Lettera 46 (Prima Serie)

 

Cari Amici,

riportiamo in questo numero, una ricerca condotta dal Centro ricerche inserimento handicappati e pubblicata sul n. 5 di “Partecipazione” (il giornale può essere richiesto al seguente indirizzo: 00178 Roma – v. Cassano al Jonio, 14 – Tel.7994784).E’ la viva voce di una comunità di handicappati fisici e di sani che, insieme, realizzano una esperienza di lavoro, di ricerca di valori alternativi e di fraternità. La loro testimonianza è un punto di riferimento per tutti noi, che spesso affrontiamo i problemi degli emarginati con distaccate analisi sociologiche o con atteggiamento di elemosina.

La ricerca che riportiamo può essere utile, tra l’altro, in preparazione al convegno sulle “RESPONSABILITA DEI CRISTIANI DI FRONTE ALLE ATTESE DI CARITA’ E DI GIUSTIZIA NELLA DIOCESI DI ROMA”, in programma per il febbraio 1974. Torneremo sull’argomento, preoccupati come siamo che simili incontri, malgrado la corretta formulazione del tema, finiscano per privilegiare mobilitazioni attivistiche e semplici aggiustamenti dell’attuale apparato assistenziale. Tanto più quando legislazione e prassi amministrativa dello Stato in materia assistenziale sono in profonda crisi e rendono indilazionabile un cambiamento, si può ragionevolmente pensare che un convegno di tal genere abbia obiettivi ben più “concreti” e definiti del tema indicato. Vogliamo sinceramente augurarci che le cose non stiano così e che, nel gettare lo sguardo sull’abisso di esclusione che una città come Roma crea, con la nostra connivenza e per la nostra abulia, noi tutti, cristiani, presbiteri, vescovi, si abbia il coraggio di scegliere la strada difficile della conversione e del cambiamento.

Vi salutiamo fraternamente.

gli amici de ‘La Tenda’

Indagine Su Alcune Istituzioni Per Handicappati Del Comune Di Roma

La presa di coscienza dell’esistenza del problema dell’emarginazione è senza dubbio una grossa conquista considerato che la premessa della emarginazione è la non coscienza della propria condizione e quindi l’accettazione supina di un sistema di valori rispetto ,ai quali si è “esclusi”.

Il tema della emarginazione va, quindi sviluppato a tutti i livelli e soprattutto è necessario che i relativi discorsi assumano sempre più una valenza politica. Proprio perciò a nostro avviso ogni approfondimento sul tema della emarginazione se non è accompagnato da una verifica concreta rischia di rimanere astratto.

L’esperienza che stiamo vivendo ormai da cinque anni a Capodarco ci suggerisce proprio questo: la lotta alla emarginazione, che poi diventa un impegno globale per il cambiamento della società; deve fondarsi sulla conoscenza e sulla esperienza della realtà emarginata; l’ideologia della nostra azione risulterà poi particolarmente pregna di risultati. Parlare di lotta alla assistenza di tipo clientelistico o alla beneficenza vera e propria non ha senso se non si è in grado di cogliere tutte le concretizzazioni di queste logiche, se non si è capaci di seguire tutti i condizionamenti politici, psicologici che regolano la vita di un mondo incontrollato e, almeno per ora, incontrollabile

– Ambito della ricerca –

Il settore che ci riguarda da vicino è quello degli handicappati fisici è, in particolare, delle caratteristiche e del ruolo degli Istituti operanti in questo ambito dell’assistenza.

Le categorie di handicappati sono numerose e come è noto, presentano caratteristiche abbastanza differenti tra di loro; tuttavia tutti hanno in comune l’esclusione da un completo rapporto sociale ed umano, in particolare l’esclusione dal mondo del lavoro, in una società regolata da criteri prevalentemente efficientisti e produttivistici. Sono individui non corrispondenti a quell’immagine di uomo che la società determina, le loro caratteristiche fisiche, psichiche o comportamentali sono diverse dalla norma e questa diversità da loro uno “stigma” che diventa centrale nella valutazione della loro persona da parte della comunità sociale, da cui consegue necessariamente un declassamento ed un’arbitraria esclusione.

Dalla situazione che in questo modo si viene a creare al concetto dell’irrecuperabilità il passo è breve, lo dimostra l’impostazione che nel nostro Paese, ed anche altrove, conserva tuttora la cosiddetta “assistenza e beneficenza pubblica”, che nata dall’opera dai primi ordini religiosi conserva tuttora le stesse caratteristiche di fondo. Da una parte, soddisfacimento dei bisogni più impellenti dell’individuo per farlo sopravvivere, dall’altra funzione di controllo dell’intervento e, quindi, azione di Pubblica Sicurezza. Sono ormai note a tutti le affinità e lo stretto collegamento fra le norme di intervento assistenziale di comuni e province ed il Regolamento di Pubblica Sicurezza e l’azione del Ministero degli Interni, a testimonianza che una delle motivazioni dell’intervento assistenziale è sempre stata quella di liberare la vita pubblica da tutti quegli elementi che inabili, minorati o poveri non si inseriscono nelle normali regole sociali e, quindi, vanno controllati e soprattutto custoditi. Nasce così l’istituzione totale, il cronicario, il ricovero, giustificati come espressione di carità e di solidarietà umana, ma allo stato attuale veri e propri ghetti, mondi differenziali separati dalla società sana o, al massimo, integrati al solo livello di consumo. Abbiamo così i Cottolenghi o le altre Opere di diffusa conoscenza alle quali, d’altra parte, non si può non riconoscere il ruolo di copertura delle enormi deficienze degli interventi pubblici.

– Mancanza di dati ufficiali –

Il settore verso il quale ci siamo rivolti è, quindi, quello degli handicappati psicofisici (non sensoriali) della zona comunale di Roma.

Lungi da noi la speranza di ricavare delle indicazioni dai dati che avremmo raccolto, obbiettivo di solito velleitario in una qualunque ricerca, ma ancor più nella nostra, ci siamo proposti di verificare in linea di massima alcuni giudizi concreti riguardanti gli istituti assistenziali, sia per quanto riguarda la struttura amministrativa, sia per quanto concerne la vera e propria assistenza.

Anche questo obiettivo parziale è stato a mala pena raggiunto. Il primo dato che emerge con sconcertante chiarezza è la quasi assoluta mancanza di dati ufficiali e, in via consequenziale la incredibile difficoltà ad ottenere quei pochi disponibili.

Abbiamo verificato che mancano dati sulle persone assistite, sulle strutture interessate e, ancor peggio, non sono definite da un punto di vista medico le persone handicappate. E’ impossibile conoscere il numero degli handicappati presso lo fonti ufficiali (ISTAT, Ministero Della Sanità, Medici provinciali) né ricostruisce l’entità del fenomeno per settori. Il Ministero della P.I., ad esempio, non conosce il numero degli handicappati in età scolare.

Non bisogna dimenticare, d’altra parte, che le ultime cifre aventi un minimo di attendibilità e più volte riportate, relative alla consistenza del fenomeno degli handicappati, sono quelle fornite dal Prof. Bollea nel 1962, cioè dieci anni fa.

Questo fenomeno, che deriva anche dalla mancanza di una precisa definizione dell’handicappato, potrebbe essere esemplificato da altri casi che hanno certamente dell’incredibile, come quello della clinica universitaria che non conosce, in un dato momento, il numero esatto dei suoi assistiti.

– Metodo –

Di fronte ad una situazione di questo genere non resta che il metodo empirico.

Certamente le nostre disponibilità di uomini e mezzi non sono eccezionali, tuttavia ci sentiamo di affermare che questa incredibile mancanza di dati avrebbe caratterizzato una qualunque ricerca nel settore a Roma.

A livello di strutture, cioè di istituti, la situazione non è più chiara: non esiste una lista ufficiale completa di tutti gli Istituti di Roma. Quelle ufficiali della Sanità e della Pubblica Istruzione non sono aggiornate. Per stabilire il campo della nostra inchiesta dopo aver consultato le “Pagine gialle” abbiamo chiesto nuovi indirizzi di Istituti a quelli nei quali ci recavamo per presentare il nostro questionario.

Sempre a proposito delle strutture è impossibile stabilire una logica nella localizzazione e nel tipo di prestazioni; dalla mancanza di coordinamento, risultano doppioni o istituti che nella stessa via non si conoscono affatto. Tanto meno si potrebbe, quindi, cercare una politica di intervento pensato ed attuato da chicchessia.

Questo è il quadro, paradossale, nel quale ci siamo mossi. Mentre leggine ricorrenti fanno degli italiani un popolo di invalidi che aspetta l8.000 lire al mese per vivere, nessuno sa, e purtroppo pochi hanno serio interesse a sapere, quanti sono gli handicappati. Viene spontaneo pensare a cosa succederebbe se ad un certo momento si volesse riformare il settore; ci si troverebbe di fronte ad un drammatico paradosso: la ignoranza, piuttosto pronunciata, dei dati caratterizzanti il fenomeno impedirebbe per lungo tempo la realizzazione di un tale piano.

Il sistema che abbiamo adottato, rinunciando per il momento ad uno studio sul funzionamento dei singoli Istituti, è stato quello di un censimento delle istituzioni, mediante l’invio o la consegna di alcune schede ed il loro spoglio. Gli istituti censiti alla fine sono risultati n. 29 per un totale di n. 3.698 assistiti di cui 1.959 maschi e 1.739 femmine.

  • Dati –

Un primo dato (Tab. I) di particolare importanza è quello relativo alla netta prevalenza degli Istituti privati rispetto a quelli pubblici. Questo dato se confrontato con quello relativo al pagamento delle rette (Tab. II) suggerisce interessanti considerazioni circa il ruolo del pubblico potere che, nel settore, si limita a sostenere le spese dell’assistenza senza assumerne in prima persona la gestione, lasciandola al privato.

TAB. 1 – CARATTERE GIURIDICO DEGLI ENTI –

PUBBLICO 3 – 2 statali, 1 parastatale

PRIVATO 26 – 8 enti morali

3 società

6 opere caritativo – religiose

9 associazioni di fatto

Dal punto di vista dogli assistiti la tabella III, relativa all’età, rileva che gli Istituti operano soprattutto per handicappati in età scolare, il che potrebbe significare l’avvenuto inserimento degli assistiti, ma invece significa solo disinteresse o comunque non assistenza per gli handicappati più adulti. Questo vuol dire, soprattutto, che non esiste un impegno pronunciato per favorire l’inserimento degli handicappati nella attività lavorativa. Dato confermato anche dalle prestazioni fornite dagli Istituti (Tab. IV). Dal punto di vista del finanziamento le rette vengono pagate in misura nettamente prevalente dal Ministero della Sanità e, in secondo luogo, dalla Provincia, senza che questo però si traduca in un qualunque tipo di controllo o, tanto meno, di coordinamento generale delle attività assistenziali. Dalla stessa tabella si vede chiaramente la confusione di strutture che si ripercuote anche a livello di istituto: in alcuni casi le rette vengono pagate da tre o quattro enti.

Dalla tabella V emerge chiaramente che esiste una notevole confusione di categorie assistite in numerosi Istituti tra quelli presi in esame. Certamente questo problema ha una serie di implicazioni tali da renderne difficile la soluzione in poche battute. E’ da segnalare per la circostanza che questo dato di fatto contraddice la necessità di specializzazione dell’intervento per categorie sostenuta teoricamente dagli Istituti stessi.

TAB. 2 – RETTE (Enti eroganti)

Sanità in 21 Istituti

Provincia 13 “

Mutua 6 “

Prefettura 3 “

Interni 2 “

Altri 8 “

Combinazioni Istituti Assistiti

Sanità 10 1497

Sanità, Mutua 3 436

Provincia, Prefettura 2 400

Sanità, Provincia, Altri 2 301

Provincia 3 107

Sanità, Interni 1 180

Sanità, Provincia, Mutua, Altri 1 40

Provincia, Mutua, Altri 1 —(°)

Provincia, Mutua 1 73

Sanità, Provincia, Prefettura, 1 180

Provincia, Altri 1 184

Sanità, Interni, Provincia, Altri 1 216

Pubblica istruzione, 1 32

Enaoli 1 52

29 3698

(°) L’Istituto non ha fornito il numero degli assistiti.

– Alcune osservazioni –

Accanto a questi dati quantificati, altri ne abbiamo raccolti che non è possibile tradurre, ovviamente in cifre.

1) Negli Istituti si coglie un certo stato di disorganizzazione, soprattutto per quanto riguarda lo stato del personale, i materiali disponibili, gli orari, ecc. (In alcuni casi vi è una sola assistente sociale).

2) Alcune categorie di invalidi sono meglio assistiti di altre (è noto che gli spastici, ad esempio, grazie alla AIAS sono più fortunati). Ciò si riflette all’interno degli Istituti non perché vi sia diversità di trattamento, ma perché si nota una certa prevalenza di alcune categorie rispetto ad altre. Anche se questa prevalenza è puramente empirica perché mancano i dati esatti di riferimento, si può tuttavia dedurre che non poca rilevanza ha la differenziazione delle rette.

3) Gli Istituti, eccetto alcuni, hanno mostrato scarso interesse per la nostra iniziativa, anzi in alcuni casi hanno rifiutato di riempire il questionario.

TAB. 3 – ETA’ DEGLI ASSISTITI

da 0 a 21 anni 20 istit. di cui 12 da 0 a 4 anni

da 14 a 35 “ 1

tutte le età 2

da 10‑15 anni in su 6

29

4) Senza pretendere di riassumere una gamma tanto vasta e complessa di impressioni possiamo però affermare che tra gli assistiti avvicinati emerge prepotente il desiderio di affetto; immediatamente dopo, la persona che avvicina l’handicappato nella maggior parte dei casi viene studiata da questi come possibile solutore di problemi estremamente concreti.

Manca negli Istituti non solo, diciamo, un impegno a superare lo stato di emarginazione, ma a costituire interessi più vasti che non siano quelli della scuola (dopo la quale è tutto finito) o della pura sopravvivenza.

5) In alcuni Istituti incomincia a farsi strada in maniera, a nostro avviso, profondamente scorretta un certo impegno per quanto riguarda l’attività lavorativa. Esso si concretizza nel creare delle occasioni lavorative all’interno degli Istituti o comunque in strutture speciali. Siamo nella logica del laboratorio protetto, che pur avendo alcuni meriti è tuttavia l’immagine della emarginazione organizzata dall’attività lavorativa.

Tutto questo mentre esiste una incredibile evasione della legge sul collocamento obbligatorio di invalidi. Ben 250 mila posti riservati agli invalili risultano tuttora scoperti.

TAB. 4 – TIPO DI PRESTAZIONI (Combinazioni)

mediche, scolastiche, riabilitative 9

mediche, scolastiche, riabilitative, add. lavoro 6

mediche, riabilitative 3

mediche scolastiche, riabilitative, add. lav., lavoro 2

mediche scolastiche, add. lavoro 2

mediche, scolastiche, riabilitative, add. lav. altro, 2

mediche, lavorative 1

mediche, scolastiche, altro 1

mediche, riabilitative, altro 1

scolastico, riabilitative, altro 1

mediche, scolast., riabilitative, add. lav., lav. Altro 1

29

– Vuoto, amministrativo –

Le ipotesi che volevamo verificare hanno trovato negli scarsi dati e nelle numerose impressioni raccolte, puntuale conferma: mancanza di una struttura assistenziale degna di questo nome, inefficacia delle prestazioni fornite.

Riguardo al primo punto va detto che appare chiara l’esistenza di un grosso vuoto amministrativo per un Ente che sia preposto alla gestione ed al controllo degli Istituti: vuoto che dovrebbe essere colmato dalla Regione. Questo certamente non risolverebbe i problemi sostanziali dell’assistenza, ma almeno eviterebbe l’uso incontrollato di pubblico denaro da parte di privati.

E’ ovvio che nella maggior parte dei casi il buon uso del denaro pubblico è affidato e garantito dalla serietà e dalla onestà dell’Istituto.

Certamente nella realtà queste condizioni si verificano frequentemente, ma lo sperpero di denaro pubblico continua (due Istituti nella stessa via, pulmini che fanno la stessa stranda, ecc.). Nella baraonda di competenze, Comuni, Province, Regioni, Ministeri, Enti vari, ecc., si sviluppa, tra l’altro, il più odioso e, d’altra parte, più affermato dei clientelismi. ma, ovviamente, questo frazionamento di competenze non è causale; dietro il frazionamento delle competenze c’è quello più grave delle responsabilità.

Se le poche indicazioni emergenti da questa nostra inchiesta possono essere considerate come un tipo li denuncia, noi siamo certi che esse non turberanno i sogni di nessun amministratore perché nessuno è di fatto responsabile di una situazione del genere.

Dal punto di vista dell’assistenza vera e propria emerge chiaramente la mancanza di una linea progressiva dell’assistenza (vedi Tab. III). Questo significa che poco viene fatto per realizzare concretamente l’inserimento nel mondo del lavoro. Per questa tabella non è stato possibile fornire il dato relativo agli assistiti, in quanto gli Istituti non sempre ci hanno dato il numero degli assistiti distinto per categorie.

TAB. 5 – CATEGORIE ASSISTITE (Combinazioni) Istituti

Insufficienti mentali 10

Spastici, poliomielitici 2

Neuro-motulesi 2

Spastici 5

Poliomielitici 1

Insuff. mentali, Epilettici, Caratteriali 5

Distrofici 1

Spastici, Mongoloidi 1

Spastici, Mongoloidi, Epilettici, Oligofrenici 1

Spastici, Mongoloidi, Insuff. Mentali 1

29

– Prospettive –

Di fronte a questi due dati sorge urgente la domanda sul da farsi. E’ chiaro che in questo settore più che in altri acquista rilevanza l’idea della costruzione dal basso di un movimento capace di cambiare l’assistenza. Certamente un tipo di impegno per sostenere alcune linee di riforma istituzionali va ricercato, dato che esso potrebbe almeno colpire le speculazioni e le ingiustizie che si sviluppano numerose sotto l’etichetta dell’assistenza e sulla pelle dei cittadini.

Ma sarebbe sbagliato attendere fatti esterni come salutari di un problema che trova la sua origine in logiche tradizionalmente errate ed oggi caratterizzatesi in una fitta rete di interessi. Bisogna, la un lato diffondere la sensibilità al problema, d’altra parte, cercando opportune alleanze, sperimentare gestioni dirette a livello locale di servizi sociali. E molto in questa direzione potrebbero i Consigli di fabbrica, i Consigli di zona e di quartiere.

A questo punto si scoprirà che cosa significa lotta alla, emarginazione: si scoprirà che le barriere architettoniche che impediscono all’invalido di vivere come gli altri, sono la forma più esasperata di una struttura urbanistica che affoga l’uomo; ci si accorgerà che le scuole differenziali sono la forma più esasperata di una logica scolastica collettiva che colpisce tutti; si vedrà che gli invalidi stanno a casa e vengono pagati dagli imprenditori perché non intralcino la produzione sono sullo stesso piano di coloro che vengono allontanali perché le loro idee intralciano la produzione.

(da “Partecipazione” mensile della comunità di Capodarco

Anno 10 – Ottobre 1972)

LE COMUNITA’ ROMANE DI COMUNIONE E LIBERAZIONE

1) – Una premessa

Abbiamo ricevuto dalle comunità di Comunione e Liberazione presenti in Roma il documento che qui, appresso, riportiamo.

Esso ci è stato inviato con richiesta esplicita di potersi indirizzare, come comunicazione, agli amici della Tenda; e ciò nel quadro di quella più generale uscita allo scoperto di recente decisa dal movimento nazionale di C.L. dopo anni di crescita volutamente silenziosa, con il convegno tenuto a Milano lo scorso marzo Più concretamente, poi, all’inizio di quest’anno avevamo colto con piacere, nell’invito alla “Scuola di Comunione” tenuta in Roma da C.L. dell’Italia Centrale, l’incoraggiamento a compiere gesti di “Leale e sincero confronto con tutta la Chiesa in Roma teso… a incrementare la fede e quindi a dare consistenza reale alla Chiesa”.

Soprattutto in questa seconda prospettiva, abbiamo pensato di dover pubblicare il documento inviatoci.

Le polemiche intorno a C.L. durano oramai da anni; i rimproveri di “medioevalismo”, di “neointegrismo”, di “pseudorivoluzionarismo” di “criptosinistrismo” si alternano a seconda dell’accusatore di turno.

Né le ultime vicende pubbliche del movimento e la presa da esso dimostrata hanno sufficientemente contribuito ai necessari chiarimenti; anzi, le recenti numerose comunicazioni di C.L. ai giornali o i servizi di parte che questi come da sempre, le hanno serbato hanno fatto peggio dello stesso lungo tacere di C.L. per tanto tempo.

Con le perplessità quindi di cui parleremo più avanti, ma innanzitutto nella speranza di trovarci veramente di fronte ad un gesto reale di dialogo (e non ad una mera mossa d’una più ampia operazione solo pubblicitaria di autoaccreditamento, come da più parti è stato sostenuto), diamo lo spazio richiesto al documento di C.L. romana con la cui storia, consistenza e volontà di rinnovamento e ravvivamento ecclesiali ci sembra non si possa onestamente evitare di incontrarsi e confrontarsi, se non alla condizione di ignorare una delle (non molte, per la verità) esperienze nuove, di fatto vive e vitali, della nostra Chiesa locale e della sua fede.

2) – Un po’ di storia ‑

Ricordiamo molto in breve agli amici della Tenda che l’esperienza attuale di C.L. (almeno per come noi l’abbiamo potuta conoscere) nacque come Gioventù Studentesca a Milano una decina di anni fa, ai tempi del vescovo Montini, dalla crisi locale (e nazionale) della GIAC e della FUCI.

Da Milano G.S. si diffuse lentamente per l’Italia sotto varie forme e in diverse iniziative, quasi sempre però riferentesi all’ambiente e alla problematica della scuola.

Con l’appoggio di singoli vescovi, con l’impiego di preti “distaccati”, con l’azione impegnata di persone notevoli come don Giussani e con il consenso autorevole di teologi rappresentativi quali Ratzinger e Balthasar, G.S. prese sempre più piede e si consolidò, prima accanto e poi contro il Movimento Studentesco, durante gli anni della contestazione, intorno al ‘68.

A Roma G.S. comparve in questo periodo; e ben presto essa si trasformò in quei “raggi” che numerosi, soprattutto nei licei, maturarono in fretta una esigenza e una prima dimensione comunitarie nelle quali, di fronte allo specifico scolastico della loro provenienza sociologica, il “faro Chiesa” si poso come obbiettivo primario del vivere insieme e “l’avvenimento Gesù Cristo” si propose come risposta integrale di fede alla domanda di globalità propria dell’esistere (tanto più nel nostro tempo di crisi).

Il termine “raggio” (per inciso) ricorda (e forse deriva da) la vecchia denominazione di “raggio” con cui una volta nelle scuole si chiamava la presenza provvisoriamente unitaria, all’interno di una classe, di elementi cristiani provenienti da parrocchie diverse e dalle relative associazioni di A.C.

Si cominciò così a parlare di “Chiesa del Virgilio”, “Chiesa dell’Albertelli”, ecc.; e in una riunione ristretta sulla Chiesa locale, la si definiva quel luogo qualsiasi (e in qualsiasi senso inteso)nel quale alcune persone vivessero la fede in Cristo come liberazione in atto.

La gerarchia avvertì, soprattutto in prospettiva, l’importanza dell’esperienza portata avanti; e per favorirne l’unità e soccorrerne le necessità organizzative insorgenti dalla dimensione notevole assunta dalle varie iniziative dei “raggi”, vennero ufficiosamente assegnati al movimento i locali di S. Cecilia.

Non si può dimenticare che la prima assemblea romana sul caso di don Lutte fu tenuta proprio nei locali di S. Cecilia messi a disposizione (non senza dei rischi) con un gesto di apertura e di dialogo che alcuni presenti di allora troppo in fretta hanno dimenticato.

Ci riferiamo a quel Comitato di Collegamento tra Comunità e Gruppi ecclesiali di Roma., che nacque proprio in quella occasione e in quella sede, e che ad un certo punto si rifiutò per ragioni politico‑ecclesiali di incontrarsi con C.L.(oltre che con altre esperienze catechetiche) in un convegno, poi rientrato, su “la catechesi a Roma”.

Queste cose – sia detto senza spirito di parte – non ci sembrano del tutto irrilevanti per capire la polemica infraecclesiale su C.L. a Roma (soprattutto in certi suoi aspetti di scarsa fraternità che ricordano dispute toologico-politiche di altri tempi). Ne riparleremo in altro numero.

Proprio in quei giorni comunque (si era ai primi del ‘71) i ”raggi” conoscono l’amarezza di alcune grosse difficoltà personali, la lacerazione dei contrasti fra i più anziani ed infine la scissione.

L’uso di S. Cecilia è revocato e dalla dispersione e dalle incertezze che ne seguirono emersero due realtà diverse: l’una (che si ritrova ancora oggi nella Messa domenicale a S. Gregorio) continua l’impegno dei “raggi” lungo una linea silenziosa di approfondimento quasi esclusivamente religioso; l’altra si è riorganizzata intorno al movimento nazionale di G.S. divenuto oramai C.L., alla cui crescita contribuisce con apporti consistenti di persone ed esperienze ad ogni livello.

Nel mondo della scuola, innanzitutto, ma anche in quello del lavoro, del quartiere, e, in un certo senso ancora vago, della politica C.L. romana verifica attualmente quella ipotesi di una proposta globale alternativa cristiana di comunione e liberazione che rappresenta l’approdo ultimo del movimento, dibattuto e approvato dal suddetto convegno milanese.

In questa verifica l’impegno più urgente sembra essere quello di riempire i vuoti lasciati dal Movimento Studentesco all’Università statale dove quella proposta alternativa, considerata valida anche sul piano culturale, viene già presentata, vissuta e difesa in varie facoltà.

Ricordiamo infine che le attività di C.L. sono sostenute ed affiancate in genere dalla editoria della Jaca BooK e più particolarmente dalla CLDD (edizioni C.L. di documenti e dispense), oltre che dalla rivista Communio.

Queste che abbiamo esposto ci sono parse le linee essenziali della “storia esterna di C.L.”

La storia di C.L. vuole però essere ed in effetti è soprattutto la “storia interna” di un’esperienza di fede e di Chiesa; di questa storia interna e dei suoi risultati più maturi e vicini a noi nel tempo, il documento inviatoci . e che facciamo subito seguire ci sembra la migliore narrazione (se non altro perché fatta da chi l’ha vissuta direttamente).

E forse proprio l’autenticità di questa storia interna

di fede e di Chiesa è il merito che più andrebbe riconosciuto all’esperienza di C.L. al di là di ogni nostra perplessità e delle sue stesse più o meno culturali, pretese alternative. E questo non è un merito da poco in un tempo come il nostro dove la vera crisi, nella Chiusa e fuori, è non solo delle strutture ma soprattutto della fede e dei valori e dove le pretese indebite delle assolutizzazioni economiche, sociologiche e psicologiche evitano puntualmente l’incontro con i problemi che restano fondamentali, checché ne pensi la secolarizzazione. di Dio, della personale salvezza, del bene e del male, del peccato, della morte.

3) ‑ Un documento di C.L. romana

a) L’esperienza di Comunione o Liberazione, movimento di comunità cristiana diffuso nelle principali città italiane o in molti centri minori, E presente in Roma negli ambienti dell’Università, delle scuole medie superiori, o del lavoro, testimoniando così una unità, visibile, concreta e gratuita tra persone di condizioni diverse.

Il gesto che fonda cd evidenzia questa unità è l’eucarestia domenicale celebrata presso l’Antonianum allo ore 10,30.

In molte città italiane Comunione e Liberazione si presenta come comunità locali di adulti, che condividono la situazione dove abitano (quartiere, parrocchia) e sono punti stabili di riferimento per la missione nel mondo del lavoro e della scuola.

A Roma la presenza è ancora limitata all’ambiente giovanile, anche se la posizione definitiva di alcune persone (P. es. i preti) e l’incontro con adulti stanno realizzando un’immagine di chiesa globale.

b) Dalla nostra storia di comunione emergono questi fattori che caratterizzano la nostra esperienza:

1. la comunità cristiana in qualunque ambiente, non nasce dal tentativo dell’uomo di mettersi insieme, ma unicamente dall’incontro gratuito e personale con l’Annuncio di Gesù Cristo.

“Annunciare Gesù Cristo significa che la salvezza, l’esperienza di liberazione vera e stabile, non è un prodotto del le nostre mani né una teoria né la pratica sociale ma che essa è un fatto, irriducibile, non risultato di una produzione, ma evento gratuito, storia (vita- morte‑resurrezione) di un uomo. Seguire questo annuncio dà la vita, e perciò è inizio del faticoso lavoro, del tentativo, del rischio di quanti, facendone esperienza, vogliono esprimere manifestare quella vita nella propria condizione umana. Per questo l’annuncio di Gesù Cristo per l’uomo vuol dire conversione. La conversione è l’atteggiamento adeguato di fronte all’annuncio che la salvezza (liberazione) già c’è ed è Gesù Cristo: convertirsi significa accettare che la salvezza venga da altro, e che la cosa da fare nell’operare per la salvezza propria e del mondo è seguire questa persona, perché ogni cosa non è altro che strumento attraverso cui poter realizzare più compiutamente l’esperienza della liberazione data da Gesù Cristo. (“Note sul lavoro culturale politico di comunità cristiane in università” Edizioni di Comunione e Liberazione –documenti, n. 2).

2. Riconoscere l’avvenimento di Gesù Cristo genera un’unità reale tra lo persone, che si esprime in una pratica di comunione che tende ad essere globale e ad investire tutte le forme dell’esistenza (tempo, rapporti, soldi, …)

La comunità cristiane non è associazione né organizzazione, ma vita, ambito di rapporti nuovi, unità visibile di quanti vivono la presenza di Cristo e cercano di manifestarla.

“Per questo i momenti fondamentali ed ineliminabili della comunità insediata in una situazione sono l’ascolto della parola, la partecipazione comune al sacramento, il riferimento all’autorità e la preghiera. Questi gesti sono i modi fondamentali dell’uomo nuovo, perché in essi è data l’integrità necessaria al lavoro per la liberazione, in essi il soggetto è costituito adeguato al suo compito.

Questi gesti significano già il costituirsi di iniziali strutture di convivenza (assemblea liturgica e di preghiera, momenti di confronto autorevole comune) che sono le strutture fondamentali dell’educazione cristiana e già germi di unità tra gli uomini .(Note sul lavoro culturale politico di comunità cristiane in università, etc.)

3. L’origine della esperienza fatta è stata, per ciascuno di noi, il prendere coscienza del fatto cristiano come fatto di liberazione nel mondo, di liberazione per l’uomo che lo incontra.

Una delle maggiori difficoltà che vive il cristiano oggi, è paradossalmente, credere alla fede che dice di avere: fidarsi della sua fede. È allora ecco tutto l’intimismo, il complesso di inferiorità, la ricerca affannosa di qualcosa che sia un po’ più credibile e accettato nella società, che non il fatto che siamo, per qualificarsi, per dire il proprio volto, per impostare il proprio lavoro culturale politico o semplicemente sociale.

“Per noi la comunità cristiana si costruisce nella società (scuola, università, fabbrica, quartiere) e con un solo compito: manifestare quanto alcuni, uomini come tutti gli altri, hanno incontrato e conosciuto. Ciò che si è incontrato è la possibilità vera e definitiva della salvezza, che stanno non in analisi, ma in un fatto nella storia, il fatto di Gesù Cristo. Questo lavoro di annuncio avviene in un solo modo: un lavoro nelle condizioni sociali che si vivono per edificare fatti, strutture, realtà di vita che siano a misura della dignità dell’uomo, capaci di realizzare una unità non strumentale o di potere, capaci di aiutare chiunque a compiere effettivamente un passo nel cammino della propria liberazione (salvezza) che è inscindibile dalla liberazione di tutto il mondo.”(“ nell’Università con un progetto”, Edizioni di Comunione e Liberazione – documenti, n° 4).

c) la nostra storia qui a Roma ci ha portato a vivere con consapevolezza e decisione sempre maggiori l’unità con le altre esperienze di comunione e liberazione presenti in Italia.

L’unità del movimento non è un’ispirazione a discorso comune, né una organizzazione per l’efficienza maggiore, ma esprime la fedeltà a incontri che hanno rigenerato la nostra fede in Gesù Cristo nella sua chiesa e che continuamente la vivi ficcano.

Proprio perché aiuto al cammino personale nella fede, l’unità del movimento è il servizio più grande che possiamo dare a tutta la chiesa presente a Roma.

Presso la fedeltà al proprio cammino di fede che permette un incontro costruttivo, non ideologico, con altre esperienze cristiane, e permette l’inizio di un lavoro comune. Gesto di testimonianza pubblica e stato il convegno che comunione e liberazione ha tenuto a Milano il 31 marzo sull’università.

Tale incontro pubblico ha rappresentato l’esito della proposta del lavoro che comunione e liberazione conduce da più di quattro anni nelle università: il tentativo di realizzare, muovendo dall’esperienza cristiana, una prassi culturale e politica alternativa (nello studio, nella ricerca, nell’insegnamento) all’interno dell’università.

Comunione e Liberazione – Roma – via Carlo Emanuele I; n° 14 – telefono 7577865 4389704 4384006

 

4 ) – Alcune nostre considerazioni –

Di fronte questo documento, che ci è parso prima di tutto una buona presentazione del messaggio evangelico (e che, come dicevamo, non è poco oggi sapendo che proviene da una storia reale e spesso sofferta di fede e di chiesa), e ci sembra di non potere però non esprimere alcune perplessità che riassumiamo nelle considerazioni e nelle domande seguenti e che proponiamo a C.L. nello spirito di quel dialogo cui si accennava nella premessa.

1 – Ancora oggi e soprattutto a Roma le comunità di C.L. sono formate in grandissima parte da giovani quasi sempre studenti.

Ci chiediamo: può in un contesto del genere comporsi una esperienza di chiesa nel senso completo che questa espressione ha e deve avere per non essere gratuita? Con C.L. non ci troviamo piuttosto di fronte a una edizione aggiornata del tradizionale associazionismo giovanile cattolico?

Sappiamo che C.L. è ancora giovane e non è insensibile al problema; e conosciamo i suoi tentativi di adeguare l’esperienza comunitaria alle dimensioni reali della vita (gli adulti, i bambini, gli anziani, i lavoratori, i coniugi, gli ignoranti, i tiepidi, ecc.); ma proprio perché abbiamo visto gli esiti incerti di quei tentativi e vediamo invece il consolidarsi culturale-studentesco-universitario di C.L. (sta sorgendo a Milano un centro C.L. di ricerche tutto ancora da conoscere e da discutere), ci confermiamo nelle nostre perplessità e ci domandiamo inoltre se veramente C.L. non si stia dando una fisionomia definitiva di movimento a tutto discapito della sua storia, per quanto giovanile, di chiesa.

2 – D’altronde è C.L. che sempre più dichiaratamente si presenta come un movimento.

Per cui, quando leggiamo che l’unità del movimento è il servizio più grande che possiamo dare a tutta la Chiesa presente in Roma, non riusciamo più a restare solo perplessi: veramente non comprendiamo. Ne soccorre molto a ciò la qualificazione vaga e inafferrabile dell’unità del movimento come aiuto al cammino personale nella fede.

Cosa significa infatti, da un punto di vista ecclesiale, che l’unità di un movimento si rivolge tramite una sua parte, residente e operante in Roma, alla Chiesa locale di Roma per servirla e dialogare con essa? Quale posto occupano i preti delle comunità di C.L. nella Chiesa romana? E quale rapporto i preti e le comunità di C.L. l hanno con gli altri preti e le altre comunità di Roma e in definitiva con il vescovo della Chiesa locale di Roma? Un posto e un rapporto avventiziali o privilegiati? E cosa significano nella vita della Chiesa l’avventiziato e il privilegio?

3 – rivolgendosi perciò, più in generale, all’autorità del vescovo (oltreché a C.L. e dalla sua pretesa di fare Chiesa in quanto movimento e dei cristiani “attivi” di Roma e alle loro frettolose, puramente indicative e, come tali, inconcludenti critiche a C.L.) chiediamo: cosa significano quei favori ufficiosi e quei repentini abbandoni e recuperi da parte dell’autorità di energie giovanili preziose e generose (con relative difficoltà e crisi, tanto più gravi in quanto colpiscono appunto persone ancora in fase di crescita e di formazione)?

Ci troviamo indubbiamente di fronte ad una pastorale incerta la cui logica appare poco comprensibile, ma che certo non è quella, che ci si aspetterebbe, della chiara attenzione, del sostegno autorevole e delle premurose sollecitazioni (ai vari livelli) ad un dialogo aperto, al confronto chiaro e dalla sostanziale comunione.

4 – a proposito poi della attività che C.L. svolge nelle scuole e nella università e della pretesa alternativa politico culturale che la ispira, c’è da domandarsi in verità se la posizione di base che ne emerge (il superamento radicale, cioè, di tutto ciò che di più significativo per la libertà nel nostro tempo si è mosso da Est e ad Ovest) non sia un po’ troppo frettolosa e non si regga per caso su quel tipo di analisi nelle quali la fede, invece che di invito alla ricerca, all’approfondimento, al pluralismo e – perché no? – alla sana moderazione della prudenza, diviene pregiudizio se non presunzione ingenua.

Dobbiamo per la verità riconoscere che negli atti del convegno di Milano abbiamo letto in proposito qualcosa di nuovo e di migliore, nel senso della libertà e della tolleranza.

E forse anche noi dobbiamo ancora abituarci ad ascoltare il linguaggio particolare delle persone che appartengono a C.L., tenendo presente che per lungo tempo esse hanno taciuto con quelli che invece, in parecchi nella chiesa, avrebbero desiderato di sentire dalla loro viva voce una qualche diretta testimonianza dell’opera che si andava costruendo.

Resta però sempre una certa perplessità di fronte alla rapidità quasi istantanea del passaggio fra la sommaria analisi critica del nostro tempo e la proposta immediata di Gesù Cristo.

Ci ricordiamo di certi particolari entusiasmi dei focolarini (anche se si trattava di un contesto e di un piano del tutto diversi); passarono in fretta come è destinato a passare in fretta (a meno che non venga strumentalizzato) tutto ciò che non è disposto a misurarsi pazientemente con il reale nella sua complessa e irriducibile interezza.

5 – Post Scriptum: Due avvenimenti –

Durante il periodo intercorso fra la stesura delle precedenti notizie e considerazioni su C.L. e la sua attuale pubblicazione, nella vita delle comunità romane di C.L. sono, tra gli altri, accaduti due avvenimenti che ci sembra opportuno rilevare per precisare ed aggiornare la presentazione fatta di C.L. e per meglio chiarire le nostre osservazioni.

1 – il vicario di Roma, Monsignor Poletti, si è recato a far visita alla comunità di C.L., convenute all’Antoniano per la celebrazione eucaristica unitaria domenicale, e con i presbiteri delle comunità medesime ha concelebrato la S. Messa e impartito la conservazione di alcune cresime.

Con riferimento alla nostra considerazione n°3, un fatto del genere non può che riempirci di ecclesiale cattolica soddisfazione, purché sia veramente il segno d’una generale inversione di tendenza della pastorale nei riguardi delle nuove esperienze comunitarie; a queste infatti, ancor più che a quelle oramai consolidate, va indirizzata la premura vescovile affinché il processo difficile attraverso cui matura la loro acquisizione alla comunione ecclesiale (e loro intimo saldarsi, quindi, con la vera tradizione della Chiesa) possa valersi in ogni suo momento della presenza viva, unificante e autenticante, di colui che solo (il Vescovo, appunto) può personalmente assumersi il compito è positivamente autorevole di dichiarare (dal di dentro della vita ecclesiale concretamente vissuta e non puramente amministrata) ciò che unisce e ciò che divide, la comunione e la scomunica.

Questo diciamo perché in altra occasione (un incontro delle comunità e dei gruppi ecclesiali gravitante intorno al Comitato romano di collegamento) non solo fu negata una simile logica presenza, ma fu negato anche il luogo d’adunanza in cui essa avrebbe potuto trovare l’occasione più semplice di concretizzarsi (sul modo delle richieste del comitato, poi, anche se ci sarebbe però da ridire; tuttavia ci sembra che, al riguardo, il criterio migliore non possa essere quello delle ripicche o simili, ma debba al contrario essere quello della carità, condizione imprescindibile di ogni esercizio, sia pure fermissimo, dell’autorità ecclesiale come servizio; è ciò tanto più in quelle situazioni nelle quali è in questione, con l’ecclesialità, il giudizio circa l’autentico o meno riferirsi alla carità di Cristo d’una certa comune esperienza di fede che reclama la propria unità con la Chiesa).

Nello scorso numero della Tenda si parlava di scomunica e di “s-comunione”; durante l’estate, a velato proposito di Franzoni s’è parlato autorevolmente di scomunica e di “autoscomunica”; a suo tempo, sull’argomento della ricezione, c’è stato da parte di CONCILIUM un invito alla ripresa e all’approfondimento del tema ad opera della riflessione ecclesiale; è a più riprese COMMUNIO è tornata sull’argomento della non riducibilità della vita della chiesa a una mera prassi democratica. Ora, nel vivace e così spesso confuso proliferare attuale di gruppi, comunità, movimenti una migliore e meno occasionale chiarezza pastorale a proposito delle nuove esperienze ecclesiali sembra condizione non ultima (soprattutto nella situazione singolare di Roma e della Chiesa locale romana) perché il necessario ritorno alle distinzioni, dopo tante semplicistiche e identificazioni più o meno esclusive, possa rappresentare una autentica ripresa di coscienza della serietà dei problemi della fede e non possa pertanto essere inteso come un disegno discriminante di incoraggiamento per alcuni e di emarginazione per altri; nel quale disegno il riconoscimento della autenticità ecclesiale delle nuove esperienze comunitarie si ridurrebbe ad una inutile e tardiva verifica-conferma dei pre-giudizi, con conseguente inevitabile caduta nella disponibilità e nella incomprensione reciproca.

2 – le comunità romane di hanno C.L. espresso un nuovo presbitero per la Chiesa di Roma. L’ordinazione è avvenuta a Roma con l’autorizzazione e ad opera del Vescovo d’origine e dell’ordinando, proprio perché era stato all’interno delle comunità romane di C.L. che la sua vocazione s’era confermata, s’era fatta matura per una vera scelta ed aveva quindi potuto legittimamente richiedere di essere consacrata. Alla liturgia dell’ordinazione un altro presbitero delle comunità, per conto delle comunità medesime lì realmente presenti, aveva testimoniato della autenticità della vocazione e dell’effettiva preparazione dell’ordinando per il suo nuovo ruolo di prete, ambedue direttamente comprovate nella lunga e non sempre facile condivisione dei fatti, dei gesti e delle decisioni comunitarie.

Nella realtà della Chiesa locale di Roma e nel più generale ricorrente essere dato ormai per scontato che il presbitero non proviene, esprimendo la vita ed un segno, da una certa comunità ecclesiale (bensì dai seminari, uscendo dai quali è mandato in una comunità a lui sconosciuta), l’avvenimento della suddetta ordinazione travalica le vicende interne a C.L. e si propone come un segno profondamente significativo per la riflessione ecclesiale romana; esso si colloca, come una precisa e chiarificante sollecitazione di fede vissuta, al centro dei problemi che inquietano la vita della Chiesa di Roma (nell’unico senso inquietante, talora, per cui tale inquietitudine non sembra neppure trasparire che pare solo invece indifferentemente tacere).

Questi due fatti ci danno una ragione in più per sottolineare ancora una volta, non solo perciò sulla base di considerazioni di opportunità teorica, la necessità per le comunità e i credenti della Chiesa locale di Roma di incontrarsi e confrontarsi con l’esperienza di C.L. a partire non da pregiudizi ostili, ma da giudizi nella carità (iniziale e finale), come s’addice alla comune fede in Gesù Cristo, dichiarata, e alla comune appartenenza all’unica Chiesa, reclamata.