Lettera 45 (Prima Serie)

 

Cari amici,

le vacanze sono finite ed anche noi torniamo al nostro lavoro di documentazione e di studio dei problemi della chiesa di Roma. Questi ultimi, per la verità in vacanza sembra non ci siano andati, e difatti li abbiamo ritrovati cresciuti: uno di questi problemi, quello relativo alle dimissioni di d.Franzoni da abate di S. Paolo, ha creato addirittura del superlavoro, nella settimana di ferragosto, a chi se n’è occupato, come ormai avviene da qualche anno a questa parte.

Nel riprendere il lavoro, ci sembra doveroso ripetere agli amici che ci leggono un appello alla collaborazione, al dialogo, alla vigile attenzione alla realtà. La ragione stessa del ciclostilato, infatti, sta in quella crescita di dialogo, senza la quale si finirebbe inevitabilmente per cadere nel professionismo giornalistico dei pochi ed in una lettura accademica da parte di tutti gli altri. Deve perciò rafforzarsi l’impegno in prima persona di tutti, ancora troppo ridotto e frammentario.

In questo numero ci soffermiamo sull’iniziativa di un gruppo di cattolici romani, consistente in un’assemblea ecclesiale tenuta il 1° aprile u.s., per affrontare il problema dei prigionieri politici del sud-Vietnam ed in relazione, particolarmente, alla visita di Van Thieu al Papa, prevista a breve scadenza. Pensiamo con la nostra analisi di poter dare un piccolo aiuto a coloro che avvertono la responsabilità di costruire una comunità ecclesiale incarnata nella storia.

Quanto al problema dei prigionieri politici nel sud-Vietnam, esso resta tutt’ora terribilmente grave e necessita di un energico impegno di tutti i cittadini democratici, per essere risolto. Con l’occasione vi informiamo che la Sezione italiana del Comitato internazionale per salvare i prigionieri politici nel sud-Vietnam ha il seguente indirizzo Via S.M. dell’Anima, 30 (c/o IDOC)- 00186 Roma- tel. 65,68,332. Ci si può mettere in contatto per concordare iniziative, prelevare materiale di documentazione ed organizzare raccolte di fondi.

Vi salutiamo fraternamente.

Gli amici de “la Tenda”

Trecento Cristiani Di Roma E Il Presidente Del Sud-Vietnam.

Una liturgia eucaristica in occasione della visita di Vanthiei al Papa e per la liberazione

dei prigionieri politici in Sud-Vietnam. –

Il giorno 1 Aprile 1973 nella sala Borromini e nella chiesa di S.Maria in Vallicella (la “chiesa nuova” di Corso Vittorio) si è tenuta una lunga riunione di approfondimento preghiera ed eucaristica per esaminare la posizione della Chiesa locale di Roma, nel suo Vescovo, incontrava il cattolico Thieu, presidente del Sud-Vietnam.

Diamo una breve cronaca della riunione.

Nella Sala Borromini alle 17.30 si apre l’incontro.Presiede Raniero La Valle.Avverte che pur celebrandosi l’eucarestia solo più tardi, e in chiesa, c’è da considerarsi già all’interno di una riunione di preghiera ed eucaristica. Non è il luogo – egli dice – che dà significato, ma il fatto, cioè una comunità già orante e pensante in atteggiamento di docilità allo Spirito. La Valle avverte inoltre che il trattare dei prigionieri politici del Sud-Vietnam non esclude che esistano e si riconoscano altri problemi di violenza in altre parti del monto e anche sull’altro fronte della trincea. Ciò che indirizza la riunione in corso – egli dice – è la visita di Thieu, il responsabile dei fatti del Sud-Vietnam, visita che si presentas fornita di aspetti politici ed ecclesiali.

Quindi La Valle fa una lunga e, per quanto possibile, dettagliata presentazione della situazione vietnamita soprattutto nelle sue matrici e componenti.

Interviene quindi, come previsto, il P. THY, prete Nord-vietnamita residente a Parigi, che, spostandosi su un piano più concreto, focalizza la liberazione dei prigionieri politici come atto doveroso di pacificazione tra le due fazioni, e prospetta in conseguenza una politica di collaborazione tra tutte le parti esistenti, un governo di unità nazionale con la partecipazione di tutti i partiti.

Viene quindi letta la lettera al Papa che più oltre riportiamo.

Sono le 19,30. Tutti si trasferiscono in Chiesa dove don Luigi della Torre, parroco romano, con altri dodici preti presiede la celebrazione eucaristica. Nell’omelia don Della Torre mette in risalto la doverosità dell’intervento della Chiesa locale per arricchire di significato, per qualificare il comportamento del Vescovo. Ha qualche parola per rilevare nella lettera qualche sfumatura di perentorietà e una certa rigidità di richieste. Gli sembra un po’ eccessivo lasciare al Papa la sola alternativa di non ricevere Thieu.

Al termine della Messa, ore 21, viene firmato il documento.

Il giorno dopo, 2 aprile, esso viene consegnato al Cardinale vicario Poletti nel seguente testo.

“In religioso ascolto della parola di Dio noi, cristiani della chiesa che è a Roma, riuniti in assemblea liturgica in Santa Maria in Vallicella, abbiamo contemplato la sofferenza a cui è stato sottoposto e che ancora sopporta il popolo vietnamita, e vi abbiamo riconosciuto il mistero, sempre ricorrente nella storia, della vittima ingiustamente sacrificata per tutti, dal potere del denaro, della violenza o della morte.

Ammaestrati dalla recente memoria della persecuzione subita dal popolo ebreo, in cui è stata coinvolta la generazione contemporanea al nazismo, non abbiamo difficoltà a riconoscere nella sorte riservata al popolo vietnamita, “sfigurato da non sembrare più umano” (Is,52, 14), “esperto nel soffrire” (Is, 53,3), il vaglio al quale sarà giudicata la nostra generazione.

Perciò di fronte a questo popolo, “i cui piccolo sono stati sfracellati ai crocicchi di tutte le strade” (Nah.3,10), e di cui si potrebbe dire, col profeta Isaia, che è stato “trafitto per le nostre prevaricazioni e colpito per i nostri peccati” e nelle cui piaghe “è guarigione per noi” (Is.53,5), noi ci siamo riconosciuti colpevoli, e abbiamo confessato il peccato nostro e della nostra Chiesa; peccato di pensieri, parole, opere ed omissioni, perché quando non siamo stati direttamente causa e complici della lunga tortura che gli è stata inflitta, abbiamo permesso con le parole o col silenzio che in nome nostro e dei nostri valori, e perfino nel nome del Signore della pace, venisse combattuta contro questo popolo la più atroce guerra della storia, che lascia ora, al momento di una fragile tregua, una nazione divisa, contagiata dall’odio, sconvolta nelle sue tradizioni e nella sua integrità spirituale, con “le città distrutte, i villaggi abbandonati, le campagne devastate, la terra ridotta a deserto, i campi senza più contadini e le città senza veri abitatori” (Gregorio Magno, Om. Su Ez., Libro II,6,22).

Ma affollate restano le seicento prigioni note e le molte altre ignote del Vietnam del Sud,, dove duecento o forse trecentomila prigionieri politici di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutte le fedi, continuano ad essere detenuti senza pietà, senza processi, senza garanzie morali e giuridiche, e sono in imminente pericolo di vita per torture, fame e liquidazioni di massa.

Nel farci carico di tutto questo, perché “chi sta a Roma sa gli Indi sono sue membra” (Giov. Cris., In Io., Hom. 65,I), e avendo pregato perché “in grazia degli eletti siano abbreviati i giorni di una così grande tribolazione” (Mat. 24,21-22) noi, cristiani di Roma, nello spezzare il pane dell’Eucarestia e nel celebrare il vincolo della comunione, ci siamo sentiti interpellati dall’annuncio dell’imminente incontro che il nostro Vescovo, il Papa, dovrebbe avere con il presidente del Vietnam del Sud, il generale Van Thieu.

In quanto riuniti in assemblea liturgica, non abbiamo inteso far oggetto della nostra riflessione, in tale sede, il significato politico dell’evento, né discutere l’uso delle prerogative internazionali della Santa Sede, che pongono l’incontro sul piano dei rapporti tra due poteri sovrani. Ma in quanto cristiani della Chiesa che è in Roma, ci sentiamo profondamente coinvolti in ogni gesto, e soprattutto nei gesti più qualificanti e dirimenti, di colui che in quanto è a noi Vescovo, è pure Pastore a tutta la Chiesa.

In ragione di tale specialissima comunione che abbiamo con lui, e considerando che egli “per noi è Vescovo, con noi è cristiano” (cifr.Agostino, Sarm., 340, I), noi sentiamo il dovere di condividere con lui , “tra le tentazioni e le tribolazioni del cammino” (I.G., n.9), la ricerca dell’atteggiamento più conforme al “glorioso ministero dello Spirito e della giustizia”, che è proprio dell’ufficio del Vescovo (L.G. n. 21, 2 Cor. 3-8-9).

E questo facciamo esprimendo il nostro stato di coscienza di fronte all’evento che è annunciato. Esso ci appare come il palese tentativo, da parte di un capo politico e militare di una frazione del popolo vietnamita, di coinvolgere il Papa, la sua Chiesa romana e tutte le Chiese in comunione con lei, a cominciare dalla Chiesa vietnamita stessa, in una durissima contesa per la salvaguardia di un potere, nazionale e straniero, che, essendosi fatto misura di tutte le cose, già ha voluto in sacrificio tutto un popolo e ha rischiato di gettare il mondo in un conflitto totale.

Volere la Chiesa dalla propria parte significa, per tale potere, volere che la Chiesa estingua lo Spirito, faccia tacere la profezia, rinunzi al giudizio, rinfoderi l’annunzio della liberazione, dell’amore e della pace. E per milioni di uomini in tutto il mondo, per cui il Vietnam è stato in questi anni segno di contraddizione e ragione di speranza, una Chiesa che così si concedesse, non avrebbe più parole di vita.

Sappiamo che se l’incontro avesse luogo, il Papa potrebbe usare la sua parola per distinguere, per precisare, come per ammonire, per rimproverare, per impetrare. Ma nessuna parola, in questa circostanza, potrebbe valere il suo prezzo. La parola è un segno, e spesso ci sono altri segni meno fragili e più efficaci della parola. E noi, cresciuti all’ascolto della Parola, abbiamo appreso che perfino delle parole pronunziate dal Signore, si può dire che nessuna di esse è stata altrettanto importante ed efficace del segno che Egli ci ha dato con la croce.

Nel preannunciato avvenimento, il segno non sarebbero le parole scambiate, che forse nemmeno potrebbero varcare le frontiere del Vaticano e del Vietnam del Sud, ma sarebbe il fatto stesso dell’incontro, il suo obiettivo significato di una legittimazione e di una investitura, la sua idoneità a confermare e a rafforzare un potere e quindi,per ciò stesso, a rendere più pesanti le catene ai prigionieri e più spesso le sbarre delle carceri, con cui tale potere si presidia e si adorna.

E noi, nella pagina del Vangelo che oggi abbiamo letto, abbiamo visto annoverato tra i segni della salvezza l’andare a visitare i carcerati, non il ricevere i carcerieri (Mat.25,36).

Un Vescovo di Roma, Papa Gregorio Mario, un giorno cessò di spiegare la Scrittura al suo popolo romano, perché la parola si convertiva in pianto, di fronte alla città oppressa, al vedere “gli uni tornare con le mani mozzate, degli altri sentire che erano stati fatti prigionieri, e altri sapere uccisi” (Om.su Ez., Libro II 10,24).

Così noi non chiediamo al nostro pastore di dire certe parole invece di altre: ma di non dire nessuna parola, in questa occasione, e di non aprire al lupo la porta delle sue pecore (Giov.10,12).

Questo chiediamo non solo per il Vietnam, non solo per il mondo, ma anche per noi, perché questo evento, se si avverasse, arrecherebbe una ferita profonda, e non necessaria, alla comunione della nostra Chiesa, perché noi, e una gran parte di questa Chiesa, in nessun modo in tale gesto ci potremmo riconoscere.

Queste riflessioni e questa urgente preghiera decidiamo di rimettere, in spirito filiale e fraterno, al Vicario del Papa per la diocesi di Roma, perché ne faccia partecipe il Vescovo e pastore della nostra Chiesa”.

Roma, 1 aprile 1973

Il documento è a nostro parere assolutamente degno, misurato e chiaro. Molti di noi lo hanno firmato, ovviamente a titolo personale. Perché si abbia un minimo di riferimento alla situazione concreta pubblichiamo un bevissimo scritto “Chi sono le belve” a firma Giuliano Gresleri, da “Il Regno”.

– L’”Ufficio internazionale della gioventù cristiana” di Parigi, comunica che durante i primi giorni di febbraio quattro ecclesiastici del movimento “Gioventù operaia cristiana” di Saigon, sono stati condannati a 5 anni di galera per aver commentato su un quotidiano le risoluzioni del sinodo dei vescovi sulla “giustizia nel mondo”. Non si sa verso quale lager siano stati inviati; si sa però che cinque esponenti laici dello stesso movimento sono stati condannati al bagno penale dell’isola di Pulo Condor, uno dei più famigerati “posti di smistamento”, in attesa di destinazione definitiva. Tutto ciò in barba all’articolo 7 dei protocolli aggiuntivi di Parigi che prevede il rilascio di tutti i civili arrestatiper aver espresso idee politiche non conformi a quelle del regime.

Il fatto, che le agenzie segnalano con rilievo, perché si tratta di esponenti “noti”, dietro i quali si muovono gruppi di opinione cui bisogna pur rendere conto, ci offre l’occasione per una panoramica su quelli che le stesse agenzie chiamano ormai i “lager di Thieu”, dove sono stipati 300.000 individui di cui 200.000 classificati “ufficialmente” come detenuti per “motivi politici”. Gli altri 100.000 hanno “qualifiche” più semplici e di altra natura. Quanti sono in realtà i “lager di Thieu”? Una decina in tutto quelli “ufficiali”, quelli conosciuti cioè dalla popolazione come i posti più infami della terra, migliaia quelli sepolti negli scantinati di Saigon e delle altre grosse città del sud controllate dall’esercito “regolare”. Vediamoli un po’ da vicino, questi luoghi di detenzione. Il sistema penitenziario di Saigon è stato organizzato nel 1970 da un “gruppo di lavoro” dell’Università del Michigan, collegato con la CIA e sovvenzionato dalla Public Safety Division con 20 milioni di dollari. Nel 1970 grosse panciute navi americane cominciano a sbarcare con regolarità bauli di cemento armato (2mx1,50×3 circa) che vengono dirottati verso i vari luoghi di pena; l’amministrazione Nixon firmava un contratto con la Rmk,brj per la costruzione prefabbricata di 384 “bauli” in cemento armato: sono le famigerate “gabbie per tigri”; ognuno dei dieci lager “ufficiali” ne possiede a decine, di varia grandezza, secondo i “gusti” di chi li sovrintende e le necessità del momento. La colonia penitenziaria di “Con Son” nel mar della Cina Meridionale, ha in custodia 12,000 prigionieri. E’ nota per l’uso disinvolto che fa della “gabbie per tigri”; i bauli vengono interrati per tutta la loro altezza, al posto del coperchio sono sistemate barre di ferro dopo avervi introdotto due tre prigionieri; il tempo di contenzione nel baule varia a seconda dell’infrazione al regolamento commessa ma di solito vi si crepa per il caldo, la pioggia, la dissenteria e la mancanza di acqua e di cibo. Il riso bollito è gettato dal di sopra, senza scodella; si mescola sul fondo agli escrementi delle “tigri”. La sola Con Son ha centinaia di questi “bauli”.

Poi c’è Chi Hoa, a Saigon; 8.000 detenuti, un terzo quelli definiti “politici”, è un posto da cui passano tutti, una specie di galera tribunale dove si sosta in attesa di giudizio. A Chi Hoa gruppi di 100 persone sono ammucchiati in una stanza di 8 m. x 6, compresa la latrina comune (un buco in terra) Poi Thu Duc, “prigione delle donne”, ve ne sono circa 3.500; trattamento circa lo stesso di quello sopra descritto. Ancora: Cay Dua, in un’isola del golfo di Thailandia; era stata progettata per 2.000 detenuti, attualmente ne “ospita” 30.000, alla fine del 1970 erano già 28.000.

Dopo l’armistizio cominciano a filtrare altre voci più o meno clandestine per un totale di mille luoghi di pena. La tortura vi è praticata come “sistema preventivo!, le “gabbie per tigri”, i famosi “bauli”, sono sostituiti spesso con le “gabbie per porci” (idem come sopra; solo che le pareti sono rivestite di filo spinato e chiodi in modo che non vi si possa appoggiare e sdraiare in terra, dato il numero dei contenuti), le “celle nere”; scavate sottoterra con una sola apertura verso il cielo larga un palmo. I documenti sulla tortura sono impressionanti; si va da quella “ più comune”, bastonatura, scariche elettriche, ecc. fino ai sistemi più raffinati quali l’esposizione della nuca del prigioniero a lampade concentranti una potenza di 1.000 watt, donne impazzite perché hanno dovuto subire pratiche bestiali come l’introduzione di serpi nei genitali, uomini morti “gonfiati” di acqua di calce e poi sgonfiati per “compressione” ecc. ecc. Basta. – (da “Il regno” 1973, 4 pag.61)

Da parte sua il 25 marzo u.s. la Sezione Svedese dell’Amnesty International ha denunciato a Stoccolma che migliaia di cadaveri, vestiti dell’uniforme nera dei prigionieri sono stati visti galleggiare a largo delle coste del Vietnam.

C’è da dire che dinanzi a fatti tanto gravi si è registrato il silenzio dei grandi mezzi di informazione che in merito al Vietnam hanno troppo a lungo e troppo completamente taciuto per essere senza colpa. E, in fondo, tutti noi abbiamo fatto ben poco per informare e denunciare siffatti contro l’uomo.

Le citazioni diano agli amici ancora perplessi ragione delle motivazioni che hanno spinto il 1 aprile 1973 trecento cristiani di Roma a riunirsi in preghiera e ascolto dello Spirito in occasione dell’incontro fra Thieu (cattolico-presidente) e Paolo VI (Vescovo-capo di Stato).

Non diciamo altro nel merito della questione vietnamita e in particolare dei prigionieri politici, che resta vivamente nella nostra coscienza.

Dedichiamo invece come d’abitudine un po’ di attenzione ad alcuni aspetti dell’incontro che è stato un raro caso di liturgia legata a fatti concreti. Sotto questo aspetto lo esaminiamo qui di seguito.

Evidenziamo anzitutto i lati positivi dell’incontro. La seria e composta partecipazione, la visibile consapevolezza di essere fraternamente nello scambio reciproco di idee e di proposte anche precarie hanno dato il senso di ciò che è e può essere una riunione di cristiani maturi ed attenti alle cose. La presidenza di Raniero La Valle ha mostrato nella pacatezza e nel rispetto verso ogni più piccolo movimento dell’assemblea le doti di un consumato presbitero. Ne è risultato nel complesso una riunione ecclesiale degnissima quanto lo richiedeva la gravità dell’argomento e l’ambito (eucaristico!) in cui esso era stato collocato. Veramente una tappa un avvenimento nel crescere delle esperienze eucaristiche della Chiesa locale romana verso quei traguardi che le costituzioni conciliari sulla liturgia e sulla Chiesa permettono di immaginare. Una riunione già profondamente lontana dalle ufficiali liturgie rubricali, sia pure tradotte ed abbreviate, come anche lontana da altre riunioni deliturgicizzate oltre misura e condotte in difficili miscugli ideologici.

E proprio perché il filone inaugurato a S. Maria in Vallicella è a nostro avviso fecondo ci impegnamo in quei rilievi a prima vista negativi ma che invece presentiamo per favorire ulteriori maturazioni. (A questo punto non possiamo tralasciare di nominare le liturgie domenicali della comunità di San Paolo, esempio periodico domenicale e pubblico di questo stesso tentativo di crescita simpatica di liturgia e vita).

  1. . – La presidenza. – Anzitutto, siccome la riunione era esplicitamente detta “eucarestia” fin dall’inizio, avremmo detto necessaria la presidenza di un presbitero per tutto l’arco dell’incontro. Funzione del presidente dell’eucarestia, del prete, era a nostro avviso moderare la riunione intera, cioè via via presentare i termini del problema, dare la parola al relatore principale eccetera. E nel caso nostro collocare la questione (il trattamento dei prigionieri politici sud-viet) nell’ambito più generale dei peccati dell’umanità (e quindi anche dei Nord-Viet) senza peraltro lo specifico della riunione ( la visita a Roma del presidente Sud-Vietnam e quindi la richiesta di liberazione dei soli prigionieri Sud-Viet) senza snaturarla, dicevamo, in una predica alle opposte malizie. E si noti che La Valle ha detto e fatto puntualmente tutto ciò, dando prova di una sensibilità presbiterale davvero non comune, che fa ben sperare le nuove generazioni di presbiteri che certamente si esprimeranno dalle comunità.

2. – L’esposizione dei fatti (La Valle) e le proposte operative (Thy). – A nostro parere in una riunione eucaristica straordinaria le cose dovrebbero andare più o meno così (restando aderenti per semplicità al caso che consideriamo): a) il presidente-prete dice il motivo per il quale ci si è riuniti, indica cioè il tema dell’incontro; b) eventualmente uno più informato degli altri informa a sua volta l’assemblea; c) chi vuole tra i presenti comunica atteggiamenti personali o proposte di atteggiamenti comunitari. Seconda e terza fase (b, informazione e c, proposte) le diremmo pertinenti naturalmente a laici, soprattutto la terza, senza peraltro escludere interventi di presbiteri. Si tratta infatti di momenti nei quali si analizza e si propone con un certo coefficiente di ipoteticità.

Alla conclusione il presbitero potrebbe dire se tra gli atteggiamenti esposti come personali ce ne fossero eventualmente di così collegati al Vangelo da dover essere assunti come discriminanti per l’appartenenza alla comunità eucaristica. (Si potrebbe ricercare il “luogo” liturgico di tale conclusione prosbiterale: la chiusura dell’omelia sul Vangelo? Al credo? Alla conclusione del Pater dove ora si trova lo stereotipo “liberaci da ogni male…” che una volta era a disposizione del presbitero, poco prima della ratifica con la stretta di mano e della comunione?).

Le cose di fatto non sono andate proprio così. I punti (a) e (b), presentazione ed informazione, sono stati riuniti nell’esposizione iniziale di La Vallo laico-presidente e il punto (c), proposte, è stato esaurito in un unico intervento e per di più da un prete. Per quanto possa sembrare curioso, lamentiamo che si siano invertiti i ruoli tra laico e presbitero, il primo guidando l’assemblea, il secondo scendendo in campo con proposte di opzioni particolari frammiste a proposizioni inderogabili, producendosi in un intervento assai eterogeneo.

Si è forse voluto dare fin dall’inizio l’idea che almeno buona parte di ciò che si proponeva sul piano operativo (punto c) fosse da trasportarsi di peso nelle scelte obbligate di tutta la comunità che, dicevamo, il presbitero avrebbe dovuto proporre alla conclusione eucaristica? In tal caso ci pare che se proprio è necessario forzare qualche posizione bisogna farlo nell’altro senso: ci pare più aderente all’attuale momento lavorare per evidenziare l’idea che ciò che si propone da ciascuno (punto c) anche in piena riunione eucaristica attiene il più delle volte alla sfera delle scelte personali con i suoi rischi e le sue avventure e che ben poco di ciò che ognuno propone può infine essere ascritto ad obbligo per tutta la comunità, per quanto esemplari possano essere quelle scelte.

Nel caso in questione il giudizio sull’indegno modo di trattare i prigionieri politici era senz’altro da assumere come fatto discriminante per l’appartenenza all’eucarestia e, come diremo, si poteva andare fino in fondo dissociandosi dalla comunione con Thieu (scomunicando o scomunicanosi, cioè) e doveva infine parlarne un presidente presbitero. Ma non allo stesso modo si poteva premere circa un governo di collaborazione nazionale eccetera. Ogni cosa era invece aggregata senza distinzioni nell’intervento unico del P. Thy.

A questo punto non ci è sembrata del tutto fuor di luogo la protesta di altri preti sud-viet presenti, i quali hanno contestato al P. Thy di poter parlare in quei termini “come prete” e che hanno poi abbandonato la riunione. Purtroppo dal contesto la loro protesta mostrava di fondarsi sullo stesso presupposto: che ci fosse una identificazione tra fede cristiana e prassi politica….. quella di Thieu!

L’eterogeneità del materiale aggregato dal P. Thy nel momento (, e cioè da un lato le sacrosante esigenze che avrebbero giustificato anche una vera e propria scomunica o almeno una sospensione di comunione in attesa di accertamenti, e dall’altra le proposte puramente personali come il governo di unità nazionale ecc. costringevano a dare tutto il complesso del suo intervento un indice di perentorietà troppo basso perché si potesse poi portarlo di peso come verità obbligante per tutti. Col risultato che, infine, nel documento ci si limitò ad enunciazioni senza immediate conseguenze nella comunione e che don Della Torre si sentì in dovere di ammorbidire il tono delle richieste al Papa.

Anche da questi fatti non davvero marginali resta confermato che più ci si modera nell’allungare la serie delle deduzioni “politiche” dal Vangelo e più si può affondare il coltello di immediate verifiche della comunione.

3. – Preti e laici. – Sostanzialmente il problema del rapporto tra il popolo di Dsio e la funzione presbiterale è stato posto nel punto precedente (e se ne parlò in altre occasioni assai più diffusamente, spec. La Tenda 24, “Chi è prete romano”; e 40, pag. 4 segg.) Sempre ripensando la riunione di S. Maria in Vallicella, aggiungiamo che avremmo visto meglio i presbiteri riuniti al tavolo della presidenza fin dall’inizio e non solo al momento di mettere vesti e sottovesti.

Ci avrebbe rassicurato assai più quella collocazione che non l’aver affidato ad n prete la presentazione di un progetto di piano di risanamento politico-elettorale in Vietnam. L’antico modello della distinzione tra presbiterio ed assemblea, come resta nelle vecchie basiliche abbazie capitoli, a parte i gradini e le balaustre, sembrerà una minuzia cerimoniale ma può aiutare a riconoscere, a riconoscersi e a rispettarsi.

4. – L’assemblea. – Era chiaramente un’assemblea tra cristiani sia pure di carattere straordinario, perché in essa si cercava di giudicare, naturalmente dopo aver riconosciuto i propri peccati, la coerenza tra il Vangelo e il comportamento di un fratello nella fede (il Van Thieu). Tanto più per questo motivo si sarebbe gradito un rilievo della presidenza circa la presenza di non cristiani, e in costoro una delicatezza di partecipazione, un rispetto per la difficoltà della ricerca, un tentativo di porsi nei nostri panni nel caso di desiderio di partecipazione attiva. In tale spirito una loro parola, un contributo, un consiglio, sarebbero stati assolutamente graditi, e segno di sempre nuovi rapporti di amore e di docile attesa della Parola che talvolta risuona fuori del campo (Num.11, 24 segg. – Il Sam. 16,5 sgg.) . Il passaggio dalla sala riunione della chiesa propriamente detta avrebbe favorito, come di fatto favorì, la separazione dei fedeli nel momento dell’Eucarestia, quella separazione che una volta con perfetta lucidità ecclesiale e con assoluta mancanza di buona creanza si dice venisse intimata con un perentorio “fora canos”.

5. – Partecipazione dell’assemblea. – La possibilità di esprimere consenso e grado di consenso circa il documento conclusivo fu data all’assemblea con l’applauso. L’assemblea adoperava lo strumento con felici dosaggi che la presidenza dava l’idea di saper interpretare. La significatività di tale strumento venne alcune volte perturbata, come per certe abili interferenze radiofoniche, da un piccolo ma strategico gruppo di estranei che si inseriva nel circuito ogni volta che venivano adombrate particolari collaborazioni politiche.

Ma a parte anche il caso di codeste in fondo accidentali presenze, non riteniamo l’applauso un mezzo sufficiente di partecipazione dell’assemblea alla formazione di un’idea. Non c’è poi gran differenza sotto questo aspetto, dalle passive liturgie parrocchiali se tutto sta nel poter solo applaudire o fare qualche educato cenno di dissenso o infine non firmare il documento. Bisogna poter parlare per arricchire il contenuto dello scambio e dar modo allo Spirito di esprimersi.

Ci si può opporre che un documento non poteva esser preparato da cima a fondo durante una riunione liturgica. Allora il problema può essere quello della idoneità di un documento scritto a fungere da apice di una riunione eucaristica.

6. – Il documento. – Una volta stilato, e se ne immagini uno dello stile, maturità e completezza di quello in questione, esso ha alcune caratteristiche delle quali mettiamo in evidenza le debolezze. Diventa anzitutto pubblico, e così facilmente collocabile in presentazioni di comodo. Poi viene portato o inviato agli interessati, il Vescovo nel nostro caso. Essendo uno scritto può diventare puro oggetto di interpretazione, vuoi sulla forma, vuoi sul contenuto, quello che dice e quello che non dice, perché lo dice e perché non lo dice. Il povero documento non parla, non si spiega, non si difende. Si vede costretto ad accomodarsi in un cassetto e attendere. Poi triste fine di ogni documento, e neppure di tutti, gli giunge una risposta, un altro documento. Spillati insieme giaceranno sepolti in qualche cartella d’ufficio, i nomi indissolubilmente uniti nell’indice.

Ci pare che il dialogo ecclesiale-eucaristico non debba passare che raramente per documenti scritti. Avremmo visto meglio i presbiteri andare dal Vescovo senza lettere, che si possono benevolmente cestinare, ma con “cose” da comunicare.

Riprendiamo da capo un ipotetico itinerario di comunione. Si riunisce l’assemblea dei cristiani, si fa penitenza, viene introdotto l’argomento, si ascolta la Parola, l’assemblea interviene, il presbitero raccoglie ogni contributo, corregge seduta stante quelli contro l’ortodossia e la carità, eventualmente dichiara una non-comunione con qualcuno, indica il senso della raccolta offertoriale, pone i segni della comunione e infine di questa eucarestia si fa rappresentante davanti al Vescovo. Il quale ricevendo il presbitero o non ricevendolo, e, se lo riceve, con una risposta quale che sia, non può che aver fatto una delle due seguenti cose: o ha accettato in comunione quella comunione o non la ha accettata. Quello che dovevasi ottenere.

Nel caso sia stata accettata in comunione, quella posizione si situa tra le altre legittime nella chiesa e col tempo porterà i frutti che merita. Se per caso in essa venne decretata una non-comunione con qualcuno a ciò viene a trovarsi legato anche il Vescovo, con una serie di conseguenze nei suoi rapporti col tale o con la comunità del tale che ora non andiamo ad approfondire ma che sono facilmente intuibili.

Può darsi invece che il Vescovo non si senta di avallare quella riunione eucaristica, e in particolare la non-comunione con il tale: o perché riconosce ancora cristiana la posizione di quello o perché non gli pare di dover intervenire in una comunità o diocesi non sua o per turbare rapporti con altri vescovi che approvano il tale, ecc. A questo punto il Vescovo entra in tensione con la sua comunità…. e anche qui non stiamo a proseguire nelle eventualità successive.

In sostanza i preti torneranno dall’incontro col vescovo o con l’approvazione a celebrare l’eucarestia lasciando fuori quel tale (esaminiamo solo l’aspetto che stiamo seguendo, evidentemente un’eucarestia non invia al vescovo solo… notifiche di scomuniche) oppure con l’invito a reintegrare il tale nella comunione e quindi a convertirsi a lui tutta la comunità, cioè perlomeno a ritenerlo cristiano e comunicante.

Il processo di comunione ci pare fornito di una sua certa consequenzialità, addirittura una sua rigidità. Anche un possibile e talvolta doveroso invito a riflettere e ad approfondire prima di decidere ricade in una sola mossa in una delle due eventualità suddette. Ci appare quindi un processo che impedisce per sua natura dilazioni troppo lunghe e fughe. La comunione appare come un impianto in cui qualcuno può inserire ad un certo punto un corto-circuito che taglia fuori il normale processo dei lenti richiami dello Spirito provocando invece improvvisamente dei richiami di elettro-shock. A questa eventualità ci rivolgiamo per un momento perché merita attenzione. Il concetto centrale al quale ci applichiamo rapidamente e secondo le nostre possibilità è quello di “scomunica”.

7. – La scomunica. – L’ipotesi di una scomunica vi avrà forse sorpresi. Ma come, direte, ricorrere ad uno strumento così odioso, e quando è ormai luogo comune il detto di papa Giovanni che “questo non è più tempo di scomuniche”?

Occorre a nostro avviso riesaminare il processo di comunicazione e scomunicazione (se si potesse dire) sgombri da fantasie pericolose. Anzitutto vanno cioè tolte dallo sfondo dell’immaginazione residui di raffigurazioni medievali a stampo persecutorio, interventi del braccio secolare, bandi civili e politici. E anche l’idea di un marchio spirituale incancellabile, una specie di sacramento alla rovescia. Niente di tutto questo.

Ripetiamo che non siamo in grado di fare una trattazione sulla scomunica, ma intravediamo che sotto il triste nome è stato forse sepolto uno stadio del dialogo ecclesiale, niente meno!, seppure il più delicato. Tentiamo di riestrarlo da dietro la maschera. Se ne verrà fuori qualcosa avremo recuperato un altro “luogo” di dialogo. Vediamo.

La scomunica è in fondo una sospensione di comunione. Noi immaginiamo che la sospensione della comunione possa avvenire in due forme. 1) la prima che diremo propriamente “scomunica” si ha quando una comunità col suo capo celebra un’eucarestia tenendone lontano un cristiano determinato, il cosidetto “scomunicato” (si potrebbe discutere se titolare di questa capacità sia solo la comunità diocesana col suo Vescovo, come abitualmente si pensa. Ma si tenga conto ad es. che il confessore fa praticamente una scomunica quando “nega l’assoluzione” e si vedrà come l’ipotesi di una “scomunica di primo grado” già nella comunità di base con il suo prete non sia del tutto inconcepibile. Si vede ancora come oggi l’atto penitenziale va spostandosi dal confessionale alla Messa. Si consideri poi come il Vescovo si vada facendo una figura sempre meno eucaristica – in Italia si tende ufficialmente a 1 per provincia civile, cioè 1 per 600.000 abitanti-. Del tutto irrilevante ci pare d’altra parte l’obiezione che quella del prete, del confessore o della comunità di base non è propriamente una “scomunica” perché detto nome è riservato “dal diritto canonico” all’atto episcopale. Sarebbe come dire che il nome di “morto” compete solo a quelli uccisi con regolare processo. Noi partiamo dal fatto concreto, cioè dall’individuo messo fuori comunione, vuoi per azione del Vescovo, vuoi per azione del prete o della comunità. Nei due casi il risultato è lo stesso: l’individuo è “fuori comunione”. Il che è ben reso dal termine generico di “scomunicato”; semmai è quel suono sinistro che la parola si porta dietro a sconsigliarne l’uso, in ogni caso).

  1. Ma la sospensione di comunione si potrebbe produrre da un’altra causa, che non sia il capo comunità, prete o vescovo e la comunità. Potrebbe essere il singolo cristiano che, richiesto di una adesione quale non sente di poter dare, lascia la comunione e si sottopone ad un “digiuno eucaristico”. Egli riconosce ancora al prete o Vescovo il diritto di porre i segni della comunione, ma con la sua estensione ne denuncia una irriducibile incompletezza chiede con la sua attesa fuori della porta che la verità di cui è portatore venga riconosciuta e accolta, sottoponendo a tensione coloro che pure riconosce legittimi amministratori dei segni della comunione (e ovviamente anche se stesso).

Queste due forme di non-comunione, la “scomunica” e il “digiuno eucaristico”, le concepiamo come un momento cruciale dal confronto, quello dell’obiezione finale di coscienza, si direbbe oggi. Nientemeno ci si tenga ad una cena eucaristica comune!

Pensiamo che ciò si farebbe conservando la più profonda esigenza della comunione, proprio in vista di una ricomposizione o in funzione di essa. Si veda il caso recente della scomunica dei due autori del volume “sesso in confessionale”. Evidentemente non si è trattato della reazione di chi è stato colto con le mani nel sacco. Non c’è alcun motivo di dubitare che i vescovi abbiano agito in spirito costruttivo usando come si diceva una volta una “pena medicinale”.

Qualora dei laici dovessero porre gli stessi atti di separazione dall’unità quelli che chiamavano di “digiuno eucaristico”, essi andrebbero accreditati a loro volta non solo di buona fede ma anche di spirito costruttivo e alle loro posizioni ci si dovrebbe rivolgere addirittura come a possibili voci dello spirito.

Finora, il diritto di ciascuno a lasciare la comunione in caso di irriducibile controversia era sì contemplato, ma catalogato nella serie dei “diritti di chi era in buona fede”.

C’è da togliere la rigidità della presunzione che chi si separa dalla comunione stia necessariamente errando. L’errore può stare da qualunque parte, popolo e capi, come la letteratura profetica della bibbia sta a ricordare e certi fatti recenti che diremo stanno a provare.

Vorremmo aver recuperato ai laici una funzione ecclesiale finora riconosciuta solo ai capi della chiesa, e non a caso parliamo dopo il Concilio Vaticano II. A nostro parere va presa in considerazione la eventualità che ogni cristiano sia portatore del diritto-dovere di sospendere la comunione. Quando ad es. la sua coscienza dovesse dirgli che è tempo di chiedere cittadinanza nella chiesa per un nuovo carisma, o che cominciare con i fratelli senza parlare è lasciarli nell’errore. Con la sua assenza sottoporrebbe la coscienza dei fratelli e la propria ad un richiamo profondo che non dovrebbe dar riposo all’uno e agli altri fino alla ricomposizione dell’unità, doverosa e possibile se lo Spirito ad essa ci ha destinati.

Innescare un tale processo di reazioni quasi automatiche, non c’è bisogno di dirlo, è cosa di tale impegno per le coscienze che lo si penserebbe soggetto ad un uso parsimoniosissimo.

Appena appena quando, totalmente sicuri di sé, non si vede più alcuna possibilità di interpretare l’atteggiamento altrui come componibile con il proprio. Sempre inteso che tale estrema cautela nell’usare l’arma della separazione incombe sia sui laici che sui pastori.

Esporre i meccanismi concreti, vorremmo dire la prassi liturgica di tali scomposizioni e ricomposizioni non è possibile a noi, e forse a nessuno se queste sono cose a disposizione dello Spirito. C’è bisogno di ricordare che un tempo la Messa del Giovedì Santo mattina (nella cattedrale, e quale giorno più adatto) era la Messa della riconciliazione dopo il ripensamento quaresimale. E ripensava solo lo scomunicato? Il Vescovo e la comunità comunicante no? E la quaresima era solo digiuno e preghiera o anche dialogo ogni volta rinnovato, ricominciato perché “stai per fare l’offerta all’altare (del giovedì Santo)… va prima a riconciliarti con tuo fratello”? e il dialogo non doveva esser iniziato sul presupposto che tutti potevano aver sbagliato? La terra del mercoledì delle ceneri non era stata posta sul capo di tutti indistintamente, papa, vescovi, preti e laici?

Dicevamo poco sopra che fatti recenti stanno a provare che la comunione si rompe e si ricostruisce a obiezioni di coscienza dei laici. Dicevamo di fatti recenti. Parliamone un momento.

Anni fa nella concreta situazione italiana il papa credette di non poter comunicare con chi accettava un impegno nel partito comunista italiano; senza tante specificazioni anche il voto per quel partito era ritenuto un ostacolo sufficiente ad impedire la comunione. Sette milioni (allora, oggi dieci) di italiani adulti non si riconobbero in quel divieto. Non reagirono a modo dei riformatori del cinquecento costituendosi altri “luoghi” di comunione. Riconobbero anzi al vescovo il diritto di tenersi i segni della comunione, loro restavano digiuni. Tragico avvenimento ma perfetta procedura cattolica.

L’introduzione successiva di distinzioni, di “caso per caso”, di “luogo per luogo” ha modificato poi la rigidità e la schematicità di quella scomunica. Sul piano dell’alta politica nazionale e internazionale, vaticana e no, si è passati ormai alla ricerca di “nuovi equilibri” a piegare la rigidità iniziale è stata forse estranea la volontà di tanti battezzati, in occidente come in oriente, che hanno tenuto duro a prezzo di lasciare la comunione, insistendo nell’uso della interpretazione marxista delle realtà sociali e nell’ipotesi socialiste del progetto sociale e politico? Anzi pensiamo che quella “resistenza” di base sia la vera causa del retrocedere dei vescovi.

Divaghiamo un momento. Nell’ultimo congresso del P.C.I. (1973) a questo proposito si è parlato trionfalmente di una “questione comunista” che si pone ormai alla chiesa non meno grevemente che la “questione romana” del 1870. A voler evitare equivoci va detto che una “questione” esiste, ma all’interno della chiesa-comunione. Non si tratterà certo di sognare nuovi 1929 di vertice tra clero di partito e burocrazia di chiesa! C’è stato di mezzo un “concilio” a dire che il “luogo” per “concordare”, cioè “conciliare” è la comunione fra cristiani liberi e diversi. Semmai un precedente storico-ecclesiale dovesse esser fatto esso va indicato nel giorno in cui cadde il “non-expedit” liberando politicamente i cattolici, più che nei patti lateranensi o nella nascita del partito cattolico che quella liberazione cercarono con cinquantennale successo, di ricondurre in più ordinate utilizzazioni.

Torniamo agli esempi di separazione dalla comunione da parte del popolo cristiano. Caso ancor più conclamato: il novantacinque per cento degli italiani adulti non si riconobbe nella obiezione del papa alla limitazione delle nascite. Si separò dalla comunione. Chi sta oggi tornando a Canossa? Assistiamo ad un aggiustare la mira in documento, ad un tornare, diciamolo pure, penoso a farsi non meno che a vedersi, che uno sciame di teologi interpretatori, cerca di coprire e di favorire. Ma la sostanza è quella che è: una intera chiesa accettando una dolorosa sospensione di comunione ha richiamato i vescovi alla ragione e alla verità.

Così rimessa a disposizione anche del popolo di Dio e privata di certe raffigurazioni marginali la sospensione della comunione si trasforma e diventa un mezzo, il più delicato certo, il più pericoloso anche, per costruire la comune in certe particolarissime situazioni.

8. – La confessione. – Quel che si è fatto in embrione nella riunione di S. Maria in Vallicella merita ancora un cenno in relazione alla confessione. Solo un accenno. Dove sta andando il sacramento della confessione? Dicono di intere nazioni (nord-America, nord-Europa) dove la confessione è praticamente obsoleta. Ma non si può pensare che si possa essere cristiani senza una continua penitenza (e di ciò non parliamo) e cattolici senza un continuo riferimento alla comunità. Il riferimento alla comunità attraverso il dialogo con il presbitero può essere affiancato da un confronto con tutta la comunità riunita? Ecco un’altra ipotesi che hanno proposto i trecento cristiani della riunione che sotto tanti aspetti stiamo esaminando. Nuove forme dell’atto penitenziale? Forse. In ogni caso la situazione attuale della confessione non può opporre alle novità alcun titolo per resistere. Ogni tentativo è lecito davanti allo stato miserando in cui si trova attualmente la confessione. L’incontro col presbitero non raggiunge praticamente mai il livello di un confronto con le realtà quotidiane (dalle quali del resto il prete-verificatore viene con ogni cura tenuto lontano). Naturale dunque che al cospetto dell’inerzia o insensibilità dei pastori un gruppo di cristiani abbia reagito ed abbia chiesto di persona ad un equivoco fratello di mostrare la carta di credito.

9. – Le cause di un “impasse”. – Proseguiamo. Posto che la incompatibilità delle posizioni di Van Thieu e dei 300 cristiani di Roma sia apparsa totale al punto che più su dicevamo; ci domandiamo come mai non si sia giunti alla scintilla della non.-comunione.

A nostro parere le cause sono state di tre ordini. Il primo ordine di cause comprende quelle caratteristiche dell’incontro già indicato: presidenza di un laico ed assenza del presbitero al momento dell’incontro col vescovo, allargamento del contenzioso ad ipotesi (per vero già non più presenti nel documento) sulle quali non era possibile giocarsi la comunione, scelta del mezzo-documento, in forma di “petizione “ anziché di “comunicazione”.

Veniamo però alle altre cause che hanno impedito a nostro avviso che si mettesse in movimento il procedimento della comunione e della scomunica. Trattandosi di due cause che trapassano il fatto concreto che esaminiamo e condizionano ogni eventuale altro caso nella chiesa locale di Roma preghiamo gli amici di considerarli attentamente. In esse riconosceranno impostazioni da noi già prese in recenti lavori. Non meravigli questo ritorno periodico su certe pieghe della nostra realtà diocesana può essere la nostra limitatezza di analisi che vi fa giungere spesso alle stesso conclusioni . può essere anche che vi si sia davanti a certi “delenda Cartago” che condizionano ormai tutti gli altri discorsi.

10. – La Comunità. – Riferendoci all’assemblea di S. Maria in Vallicella abbiamo evitato nel corso di questo scritto l’uso del termine “comunità”. E quando invece in generale lo adoperavamo ci chiedevamo fra noi se ne era il caso. L’assemblea in questione non era infatti la eucarestia di una comunità stabile della chiesa locale romana, poniamo un convento o una parrocchia, ma una riunione eccezionale. Ma può un’assemblea senza passato e senza futuro porsi come partner di dialogo con un cristiano per giudicarne l’idoneità alla comunione? E può un’assemblea essere anche dal solo punto di vista pratico un partner possibile (=stabile, concreto) per un dialogo con il Vescovo? Al limite, può un’assemblea essere una comunità con la complessità di rapporti di ogni genere che caratterizzano questa realtà ecclesiale, e può un’assemblea “essere” realizzare e vivere (e quindi verificare negli altri) una comunione?

Spinto da queste domande qualcuno potrebbe retrocedere limitandosi a dire che nell’assemblea se non le si vuole riconoscere una coscienza comunitaria c’è almeno la compresenza di gente di ogni ceto e classe, età o mentalità. Una comunione ottenuta tra disuguali è la migliore garanzia per intraprendere la verifica della comunione di terzi. Una tale molteplicità non era molto evidente nell’assemblea di S. Maria in Vallicella.

Noi ci rivolgiamo piuttosto all’ipotesi di una comunità di base stabile, come ad esempio una parrocchia (o una comunità come quella di S. Paolo che è a tutt’oggi l’unica a Roma che si avvicini all’ipotesi nostra, come più su accennavamo.

E che peraltro è ancora al di qua della figura che proponiamo, non avendo ancora risolto il problema della collocazione dentro-accanto-fuori- oltre la “parrocchia” di S. Paolo. E che non presenta livelli molto diversificati di eterogeneità, come più su richiesto).

(Questo lavoro era già pronto all’inizio dell’estate. Approfittando come sempre della settimana di Ferragosto si è “sistemata” la faccenda dell’abate Franzoni . Le ripercussioni sulla vita della comunità saranno senz’altro assai profonde, perché i problemi che essa già presentava ne escono aggravati.

Quelli anzidetti e quelli indicati precedentemente in “La Tenda”, 39 pag. 10. Rischia ormai un progressivo emarginamento quest’altro tra i pochi, per quanto discusso luogo di dialogo ecclesiale).

Pur sapendo che le cose non si fanno con i se e i magari, diciamo che in teoria una comunità stabile della chiesa locale romana sarebbe stata un partner ben più reale e difficile per il vescovo. Ad esempio un partner dal quale non si poteva attendere l’inevitabile sgonfiamento, con quella flaccida capacità di attesa che resta ancora l’arma più potente e forse ormai unica di certe autorità (insieme con l’abilità di riestrarre certe carte dal cassetto dopo venti anni per dire che la chiesa aveva a suo tempo eccetera eccetera….)

Si dirà fin troppo facilmente che le comunità di base (p.e. parrocchiali) sono nelle pietose condizioni che sappiamo e che pertanto ….. D’accordo. Ciò giustifica la convocazione di assemblee d’urgenza, che però infine conducono a porre ancor più pressante l’urgenza di sbloccare le comunità di base dall’attuale stato di paralisi.

A voler ripetere cose già dette altre volte diremo che le grandi parrocchie sono oggi il mezzo migliore per evitare una normale fisiologia della vita ecclesiale nelle comunità cristiane. I vescovi se non ne hanno il dolo, ne hanno sempre più la colpa mano a mano che lo stato delle cose comincia a diventare evidente. Dalla situazione attuale il vescovo ricava una pacifica conduzione del fatto religioso, in cui tramite la massificazione dei rapporti si evitano gli scontri le tensioni e le opposizioni all’interno delle comunità o con avvenimenti di altre comunità (come ad esempio poteva essere, pericolosissima, una tensione tra una comunità locale romana e un cristiano-autorità civile). Le grandi dimensioni della comunità di base sono a tutt’oggi il miglior espediente per evitare il dialogo e il manifestarsi della verità.

11. – Il Vescovo. – Il documento con le trecento firme venne consegnato al Cardinal Vicario. Come dicevamo, trattandosi di un documento che poteva esser letto in tono esortativo (“chiediamo al nostro pastore… di non dire nessuna parola… di non aprire al lupo la porta delle sue pecore…”) era votato a restare una nobile formalità. E così fu. Niente impedì al Papa di ricevere pochi giorni dopo Van Thieu, cioè niente impedì che ciò avvenisse senza provocare alcuna ripercussione oggettiva nella comunione della chiesa locale romana e poi (per le automatiche reazioni a catena di cui si parlava) nelle altre chiese locali. Oltre a motivi detti finora, favorì l’operazione l’usuale scomposizione del Vescovo di Roma.

Il Papa ha un ampio guardaroba. Rivestito dei panni di Capo di Stato ha potuto ricevere il presidente vietnamita lasciando da parte quanto riguardasse i problemi di comunione cattolica inerenti il comportamento personale di quello. I panni del Vescovo di Roma li indossava per l’occasione il Cardinale Vicario il quale nel palazzo del Laterano riceveva le proposizioni ecclesiali della assemblea di S. Maria in Vallicella. Ancora una volta lo sdoppiamento della personalità e la delega facevano il loro dovere.

Parlammo altre volte di questi raddoppi di personalità (v. La Tenda, 20, 21, 32). Papa-Capo di Stato, Papa-Vescovo di Roma, Cardinal Vicario ma non Vescovo titolare, prete-ma non parroco. E deleghe in ogni figura. Papa e uffici centrali della Curia, Papa e Vicario, Vicario e Vicegerente, Vicario e Ausiliari, Vicario e uffici del Vicariato, Vicario e Prefetti, parroco e viceparroco. Ecco la gravissima situazione della chiesa locale di Roma deviata in ogni tentativo di dialogo.

Proseguiamo. L’Osservatore Romano pubblicò con discrezione la notizia dell’avvenuto incontro. Da parte del Papa parole più dure del solito. E nessuna foto di circostanza. Ma tali quisquiglie sono bastate ad evitare la ricomposizione delle immagini in Viethnam? Il Thieu quando è tornato a casa (speriamo anche lui senza foto-ricordo) non deve aver faticato a presentare la visita di Roma come un fatto unitario: “il Papa? Sono andato a trovarlo; eccomi qui, tutto bene.” E per i Vietnamiti, che non sanno di tante distinzioni il fatto ha detto qualcosa… Che cosa?… La paura non è stata solo nostra. Il 2 aprile 73, quindi, il giorno dopo la liturgia che esaminiamo, 50 donne vietnamite congiunte di prigionieri politici firmavano a Saigon un appello al Papa che diceva tra l’altro “… l’udienza che state per accordare… è una spada a doppio taglio… salutare nel caso che .., abbia per effetto… un completo cambiamento… pe quel che concerne i detenuti politici… Sarebbe invece una rovina nel caso la vostra udienza sia strumentalizzata come legittimazione ….” (in Sette giorni, n°310 p.44; e Il Regno 1973, n°13 p.376).

Di tanto in tanto si fa viva la voce che il Papa tornerà saltuariamente a S. Giovanni in Laterano a pascere il gregge della sua diocesi. Se ne parla dal tempo di papa Giovanni che perciò fece riadattare il costosissimo palazzo. Ben venga questo momento. Tuttavia diciamo subito che il risultato già da solo ottimo di avere il nostro vescovo al suo posto non sarà ancora tutto. Non vorremmo che ciò avvenisse nello spirito del vecchio gentiluomo che ogni sabato va personalmente a trattare i villici delle proprietà di campagna. Ripetiamo, in qualche modo o misura il Papa a S. Giovanni sarà sempre un gran risultato. Ma se tratterà nella sua chiesa locale (intendi con clero e laici romani) i problemi della comunione con le altre chiese del mondo, allora si prospetterà finalmente in concreto il modo nuovo di essere centro della comunione di tutte le chiese. Ben venga che il Papa tratti finalmente le cose della sua chiesa locale con la pienezza dei suoi poteri episcopali. Ma questo non ci accontenta ancora finché anche il rapporto con le altre chiese non entri nella prassi eucaristica della chiesa locale romana.

Non più una diocesi di Roma ufficio distaccato e declassato della Curia vaticana. Neppure una doppia residenza con orari di ricevimento a giorni alterni. Ma una vera e propria rivoluzione copernicana: il Vescovo di Roma nella sua chiesa, e i problemi della comunione universale come problemi di comunione con la chiesa locale romana.

Questo tempo è, a vista d’uomo, molto lontano. E intanto? Se il vescovo esercita il suo compito di verifica della comunione in forme che evitano il coagularsi e il risolversi degli attriti, se così la comunione cattolica si è diluita oltre il tollerabile, che fare? Non sarà tempo di agire da soli, anche in forme eucaristiche con i nostri preti, ponendo anche atti che disturbino il vescovo coinvolgendolo in una decisione? Abbiamo visto che il processo eucaristico lo permette, anzi lo richiede, e che questo hanno in fondo “sentito” e “proposto” i 300 cristiani di S. Maria in Vallicella con l’eucarestia del 1° Aprile 1973. Disgraziatamente il processo si è subito inceppato. E noi ci siamo sentiti in dovere di aiutarvi a cercare perché e percome. Ad utilità di chi è obbligato dallo Spirito proverà la prossima volta.