Lettera 47 (Prima Serie)

Cari Amici,

poiché temiamo che il numero di dicembre possa arrivare a destinazione in ritardo, approfittiamo ora per inviarvi gli auguri più fraterni per il S.Natale.

L’augurio migliore è che questa festa non diventi una delle occasioni per starsene al calduccio degli affetti familiari, dimenticando i fratelli che soffrono per le ingiustizie, per la miseria, per le malattie, per la solitudine, per l’oppressione.

La festa del Natale ci ricorda che Cristo ha scelto la vita, ha scelto la lotta, ha scelto i più piccoli ed ha fuggito le tentazioni del potere, della vita comoda, dell’abbondanza.

Siamo perciò chiamati a viver il Natale facendo memoria di tutto ciò.

Per parte nostra ci auguriamo che anche questo lavoro di studio e di documentazione fatto sulle pagine de “la tenda” possa servire a scoprire negli eventi della Chiesa locale di Roma il significato profondo della nascita e della vita di Gesù.

Con molti cordiali saluti

Gli amici de “la tenda”

La Prima Comunione Dei Bambini Nella Chiesa Locale Di Roma

Seconda Parte: Legislazione attuale e prassi corrente

 

Nella prima parte di questo lavoro (v. La Tenda , n.42 , maggio 1973) abbiamo lungamente esposto la prassi romana circa la prima comunione dei bambini giungendo fino al 1960, alle soglie del Sinodo romano. Tutto quanto da noi narrato circa il passato darà modo agli amici di leggere ora con maggior trasparenza la legislazione attuale e la prassi corrente , alle quali in questa seconda parte ci rivolgiamo.

  • 1. Legislazione attuale –

Nel 1960 Giovanni XXIII portava a rapida conclusione i lavori del primo Sinodo diocesano romano condotti dal vicariato di Roma. Nella legislazione diocesana trovò posto ovviamente la “pratica” dei sacramenti e in particolare, per noi ora, la prima comunione dei bambini.

Interessano il nostro argomento gli articoli sinodali dal 418 al 426. Danno indicazioni su molti aspetti: l’età da scegliere (418), gli obblighi del parroco e dei genitori (419), la solennità della celebrazione (420-421), comunità e celebrazione (422) ecc. Limitiamo la nostra attenzione all’art.423: la preparazione dei bambini. Riconosciamo che eventuali impostazioni diverse nella materia degli altri articoli porterebbero non poche varianti all’aspetto che noi consideriamo. Tuttavia la “preparazione” così com’è stata concepita coinvolge a nostro parere tali problemi che val la pena di approfondire le implicazioni attuali pur in presenza di possibili (ma non ancora sufficientemente enucleate) variazioni provenienti da cambiamenti in altri campi (p. e. l’età dei comunicandi, gli agenti della preparazione). Del resto pensiamo che anche dall’esame dell’articolo in questione possano ricavarsi ampie sollecitazioni ad evoluzioni complessive. Si vedrà nel corso del lavoro che più volte non è stato neppur possibile limitare l’esposizione ai problemi della preparazione ma si è stati costretti a divagare su altri aspetti, per lo più la celebrazione della “festa”.

Per chi pensa che sia stata fatica sprecata rivolgersi al Sinodo del 1960, la cui autorità non viene più richiamata neppure dall’….Autorità, avvertiamo che abbiamo trovato in esso un punto di riferimento assai pertinente all’esposizione così come noi siamo andati e andiamo a sviluppare, e che esso è assai collegato con la realtà di teoria e prassi in cui si sostanzia il problema delle prime comunioni dei bambini a Roma.

Ecco il testo dell’articolo 423 del Sinodo Romano:

“I fanciulli siano convenientemente preparati alla prima Comunione. Questa preparazione si compirà in tre periodi. Nel primo periodo, della durata di sei mesi, i fanciulli comunicandi vengano iniziati nella pratica della vita cristiana, con la recita delle preghiere, l’assistenza alla Messa festiva, la confessione e l’esercizio di quelle virtù che sono particolarmente necessarie alla loro età. Nel secondo periodo si tenga un corso speciale d’istruzione catechistica quotidiana di almeno due mesi. Nel terzo periodo, cioè immediatamente prima del giorno della santa Comunione, si faccia un ritiro spirituale, possibilmente chiuso, per la durata di almeno tre giorni. (Fra le altre Case di esercizi per ragazzi, sono da ricordare: Cappellette di S.Luigi in Via Liberiana 21; Opera Pia di Ponterotto in Via dei Vascellari 61; Opera Pia Michelini in San Pasquale in Via Anicia 13)”.

Ci pare di poter confermare che la lunga esposizione della prima parte ci dispensa da spiegazioni laboriose. Il testo sinodale mostra in spaccato la stratificazione di tutti i periodi precedenti. C’è il rispettoso richiamo dei tre venerabili luoghi di esercizi (citati in nota a pié di pagina, con un procedimento curioso per un testo di legge), c’è la trasposizione del loro modello in parrocchia sotto forma di ritiro finale chiaramente pensato in quella chiave (“Tre giorni”, “possibilmente chiuso”), c’è il periodo quaresimale quotidiano dei vecchi parroci romani (diventato “almeno due mesi”, “nel secondo periodo”), c’è infine il corso annuale (il “primo periodo della durata di sei mesi”) secondo la proposta della parrocchia della Natività e di alcune altre.

La introduzione di quest’ultimo elemento fece dell’articolo sinodale in questione uno dei pochissimi nei quali venne indicata una qualche novità rispetto alla prassi corrente nel 1960. Infatti per tutto il resto il Sinodo si limitava a raggruppare quanto già esisteva nella scarsa legislazione precedente e nella vita quotidiana della diocesi. Del resto anche questo articolo mostrava ad abundantiam la volontà di non dimenticare proprio niente e nessuno.

L’articolo tuttavia non si poté limitare ad una educata menzione del passato e del trapassato, perché doveva aggregare in qualche modo materiale troppo eterogeneo. Vedendosi costretto a racchiudere ogni cosa in un solo articolo di codice dovette per forza di cose impegnarsi ad una certa ricomposizione di metodi e contenuti. Ne venne una proposta globale, una specie di piano generale della preparazione, ottenuto mettendo in fila per uno tutti i piani precedenti.

Si configurò così quel caratteristico crescendo rossiniano che contraddistingue sempre più la preparazione i prima comunione: il procedere verso il fatidico giorno con un ritmo di riunioni progressivamente più frequente. Si tratta di un aspetto poco considerato e invece assai caratterizzante. Provoca ad es. quella tensione montante verso l’acme della festa, verso “il giorno più bello della vita” ormai indilazionabile, verso un termine, una scadenza, un appuntamento sociale di clan sul quale si concentra si afferma e si difende l’onore della famiglia e la dimostrazione delle sue possibilità, e dove si scaricano volatilizzandosi le preoccupazioni “educative” di genitori e preti.

Del tentativo di sistemazione generale compiuto dal Sinodo, va però evidenziata oltre alla già indicata unificazione di tutta la materia, ottenuta almeno in voto, un’altra qualità positiva e assai valida. Eccola.

Il Sinodo comincia col prospettare un periodo di sei mesi in cui i bambini devono essere “iniziati nella pratica della vita cristiana” con la preghiera, la messa festiva, la confessione, l’esercizio delle virtù. Solo dopo viene il periodo di due mesi cui si attribuisce una più ordinata catechesi (migliorando però noi le frasi del Sinodo che parla di “recita delle preghiere” “corso speciale di istruzione catechistica”). Fermiamoci un momento a considerare questi due periodi e il loro rapporto reciproco. Invero era già in precedenza cosa naturale ai singoli operatori pastorali proporre una formazione secondo differenti punti di vista, dipendentemente dalle diverse impostazioni pastorali e teologiche che avevano animato le antiche prassi. Si diceva (La Tenda, n. 42, Pg.10) che tendenzialmente il “catechismo” era impostato sul modello di un corso intellettuale secondo la mentalità sistematica intorno a Pio X (da chi è Dio… Gesù… I Comandamenti… i Sacramenti…). Sulla fine della preparazione si accodava un’appendice regolata secondo l’impostazione pietistica di tradizione romana. In questo senso aveva orientato le cose il tentativo unificante che gli operatori pastorali di base erano stati costretti in qualche modo a fare tra Pio X (1900) e il Sinodo (1960, vedi a proposito la lunga esposizione della prima parte).

Il Sinodo, tentando un momento di riflessione globale, insiste nell’unificare le due esigenze mentalità-prassi, ma compie una inversione piena e, pare, abbastanza cosciente. Indica come preliminare la costituzione nel bambino di una piattaforma di abitudine alla preghiera, di frequenza alla confessione, di ascesi. Il Sinodo appoggia tale programma di formazione al periodo annuale proposto dalla parrocchia della Natività, periodo che così modificato nella sua natura originariamente più catechetica entra nella legislazione diocesana. Al periodo terminale di due mesi (che prima era il periodo lungo) il Sinodo riconosce il compito di riassunto sistematico della dottrina.

Allo scopo di visualizzare le modificazioni successive indichiamo il seguente quadro, schematico oltre misura.

  1. SINGOLE IMPOSTAZIONI ANTICHE (Pre-1900)
  2. Pietistica (= tipo A) (modulo di Ponterotto)
  3. Catechistica (= tipo B) (modulo parrocchiale)
  4. PRIMA FUSIONE AD OPERA DEGLI OPERATORI PASTORALI DI BASE (1900- 1960)
  5. Sei mesi di catechismo (piuttosto di tipo B) – (Parrocchia della Natività 1950-1960)
  6. Due mesi di catechismo (tipo B)
  7. Tre giorni di ritiro (tipo A)
  8. PROPOSTA SINODALE (1960)
  9. Sei mesi di formazione (tipo A)
  10. Due mesi di catechismo (tipo B)
  11. Tre giorni di ritiro (tipo A)

Lo schema suesposto è del tutto approssimativo. Per esempio anche prima del 1900 il modulo parrocchiale romano (2) non era solo catechistico ma risentiva dell’attrazione del modulo di Ponterotto. E dopo il Sinodo il periodo di sei mesi (1) non è solo ascetico-moralistico. In pratica poi ogni operatore pastorale risentiva e risente della propria predisposizione e formazione personale, in nessun luogo differenziata come a Roma.

Torneremo ad esaminare la legislazione corrente. Giova intanto aver avvertito che anche nel pedissequo rispetto di tutte le forme del tempo e del passato il Sinodo riusciva ad indicare nel 1960 una secondo noi più corretta impostazione del pre-sacramento.

Va ripetuto infine per completarne la presentazione che l’articolo in questione è tra i rarissimi che si ponga come traente rispetto alla prassi del tempo. Rilievi più negativi ne faremo, tuttavia l’aver proposto una preparazione assai prolungata e il citato modo rovesciato in cui viene visto l’approccio del bambino alla vita cristiana fanno dell’art. 423 uno dei pochi ai quali ancora oggi molte parrocchie potrebbero utilmente guardare

  • 2. Prassi –

“Il va sans dire” che una presentazione della prassi corrente (1960-1973) quanto a prime comunioni e loro preparazione nella città di Roma è cosa assai difficile. Cercheremo appena di mostrare sotto diversi aspetti alcune diversificazioni originarie che aiutino a comprendere come mai esistono a Roma prassi di preparazione tanto eterogenee tra loro.

  1. i luoghi della preparazione. Il luogo statisticamente emergente è senz’altro la parrocchia. La gran parte dei bambini viene ivi preparata ed ivi ammessa al Sacramento. Le parrocchie rispettano in parte la preparazione sinodale di otto mesi (70-80% ? Da ora in poi tutte le cifre porteranno un interrogativo. Si tratta di indicazioni estimative, il condizionale è d’obbligo. Valutazioni più precise vorrebbero che si potesse accedere ad eventuali studi o ricerche che dagli uffici competenti del vicariato speriamo compiuti ma non vediamo pubblicati). Al catechismo Parrocchiale si iscrivono in media 200-300 bambini per parrocchia (ma questo dato va letto alla luce della tabella pubblicata in La Tenda, n.2, pag.9, dove sono indicate le differenze quantitative tra le parrocchie romane oscillanti tra 1.000 e 80.000 abitanti). La parrocchia si limita a raccogliere le iscrizioni di chi si presenta spontaneamente, e ne ha abbastanza. In parrocchia non si è generalmente nella condizione di spirito di dispiacersi se il numero dei bambini presentati cala di anno in anno, come sembra e con velocità crescente. Né pare che esistano preoccupazioni per avvicinare ad una qualunque catechesi parrocchiale bambini che i genitori non presentano (mentre è pure quasi cessata la presa degli oratori e delle associazioni. Urgono dati). Frequenti nelle parrocchie le iscrizioni in ritardo (20-25 % ?) rispetto al momento d’inizio che, come si diceva, solo in parte delle parrocchie (70-80 %) è il mese di ottobre imposto implicitamente dal Sinodo con la richiesta di otto mesi. Massiccio anche il fenomeno delle assenze durante la preparazione, e così parte rilevante dei bambini (20-30 % ?) giunge alla comunione avendo partecipato a circa due terzi delle riunioni. Passano a comunione quasi tutti gli iscritti (80-90 %). Quanto più la preparazione è ordinata sul piano formale tanto più nel numero di esclusi confluiscono i ragazzi “difficili” (quelli che per naturale inclinazione o per educazione non tollerano libri, quaderni, riunioni periodiche ecc., e ciò particolarmente nelle parrocchie popolari…..).

Dopo la parrocchia nominiamo le scuole elementari private di religiosi e religiose. La preparazione in detti luoghi sembra presentare le seguenti caratteristiche. Buoni indici di accuratezza formale, scarso assenteismo dei bambini (le preparazioni sono talvolta in orario scolare). Carente invece il rapporto con la comunità parrocchiale cui pure il bambino dovrà rivolgersi esaurito il ciclo scolastico. Ad esempio si insegnano canti e preghiere diversi da quelli usati nella parrocchia e quindi inutilizzabili. Carente anche l’aspetto vitale della catechesi che è piuttosto recepita come pertinente l’ambito scolastico. Quel che c’è è piuttosto di impostazione intimistica e prepara la via a religiosità adulte disancorate dalla chiesa e dall’impegno nel mondo. Buona parte delle prime comunioni in età immatura, 6-7 anni, sembra avvenire nelle scuole private. Aspetti deteriori di convenienza sociale sono spesso assai evidenti: apparato scenico, show di guardaroba, ambiente sociale rarefatto. Anche in forme raffinate: celebra il “cardinale”, cappella superaddobbata, posti riservati, ecc. Più direttamente quanto a preparazione c’è spesso uno sforzo di incontrare i genitori, ma col grave handicap di un dialogo religioso individualistico senza sbocchi comunitari.

In terzo luogo dopo parrocchie e scuole nominiamo i collegi di bambini infermi,gli istituti di minorati, di rieducazione, carceri, collegi per orfani, preventori e simili, in genere a carico dello Stato (ora Regione) e nel quale siano eventualmente religiosi, suore o cappellani. Mancano evidentemente gli aspetti snobistici della categoria precedente. Si assiste ad un rilevante sforzo catechetico, specialmente ad opera delle suore, un po’ meno dei cappellani. Il procedimento è talvolta massivo, a contenuto piuttosto tradizionale (caechismo di Pio X, pratiche di pietà e devozioni di estrazione paesana). In genere nessuna azione verso eventuali genitori o parenti che quindi neppure in questa occasione vengono posti a contatto con le comunità (parrocchiali) cui dovrebbero far capo. Notevole anche qui il numero di bambini piccolissimi con la complicazione che avendosi forti ritardi scolari i bambini sono privi del normale mezzo di apprendimento della lettura. Va detto però che in questi luoghi si compie un minimo di evangelizzazione e catechesi verso i bambini disadattati ritardati handicappati, una categoria che, dicevamo, la parrocchia tende a marginalizzare tra i “respinti” al termine dei suoi corsi “normali”.

Un quarto ed inatteso luogo di prima comunione è il …posto di lavoro paterno. Cappellani del lavoro ACLI e ONARMO organizzano cerimonie di prime comunioni in grandi aziende statali parastatali e private. La preparazione dei bambini è demandata alle parrocchie e ci si concentra nel predisporre il giorno della festa. Ivi atmosfera dopolavoristica, dirigenti dell’azienda, vescovo, regali della ditta, capufficio-padrino. La preparazione logistica è dettagliata: ad inizio d’anno il padre comunica la futura (e certa) prima comunione del figlio, possibilità di trattenute sullo stipendio per il vestito la stampa degli inviti il pranzo sociale, un procedimento simile a quello della befana per i dipendenti. Invero abbiamo argomentato in base a pochi casi a nostra conoscenza che possono ben essere marginali ma che tendono a crescere in dipendenza della costanza dei cappellani, della maggior esigenza che si ha in alcune parrocchie e del lievitare di quei fenomeni parareligiosi tanto cari alla pastorale di massa. Anche le antiche case di esercizi, udite udite, trovano nei gruppi aziendali qualcosa da fare giacché questi ad esse si rivolgono per gli immortali “tre giorni di ritiro”. C’è una provvidenza per tutti, e anche le istituzioni più stagionate finiscono per trovare l’anima gemella !

Nominiamo in quinto luogo le associazioni religiose, confraternite, congregazioni mariane, gruppi di scouts, che ancora talvolta organizzano preparazioni e prime comunioni per gli iscritti o i loro figli.

Terminiamo l’esposizione dei luoghi di preparazione senza presumere di aver esaurito il panorama di una città come Roma, dove c’è sempre qualche altra cosa in più. Discorsi a parte meriterebbero le prime comunioni nelle carceri degli adulti o durante il servizio militare. Meglio tacere sulle prime comunioni nelle arcibasiliche di S.Pietro in Vaticano e simili e nel Santuario del Divino Amore e simili.

b) Mischiamo tutto e riordiniamo nuovamente la materia prendendo come punto di vista i contenuti della preparazione alla prima comunione. Quanto dicemmo nella parte storica di questo lavoro (La Tenda, n.42) andrebbe qui ripreso e dosato con riguardo alla situazione attuale.

Cominciamo col dire che le prospettive originate nei vari secoli o periodi sussistono in alcuni luoghi addirittura allo stato chimicamente puro. Ciò vale anzitutto per i luoghi più riparati dal vento delle novità, cioè le case di esercizi, certe case religiose, associazioni a tipo di confraternita, ecc. Ma anche tra le parrocchie sappiamo di una in cui si è richiesta fino ad oggi la memorizzazione totale del catechismo di Pio X come prerequisito all’iscrizione per la preparazione finale (è il vecchio modulo catechistico). D’altro canto ce ne sono in cui si accettano bambini ancora tre o quattro giorni prima della celebrazione “purché facciano bene il ritiro chiuso” (è il modulo di Ponterotto). Persiste allo stato puro anche la mentalità che in fondo basta quel poco che si può ottenere, e l’esempio a svendere viene ben dall’alto: in alcuni luoghi circa i quali poco fa dicevamo fosse meglio tacere viene accettato p.e. chi porta una qualunque carta scritta, anche se dice solo che il bambino va a scuola dalle suore o che il parroco non si oppone a che lo prepari un altro o che il bambino assolutamente non è preparato…dove la mentalità totalmente magica (un sacramento fa sempre bene) si sposa con il romano fascino della carta comunque stampata.

All’altro estremo, sempre per quanto riguarda i contenuti, ci sono alcuni che sperimentano preparazioni assai complesse ed impegnative. In molti casi a sfondo biblico e liturgico, con abbandono totale delle formule catechistiche e anche della terminologia tradizionale (sono ormai desuete parole come grazia peccato mortale e veniale precetto obbligo fuoco dell’inferno limbo. Si cercano nuovi vocaboli per esprimere i concetti corrispondenti nel caso siano ritenuti ortodossi). Si preparano qua e là nuovi testi per i bambini, talvolta si elimina ogni sussidio per tornare a Bibbia e Vangelo. Si preparano in qualche caso testi per i genitori per metterli in condizione di collaborare alla preparazione dei bambini. In qualche luogo si prolunga la preparazione per due anni.

La maggioranza degli operatori pastorali si ritira naturalmente nell’ampio spazio esistente tra questi due poli. Generalizzando assai si può affermare che i più restano aderenti ad una scolastica presentazione del credo (Dio e i suoi attributi, Gesù e la sua vita, i nuovissimi), qualcosa sul concetto di Chiesa, una certa preparazione più biblica o più rituale della Messa, una presentazione della dottrina tradizionale sulla confessione e Comunione. Qualche po’ di Vangelo e di Bibbia. Poco canto. Il tutto in miscele fortemente variabili a seconda della mentalità e formazione dei catechisti. Non sembra sia stata presa in sufficiente considerazione la raccomandazione dell’art.423 a sviluppare fin dall’inizio un’educazione alla preghiera e all’ascetica. Piuttosto emerge in più luoghi l’attenzione a metodi didattici attenti alla psicologia (lavori di gruppo, metodo attivo, induttivo) e in qualche luogo una presentazione del messaggio evangelico in chiave sociale.

Soprattutto nella larga fascia intermedia che dicevamo, e che è preponderante, si ha per lo più come scontato che si debba provvedere ad una preparazione generale su tutta la dottrina cristiana(nei significati che ciascuno dà a questa parola). Da alcuni si dice anche esplicitamente che la prima comunione è per molti cristiani l’unica occasione per “apprendere” qualcosa della dottrina, Bibbia, Chiesa, Messa e Liturgia, morale e ascetica (quel minimo di bagaglio culturale occorrente per orizzontarsi quando da grandi sentiranno parlare di cose di Chiesa).

In ogni caso il presupposto che ci sia “un programma da svolgere” è sullo sfondo di quasi tutte le preparazioni, anche negli agenti più avvertiti e maturi. In conseguenza ognuno si mette per la via di trenta-quaranta lezioncine in cui si trattano gli argomenti prestabiliti, le parole-chiave, passando dall’una alla successiva senza soste. E senza supplire eventuali lacune per assenze o per altre esigenze personali dei singoli bambini i quali presentano talvolta situazioni interiori che richiederebbero specifica attenzione e soste prolungate.

Detto quanto sopra sul contenuto della catechesi di prima comunione ci pare già maturo il momento di porre alcune domande di fondo sempre a riguardo del contenuto stesso.

Prima domanda: a qual punto della crescita di fede del bambino ci si vuol porre con la preparazione di prima comunione ? Cioè quale livello di fondo deve essere già stato creato nel bambino perché si parli di una preparazione prossima alla prima comunione ? L‘intuizione del Sinodo che sdoppia la preparazione in due tempi sembra la miglior di quelle a disposizione. Si tratterebbe di avere un primo periodo di formazione e conversione (sì, conversione). Se il bambino non è in grado di avvertire che deve essere perdonato, salvato da Gesù Cristo e se non è in grado di sviluppare l’embrione di una risposta, di una “sequela Christi”, non c’è la materia prima per fede e comunione. Concluso questo primo periodo si passerebbe ad un secondo tempo di inquadramento catechistico più sistematico. Così il Sinodo. Ovviamente il primo periodo andrebbe inteso di lunghezza variabile, a seconda dei singoli ragazzi. Guai se fosse stabilito che sei mesi di annuncio o di quel che si vuole hanno una intrinseca capacità abilitante al periodo successivo. Purtroppo uno stato interiore (la formazione) e l’indicazione del corrispondente strumento catechistico (una catechesi) possono essere erroneamente intesi come un’entità oggettiva, un tot numero di lezioni, fatte le quali il risultato, cioè la formazione di fondo del ragazzo, si debba ritenere necessariamente avvenuta. A questa deviazione concorre l’inserire indicazioni pastorali in articoli di legge, per quanto relativamente soffici come quello che consideriamo. Si crea così un fenomeno tanto grave quanto curioso: che l’idea che certi effetti si producono “ex opere operato” si trasferisce dall’atto sacramentale ad… uno stadio della sua preparazione ! Poco di strano che da tale concezione prendono le mosse quei genitori che richiedono la comunione dei figli dopo una preparazione comunque avvenuta. Più sorprendente e significativo che su tale via si mettano i vescovi che spingono l’evoluzione della prassi sacramentale italiana sulla via della costituzione di catechesi preventive e non anche (per carità) sull’ipotesi di una verifica, di un giudizio da parte della comunità, del catechista o del prete sulla conversione, sul frutto di quella catechesi.

Seconda domanda: su quale piano (biblico, liturgico, ascetico, catechistico, morale) si pone, almeno prevalentemente, la preparazione di prima comunione, e quali parti di quelle materie vanno presentate ai bambini ? Ed eventualmente quali piani e parti vengono piuttosto rimessi al successivo partecipare alla Messa domenicale con la sua omelia, o al catechismo della Cresima e del Matrimonio ? E cosa deve essere già supposto come frutto della catechesi familiare della prima infanzia ? (intendiamo il periodo fino a 6 anni, per il quale ad es. i vescovi hanno ultimamente edito un catechismo ovviamente diretto ai genitori. E se il bambino viene presentato al catechismo di prima comunione senza aver avuto in famiglia alcuna preparazione precedente ?).

Si può obiettare che è puramente accademico dividere il catechismo in parti e distribuirle alle varie occasioni catechistiche, perché bisogna invece procedere per approcci globali successivi. Naturalmente siamo anche noi di questa opinione, almeno se i due metodi vengono contrapposti frontalmente, ma anche nel caso del metodo globale sembra necessario che gli agenti pastorali si interroghino sul livello di preparazione da raggiungere nelle singole tornate.

Queste domande, tra altre, sembra non abbiano ricevuto ancora un’attenzione diretta (se non finalmente alcune nel recentissimo documento dei vescovi italiani su “Evangelizzazione e Sacramenti”, vedi “Il Regno” 1973, n° 15, pag. 396 sg.). Tale documento che rende da sé solo superato tutto l’ambito nel quale si pone la prassi sacramentaria della chiesa italiana attuale verrà da noi preso in considerazione nella quarta parte di questo lavoro. Il documento pubblicato con forte ritardo dopo la conclusione dell’incontro di tutti i vescovi italiani è passato inosservato al grande pubblico. Pur con i soliti limiti dei documenti episcopali italiani (autocelebrazione, culto della continuità, equilibrismo, ecc.), esso cambia o permette di cambiare totalmente i fondamenti della prassi sacramentaria in Italia).

c) Il Testo di preparazione. Sono usati attualmente a Roma tutti i catechismi in commercio, dal catechismo di Pio X in poi. Alcune parrocchie poi usano testi ciclostilati dal clero locale, alcune poche usano il Vangelo o la Bibbia. Alcune ancora dettano appunti su quaderni.

Su questo argomento diremo più a lungo in seguito.

  1. Brevemente alcune note circa le forme esterne della preparazione. Per lo più ci si regola come appresso. Gruppi di 10-30 bambini a riunioni in genere bisettimanali, in certi luoghi da ottobre-novembre, in altri (già contro il Sinodo) da gennaio, in altri ancora dalle Ceneri. In quest’ultimo caso le riunioni sono talvolta più frequenti (tre o cinque per settimana). Le riunioni sono generalmente feriali e si trascura di riunire i bambini la domenica (!) o li si invita ad una generale “messa dei ragazzi”, dove questa ancora sopravvive. Solo in alcune parrocchie (due ?) ci sono celebrazioni apposite per bambini e genitori nelle quali non si celebra la Messa ma si compiono “paraliturgie” catechetiche.

La continuità nella preparazione. Quasi dappertutto si fanno larghe eccezioni al termine iniziale delle iscrizioni. Spesso chi trascura l’iscrizione in tempo è anche chi trascurerà abitualmente le “lezioni”. Il numero dei ritardatari è elevato. Si aggiungono quelli che faranno assenze prolungate per malattia, o intermittenti per disordini familiari e per ragioni varie, o periodiche per altri impegni (“ogni giovedì il bambino va a nuoto”, “ogni sabato a inglese, ogni domenica al paese”, ecc.).

Si raggiungono percentuali molto alte (forse 30-40 %) di bambini che verranno ammessi alla comunione dopo preparazioni segmentate o con larghe zone d’ombra anche sul pur tanto valorizzato piano delle “conoscenze religiose”.

La catechesi assume quasi sempre forma di lezione orale talvolta con compito a casa. Evidente il pericolo dell’indirizzo “conoscitivo” che il bambino può attribuire e attribuirà per sempre al fatto religioso: per comunicarsi, per essere cristiani basta “sapere”. Dopo venti anni vengono i frutti: “il mio bambino è intelligente, anche se non viene al catechismo lo imparerà presto lo stesso e farà la comunione”…

e) gli agenti della preparazione. Preparano i bambini di prima comunione soprattutto religiose e giovani. Diremo anche di genitori e maestri.

È troppo difficile dare valutazioni anche sommarie sulle singole categorie di operatori. Esiste la maggiore varietà possibile. Si può tentare qualche affermazione puramente indicativa ?

I preti (specialmente delle parrocchie) dirigono i corsi, tengono le preparazioni dei catechisti e le riunioni dei genitori, guidano le liturgie plenarie. Solo in rari casi guidano direttamente un piccolo gruppo di ragazzi. Presentano il più delle volte una certa deformazione scolastica proveniente dagli studi. Sono in genere autodidatti quanto a dialogo catechetico infantile. Per le quali ragioni si comprende come rifuggano dal fare personalmente la catechesi ai piccoli e preferiscano…preparare quelli che la faranno….

Meglio predisposte le suore. Ma presentano talvolta un’impostazione arretrata, poco critica e poco dialogica. Il loro lavoro in genere assai accurato, nei casi di avvenuto aggiornamento è anche aderente alla necessità di una adeguata catechesi.

I giovani (“catechisti”) presentano caratteristiche che meritano un breve cenno. Cala in genere tra i giovani la predisposizione ad impegnarsi nel fare catechismo, le loro preferenze vanno ad impegni sociali politici culturali di quartiere ecc. È più facile che accettino di raccogliere cartoni o di fare doposcuola che di collaborare a presentare la parola di Dio. Grave sarebbe se ciò dipendesse da squilibri nel loro personale approccio alla fede, e anche grave sarebbe se colpa fosse nella chiesa che spinge i giovani a saltare una collaborazione istituzionale inquinata per favorire impegni più direttamente evangelici.

Quelli che si impegnano nel catechismo non durano spesso più di un anno, mostrando di aver dato seguito più ad una giovanile necessità di fare esperienze che alle richieste oggettive di una comunità stabile. Spesso si presentano (e vengono accettati) forniti solo di buona volontà e la loro formazione (o addirittura l’apprendimento di quel che devono trasmettere) avviene contemporaneamente per loro e per i bambini. Rari quelli che giungono ad una reale e sperimentata capacità catechistica. Quando vi giungono, l’impegno del matrimonio o del servizio militare o di studi particolari o di lavoro li toglie dal giro. È illusorio pensare di fondare esclusivamente su giovani una qualunque istituzione stabile della comunità cristiana e quindi anche la catechesi sacramentale.

Drammatica la situazione dei genitori dei bambini. Quasi totalmente inutilizzabili ad ogni preparazione che non sia quella del vestito da cerimonia. La preparazione remota che forniscono ai bambini è piuttosto la base dell’abbandono della fede e della Comunione. Nei casi “migliori” sono contenti di sé quelli che li hanno mandati a scuola dalle suore, badando naturalmente a smorzarne le “esagerazioni” educative. Rari i casi di abitudine costante alla messa domenicale da parte di entrambi i genitori.

È chiaro che qui siamo davanti ad un punto di capitale importanza. Una catechesi del tipo indicato dal Sinodo per il primo periodo (formazione interiore alla preghiera ecc.) non può che pretendere nella famiglia il più grande punto d’appoggio, per non dire della catechesi della prima infanzia, oggetto del recente catechismo episcopale di cui si parlava. Quindi bene si fa dove si chiede ai genitori di partecipare all’educazione cristiana dei bambini. Ma di fatto i genitori sono nella condizione pietosa che sappiamo…. Un circolo vizioso? Alcune parrocchie fanno tentativi per spezzare il cerchio nei due punti opposti. C’è dove si è tentato di subordinare la prima comunione ad una collaborazione dei genitori nell’insegnare parte del programma (in genere cose minime: la recita delle preghiere, la costruzione e spiegazione di un presepio, qualche lettura e spiegazione di parabole evangeliche). E c’è dove si fa correre accanto alla catechesi dei bambini una corso parallelo di catechesi per adulti. Le due vie sembrano corrispondere ad esigenze ugualmente perentorie. Torneremo sull’argomento.

Quanto ad utilizzazione dei genitori come catechisti in alcune parrocchie (cinque-dieci ?) si sono sperimentate le catechesi domestiche (un esperimento di origine francese, le “mamans cathéchistes”). Un piccolo gruppo di bambini abitanti nello stesso palazzo o nelle vicinanze viene riunito e affidato ad una coppia di sposi o ad una madre. Il tentativo si inserisce bene nel panorama conciliare di restituzione di competenze ai laici, nel caso con lo sviluppo delle capacità fondate sul sacramento del matrimonio. Le famiglie sono più stabili dei giovani e in ogni caso si affinano così forze qualificate per il futuro della comunità cristiana, quale che sia. Quanto a funzionalità attuale l’esperimento è esposto a un grave handicap. Si domanda: fatta la prima comunione la coppia resterà legata per continuare la catechesi al gruppo che ha preparato ? Ma allora la parrocchia esaurirà in breve le persone disponibili e per gli anni successivi dovrà ricorrere nuovamente alle solite fonti (giovani, suore, preti). Oppure la coppia di catechisti prenderà ogni anno un gruppo diverso ? Allora anche questa nuova classe di catechisti andrà a ricadere sul denominatore parrocchiale del professionalismo anonimo. Solo in parrocchie di dimensioni ridottissime l’applicarsi a classi di bambini diverse di anno in anno troverebbe il contemperamento di un incontro con gli ex-alunni degli anni precedenti durante liturgie domenicali a livello umano (immaginate parrocchie con un’unica messa domenicale….).

Poco da dire sui maestri di scuola dai quali qualcuno potrebbe sperare una collaborazione remota dal momento che essi hanno possibilità di svolgere un programma ordinato di insegnamento religioso. Più spesso quel programma non viene neppure svolto (50% ?) o viene diluito nel folklore (“tema: Passeggiando nelle vie nei giorni di Natale”) o nell’aneddotico (“riassunto: Il pettirosso e le spine di Gesù”). Più di qualche maestro lavora positivamente a distruggere il fatto religioso (10% ?). In genere ci si ritiene a posto lasciando la cattedra al prete della parrocchia che passa ogni settimana di classe in classe (dove ciò ancora avviene).

Ci sono anche maestri assolutamente capaci che nelle loro classi fanno un vero e proprio annuncio cristiano a bambini in parte figli di infedeli. Siamo appunto a livello di missione e tali casi andrebbero studiati e approfonditi in se stessi rappresentando una nuova situazione e quindi nuovi problemi nella chiesa; non sono certo questi ottimi casi a giustificare certe presunzioni di funzionalità catechistica dell’intera classe dei maestri di scuola.

Concludiamo dunque la seconda parte di questo lavoro: quale è la situazione della preparazione alla prima comunione a Roma oggi ? Dopo tutto quel che abbiamo scritto è ancora impossibile dirlo. Infatti la realtà è formata da tutte le combinazioni possibili tra gli ingredienti finora descritti, che entrano in rapporto secondo tutte le loro gradazioni. E per di più la realtà è in movimento continuo. Un catechismo diverso, un nuovo parroco, un esperimento da fare o da correggere e tutto cambia.

Ma allora un’idea, un’impressione è possibile ? Solo affidandosi alla somma di percezioni, di notizie e giudizi particolari a disposizione di ciascuno, unificati in una specie di intuizione artistica.

E l’impressione generale che abbiamo noi dopo tanto raccogliere è che la preparazione dei bambini di prima comunione sia in una condizione di profonda confusione e grave malessere.

Perciò ci sentiamo di concludere questa parte con l’amara citazione di un libro che ultimamente ha aperto squarci di conoscenza della situazione infantile a Roma, “Un anno a Pietralata”, diario di un maestro, di Albino Bernardini (dal quale libro è stata anche tratta una serie di trasmissioni televisive sulla scuola primaria e le borgate in Roma).

Capitolo 18: COMUNIONE E CRESIMA

“Verso la fine di aprile cominciarono i preparativi della comunione e della cresima. Quando suonava il campanello della fine, i bambini erano sulle spine perché dovevano andare alla lezione di catechismo. Il prete minacciava di privare della comunione i ritardatari. Un giorno che i ragazzi insistevano più del solito perché si facesse svelti ad uscire, dissi che il primo interesse della vita deve essere il lavoro; e, siccome per loro il lavoro era lo studio, prima si doveva fare bene la scuola e poi tutte le altre cose.

“Sor maé”, gridò preoccupato Gianni, uno dei sei che dovevano fare la comunione, “a scuola nun ce fanno mica li regali, alla comunione sì; e se io nun la faccio chi me dà l’orologio ?”

“Allora fai la comunione per l’orologio ?”

“Embè ?”

Quando mancava poco tempo al giorno fissato si cominciò a parlare di tre giorni di riposo. Non riuscivo inizialmente a capire di che si trattasse, fino a quando si spiegarono che avrebbero dovuto passare tre giorni in chiesa per prepararsi degnamente alla prima comunione. Non mi preoccupai perché pensavo che si trattasse delle ore libere dalla scuola.

“Non credo”, dicevo tra me “che proprio adesso facciano perdere tre giorni di scuola”.

“Qui si usa così”, mi spiegò Giancarlo, anch’egli impegnato nei preparativi, “dobbiamo stare giovedì, venerdì e sabato in chiesa, per non far peccati, dalla mattina alle otto fino a mezzogiorno, poi andiamo a mangiare, e all’una di nuovo in chiesa fino alle otto di sera”.

Mi sembrava impossibile e chiamai una madre dei cresimandi che mi confermò la cosa.

“Senta”, le dissi, “ma non si potrebbe far fare la comunione e la cresima senza allontanare il bambino da scuola in questo periodo ?”

“È vero, sor maé”, rispose, “ma se non lo mando non gli fanno fare la comunione, e lei forse non sa cosa vuol dire questo per uno come mio marito !”

Non ci fu niente da fare. Ne parlai anche col prete, ma mi rispose che l’usanza era quella e non si poteva cambiare. Così per i miei sei alunni, a tutte le abbondanti vacanze del nostro calendario scolastico e a quelle che all’inizio avevano fatto loro, se ne aggiunsero altre tre per la comunione.

Il lunedì portarono a scuola tutti i regali ricevuti: orologi, anelli, ciondoli, cornetti, catenine con medaglie e numerosi tredici, altre cianfrusaglie che ora non ricordo, persino qualche falce e martello; tutto in oro. Era un vero spasso vederli; guardavano i doni e sorridevano, se li misuravano e li toglievano, se li scambiavano e commentavano: “il mio è più bello, il mio più pesante, il mio più grande, il mio è d’oro !”

Portarono anche le bomboniere per me, per quanto sapessero che io non accettavo regali. Ne avevamo parlato tanto all’inizio, sia con loro, sia con le mamme, che non sapevano come fare, per darmele. Fu Giancarlo che prese il coraggio a due mani e disse:

“Ha detto mamma, sor maé, che questo non è un regalo, ma un ricordo”.

Le accettai, alla condizione che si mangiasse il contenuto in classe, tutti insieme, e le bomboniere rimanessero a scuola. Così dividemmo i confetti e conservammo gli astucci.

Anche qui la peste del regalo aveva fatto il suo ingresso. Per Natale, per Pasqua, per i matrimoni, per i compleanni, per gli onomastici, per un collega che arrivava o per uno che partiva, per il direttore nuovo e per quello vecchio che se ne andava: ogni occasione era buona per fare il regalo; insomma, un vero flagello. Io non c’ero abituato, infatti da noi, in Sardegna, soprattutto nei paesi, il regalo ha ancora il significato di scambio di prodotti di natura, non di oggetti comprati. Mi sentivo istintivamente contrario a questa forma di conformismo; volevo evitare che anche i miei alunni, o meglio le loro famiglie, fossero indirettamente costrette a fare sacrifici per me, comprando regali che, tra l’altro, non gradivo. Ma i bambini erano stati talmente abituati che ogni tanto qualcuno veniva con un involtino. Evidentemente sembrava loro una cosa strana che io non fossi come quelli che mi avevano preceduto. Comprendevo il loro disappunto nel dover riportare a casa o mettere a disposizione di tutti quello che, per il bambino, era un candido omaggio per il maestro; ma era per me una questione di principio e non fui intransigente nemmeno una sola volta. Mantenni la stessa intransigenza anche con i colleghi, soprattutto quando si trattava di fare regali ai superiori.

Qualche giorno prima delle vacanze di Natale, ricordo, venne da me un’anziana collega a dirmi che ero stato tassato di mille lire per il regalo di Natale al direttore.

“Ma scusi”, osservai, “io non lo conosco, lo avrò visto due o tre volte in tutto; gli ho parlato, credo, una volta, perché dovrei fargli il regalo ? Proprio perché non diciate che sono sempre il solito “cavagrane” ci sto, a condizione che si regalino dei fiori”.

“Su via, che se ne fa dei fiori ? lasci perdere”, disse la collega tra il serio e il faceto, “lei non sa evidentemente che qui a Roma non si usa ungere le ruote con l’acqua, altrimenti cigolano. Del resto noi non facciamo come in quel circolo di un paese vicino a Roma; non so se lei l’ha saputo ! Si sono raccolte 125.000 lire per fare il regalo di Natale alla direttrice. Senta, senta, sembra una storiella, invece è proprio vera ! Dunque, tutti d’accordo hanno deciso di comperare un collier di centomila lire alla direttrice e con le venticinquenila rimaste un ricordino alla segretaria. Sa che cos’è capitato ?” e intanto rideva per rendere più affascinante la cosa, “la direttrice, quando gliel’hanno portato, ha ringraziato tutti ed era felice; se l’è subito messo. Ma qualche tempo dopo ha saputo che con i soldi raccolti per lei si era fatto anche alla segretaria. Apriti cielo ! Ha chiamato gli insegnanti e glielo ha restituito. Quei poveri colleghi, non sapendo che diavolo fare, l’hanno riportato al gioielliere che, naturalmente, ha chiesto un grosso sconto per riprenderlo, e si sono nuovamente diviso i soldi. Ora, noi non facciamo stupidaggini così”, continuava per convincermi, e intanto mi guardava, quasi a indovinare nel mio sguardo la mia reazione. “Noi preferiamo regalare roba da mangiare che, certamente, data la circostanza, è più gradita, vero ? Che ne pensa ?”.

L’argomento era più irritante che convincente. Non riuscii ad abbozzare un sorriso, neppure per complimento. Il regalo che le colleghe prepararono al nostro direttore, a base di bottiglie, panettoni e dolciumi vari e, per salvare l’apparenza, qualche libro e un vaso con una piantina, era altrettanto discutibile. La discussione che ne seguì fu così vivace che giunse fino al direttore. Con mille scuse accettò solamente il libro. Scornate dal rifiuto e canzonate dal nostro gruppetto, uscirono con il loro carico umiliante come se avessero ricevuto tante bastonate; non se l’aspettavano proprio ! Avevano ricevuto, sì, una severa lezione, ma non per questo cambiarono idea. Troppo radicato era in loro il senso del servilismo ipocrita per poter capire così in fretta. Ma torniamo ai bambini. Avevano ricevuto i doni in occasione della comunione e per loro, forse, era una occasione unica: erano addirittura euforici. Come dopo ogni fatto straordinario, anche stavolta, ognuno raccontò del grande evento le cose che più lo avevano colpito. È questa, a mio avviso, una forma espressiva interessante. In genere, a scuola, al bambino si fanno recitare le poesie, ripetere le storie che racconta il maestro, quelle che si sentono in casa e fuori, che si leggono nel libro di lettura, ma mai, o almeno raramente, la sua storia, quella di cui lui è veramente il protagonista principale, la storia del suo vivere e del suo pensare. Noi, invece, portavamo in classe ogni fatto della vita per criticarlo, condannarlo o commentarlo. Gli scambi continui con l’esterno, come la famiglia, gli amici del ragazzo, la strada o il luogo che maggiormente egli frequentava, rappresentavano per noi la fonte dello stimolo più naturale a cui attingere senza riserva. Quel giorno i ragazzi raccontarono della comunione e assieme ridemmo, e poi scrissero e disegnarono. Nulla però rimase in loro, neppure nel ricordo, di quello per cui si dovrebbe fare questo rito. La comunione rappresentava un autentico “fruttaregali”, l’occasione per fare la grossa mangiata che da tempo sognavano, l’abito nuovo, l’allegria in casa, e nulla più. Ecco alcune descrizioni della festa, da cui è facile cogliere gli aspetti salienti di una cerimonia che dovrebbe rappresentare la gloria e l’esaltazione dello spirito.

Gianni, senza tanti complimenti, come era sua abitudine, venne subito al sodo:

“Appena usciti da chiesa siamo andati a casa e abbiamo bevuto rinfreschi perché faceva caldo. A mezzogiorno eravamo più di venti e siamo andati in una trattoria. Babbo e gli amici erano contenti e bevevano vino e birra, anche mamma beveva, ma lei non si è ubriacata. Tutti mi hanno regalato: mio padrino l’orologio, zio una catenina, zia, la sorella di mamma, una medaglietta…”

“Ieri era una bella giornata”, scrisse Massimo, “perché ho fatto la prima comunione. Mamma mi ha fatto un vestito nuovo. Tutti eravamo vestiti di nuovo. In chiesa di amici nostri non ce n’era, ma quando siamo andati a mangiare era pieno. Abbiamo mangiato molto molto, e poi non si poteva neppure stringere i pantaloni. Babbo, quando mangiavamo, raccontava tante storie, e alla fine con gli amici hanno cantato. Un mio amico ha rovesciato il vino e la mamma gli ha detto: “I conti li faremo stasera a casa”.

Sergio, invece, si curò, oltre che del mangiare , dei regali e degli amici, del viaggio in macchina che fece quel giorno:

“Con la macchina del compare di babbo siamo andati fuori di Roma e abbiamo mangiato in una trattoria in campagna. Si stava bene, c’erano anche molti bambini e abbiamo giocato nel giardino. Quando stavamo andando, la macchina correva forte e io ero vicino all’autista con babbo. L’autista mi diceva: “Vuoi guidare ?” e io dicevo di sì, però non me la dava. Tutte le macchine che ci precedevano le passavamo e quando le passavamo io gridavo: “Aòh, bullo ! a fijo de ‘na…!”. Allora mi’ padre mi ha detto: “Ma che dichi, aòh ! Armeno oggi c’hai fatto ‘a comunione !” (A.Bernardini, Un anno a Pietralata, 1973, pag.111 e segg.)