangelo, di cultura, se non come rafforzativi del nostro egoismo. Tutto viene misurato con la grandezza dei portafogli. E tutti ci diciamo cristiani.
  7. “La spiritualità dei romani” – Se gli abitanti di questa città danno in media lire 25 ciascuno per la costruzione delle nuove chiese, ne danno 27.000 per la prostituzione. Questa è una città crapulona, sbracata, pronta ad aprir le gambe al “primo profeta che annunzia vini e liquori”. E mentre questa è la realtà, si parla di “una spiritualità propria del popolo romano”. Eccola questa spiritualità: solo un romano su 100 è disposto a chiedere a Dio la salvezza eterna. Evidentemente è una “spiritualità” non riferita a Dio. Il fine ultimo della nostra esistenza è misconosciuto. Bisogna spezzare questo equivoco che consente comode illusioni: Roma è una città da evangelizzare e non da verniciare di fede. Essa di cristiano tra breve avrà solo le cupole.
  8. Vengono dall’Oriente – Con intelligenza profetica ha agito il nostro vescovo quando ha chiamato alcune suore dall’India perché venissero a testimoniare il Vangelo tra i baraccati romani. Tra le migliaia di suore esistenti a Roma, chi si è trovata disposta a condividere la sorte e le lotte dei poveri vista del Regno? Chi di esse l’ha fatto ha dovuto lasciare la congregazione religiosa?
  9. Lo spettacolo di Roma – “La città di Roma è letteralmente coperta dalla stampa e dal materiale pornografico”. La moda indecorosa, gli spettacoli, non sono che il segno di una società bacata alla radice. A nulla, varrebbe togliere qualche manifesto o qualche scritta durante l’Anno Santo. Ben volentieri lo faranno i mercanti, gli speculatori, gli albergatori, che guardano all’avvenimento come ad occasione per fare più quattrini di quanti gliene darebbe una pubblicità. Del resto finora solo gli enti turistici gli albergatori, e gli uffici della curia sono le categorie più interessate al giubileo. Gli uni per speculare, gli altri per fare qualche cosa nel mare di inutilità che li sommerge.
  10. Il peccáto – Bisogna colpire alla radice, e,per noi la radice è il peccato, è la risposta negativa all’amore crocifisso. Ma limitandoci a dire solo questo, noi faremmo passare senza nemmeno un segno di rimprovero Hitler, Mussolini e tutte le piccole e grandi canaglie della storia. Certe persone sono gli agenti del diavolo. Ma ciò lo possiamo dire solo quando abbiamo dissociato tutte le nostre responsabilità dalle opere di quelle persone. Finché, a qualsiasi livello, noi mostriamo accondiscendenza con le ingiustizie di questa terra, non possiamo parlare di peccato e di diavolo perché siamo realmente alleati con le persone che si sono fatti prendere la mano da lui.
  11. Prendere le distanze – Prendere le distanze dal maligno, significa anche prendere le distanze dalle potenze politiche, economiche, religiose, culturali e militari che hanno accettato la sua legge. La bomba atomica su Hiroscimaa portava chiara la firma, dei potenti della terra. Ma molti di noi rimasero silenziosi quando avrebbero dovuto svergognarli secondo la parola del Signore (1 Cor. 1,27). Brasile, Mozambico, Vietnam, parlano e gridano. Ma noi siamo ciechi e sordi. E con silenzio diventiamo complici dell’oppressione.
  12. Sentinelle. – Quali sentinelle poste alla salvaguardia dell’uomo e della sua salita a Dio, dobbiamo denunziare tutti i misfatti e le oppressioni che circondano le creature. Nessun tipo di oppressione deve lasciarci indifferenti. Noi non operiamo con mezzi dell’azione politica, ma con i mezzi propri della nostra condizione di testimoni del Vangelo, con quello che usarono i profeti, che usò cristo e che usano i santi di ieri e di oggi. Non mi interessa un vescovo che faccia una politica più aperta. Per questo basta il segretario dell’ONU, che può farla meglio di lui. Dal mio vescovo io mi attendo il Vangelo, il suo annunzio, la sua testimonianza. L’azione politica dà corpo alla nostra fede. Ma se manca la fede, a che cosa dà corpo?
  13. I nostri scherzi – Il potere clericale e politico tessono trame di oppressione su questa città. Non siamo più davanti al potere, ma con il potere. Sui palchi delle cerimonie ufficiali siamo sempre vicino a Cesare. A noi più nulla dice Giovanni davanti ad erode, Cristo davanti a Pilato, Pietro e Paolo davanti ai loro giudici. E così siamo coinvolti nel gioco della politica e della diplomazia. Ci balocchiamo a crear cardinali e in mille altri giochetti di curia, che non dicono nulla ai fini della diffusione del vangelo. Il povero non si riconosce nelle preoccupazioni degli uffici curiali. Il popolo di Dio che ancora è in Roma, con il suo linguaggio, le sue imperfezioni, il suo desiderio di unità, la necessità di sentirsi amato, sembra essere al di fuori delle nostre prospettive. Noi siamo seduti in cattedra e non vogliamo renderci discepoli degli umili e così rischiamo di non dare “carne” alla Parola di dio (Gv. 1,14). Se conoscessimo la solitudine e il dolore dell’uomo, smetteremmo immediatamente tali scherzi e scenderemmo a vivere nei luoghi dove la sofferenza innocente è il pane di ogni giorno. Dove la prepotenza ha creato i suoi gradini più bassi. Dove è regola di vita vivere sulle spalle dei più deboli. Dove il nome di cristo non si fa più.
  14. Chi sei tu? – La sera in cui sono stati fatti gli ultimi cardinali, io mi trovavo all’Acquedotto Felice. Pioveva a dirotto. L’acqua scorreva e allagava le baracche più basse. Io stesso dovevo disporre le pentole nella mia baracca per evitare che la pioggia bagnasse il letto. Mi sentii solo nella chiesa. Immaginai il meccanismo dei convenevoli e del cerimoniale messo in moto dalla nomina dei nuovi cardinali: presentazione del biglietto di nomina, visite di calore, ipocrisie, auguri sinceri, invidie, rosso da tutte le parti, discorsi vuoti, adulazioni reciproche, sorrisi di carrieristi lieti per la promozione del superiore, ringraziamenti per l’onore ricevuto, il problema della berretta cardinalizia. E noi con la preoccupazione di passare la notte in bianco. Genitori con gli ombrelli aperti sulla testa dei loro figli. Ecco le nostre berrette! Mi dissi: sono due mondi! Cristo è venuto a spezzarli, ma noi li abbiamo accuratamente ricostruiti. Se Gesù ritornasse oggi tra di noi a ripeterci il Vangelo e a riprenderci per qualsiasi nostro peccato, noi saremmo capaci di dirgli: Chi sei tu? (Gv. 1,11).
  15. Cristo è lontano – Cristo è lontano dalla chiesa che si richiama a Lui. Per il linguaggio, per il sistema di governo, per l’incomprensibile zuffa teologica, per l’indisponibilità di molti a testimoniarlo, per i rapporti che da fraterni sono diventati diplomatici, per una curia, che ogni giorno si organizza sempre meglio secondo i criteri di un’ottima azienda. Il ruolo di questi uffici pesa sulla stessa vita del cristo nella chiesa. “L’organizzazione tenta di uccidere l’organismo”.
  16. Questa chiesa – Questa chiesa non è più il centro dove davanti al servizio di Pietro cessano le dispute vuote. Non possiamo più dire: “il vescovo di Roma ha parlato, le discussioni sono finite”. Il magistero di Roma e inflazionato.
  17. Facciamo penitenza – Siamo prigionieri della paura (1 Giov. 4,18). Il vangelo ci insospettisce. E sarà così fino a che il vescovo e noi cristiani non ci vestiremo di sacco e non percorreremo la “grande città” (Gion. 3,1 ss) per annunziare a tutti e a noi stessi: “Facciamo penitenza. Ormai la scure è posta alla radice degli alberi. Ogni albero che non porta frutto, sarà tagliato e gettato nel fuoco” (Lc. 3,8). Un grande segno di penitenza collettiva deve essere suscitato in questa chiesa, perché il Signore ci aiuti a guarire. Non udiamo che parole trionfali da cui emerge l’attitudine a non convertici. Siamo usi a proclamare le nostre virtù, mai i nostri peccati (Lc. 18,10). Abbiamo ereditato lo spirito dei farisei davanti alla peccatrice (Lc. 7,37). E’ un modo per non sentirci coinvolti nell’annunzio della penitenza (Mc. 1,15). Questa è cosa che si esaurisce nel corso di una processione quaresimale e che lascia inalterato il nostro comportamento.

PROPOSTE

  1. Amare la chiesa – questa è la condizione della città di Roma e della sua chiesa: un popolo che non “porta più il sigillo che brilla di cristo”. O almeno il “sigillo” vive nascosto e ne è impedita la manifestazione. Ma rimango fermo nell’amare questa chiesa e nella speranza che il Signore, nonostante la nostra ingratitudine ci rimanga accanto. Egli ci vuole fermento in una massa azzima perché tutti vengano a contatto con quell’amore che lo portò sulla croce.
  2. Amare sempre – Non possiamo farci amanti di una chiesa pura e toglierle il nostro affetto e darle l’ostracismo quando sembra sovrastata dall’oscurità. Dio ha amato sempre il suo popolo. Non possiamo interrompere questa tensione. Ora Cristo ci ha chiamati a fare parte di un corpo che non sopporta divisioni di fede, indisciplina, freddezza nell’amore, mancanza di libertà, dominio di uno sull’altro, ma che accoglie l’invito alla penitenza. Non possiamo abbandonare questo corpo che è casa nostra. Nemmeno per un istante. Il vescovo ci è necessario e non possiamo estraniarlo dalla nostra vita, ma, semmai, chiedere che viva più profondamente in mezzo a noi. E’ proprio animato da ciò che suggerisco al vescovo due iniziative:

a) Anno santo – Manca ancora un anno all’inizio dell’Anno Santo. Fin dall’antichità si cercò di stabilire una relazione tra giubileo cristiano e giubileo ebraico (Lev. 25, 11-23-28). Quest’ultimo aveva lo scopo dì ricordare in modo concreto al popolo di Dio questa verità: – Dio è il Signore di tutto e di tutti-.

Nessuna creatura può esercitare sulle cose e sulle persone un diritto perpetuo di proprietà.

– il fedele deve ricordarsi dì vivere come pellegrino (Lev. 25,23), di non attaccarsi a nulla e che non dicesse “sua proprietà” ciò che il Signore aveva consegnato a tutti gli uomini.

– niente diritto di proprietà inalienabile sulle persone e sulle cose.

Se qualcuno avesse tentato di accumulare immobili o di concentrare manodopera ai fini dello sfruttamento, l’anno giubilare era l’occasione per restituire tutto agli antichi possessori e la libertà agli schiavi.

  1. Oggi – Oggi ci troviamo in una società che tutela con le leggi il latifondo industriale. Ci sono proprietà immense accanto a immense miserie. Milioni di operai sono manipolati da sempre meno padroni. Le esigenze di libertà e la tensione creatrice dell’uomo vengono mortificate. La chiesa di Roma non può modellare il suo comportamento sulla base di questa società. Essa si misura sull’unico metro che le è dato: il Vangelo.
  2. Che fare? – Poiché in centinaia di anni essa ha accumulato beni spesso ricevuti donazione che a volte erano degli atti di rapina compiuta sul letto di ricchi moribondi, applichi a se stessa il Vangelo. Ci troviamo nella condizione di Zaccheo (Lc. 19,lss). Siamolo fino in fondo “Ecco o Signore, la metà dei beni la dono ai poveri, e se ho frodato qualcuno li rendo il quadruplo”.
  3. Noi – Noi da secoli abbiamo accumulato lasciti su lasciti. I santi hanno dispensato tanto bene. Ma essi non hanno commerciato con i beni. Non sono andati nelle borse a vendere e comprare i titoli azionari. Invece le nostre offerte si sono moltiplicate capitalisticamente nelle nostre mani come i sassi in oro nelle mani di Mida. Non possiamo prestarci a questo gioco. E’ vero che la chiesa con mano riceve e con l’altra dà. Ma essa conosce anche il giorno della fede, quando annunzia il Vangelo “senza oro ne argento” (Atti 3,6). Ora io non chiedo di applicarci la misura evangelica: la metà ai poveri, ai frodati il quadruplo. Solo così al centro di questa chiesa non risuoneranno vani discorsi, ma la Parola di Gesù: “Per questa casa oggi è venuta la salvezza” (Lc. 19,9). L’attaccamento ai beni è segno che abbiamo smarrito il Signore.
  4. Fedeltà della parola – Ecco la migliore preparazione all’Anno Santo. Questi sarebbero i segni di una concreta conversione. E’ ciò che vuole essere l’Anno Santo. Anno di grazia. Anno di ritorno e di unione e non anno di polemiche e di divisioni. Se invece noi conservassimo tutte queste sicurezze mondane, che significato avrebbe il viaggio di un pellegrino a Roma? Egli rimarrà piuttosto scandalizzato e si chiederà: “E’ questa Roma? in questa città si aspira solo al lusso, ai comodi, alle delizie”.
  5. Altra preoccupazione – Altra preoccupazione dei pontefici fu che i fedeli ritornassero, “ben edificati dalla romana conservazione, e alle loro case ritornassero saldi nella religione”. Oggi la chiesa e la città di Roma non offrono questo spettacolo edificante. Non abbiamo che da offrire una inflazione straordinaria di indulgenze e una visita turistica alle quattro basiliche.
  6. Convertiamoci – A nulla valgono le udienze di un papa che il mondo ha fatto diventare oggetto di consumo e numero di attrazione delle compagnie turistiche. I loro listini di propaganda sono insopportabili: accanto all’udienza pontificia c’è la gozzoviglia nel locale notturno. Convertitevi! Ci grida il Signore. Bisogna riproporre il Vangelo. Continuare la proposta sacramentaria di massa significa continuare a giocare all’equivoco.
  7. Il ritorno – Ritornare a Cristo significa fare come egli ha fatto Liberiamoci dall’Ordinariato militare, dove ci si prepara a servire il “Principe , della pace” in una struttura omicida, delle banche, dei titoli azionari, degli intrallazzi della diplomazia, delle ricchezze, del concordato. Gloriamoci solo di Cristo crocifisso. Ripuliamo la chiesa. Riportiamola alla dimensione evangelica. Diamo libertà alla Parola di Dio che unica ci salva e ci rinnova nel cuore. Siamo diventati come quelle vecchie case dove i vecchi accumulano tutto ciò che trovano per strada senza chieder si se è utile o inutile. Non c’è più spazio. Non c’è più aria. Ma sporcizia e muffa dappertutto. Questa casa non attende che di essere rianimata. Ha bisogno di respirare. Ha bisogno della vita. Bisogna liberarla da tutte le cose che non sono necessario e ridarle spazio e luce. Il nostro spazio e la nostra luce è Cristo morto e risorto per portare l’umanità nel seno di Dio nostro Padre. Di nessun altra forza noi passiamo fidarci se non di Cristo (1 Cor. 1,31).
  8. Attenzione ! – Davanti a una città insipiente e ad una chiesa in capace do compie “frutti di conversione” (Lc 3,8), l’unica cosa che doveva essere fatta era di mettersi in missione ed attendere l’apertura del nostro cuore alla Parola del Cristo. Cosi avremmo anche resa vana la gioia di coloro che con il giubileo intendono deliziare le loro tasche, ed avremmo affrontato il vero problema di questa chiesa. Il nostro vescovo ha ben fatto chiamando ciascuna chiesa locale a celebrare, per conto proprio il giubileo. Ma allora perché l’appuntamento del 75 a Roma? Le nostre buone intenzioni si intrecciano troppo con gli interessi di questo mondo e non varranno a fermare la macchina turistica e speculativa che già si è messa in moto. Siamo travolti e seppelliti sotto le nostre pie intenzioni. Non possiamo competere con la potenza pubblicità. Partiamo sconfitti. Perdiamo tempo. Ma ora ció che più ci riguarda è imprimere alla celebrazione dell’anno giubilare, di questa chiesa locale, un moto di autentico ritorno a cristo, di risanamento, per quanto ci tocca, dell’ingiustizia, e di riconciliazione con coloro “non sono” (1Cor. 1,28). Si dica chiaramente a tutti che la chiesa entra ed esce chi vuole e chi ha più denaro si sceglie il miglior posto. Ecco, noi siamo i testimoni del “regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace”.

b) Incontro pastorale. – Il vescovo della chiesa di Roma (ritorni) a fare il vescovo della” chiesa che il Signore gli ha affidato come in antico, personalmente. Non può liberarsene burocraticamente. E’ la chiesa di Roma che “ presiede alla carità”. Il dono del primato è dato al papa in quanto vescovo di Roma. Quanto più egli renderà pieno il suo rapporto con la chiesa, tanto più sarà efficace il suo magistero e servizio di tutta la chiesa.

  1. Il vescovo lontano dal suo gregge – I sacerdoti vorrebbero parlare con il loro vescovo, questi non può riceverli perché occupato in altri affari. Lo so, ma egli è prima di tutti il nostro vescovo. Non può negarci la gioia di un incontro personale. E se riceve gli ambasciatori, gli attori, gli sportivi, la giunta comunale. Gli industriali, i turisti, gli astronauti, deve ricevere anche noi. Prima di tutti noi, perché prima di tutto è vescovo di questa chiesa. Non può essere tollerata ulteriormente questa separazione. Difatti fra tutti i vescovi della chiesa, egli è l’unico che regolarmente non ha contatti con i suoi sacerdoti e con i fedeli.
  2. Non indugiare – Certo le dimensioni sociali e storiche di Roma sono tali da rendere difficoltosa una presenza attiva ed affettuosa del vescovo tra noi. Ma queste difficoltà non si possono trasformare in impossibilità. Le visite del vescovo di Roma, mostrano, sì, un nuovo desiderio di uscire, ma poi questo desiderio si vanifica dietro i preminenti problemi del cerimoniale, dell’ordine pubblico, dell’eccezionalità dell’avvenimento, di una struttura che separa anziché unire. Occorre una terapia d’urto. Rompere questi schemi mondani significa offrire ad un popolo sbandato e dimenticato una testimonianza forte del Vangelo e del servizio episcopale.
  3. La funzione della curia – Il vescovo vive separato dalla sua chiesa, alla cima di una piramide di burocrazia e che nessuno di noi può scalare. I burocrati che lo circondano, e che soli possono avvicinarlo, hanno isolato e mitizzato il capo perché non abbia contatti diretti col popolo di DIO. Il nostro consiglio spassionato e non ambizioso renderebbe inutile l’apparato burocratico. Questo col suo operare svuota e la missione del vescovo e la nostra, appropriandosi di una potestà che ha un vizio di origine: ridurre le cose di Dio a cose del mondo. Non è né più né meno il compito delle corti di tutto il mondo? Se non il vangelo, almeno la storia dovrebbe insegnarcelo.
  4. Conseguenze dell’isolamento del vescovo – L’isolamento del vescovo ha consentito che le circostanze storiche, gli uomini e le ambizioni, mettessero sulle spalle carichi che non risultano dal Vangelo. Chi ha dato a Pietro l’essere capo del corpo diplomatico? Gesù non l’ha costituito capo di uno stato. Gesù non l’ha incaricato di battere moneta. L’immagine di queste cose è di Cesare non di Cristo. Cristo ha chiamato Pietro a confermare i suoi fratelli nella fede (Lc. 22,32). Ecco il suo servizio. E Dio sa quanto oggi ne abbiamo bisogno !
  5. Come e chi – Umile e dimesso, uomo tra gli uomini (Atti 10,26 – Gv. 9,11)), ne accetti tutta la condizione. Abbandoni l’isolamento del Vaticano, si faccia pellegrino nelle nostre città, vada incontro ai sacerdoti, ai fedeli, Senza fissare programmi. Sia nella chiesa non sopra la chiesa. Se uno di noi vuole parlagli non sia intimidito dagli scaloni da salire, dagli uscieri, dalle guardie, dai monsignori, dalle sale dorate, dai rifiuti. Mai scelga gli interlocutori. Il vescovo deve aprire la porta sempre a tutti. Così una ventata di aria pura entrerà nel suo ministero. Questi contatti non possono essere sostituiti da nessuna inchiesta sociologica, da nessuna lettura dei giornali o dei libri, da nessun rapporto. E non si faccia proteggere da centinaia di poliziotti armati. Questo è l’aspetto della potenza di questo mondo. Cristo rifiutò di essere difeso. Il suo vicario faccia lo stesso. Se Gesù rischiò la lapidazione (Lc. 4,29), perché mai il papa non può rischiare? (Gv. 15,20). E’ forse egli più prezioso di Gesù alla chiesa? E’ che la sua vita è diventata troppo cara a Cesare! E, quando egli riceve, le tribune d’onore sono riservate ai primi secondo il mondo. Noi diciamo al potente: “Tu siedi qui al posto riservato per te”, e poi diciamo al povero: “Tu sta in piedi in fondo”. Siamo “diventati giudici di malvagi pensieri” (Giac. 2,4); e innalziamo nel nostro cuore una barriera di ostilità e di oppressione. E’ il segno che la nostra stretta di mano con Cesare mortifica la nostra libertà.
  6. Un po’ di silenzio per ascoltare – Questa città prostituta ha da riascoltare il grido della conversione. Ma non si creda che il Vangelo viene annunziato moltiplicando i discorsi. Dobbiamo riscoprire l’essenzialità delle parole, là ove il mondo le ha inflazionate e ne ha perduto il valore. Il Vescovo deve imparare ad ascoltare. A sentirlo parlare così spesso sembra che egli non abbia mai bisogno di ascoltare. Accanto al ministero della parola ci sia il ministero dell’ascolto. Dell’ascolto di coloro che il mondo riduce al silenzio, e non di coloro che credono di avere sempre diritto alla parola. Non si può governare la chiesa senza ascoltare, senza entrare concretamente nel cuore delle creature.
  7. Il dovere di tutti – Le tensioni che lacerano la chiesa si sgonfierebbero se il vescovo di Roma, nella povertà e nella umiltà, esercitasse il suo incarico di messaggero e di testimone. Egli deve compiere una scelta tale che lo collochi tra i disprezzati del mondo (1 Cor. 4, 10). Un buon vescovo sarà anche un buon, papa. Un cattivo vescovo sarà anche un cattivo papa. Non si può ben “dirigere” la chiesa universale, quando nella propria c’è disordine e abbandono (1 Tim. 3,4-5). Noi siamo pronti ad aiutarlo. Non aspettiamo che un gesto. Non gli chiederò certo io di spogliarsi delle responsabilità di essere, regolatore della fede di questa chiesa e della chiesa tutta. Io chiedo che egli sia il primo penitente perché questa chiesa si muova verso una linea di conversione. Però sbaglieremmo gravemente se facessimo ricadere solo su di lui questo impegno che, invece, incombe su tutti noi. Il vescovo non è che una creatura. Con funzioni diverse ci troviamo tutti sulla stessa barca. La sua poca o tanta fede e la nostra poca o tanta fede, le sue debolezze sono le nostre debolezze, le sue virtù sono le nostre virtù, il suo bisogno di aiuto è il nostro bisogno di aiuto, la sua preghiera è la nostra preghiera. Siamo, tutti legati da una simile solidarietà.

EPILOGO

  1. Una richiesta – Questo è quanto avevo da dire alla chiesa cui appartengo. Non sono che un povero servo e non ho fatto che il mio dovere (Lc. 17,10). Chiedo al vescovo, ai vescovi, ai fedeli di accettare in questo spirito quanto ho scritto. Ciò che ho detto in questi cinque anni di permanenza tra i baraccati, è quanto ho potuto maturare soffrendo con loro, crescendo con loro. Quando ero seminarista e poi prete integrato nella parrocchia, nessun povero veniva a servirmi dandomi il giudizio su me e sulla chiesa. Vivevo nella illusione e nella superbia di me stesso. Ma quando mi spogliai di ogni privilegio e mi feci povero tra i poveri, ricevetti da questi il più grande servizio che potessi aspettarmi: ascoltai e mi fecero conoscere il giudizio che essi davano su me e sulla chiesa. Mi misero nudo e fui costretto a confidare in Dio là ove credevo di poter fare da me. Questo è il più alto atto del loro magistero. Guai se lo evitassimo per paura.
  2. Prete di Roma – Oggi, terminato questo servizio non mi rimane che continuare il mio pellegrinaggio e la mia conversione. Mi allontanerò. Ma non saranno alcune decine di chilometri a separarmi da questa chiesa. Continuerò ad esservi immerso sviluppando per essa la mia missione sacerdotale. Rimarrò prete di Roma in missione là ove manca il segno dell’amore di Dio. Quel segno che a Roma ho cercato di dare e che continuerò a dare. Ci sarà chi si rallegrerà di questa mia missione. Ci sarà anche chi si rammaricherà e dirà che così ho fatto un piacere a chi intende spadroneggiare nella Chiesa. Agli uni e agli altri ricordo che così facendo si fanno i conti senza l’oste. L’oste, nel nostro caso, è Dio. E’ Lui che fissa il prezzo delle nostre azioni. E può accadere che l’allegria dei primi si tramuti in vergogna, e il rammarico dei secondi diventi gioia.
  3. Continuare l’impegno – Andrò come contadino sulla montagna ciociara insieme ad altri giovani che hanno lasciato tutto, nel nome del Signore. Dio mi farà conoscere il tempo in cui la lingua dovrà essere sciolta e il tempo in cui dovrà essere legata al palato (Ez. 3,18-26), Tutto ciò che accadde deve parlarci di Dio. Sempre. La miseria dì Roma doveva essere un segno di richiamo del Signore a convertirci. Non è stato così. Lo sarà?
  4. Il seme non può che germogliare. Noi sappiamo che lo Spirito Santo non regola la sua presenza nella chiesa misurando le nostre colpe. L’amore di Dio non si arresta davanti alle ostinazioni. Se così non fosse saremmo senza luce e senza domani. Saremmo nella disperazione. E’ certa una cosa: dalla durezza dei cuori non nasce la chiesa. Ma a Roma c’è una chiesa con il cuore aperto. Ecco il “resto” da cui nascerà un “grande popolo” (Rom. 4,17), e con il qua le bisogna rimanere solidali per aiutarne l’espansione e la portata, penitenziale. Abbattiamo le reciproche scomuniche psicologiche ed intorno al vescovo ricostruiamo l’unità ecclesiastica. La mia scelta è un servizio che offro a tutti perché si capisca che ciascuno di noi è tenuto ad andare là ove nessuno andrebbe e che è inutile continuare a godersi gli orticelli privati quando molta gente da centinaia di anni non sente più parlare di Vangelo e non ne vede messi in pratica gli insegnamenti. Dobbiamo prepararci cosi a rispondere alla chiamata del Signore.

Roberto Sardelli

prete della chiesa di Roma

Le responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma (conferenza stampa del card. Vicario Ugo Poletti – 25 ottobre 1973).

I. Verso il Convegno

Invito ad una riflessione comune

I pressanti interrogativi dei cristiani di Roma di fronte al dilagare dell’egoismo delle sproporzioni e sofferenze sociali hanno stimolato l’esigenza di una riflessione comune fondata sui principi propri ed immutabili del cristianesimo e sugli imperativi di responsabilità e di impegni che ne derivino.

In particolare si è avvertita, da molte parti della diocesi la volontà di giungere ad una comune presa di coscienza della propria specifica responsabilità di cristiani di fronte alle attese dì carità e di giustizia, dì uscire dall’assenteismo, dall’indifferenza e dall’acquiescenza, per procedere ad un rinnovamento interiore da cui possano scaturire una autentica comunione di azioni e testimonianze, animate dall’amore cristiano e dalla giustizia.

Comitato promotore

Il Vicariato di Roma, partecipando a queste esigenze, ha sostenuto l’iniziativa di un incontro a carattere diocesano, preparandola, con la collaborazione del Servizio Assistenziale del S. Padre, attraverso un Comitato Promotore, che ne ha definito i modi ed i tempi di realizzazione, predisponendo anche alcuni documenti di base.

Considerando la varietà e complessità della diocesi, si è ritenuto opportuno, ai fini organizzativi, di affidare a cinque Commissioni il compito dì operare ciascuna in un settore della città secondo la ripartizione in atto nella diocesi (nod-sud-ovest-est-centro).

Le sommissioni, formate inizialmente da un presidente, un vicepresidente e un “rapporteur”, hanno proceduto a coinvolgere le comunità parrocchiali nella riflessione sui documenti di base e si sono ampliate attraverso la partecipazione di rappresentanti di gruppi associati e spontanei, di sacerdoti, religiosi e laici del settore.

Il lavoro delle commissioni si è sviluppato e si va attuando attraverso:

1) una raccolta di testimonianze in rapporto al tema e

2) di documentazione su iniziative di particolare significato.

Le commissioni procederanno successivamente alla verifica delle varie iniziative in rapporto al tema proposto ed ai bisogni espressi e non, per coglierne la realtà nei singoli settori.

Il materiale raccolto sarà utilizzato per la preparazione e la articolazione dell’incontro assembleare che si prevede verrà attuato nella prima decade del febbraio 1974.

Esso verrà impostato su due relazioni di base svolte da un sociologo e da un teologo.

Il primo, attraverso l’analisi dì alcuni aspetti della realtà sociologica della diocesi, consentirà di individuare spunti adeguati di riflessioni; il secondo porterà l’attenzione sulla esigenza e sulla natura della risposta cristiana a tale realtà.

A queste due relazioni seguirà il lavoro dei gruppi che si raccoglieranno intorno alle cinque commissioni per prendere atto del lavoro da queste svolto e discuterlo nel quadro delle indicazioni offerte dalle due relazioni di base, al fine di redigere un documento conclusivo.

Tali conclusioni verranno raccolte e riassunte da un terzo relatore che le presenterà all’assemblea, unitamente ad altre eventuali documentazioni, nonché ai rilievi e alle conseguenti istanze programmatiche.

Per facilitare la più ampia partecipazione all’incontro anche al di fuori delle commissioni attualmente operanti, i tre relatori hanno preparato un documento di lavoro che verrà ampiamente diffuso nella diocesi al fine di fornire spunti di riflessione a chi intende unirsi a questo sforzo di rinnovamento.

Spirito congressuale

L’incontro rappresenta un momento intermedio tra la riflessione, la conoscenza e l’azione e si auspica che esso sia fecondo per un’azione futura in cui tutta la diocesi (gerarchia e laicato) sia disponibile a testimonianze più adeguate alle istanze attuali. Il Convegno Diocesano non vuole essere un convegno tradizionale, ma un incontro di meditazione dell’intera comunità cristiana di Roma sui problemi enunziati della giustizia e della carità nella nostra Città.

Un incontro di riflessione dalla comunità cristiana: ma aperto all’intera realtà cittadna e finalizzato ad un duplice obiettivo:

a) quello di animare la stessa comunità cristiana, di renderla più consapevole, di adeguare il suo spirito, il suo respiro, la sua presenza ed il suo ritmo operativo alle nuove e più mature esigenze della realtà sociale;

b) quello di richiamare la città, tutta la città, le sue strutture politiche ed amministrative, la responsabilità delle stesse forze politiche e sociali e dei vari ambienti in cui la città stessa si articola ed esprime, ad un diverso e più umano e, quindi, più cristiano senso di giustizia di carità.

Il Convegno-Incontro non sarà fine a se stesso.

Anche se sì pone a conclusione di un lungo lavoro di ricerca, di dibattiti, di sperimentazione e di loro analisi, condotto in silenzio ed umiltà, il Convegno vuole essere e sarà l’inizio di un dialogo più profondo, di un impegno più costante e implicante, di un rinnovamento dei modi e dei sentimenti con i quali affrontare i problemi di una grande città come Roma.

II. Roma

L’incremento demografico

I problemi di giustizia e carità sono posti, a Roma, dalla stessa struttura urbanistica, sociale economica della città.

Alcuni dati al riguardo sono estremamente significativi.

Roma è, tra le grandi città italiane, quella che continua ad avere il maggior tasso di crescita demografica. Nel decennio 1961 – 1971 la percentuale di incremento, demografico di Roma è stata pari a quella di Milano, Torino e Napoli messe insieme.

Questa (che negli anni più recenti sembra stabilizzata Intorno alle 50 mila unità annue) continua ad essere – per circa la metà dei suoi valori – il frutto di flussi migratori cospicui e costanti.

Negli ultimi anni, in realtà, i fenomeni migratori hanno subito alcune variazioni significative.

Ad una costanza delle immigrazioni (circa 65 mila anime) è andato affiancandosi un fenomeno progressivamente crescente di emigrazioni (che ormai sfiorano le 45 mila anime). Ma questo fenomeno di uscita da Roma è più apparente che reale; per buona parte si tratta infatti dì cittadini romani che trasferiscono la foro residenza (ma non il loro lavoro) nei paesi vicini, nei Castelli nei paesi posti lungo la Flaminia, nella zona Tiburtina e predestina.

Al problemi posti dai nuovi venuti si aggiungono così quelli di un pandolarismo accentuato e progressivo che ha le sue pesanti incidenze non solo sulla vita organizzativa della città, ma soprattutto sui rapporti umani, sulle capacità delle persone di vivere una dimensione umana e non allenata

Mortalità infantile

Anche la crescita In conseguenza del cosiddetto saldo naturale della popolazione presenta dei problemi.

Nonostante il globale aumento della popolazione, la nascite mantengono un andamento regolare e anzi denunciano una certa flessione. Ma quello che lascia pensare – perché indubbiamente sottintende la presenza di problemi e di condizioni che prima che – alla carità attentano alla giustizia – è il fatto che a Roma si registra un tasso di mortalità infantile (a livello di neonati o di bambini fino ad un anno di vita) assurdamente elevato: il 26 per mille.

Deficit degli alloggi

Altri dati strutturali tratti dall’ultimo censimento o da recenti indagini.

Roma è tra le grandi città quella che ha, ad un tempo, il più alto deficit alloggiativo, il più elevato numero di abitazioni improprie (7885 contro le 890 di Torino, le 842 di Milano, le 788 di Napoli), il più elevato numero di abitazioni non occupate (Circa 64 mila contro le 16 mila di Torino, le 18 mila di Milano, le 9.000 di Napoli).

Perequazione nei redditi

Roma è una città nella quale è notoriamente elevato non solo il tasso di disoccupazione, ma più ancora, forse, quello di una sotto-occupazione endemica. Roma, d’altro canto, è la città in cui l’impiego prevalente è quello amministrativo, pubblico e privato: un impiego a reddito fisso in genere, anche relativamente modesto. La nostra città è però tra quelle che vantano un più alto reddito pro-capite: oltre 1 milione l’anno.

E’ questo il segno indubbio della presenza di squilibri profondi dell’esistenza di distanze abissali i redditi.

I redditi privilegiati sembrano peraltro non voler mettere le loro capacità e possibilità a disposizione dell’intera città.

Mentre da un lato è, con Milano, la città in cui più incidenti sono i consumi cosiddetti voluttuari. Roma è anche la città In cui minori sono gli investimenti produttivi, finalizzati alla creazione di nuovi posti di lavoro.

Le ricchezze accumulate non sono, cioè, ridistribuite, immesse in circolo per creare nuova ricchezza è soprattutto per crearla per una massa crescente di cittadini.

Dai dati generali di struttura a quelli relativi ad alcune situazioni e servizi si desume quanto segue:

Tasso di assistenza istituzionalizzata

I minori

Roma è la città In cui più alto è Il tasso dì istituzionalizzazione, soprattutto dei minori. Alcuni esempi. Nel 1971 (cfr. Camera dei Deputati, “Stato e prospettive dell’assistenza pubblica e privata in Italia” 1972) erano ricoverati in tutta Italia, a carico del Ministero degli Interni, 24 mila minori dai 6 ai 18 anni. Un anno dopo (a situazione presumibilmente invariata) al momento del trasferimento dei poteri alle Regioni, li Ministero dell’interno ha trasferito alla Regione Lazio oltre 4 mila minori ricoverati in Istituti educativo-assistenziali. Di questi, oltre la metà, risultavano residenti od originari di Roma.

A questi dati vanno aggiunti quelli relativi al ricoveri effettuati dall’ENAOLI, dall’ONMI, dal Ministero della Sanità. Per tutte queste istituzioni il rapporto tra I ricoverati di Roma e quelli totali a livello nazionale, privilegia, tristemente, la nostra città su tutte.

Che significano questi ricoveri? Frutto solo di indigenza economica o anche, come avviene in numerosi casi, di difficoltà familiari di ogni genere, da quelle morali a quelle educative? Quali conseguenze ha, ed avrà, questa massiccia istituzionalizzazione sul futuro umano di migliaia dì individui?

Fino a che punto è necessario ricorrere sempre e comunque alla istituzionalizzazione e fino a che punto non sarebbe possibile ed auspicabile un intervento delle pubbliche autorità a favore dette famiglie?

E ancora entrando più da vicino nel vivo del discorso che intendiamo portare avanti: considerato che numerosissimi istituti educativo-assistenziali sono retti e gestiti da religiosi, quali sono i criteri seguiti in questa opera di gestione? Quali sforzi gli Istituti fanno per rendere meno drammatica questa massiccia istituzionalizzazione, per renderla meno emarginante? Quali proposte gli Istituti religiosi e l’intera comunità cristiana in Roma sono pronti a fare, per rendere al problema, soluzioni alternative, più rispondenti a principi di giustizia e di carità?

Gli anziani

Accanto al problema dei minori quello terribile degli anziani.

Qui i dati sono più precari, perché accanto agli interventi della assistenza pubblica sono numerosissime le iniziative private o semiprivate.

I caratteri generali dell’assistenza possono comunque essere così delineati:

a) Assistenza pubblica in favore degli anziani autosufficienti. Il ricovero è assolutamente emarginante; le rette di ricovero sono bassissime l’anziano è veramente un utensile oramai Inutile e messo In ripostiglio.

b) Assistenza pubblica e privata in favore di anziani con problemi sanitari. La formula tipica è Il cronicario. L’utensile inutile attende passivamente di essere gettato via.

c) Assistenza privata per autosufficienti e non. Soluzione: le case di cura per lungo-degenti e le case di riposo a pagamento, aperte, solo a chi è in grado di pagare rette consistenti.

Per tutti gli altri anziano, per quelli che non accettano o non possono abbandonare il proprio ambiente familiare e sociale, una sorte ancora più misera. Nessuna assistenza degna di questo nome. L’isolamento tra la folla. Il disinteresse dei figli, dei nipoti, dei familiari.

E Roma è una delle città In cui si hanno i più alti tassi di longevità!

Handicappati

C’è poi il problema degli handicappati fisici e mentali. Uno stuolo crescente di persone colpite da infermità e deformazioni che sarebbero curabili e recuperabili in gran parte se affrontate per tempo, con i dovuti mezzi e con metodologie adeguate. L’antica impostatone dell’emarginazione totale di questi elementi o di un vuoto pietismo nei loro confronti, domina ancora la realtà cittadina e tutt’ora guida quanti operano in questo settore, ivi compreso – salvo alcune preziose e significative eccezioni le istituzioni cattoliche.

E l’handicap – quale che sia – è un problema e una sofferenza non solo per l’immediato portatore, ma per tutto il suo ambito familiare.

Cosa risponde la città, cosa risponde la comunità cristiana alle esigenze di tanti nuclei familiari, di tanti Individui che conservano la loro dignità di persone nonostante l’handicap di cui sono portatore e che hanno diritto che questa dignità sia loro riconosciuta non a parole, ma con fatti concreti: con la possibilità di una effettiva crescita psico-sociale, di un reale Inserimento culturale, professionale e sociale nel contesto cittadino?

Infermi e strutture ospedaliere

Il problema delle strutture ospedaliere, della loro carenza quantitativa e qualitativa è troppo noto perché ci si debba soffermare sopra. Due fatti vanno rilevati e sottoposti alla attenzione della comunità cristiana e dell’intera città.

Esistono vaste zone della città (es. il settore che va dal Nomentano a Pietralata, oppure quello che corre lungo l’Appia e la Tuscolana) prive di strutture ospedaliere pubbliche ma dense specie in alcuni punti, di case di cura private, il cui fine, insieme alla cura sovente è anche Il lucro (e qualche volta la cura viene dopo il lucro).

Deficienze della struttura pubblica indubbiamente, ma anche ingiusta impostazione dell’assistenza ospedaliera privata. E chi ne soffre è la popolazione in genere le classi più umili. Seconda considerazione. La critica più serrata che da ogni parte si leva contro la struttura ospedaliera romana (pubblica o privata che sia) riguarda soprattutto il modo in cui viene erogata e gestita l’assistenza, lo spirito con il quale viene prestata, le conseguenze alienanti che ha sugli interessati e le loro famiglie. Il malato è spesso un oggetto, non un uomo, un materiale da lavoro, non un individuo.

Fino a che punto questa situazione è frutto di mancanza di preparazione da parte del personale di assistenza e fino a che punto è invece la conseguenza di carenze organizzative? Le conseguenze di questa situazione ci interessano come cristiani e come cittadini. Cosa propone la comunità cristiana della città? Quali impegni assume? Quali impegni chiede e sollecita alle autorità pubbliche?

Tenuto conto che considerevole è la presenza delle istituzioni religiose che operano nel settore ospedaliero: quali revisioni la comunità cristiana è pronta a fare, per rispondere, con maggiore giustizia e carità, ai problemi degli infermi?

Roma: giungla o megalopoli?

Esistono problemi di giustizia e di carità che non passano attraverso i punti finora indicati, che sono – se si vuole – più sottili, perché attengono in generale al comportamenti interumani e comunitari.

Roma è una città; ma, non una comunità. L’individuo è prevalentemente solo, anche se vive in quartieri numerosi e affollati. Sono le stesse strutture cittadine a isolarlo, a non consentirgli un armonico sviluppo delle relazioni interumane.

La dimensione e le caratteristiche urbanistiche della città, unitamente all’ininterrotto traffico, non offrono luoghi di incontro.

Le piazze (poche fuori della cerchia delle mura aureliane e nei nuovi quartieri) quando non sono delle piattaforme di smistamento e di smaltimento del traffico, sono degli enormi parcheggi. In ogni caso, la loro struttura e dimensione non stimola la sosta.

Roma – che era la città dei giardini – non ha una tradizione di vita nei parchi. Il parco, o, meglio il giardinetto pubblico, per il romano è il luogo dove far correre i bambini o dove si incontrano i vecchi. Le persone attive non conoscono i parchi, si incontrano altrove, nei bar alla moda, in punti che consentono solo rapporti fugaci.

Sui posti di lavoro non esiste e non può esistere un rapporto comunitario.

L’ordinamento gerarchico tipico della Pubblica Amministrazione consente solo rapporti di dipendenza, tutt’al più stimola sentimenti competitivi dove può; la competitività o è semplicemente individuale o è di “categoria” a (tecnici contro amministrativi, impiegati di concetto contro direttivi, ecc.).

Chi non vive la vita anonima degli uffici, vive la dimensione individualistica e competitiva dei piccolo commercio (170 mila addetti).

Lo stesso mondo operaio, vive mere immagini di vita comunitaria, vuoi perché una parte notevole del mondo operaio è inserito in strutture burocratiche e di servizio (si pensi alla massa degli autoferrotramvieri, ai netturbini, agli operai delle aziende municipalizzate) vuoi perché i settori di impiego sono fragili, esposti alla congiuntura (edilizia) e stimolano non una tendenza, comunitaria, ma individualistica.

III. Il Convegno: ricerca ecclesiale

Convegno: Autocoscienza e valori comunitari

Il convegno intende offrire a tutte le componenti della comunità diocesana di Roma la possibilità di una riflessione comunitaria, aggiornata ed impegnata sulle esigenze, la responsabilità, i doveri che, per ogni cristiano, scaturiscono dalla giustizia e dalla carità di fronte ai bisogni e ai problemi sociali e civici, a quelli della comunità di Roma, in particolare.

Il Convegno vorrà proporre alla coscienza dei cristiani che si riconoscono tali, il senso delle proprie responsabilità sociali e comunitarie, ai fini di un impegno e di un’azione concreta nella realtà sociale e nella comunità ecclesiale.

Oltre a sollecitare questa presa di coscienza sociale comunitaria e civica, il convegno mirerebbe ad imprimere un tono più personale nei rapporti, a tutti i livelli, nell’ambito della comunità ecclesiale sia con le strutture sia con le istituzioni in essa esistenti, perché questi rapporti siano improntati ad atteggiamenti e ad uno spirito di maggiore comprensione, rispetto, dialogo e reciproco aiuto fraterno.

Inoltre dovrebbe aiutare i cristiani a porsi in senso più critico o costruttivo di fronte alle carenze e alle disfunzioni sociali e ad individuare le cause e le scelte politiche e civiche che nella nostra società determinato la miseria e la emarginazione, e a far riflettere sulla efficacia e sulla corrispondenza della risposta offerta dall’attività e dalle opere sociali ed assistenziali promosse e gestite dai cattolici nell’ambito della diocesi. Lo spirito di cui deve essere animato, questo impegno ci viene suggerito da Paolo VI: “Sta alla comunità cristiana discernere, con l’aiuto dello Spirito Santo, in comunione con Vescovi responsabili, in dialogo con gli altri fratelli cristiani e tutti gli uomini di buona volontà, le opzioni e gli impegni da prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si ritengono necessaria con urgenza in molti casi. In questa ricerca da promuovere, i cristiani dovranno anzitutto, rinnovare la fiducia nella forza e nella originalità delle esigenze evangeliche”.

La Chiesa: comunità autentica

La presa in considerazione dell’essenza e della missione della Chiesa, comunità di salvezza, invita alla vitalizzazione delle comunità di base, alla fiducia nella loro libertà, alla promozione della loro creatività. Il problema pratico è che la comunità sia profeticamente impegnata in diversi settori delI’esistenza collettiva senza divenire però una comunità politicizzata, perché ciò comporterebbe una perversione della sua essenza di comunità ecclesiale.

Come non essere d’accordo con S. Giovanni Crisostomo quando afferma che “un fatto così travolgente come la nostra unità reale in un Corpo deve avere delle conseguenze reali nella nostra vita quotidiana”? Nell’ambiente pagano ellenistico che fu il teatro dell’attività missionaria della Chiesa apostolica, gli uomini liberi e gli schiavi non partecipavano alle stesse cerimonie cultuali. Il semplice fatto che i cristiani si riunivano tutti insieme per celebrare l’eucaristia, senza distinzione alcuna di classe sociale, costituiva una contestazione radicale delle disuguaglianza inumane dell’epoca.

Ricordiamoci i vigorosi discorsi di S. Paolo contro i cristiani di Corinto che, pur riunendosi nello stesso luogo per la clebrazione eucaristica, vi riportavano egoisticamente le stesse fratture sociali.

Per una comunità di Chiesa, scoprire e attuare il prodigioso dinamismo della carità evangelica è un impegno costante.

Ci si domanda: ma la Chiesa ha ancora qualche cosa da dire alla società di oggi? Certamente. Ha da dire che Il mondo attuale è inaccettábile e, che l’uomo ha la vocazione di trasformarlo e di comandare l’ orientamento del suo divenire collettivo.

La Chiesa: Redenzione dell’uomo

Ma la società stessa è motore e guida dei suo sviluppo. Questa constatazione porta il cristiano, presente attivamente in questo processo, ad interrogarsi sulla\sua fede e sulla teologia. Ciò costituisce un rovesciamento di problematica. Invece di domandarsi come determinarsi politicamente quando si è cristiani, ci si deve piuttosto domandare: quando si è politicamente impegnati, come si può essere veramente cristiani?

La Chiesa come comunità, in questa visione non si disinteressa della giustizia dello sviluppo, del cambiamento sociale, ma misura il suo ruolo specifico strettamente legato alla sua missione dì annunciare la Buona Novella ai poveri ed agli oppressi. Ciò significa che Dio stesso invita questi ultimi a rifiutare il mondo che li opprime ed a costruirne un altro più conforme alla giustizia che Dio attende. Sacralizzando così la speranza e la volontà di cambiare le cose. Il Vangelo ricorda che esso è annuncio di liberazione, ma questa liberazione, ha un’altra dimensione: continua fino alla vittoria sulla morte.

L’impegno per la giustizia e per lo sviluppo, identificato alla promozione integrale dell’uomo, ha il suo compimento e si pone nella linea stessa della missione della Chiesa, che deve ricordare le esigenze di tutta la vita umana e ricordare a tutti i suoi membri di assumersi le loro responsabilità di uomini nella società, nella politica.

Facendo della politica l’ambiente-cerniera dove si risolvono ì problemi della società con la partecipazione sempre più cosciente dei cristiani, possiamo dire in un certo senso che si fa della politica “un luogo teologico”.

Ci si accorge, che vi sono sempre più questioni di fede che sono anche politiche che sono anche questioni di fede. Non è più solo dalla dottrina che si deduce una politica, ma è nella stessa vita politica che si vive e si interpreta la fede.

La chiesa scopre che la trasformazione del mondo è anche il luogo della redenzione, della liberazione in atto in una Pasqua dalle dimensioni storiche. Essa chiama ogni uomo a convertirsi in questo mondo, non fuggendo da esso, ma trasformandolo. Non si tratta di identificare trasformazione del mondo e redenzione di Cristo – che trascende l’umanizzazione del mondo, perché si tratta della vittoria di Dio sulla morte – ma questo mistero si realizza nella storia degli uomini.

In realtà, il problema, attuale della giustizia e della carità sembra propizio per una nuova interpretazione del Vangelo e della missione della Chiesa.

Si può citare a questo proposito il testo dei Sinodo dei Vescovi sulla giustizia: “La lotta per la giustizia e la partecipazione alla trasformazione del mondo ci appaiono pienamente come una dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo che è la missione della Chiesa: per la redenzione dell’umanità e per la sua liberazione da ogni situazione oppressiva”.

(dalla pubblicazione curata dall’Ufficio Pastorale del Vicariato di Roma).

– UNA BREVE RIFLESSIONE PER COLLOCARE I DUE DOCUMENTI –

  1. All’apparire (inizio ‘73) delle prime notizie circa un “anno santo” da celebrare alla normale scadenza del 1975, don Roberto Sardelli pubblicava un breve scritto (“Ai frodati il quDRULPO”, riportato in La Tenda n. 44 pag. 3). Rivolgendosi alla chiesa di Roma, la invitava a compiere un anno di conversione come restituzione e revisione delle ingiuste relazioni sociali nElla città e nella chiesa romana. In luglio 73 il settimanale “La famiglia cristiana” dava notizia di una udienza privata del Papa a don Sardelli. In tale circostanza, secondo il giornale, don Sardelli avrebbe consegnato al Papa un’altra lettera sull’argomento.

E’ reso ora di pubblico dominio un documento indirizzato da don Sardelli al Consiglio Presbiterale della diocesi di Roma. Non si dovrebbe essere lontani dal vero pensando che tale ultima lettera sia corrispondente a quella da lui consegnata al Papa.

Il Consiglio presbiterale della diocesi (circa cinquanta preti eletti dal clero di Roma come consiglio consultivo permanente per il Vescovo) è venuto a conoscenza della lettera in occasione della riunione del novembre ’73 e non le ha riservato un’accoglienza particolarmente calorosa. Qualcuno ha rilevato che non c’era motivo cogente di prenderla in considerazione provenendo essa da un singolo prete: il Consiglio presbiterale, si è detto, esamina solo i quesiti proposti dal Vescovo e non quelli della base. Sembra anzi che qualcuno abbia proposto, dopo aver letto la lettera, di affrontare in sede di Consiglio presbiterale il problema della … crisi nel clero giovane1 Se fosse lecito paragonare cose un po’ ridicole a cose tragiche potremmo indicare per questa mentalità paterna con presupposto di infallibilità un parallelo nella prassi vigente in Russia. Là, a certe critiche rivolte al sistema fa riscontro l’invio del soggetto scontento ad un ospedale psichiatrico. Il sistema, infatti è infallibile non c’è che da curare il disadattato.

Discutono i periti se sia stata una mossa abile far infilare alla lettera il vicolo cieco del Consiglio Presbiterale. Ivi si è fermata non ricevendo neppure quella pubblicità che espressamente chiedeva. Sicché tocca a noi, in genere buoni ultimi, presentare per primi questa voce chiara e coraggiosa

Nessuna nota particolare alla lettera di don Sardelli. Ha il suo modo di scrivere, e ognuno il suo di leggerlo. Quanto a contenuto i singoli elementi sanno di luogo comune tra i laici, in Chiesa e fuori Chiesa. Ma è bene che la coscienza generale vada progressivamente attaccando i livelli presbiterali della comunità, fermo ancora una volta il merito di don Sardelli che di questo risveglio fu tra gli iniziatori quando anche i laici stentavano a ritrovare uno sguardo obiettivo. Quanto a taglio complessivo il documento sembra a noi fornito di impostazione correttissima, da non giustificare le scuse che l’autore premette rivolgendosi a lettori eventualmente sorpresi. Ma neppure questi valutazioni di forma sono importanti. Ciò che conta è il contenuto e la sempre più chiaro e complessiva percezione che se ne ha.

  1. Sotto l’aspetto del progressivo aumentare di coscienza anche la conferenza-stampa del Cardinal Poletti è un passo avanti. La parola del Vescovo ha senz’altro un valore positivo perché dà finalmente comunione a tutto un giro di problemi e di posizioni laicali che finora erano stati sempre considerati con sospetto o chiaramente estromessi dall’esperienza-comunicabile dei cristiani. E se si pensa che al Vescovo compete di suo proprio fare questo, cioè portare a comunione carismi personali, ciò da esser contenti di questo ormai troppo atteso diritto di cittadinanza per tali argomenti. La conferenza-stampa ha suscitato un notevole interesse nei giornali, un chiaro imbarazzo nei responsabili capitolini (che già si sentivano tranquilli in coscienza fino al 76 con la promessa di abolire baracche e nascondere prostituzione?), e una cauta buona accoglienza nelle dichiarazioni di politici. Qui però cominciano alcuni nostri timori. Il primo è che i politici di sinistra, quelli più visibilmente contenti, imitano i colleghi della destra proponendo anche alla diocesi di Roma dialoghi di vertice che inseriscano la chiesa in disegni corporativi. Chiesa di stato-nero o chiesta di stato-rosso, il tentativo di Caifa ed Erode è sempre lo stesso. E speriamo che si dimostri nella chiesa la stessa capacità di Gesù nel resistere alla tentazione di giocare alla pari. Poi: l’uso di una “conferenza-stampa”. Ci sono invece “luoghi eclesiali” ben più titolati a ricevere filtrare verificare e conservare la parola del Vescovo. Tali le riunioni del clero, le eucaristie parrocchiali, dove più volte il Vescovo viene concretamente “provocato” senza frutto. Un terzo timore, il più malizioso e gratuito, perdonateci, è che il Vescovo cada nella tentazione di porsi alla guida in campi che sono di stretta pertinenza dei laici. Per intanto scavalcandoli a sinistra con un discorso di apertura, e poi sul credito di così evidente disponibilità, chiedendo “unità di cuore e di intenti” intorno al “pastore”. Questo timore lo fondiamo solo su certi atteggiamenti “unionistici” del Vescovo notati in occasione di visite in cose nelle quali ognuno è libero di pensare come crede. In scelte di obiettivi sociali. Metodi politici non abbiamo bisogno della previa indicazione episcopale, fosse la più aperta. Dove invece attendiamo il Vescovo, e non può sfuggire impugnando la bandiera episcopale (problemi del clero, dei religiosi nella diocesi, istituzione del diaconato e poi patrimonio, compra-vendita di sacramenti, bilancio della diocesi, costruzione delle nuove chiese, conduzione dello staff episcopale romano e laziale, ecc.). Si tratta, per questi tre timori, di pure e semplici possibilità, forse neppure pienamente fondate nel testo e nello spirito della conferenza-stampa. Ma meglio esagerare nella prudenza.
  2. Non staremo a spigolare all’interno dell’intervista del Cardinale, che vale piuttosto come documento complessivo. Sono però presenti come in ogni “’opera prima”, alcuni semplicismi che mette conto nominare. Si dice ad esempio che a Roma sta il più gran numero di bambini assistiti, in istituzioni … si vuol dire che a Roma le cose vanno particolarmente male? Sarebbe fuorviante se si concludesse che Roma merita ancor più cure di quante già ne riceve. Invece la conclusione di quella affermazione è che Roma fa già la parte del leone quanto a servizi assistenziali e quindi …… tirare le conclusioni anche per quanto riguarda gli istituti dei religiosi …… Si dice ancora che Roma ha il maggior numero di abitazioni improprie. Ci pare impossibile sostenerlo. Come si fa a sostenere che a Napoli sarebbero poche centinaia le “abitazioni improprie”? Non sono forse Napoli, Bari, Palermo delle “città improprie da cima a fondo, scelte non a caso dal colera che ha fatto tremare l’Europa (e ancor più lo farà, secondo le autorità di Ginevra cfr. Il Regno, 1973 n. 20, pag. 483, nel prossimo giugno, e le piogge d’autunno verranno solo a loro tempo…). Bisogna stare un po’ più attenti a non voler essere i primi della classe proprio in ogni occasione, per ottenere in favore di Roma sempre maggiori impegni delle autorità civili. E il trono non si è fatto mai pregare per sorreggere l’altare. Non si deve dunque presentare come bisognosa d’aiuto con diritto di precedenza la città di Roma, che notoriamente succhia da tutta la nazione, che può assumere senza battere ciglio centinaia di tranvieri e centinaia di vigili urbani in pochi giorni (e sempre a spese altrui). Eccetera.

Ma basta. I nostri rilievi sono di modesta statura davanti a due documenti che sarà bene tenere davanti per meditazione. In questi giorni di preparativi natalizi durante i quali scriviamo, e in quelli di freddo e di crisi in cui leggerete, i lunghi documenti che vi inviamo potranno aiutarvi ad entrare ancor più lucidamente nel tessuto reale della nostra città, e con l’aiuto di Dio, e, secondo l’invito esplicito del Vescovo, aiuteranno anche a riconoscere la nostra personale concreta vocazione in essa.

P.S. – Collegando l’intervento del Vescovo con quello di don Sardelli, e il collegamento non ci sembra gratuito ma anzi una certa dipendenza del primo dal secondo pare evidente, abbiamo volutamente trascurato di cogliere l’aspetto del rapporto tra l’intervista e il Convegno sulle “attese di carità e giustizia, nella diocesi di Roma” che dovrebbe avvenire in Febbraio ‘74. Un discorso più analitico sulla “conforenza-stampa” e sul convegno di Febbraio si farà a tempo opportuno.