Lettera 42 (Prima Serie)

La Preparazione Dei Bambini Alla Prima Comunione Nella Chiesa Locale Di Roma

Introduzione

1° Forme di “pastorale giovanile” e infantile erano fino a qualche anno fa assai sviluppate nella nostra chiesa locale, pur senza che si raggiungessero le dimensioni delle forme corrispondenti nelle altre diocesi italiane, soprattutto del nord.

2° In questo ultimo decennio sono piuttosto cresciute le problematiche connesse con l’annuncio del Vangelo e la catechesi dell’età adulta.

Anziché del colmarsi di una lacuna troppo evidente potrebbe addirittura trattarsi di una inversione di tendenza esposta al pericolo della opposta deficienza, che si giunga cioè a trascurare la pastorale dell’infanzia e della giovinezza con le loro peculiarità.

Quanto detto andrebbe sviluppato e documentato. Ce ne asteniamo perché non abbiamo sul momento interesse ad approfondire complessivamente il problema dell’equilibrio tra le “sfere pastorali”.

Abbiamo però posto quelle due affermazioni all’inizio di un lavoro su “la preparazione dei bambini alla prima comunione nella chiesa locale di Roma” per disattivare subito due fonti di possibile disinteresse.

Alcuni infatti sono portati a pensare che i problemi riguardanti i bambini non siano veramente importanti nella scala delle attuali preoccupazioni pastorali, dovendo essi venir risolti quasi come facili corollari delle impostazioni assunte all’interno delle comunità di adulti.

Altri giungono alla stessa noncuranza per paura di concentrare la pastorale in questioni di bambini, paura del resto ben fondata su esperienze passate e non solo passate.

Che si debba parlare di più o di meno di bambini, che i loro problemi siano più o meno risolti se inclusi nei problemi degli adulti qui non decidiamo. Nel corso del lavoro appariranno qua e là collegamenti con gli aspetti della pastorale, i quali ultimi saranno ovviamente decisivi anche per il problema che trattiamo, ma non al punto, crediamo, di ridurlo a un non-problema.

Notiamo del resto che l’argomento da noi prescelto è ben più che una “forma pastorale giovanile” o infantile. Si tratta della ammissione alla eucaristia nella chiesa, quindi di un atto non riducibile ad una forma pedagogica più o meno transitoria. Non per niente in tanto rimaneggiamento attuale, mentre si può discutere di età della comunione, di distribuzione di competenze tra gli educatori, di forme e contenuti della catechesi, non si può certo discutere il principio che i cristiani vengano prima o poi introdotti alla eucaristia e debitamente a ciò catechizzati. Cioè la preparazione alla prima comunione non è in se stessa discutibile come invece altre forme catechetiche (associazioni giovanili, gruppi giovanili di perseveranza dopo la prima comunione, insegnamento scolastico della religione, eccetera). Della prima comunione, della introduzione piena alla comunità liturgica, c’è solo da vedere come farla.

Che infine dall’esame del problema possano derivarsi interessanti spunti per altre questioni e per il rinnovamento della liturgia e della vita comunitaria è cosa che pensiamo apparirà più volte lungo il corso della trattazione e su cui quindi non mette conto fare altre giustificazioni preliminari.

1a PARTE: Un po’ di storia

Attualmente la legislazione diocesana circa la preparazione dei bambini alla prima comunione è compendiata nell’articolo 423 del Sinodo romano del 1960. La prassi usuale delle parrocchie della città è abbastanza corrispondente al dettato della norma.

Al fine di comprendere meglio lo scopo di tali legislazione e prassi (che illustreremo nella 2a parte) ci dedichiamo preliminarmente ad una breve analisi storica.

Schematizziamo come al solito l’esposizione in periodi di tempo largamente approssimativi.

1) Periodo 1870-1910 – Ci soccorre l’ottimo studio monografico di Claudio Mancini “La pia Casa di esercizi di Ponterotto”, in La vita religiosa in Roma intorno al 1870, Roma, Gregoriana, 1971, volume globalmente da noi recensito in la Tenda, 29, pag. 2. Lo studio del Mancini si allarga ben oltre la data e l’argomento prescelti e dà molti elementi che passano agevolmente da un’opera storica ad una utilizzazione di ordine più attuale e pratico.

Nel lungo periodo post-risorgimentale la chiesa locale di Roma conduceva la sua pastorale in forme strutturali ancora stabili e largamente collegate con quelle anteriori (vedi l’assunto di base di tutto il volume citato). Sommariamente anche noi scrivevamo tempo fa: “La pastorale generale non mostrava dall’interno squilibri…Il clero in cura d’anime assicurava lo svolgimento delle normali azioni religiose, sacramenti, culto giornaliero, uffici parrocchiali e una pastorale di quartiere per i meno abbienti assai legati all’abitazione. La presenza degli ordini religiosi garantiva servizi di maggior valore. Così la scuola religiosa…Anche sacerdoti impegnati nella curia coprivano qualche esigenza pastorale specialmente con associazioni giovanili…Parrocchie, basiliche, cappelle, scuole private, conventi, università di religiosi…Il parroco, generalmente solo, operava con tranquillità, in parrocchie spesso formate da secoli…aveva un cero rapporto umano con molte famiglie del quartiere e poteva coltivarlo, sbrigava da sé la carità, istruiva personalmente i bambini di prima comunione…” (“Riflessioni sul clero romano”, La Tenda, 3, pag. 4-5).

“Il parroco istruiva personalmente i bambini di prima comunione” dicevamo allora. Ma è necessario precisare meglio in questa sede un’affermazione data alla buona in un tentativo di panoramica sommaria. E proprio dalla correzione, o meglio dalla spiegazione di quella nostra frase comincerà il nostro lavoro.

Nel 1901 il numero dei bambini che doveva andare a prima comunione era di circa quattromila unità per l’intera città di Roma (Mancini, cit., pag. 198). In effetti già in partenza i parroci si sgravavano di tutti quelli, nobili o meno, che si preparavano presso istituti, scuole, collegi, istitutori domestici e privati. Essendo costoro assai numerosi si riduceva di molto il numero di quelli che “il parroco preparava personalmente”. C’erano inoltre le “case di esercizi”.

È necessario soffermarsi alquanto sulle “case di esercizi”, fenomeno tipicamente romano, e sulla loro incidenza quantitativa e psicologica nell’ambito della questione che trattiamo. Questa parte del nostro lavoro apparirà forse lunga oltre misura, ma ci porterà ben al centro di tutta la problematica della prima comunione a Roma nel periodo 1870-1910 e nei successivi.

Le “case di esercizi” erano state create dalla buona volontà di preti e laici particolarmente preoccupati della “evangelizzazione” (diremo oggi) e della catechesi a ragazzi e giovani lontani dalla fede o in pericolo di allontanarsi da essa. Le case erano attrezzate per ricevere gruppi sia di ragazzi che di adulti. Un’equipe stabile di preti si occupava della predicazione.

Le case romane erano: a) la Pia Casa di Ponterotto, in Trastevere, b) le “Cappellette di S.Luigi” alla chiesa di S. Ignazio e poi a S. Maria Maggiore, c) la Casa di S. Pasquale, dapprima in via Anicia poi a Santa Cecilia. La prima casa era sorta nel 1799. Tutte e tre le istituzioni sopravvivono ancor oggi.

Alle suddette case i parroci indirizzavano volentieri i ragazzi sia nei casi particolari di “recupero” sia in casi normali di ragazzi che avrebbero potuto preparare in parrocchia ma che con gli “esercizi chiusi” avrebbero “fatto meglio la comunione”. Se si tien conto anche dell’elevato numero di ragazzi preparati in collegi ecc., come si è detto più su, si può comprendere come ad un certo punto si siano potute contrapporre polemicamente due affermazioni entrambe in un certo senso vere. La prima, che i parroci trascurassero il problema globale, nel senso che non lo controllavano in toto. La seconda, che essi provvedevano personalmente a preparare i bambini di prima comunione, quelli cioè non preparati altrove.

Ma andiamo con ordine. All’inizio del secolo qualcuno aveva cominciato ad interessarsi della prima comunione dei bambini in parrocchia. Un tal canonico Gerardo Procacci (Martini, cit., pag. 174, nota 23) aveva “deciso di pubblicare un opuscolo che illustrasse le sue idee…che pochi fossero i fanciulli che s’accostavano all’Eucaristia, circa la metà dei potenziali, e che da questo abbandono in cui i giovani erano lasciati fosse nata la corruzione morale della Roma italiana. Responsabile del male era prima di tutto la parrocchia romana caduta in letargo e l’uso invalso di accostarsi alla Comunione, per la prima volta, in case di esercizi, numericamente scarse, piuttosto che in quella antica cellula di vita cristiana, la parrocchia, entro la quale doveva inquadrarsi qualsiasi attività pastorale. Da ciò, però, non doveva derivare, per il Procacci, la morte di istituti tanto benemeriti, per esempio Ponterotto; essi dovevano, invece, continuare nell’opera di apostolato a favore dei comunicati maggiori di sedici anni, verso i quali si imponevano mezzi e metodi eccezionali. Il canonico Procacci accusava di grave negligenza i parroci che inviavano i giovani a Ponterotto, evitando di adempiere l’obbligo dell’apostolato delle prime comunioni…

Insomma, tutti i piccoli dovevano andare in parrocchia….” (cit., 147-148), le case dovevano essere riservate ai recuperi, ai ritardatari.

Il Procacci aveva attaccato su due fronti. Da una parte verso i parroci per stimolarli, dall’altra verso Ponterotto per limitarne i compiti. Gli avvenne che i parroci sposarono la causa di Ponterotto. Essi difesero il loro diritto di mandare chiunque nelle case di esercizi, quasi riservando la preparazione parrocchiale a coloro che per un motivo o per l’altro non avessero trovato modo di prepararsi altrove (case di esercizi o preparazioni private).

Il Procacci appare fornito di una articolata concezione della parrocchia che a nostro avviso è ben diversa da quella che hanno i parroci del tempo. Per lui la parrocchia è la comunità eucaristica di base e perciò ad essa spetta la “sacramentalizzazione” e la relativa preparazione. Ogni altra “opera” è sussidiaria. Per i parroci l’appartenenza alla parrocchia non contrasta con altre appartenenze ugualmente “principali” e comunque non riduce a luoghi subalterni le altre realtà pastorali diocesane. Ciò in prima approssimazione; torneremo sull’argomento più oltre.

Limitatamente alla controversia sulla prima comunione la questione era già posta nei suoi termini precisi quando venne eletto papa Pio X, 1903.

Pio X “accolse assai favorevolmente le tesi del Procacci e volle farle sue, affidandogli l’incarico di trovare la soluzione della questione della prima comunione a Roma” (cit., 149). Ponterotto si difese “facendo presente che (anche) il suo apostolato era, per così dire, di massa e che non si tralasciavano sforzi per educare giovani che in gran parte senza l’opera della Pia Casa si sarebbero persi alla fede” (ivi, 150). Ponterotto quindi non escludeva che si potenziasse l’istituto parrocchiale, chiedeva solo di continuare a vivere per soprasedicenni e, punto controverso, sottosedicenni. “I parroci, o perlomeno taluni tra essi, presero una posizione ben più rigida…vollero tornare a tutti i costi al vecchio sistema” (cit., 150-151), cioè a mandare a Ponterotto chiunque. A meno di attribuire la posizione a crassa pigrizia dobbiamo ipotizzare alla base di tutto una questione di principio. Lo vedremo.

2) Periodo 1910-1920 – Le parti si scontrano a lungo (cit. 147 e segg.). Infine, 1910, Pio X intervenne duramente. Ecco un testo dell’allocuzione del 5 febbraio 1910 ai parroci e quaresimalisti di Roma: “Abbiamo la casa di Ponterotto. Si dice che essa offra dei vantaggi; ma credetemi, essa è più di danno che di vantaggio. Chi è che va a Ponterotto, oggi ? Ci sono delle parrocchie di 20-30 mila anime; qualche parroco potrà dire ai suoi parrocchiani: ecco, vi do cinque biglietti per Ponterotto. Che cosa sono cinque biglietti ? Una goccia d’acqua nel mare. E poi chi ci va a Ponterotto ? Dei giovani già avviati per la strada del vizio (ci perdonino i lettori eventualmente comunicati nella Pia Casa, n.d.r.) che in quei giorni non impareranno nulla delle verità della Fede. Qui sentiranno delle prediche, e magari piangeranno; ma che cosa ne rimane, che cosa hanno imparato ? Chi li ha confessati questi giovani, lo domando dinanzi a Dio? E quando li hanno confessati hanno trovato che sapevano la verità della Fede ? Che sapevano tante verità che sono di necessità di mezzo ? (cioè mezzi necessari per conseguire la vita eterna ! n.d.r.). E così con tanta mancanza d’istruzione religiosa, noi avremo la teppa, quella teppa per la quale nessuna città è così infestata da ogni sorta di nefandezze come quella di Roma. Per tutte queste ragioni mi raccomando vi adoperiate con tutti i mezzi a promuovere l’istruzione religiosa nelle anime a voi affidate” (l.c. pag. 169. il manoscritto è nell’Archivio del Vicariato di Roma: Arch. Pontif. 281, 16, 38, redatto probabilmente su appunti orali).

I parroci resistettero ancora, poi anche i termini del problema si modificarono, come vedremo. L’opera di Ponterotto sopravvisse e sopravvive tuttora, sempre più marginalizzata. I parroci si mossero poco alla volta sulla linea di chi li aveva voluti soli responsabili di tutto un problema.

3) Periodo 1920-1940 – La città cominciò a crescere sempre più rapidamente. Le parrocchie vennero a configurarsi sempre più come “luoghi di culto di quartiere” (cfr. un nostro lavoro, ancora incompleto, sulla costruzione di nuove chiese in Roma, in la Tenda 5, pag. 8 sg.). le case di esercizi erano ormai emarginate come proposta pastorale globale. I parroci si trovarono così ad affrontare praticamente soli il costante aumento del numero dei bambini da preparare. Nei grandi quartieri urbani la forza delle cose imponeva quella via di totale presa a carico del problema da parte dei parroci, volenti o nolenti, unici attori della pastorale dell’infanzia. Una via bisognava trovarla. E una via si trovò, una via curiosa: la riproposizione in ogni parrocchia del modulo di Ponterotto. I “tre giorni di ritiro in preparazione alla prima comunione”.

A dire il vero questo modulo, pur derivato dagli Esercizi Spirituali di S. Ignazio , era già presente in altre città d’Italia e anche nelle parrocchie romane. Ma in questo periodo si generalizzò ed assunse la sua particolare fisionomia romana per la discendenza diretta dal metodo di Ponterotto, ben conosciuto dai parroci (e codificato nei minimi particolari: in molte parrocchie si ponevano a bella posta enormi crocifissi nei luoghi di passaggio dei bambini solo perché a Ponterotto c’erano uguali crocifissi dinanzi ai quali ad ogni passaggio ci si inchinava “devotamente”).

I pochi cenni suddetti indicano quale aspetto esterno, quali forme si avviava a prendere la preparazione parrocchiale alla prima Comunione.

Intanto si andava modificando anche il contenuto della catechesi. Infatti lo spostamento della preparazione in parrocchia portava alla ribalta il clero più giovane che maneggiava assai meglio il catechismo di Pio X che non il materiale più “narrativo” adoperato dalle generazioni precedenti (vite di santi, uso di esempi secondo la predicazione popolare, devozioni e giaculatorie, e anche vecchio e nuovo testamento seppur in forma aneddotica).

Così senza leggi particolari le cose si avviarono verso una soluzione di compromesso sia quanto a forma che quanto a contenuto. Un corso di una trentina di lezioni, quante ne bastavano per fare imparare a memoria le preghiere e il catechismo di Pio X, poi colpo d’ala finale con i tre giorni di esercizi. La particolarità romana stava nella eterogeneità di impostazione dei due momenti e ancora nella diversa rilevanza che essi assumevano da parrocchia a parrocchia, a seconda dei preti che li realizzavano. Al termine del lungo periodo di assestamento di questa prassi a due livelli, 1910-1940, ci sono parroci che non ammettono alla prima comunione senza un esame mnemonico abbastanza rigido e d’altra parte parroci che passano sopra a preparazioni del tutto discontinue e insufficienti purché il bambino “faccia bene i tre giorni di esercizi”. E non mancano, anzi sono assai frequenti i casi nei quali parroco e viceparroco si dividono i compiti trascurando e lasciando all’altro la parte in cui non credono (in genere i parroci “credono” alle tre giorni, i viceparroci al catechismo feriale durante l’anno).

Verso il 1940 si consolidò così una prassi bipolare in cui la convivenza di due elementi non era criticamente elaborata. E questa prassi si attualizzava in grandi linee così: iscrizione dei bambini all’inizio della quaresima, lezioni quotidiane sul catechismo di Pio X fino alla Domenica delle Palme, sospensione per la Settimana Santa (!, i preti avevano altro da fare !), ripresa con i tre giorni di ritiro, celebrazione a fine aprile-maggio.

Da questo periodo rileviamo appena una considerazione, come sia lento il cambio di prospettive e metodi negli agenti della pastorale. E come i fattori oggettivi siano alle volte rilevanti per i cambiamenti più che i programmi e le idee.

4) Periodo 1940-60 – L’immigrazione massiccia del tempo di guerra e del dopoguerra, la progressiva laicizzazione della vita pubblica, le controversie politiche dei primi anni della repubblica, gli enormi mutamenti culturali e sociali cambiarono anche l’atteggiamento medio della gente nei confronti della religione e della pratica religiosa. La chiesa italiana nel suo complesso non rispose (fino allo scossone del Concilio, 1962) con opportuni approfondimenti ed aggiornamenti.

Ma più in basso i parroci meglio avvertiti cominciavano a sentire una certa inadeguatezza di molte procedure pastorali e tra queste la prima comunione dei bambini. Così mentre proprio finiva di consolidarsi la prassi sopra descritta essa già appariva dissonante dalla situazione del nuovo momento. Già cominciavano ad arrivare in parrocchia bambini digiuni di ogni conoscenza e pratica vitale cristiana, e non nella misura eccezionale che preoccupava i fondatori delle case di esercizio dell’ottocento, ma come prodotti comuni di famiglie normalmente lontane dalla pratica religiosa, educati da mezzi di comunicazione di massa sempre più laicizzati, da maestri di scuola che svincolavano ormai l’insegnamento da richiami sostanziali al Vangelo.

Restava solo e sempre la pretesa di ottenere la prima comunione per i propri figli. Questo attaccamento alla tradizione veniva interpretato da alcuni “un segno della profonda fede che ognuno nel fondo del cuore eccetera eccetera”, ma per altri proprio la sopravvivenza di questo masso erratico era un problema. Non diciamo un resto da gettare a mare, ma un elemento vagante da riallacciare a qualcosa. Giacché purtroppo la suddetta “pretesa” di far fare la prima comunione ai propri figli conviveva senza fatica con la preparazione spesso interrotta o iniziata in ritardo e per motivi superficiali, con il crescere del “boom” commerciale della prima comunione e quindi con la sua deformazione, con il nascere del week-end fuori città e conseguente assenza dalle messe festive. Ciò mentre la parrocchia continuava ancora a crescere a dismisura e presentava numeri esorbitanti di bambini. Due-trecento unità per anno erano la norma.

A questo punto, intorno al 1950, i parroci più attenti pensarono che non si potesse più agire sulla mediocre base di una trentina di lezioni di catechismo e di due o tre giorni di ritiro. Cominciò a farsi strada l’idea di un corso annuale da ottobre a maggio, sulla falsariga dell’anno scolastico o, per esser più omologhi alle idee del tempo, dell’anno “sociale” dell’azione cattolica. Le resistenze furono notevoli tra le famiglie, minori tra i preti.

Le famiglie erano impreparate a comprendere una misura restrittiva quando a livello di sacramenti per adulti si battevano vie sempre più accomodanti. Facilitazioni nel digiuno prima della Comunione, nella Messa vespertina, nell’astinenza. E si condizionava forse a qualcosa il matrimonio di qualche vivo o la estrema unzione e la sepoltura ecclesiastica di qualche morto ?

I preti invece erano almeno in parte meglio disposti. Infatti alla cura dei ragazzi erano ormai addetti nelle parrocchie preti giovani (i “vice-parroci”, figura pressoché sconosciuta nel periodo pre-1930; sulla nascita, le caratteristiche e le modificazioni di tale classe di clero vedi “Riflessioni sul clero romano”, la Tenda, 4, pag. 3 sgg.). Questi preti più giovani provenivano spesso dall’Azione cattolica e dai suoi metodi formativi scanditi per “adunanze” settimanali feriali. Erano passati per studi posteriori alle riforme di Pio X e davano anche sufficiente credito al recipiente parrocchiale. Sicché erano assai adatti a recepire l’ipotesi di una catechesi intellettuale di tipo scolastico.

Nacque così la”mossa” pastorale 1950-1960: il prolungamento della preparazione a circa sei mesi di durata con lo scopo di creare una struttura più consistente ed impegnativa. In essa si sarebbero potuti controllare più agevolmente, perché più distesamente, i tentativi di maggior abuso, e si sarebbe potuto provvedere più approfonditamente alla preparazione dei bambini.

Precisione vuole che si faccia menzione a questo punto del parroco della Natività a via Gallia, don Luigi Rovigatti, poi vescovo di Civitavecchia e ora vicegerente di Roma, che per molti anni da solo propose alla sua parrocchia il corso annuale. L’indubbia capacità globale del Rovigatti finì per attirare l’attenzione del clero anche su questa sua realizzazione. E la proposta della Natività trovò accoglienza piena nella legislazione sinodale romana (1960), alla quale tra poco verremo.

Ma a venti anni di distanza noi ci dobbiamo domandare se e quanto quella proposta fu fatta dopo un’analisi approfondita e larga delle cause del malessere oppure solo aggrappandosi alla prima e più semplice misura a portata di mano, seppur nondimeno faticosa. Ebbene dobbiamo dire che la situazione generale non venne debitamente approfondita.

Facciamo alcune domande che se fatte allora avrebbero forse dato maggior consistenza ad ogni eventuale sviluppo. Come valutare la richiesta di comunione per bambini, pochi o molti, di famiglie non praticanti ? Quale parte attiva deve avere la famiglia nella preparazione del bambino alla prima comunione ? Sostituire la famiglia in questo compito o aiutarla ? Destinare sempre più uomini e impianti parrocchiali alla catechesi infantile ? Affrontare il decrescere della religiosità adulta e giovanile potenziando la catechesi infantile ?

A queste domande non si pose mente in massima parte perché al tempo non si avevano di tali problemi e noi che ce li poniamo oggi non ne facciamo colpa a nessuno. Solo registriamo che esse furono assenti quando pure si scelse una via non poco impegnativa.

Forse si agì senza tante remore perché a quel tempo (1950-1960) si restò colpiti da alcune prospettive positive alle quali l’ipotesi d’una preparazione prolungata introduceva. In una preparazione di sei mesi si apriva la speranza di un dialogo un po’ più approfondito con i genitori (più tardi il concilio inserirà obbligatoriamente i laici nelle celebrazioni e preparazioni sacramentali). Si vedeva la possibilità di inserire nel ciclo annuale Avvento-Natale-Epifania-Quaresima-Pasqua-Pentecoste una esperienza liturgica a ciclo completo (e intensivo ?), come occasione forse unica nella vita del bambino. Per alcuni più avanzati si prospettava già la possibilità di convertire la catechesi razionalista in catechesi biblico-liturgica. Sul piano pratico sembravano buone prospettive il contrapporre riunioni feriali al crescere delle assenze festive, il non intralciare l’oratorio domenicale in decrescita ma ancora consistente, il poter recuperare durante l’anno i periodi di assenze per malattie invernali, nonché quella migliore possibilità di identificare e controllare gli abusi, ultima ma non trascurabile preoccupazione di ogni agente pastorale.

Così mentre, a coronamento di tutta la storia precedente, negli anni 1940-1960 stava imponendosi infine l’idea e la prassi di un corso catechistico di almeno due mesi e proprio mentre questa prassi minima cominciava ad incontrare le gravi difficoltà di fondo che dicevamo, la diocesi si prospettava abbastanza semplicisticamente una nuova e più impegnativa frontiera, che in fondo consisteva solo nella proposta di un più massiccio impegno quantitativo.

Eppure già allora qualcuno pensava che dovesse farsi un riesame globale della situazione della diocesi e che non si trattava proprio di aumenti di produttività settoriale. Lo pensava Giovanni XXIII che indiceva nel 1960 il Sinodo come tentativo di un riesame completo di tutta la chiesa locale, struttura e pastorale compresa.

Il Sinodo poteva impegnarsi in una analisi approfondita seppur difficile e dolorosa della situazione cittadina e diocesana, e su questa valutazione fondare un tentativo di temporanea legislazione (il Sinodo ha valore per dieci anni, e ne riparleremo, avvertirà Giovanni XXIII proprio nel giorno della sua promulgazione, 28/6/60, v. Primo Sinodo Romano, volume ufficiale, pag. 391).

Oppure anziché andare fino in fondo il Sinodo poteva dedicarsi ad una ordinata e maneggevole riedizione della legislazione precedente con espunzione delle norme obsolete e con l’introduzione di qualche alternativa magari sperimentata e sotto forma di consiglio. Il Sinodo scelse quest’altra via, come si vedrà confermato nella seconda parte di questo lavoro.

La lunga esposizione storica appena terminata permette però da sola alcune considerazioni immediate come ad esempio quelle esposte poco sopra a riguardo dell’ultimo periodo. Altre le abbiamo lasciate nella penna per non interrompere il filo della narrazione e le esponiamo qui di seguito prima di proseguire.

Tali considerazioni possono trovare il loro punto focale nella impostazione che Pio X impose alla catechesi e alla pastorale della diocesi e di tutta la chiesa. Nel caso concreto della sua diocesi, risolvendo di forza la controversia Ponterotto-Procacci-Parroci applicò una scelta tra due concezioni opposte di “catechesi” e tra due concezioni opposte di “parrocchia”. Poniamo a questo proposito le due seguenti note, procedendo come al solito con estrema concisione.

PRIMA NOTA – Intorno al concetto di “catechismo” come appare nella impostazione di Pio X –

Nel discorso del 1910 più su citato, Pio X contrappose due metodi catechistici. Quello della predicazione popolare di Ponterotto (“sentiranno delle prediche, magari piangeranno”) e il metodo illuministico-razionalista da lui preferito (“ma che cosa ne rimane ? che cosa hanno imparato – da Ponterotto, s’intende – ….non impareranno nulla delle verità della fede… tante verità sono di necessità di mezzo”). Questo metodo “scientifico” si codificò nel famoso “catechismo di Pio X” con le sue formule da mandare a memoria. Derivava direttamente dalla “precisione” della controriforma antiprotestante e si era trasmesso fino a Pio X nell’ambiente pacificamente statico delle parrocchie e diocesi contadine specialmente settentrionali, e in quello più colpevolmente stagnante delle scuole teologiche.

La contrapposizione era dunque tra il metodo pietistico della conversione del cuore e quello razionale della illuminazione della mente e talvolta della pura e semplice memorizzazione.

Inizialmente il clero romano non era culturalmente preparato ad un cambio così radicale di impostazione catechetica. Sullo stato culturale del clero romano in cura d’anime qualcosa si disse (“Riflessioni sul clero romano”, la Tenda, 3, pag. 2 e seg.). Era un clero parecchio carente quanto a formazione teologica. E quel tanto che aveva studiato su manuali ottocenteschi non aveva neppure una utilizzazione nella catechesi ai bambini che i preti derivavano piuttosto dal modulo di Ponterotto e dalla predicazione popolare settecentesca che aveva nobili origini nel grande medioevo.

Altrove per avere un clero corrispondente alle riforme desiderate si istituirono (ma siamo già a Pio XI) appositi luoghi di formazione sottraendo alle diocesi la preparazione del clero. Si aprirono i “seminari regionali”, metà “colleges” e metà scuole superiori, una per ogni regione civile italiana. Ma a Roma non si poté battere con uguale semplicità la stessa via giacché le istituzioni dell’Urbe vennero anzi potenziate per adempiere nei riguardi del clero non-italiano quella stessa funzione di riduzione al denominatore comune, ma ovviamente con minore comprensione. Sicché a Roma si ebbe una riduzione meno completa al metodo razionalista. Sicché non fa meraviglia che ancor oggi esistano parrocchie dove quell’ondata catechistica che durò trent’anni (superata solo da una terza stagione, quella del Concilio Vaticano II) neppure fu avvertita, cioè parrocchie che per decenni resistettero (e resistono persino) al catechismo di Pio X, o dove venne insegnato pro-forma. Nella tensione tra modulo pietistico e modulo intellettualistico che aveva riscontro anche in disordini organizzativi e in opposizioni tra preti della stessa parrocchia, passavano a comunione senza preparazione numerosissimi bambini, per alcune parrocchie intere generazioni. Il che trova riscontro, per es., nelle alte percentuali di ignoranza in cose di fede documentate dal più recente studio sociologico sulla religiosità dei romani (E.Pin, Gregoriana. Roma, 1970).E si spiega anche l’enorme resistenza che fanno oggi coloro che si presentano ai sacramenti e si trovano davanti la proposta di un dialogo previo: “ai bei tempi non si erano mai viste tante pretese…”.

SECONDA NOTA – Intorno al concetto di “parrocchia” e quel che se ne ricava dalla controversia esposta –

  1. A prima lettura può aver fatto piacere l’aver incontrato fin dal 1900 la “parrocchia” come luogo di attrazione e unificazione della pastorale. Il Mancini riassume la posizione del Procacci attribuendogli l’idea di una parrocchia come “cellula della vita cristiana entro la quale deve inquadrarsi qualsiasi attività pastorale” (Mancini, cit., pag. 147). A parte l’uso di vocaboli e concetti un po’ anticipati l’idea del Procacci è ben resa: “tutto e tutti in parrocchia”.

La stessa scelta faceva più in grande e per tutta la chiesa Pio X nella sua riforma imperniata ugualmente sui cardini vescovo-parroco.

Ad accontentarsi dei nomi, cioè del fatto che si parla di “parrocchia” e che bene o male parrocchia richiama “comunità”, si potrebbe dire che una riforma imperniata sulla valorizzazione della comunità di base emerga già all’inizio del secolo (beninteso senza parlare di precisi contenuti teologici, liturgici e personalistici veramente comunitari quali verranno solo col rinnovamento che fa capo al Vaticano II, 1964). Ma neppure questo è vero, a nostro parere.

Proponiamo invece agli amici un’altra ipotesi di lettura circa quell’emergere di una dimensione “parrocchiale”. Che si sia trattato cioè di una buona ma vaga esigenza comunitaria rapidamente identificata con una struttura territoriale chiamata (troppo affrettatamente) “parrocchiale” e contrapposta senza mezze misure alla “vecchia” struttura parrocchiale romana, a nostro parere ben più meritevole del nome “parrocchia”.

Ci spieghiamo cominciando con una domanda. Perché proprio i parroci romani si opposero a quel “tutto in parrocchia” ? Cosa si nascondeva dietro quella scelta pastorale parrocchiale di tanto pericoloso, a loro avviso, per la parrocchia stessa ?

  1. Quella scelta pastorale a ben vedere faceva parte di un gioco più ampio. Ci si era trovati davanti ad una situazione nuova: la crescita della città che dopo secoli si allargava rapidissimamente lasciando tra le cose del centro le forme tradizionali della pastorale non meno che quelle artigiane del lavoro e patriarcali della vita domestica. A questa novità bisognava far fronte immediatamente, organicamente, senza disperdere le forze. C’era una carta da giocare ? Sì, aveva pensato il vescovo, c’è, è la “parrocchia”–entità territoriale che si può moltiplicare all’infinito in ragione di un certo numero di abitanti cittadini, o peggio, come vedremo, di un certo numero di metri quadrati (a ciò spinti anche dalla necessità di inserirsi per tempo con richieste precise nei piani regolatori cittadini che si andavano disegnando, e con la garanzia della copertura finanziaria per le costruzioni di chiese assicurata dalle leggi del 1929).

Le case dunque aumentavano o sarebbero aumentate in fretta. C’era premura di disegnare il reticolo parrocchiale che coprisse a scacchiera tutto il territorio della città e di definire, semplificando, compiti e competenze. Nella parte vecchia della città si sarebbero soppresse parrocchie o moduli pastorali locali non standardizzati ? Pazienza, si pensava, è il prezzo del progresso.

Non facciamo lamenti sul fatto che la vita sacrifica ogni giorno il suo passato. Dove il conto non torna è quando non la vita ma una idea organizzatrice distrugge ciò che esiste senza poter garantire che ciò che impone sia ugualmente vitale.

Buon per noi che le cose che si fecero morire erano già per loro conto destinate a scomparire nelle ormai prossime dimensioni metropolitane. Queste sommergeranno ogni cosa comprese le macroparrocchie che erano state inventate proprio per fronteggiare quella situazione.

Le “parrocchie” urbane erano state escogitate a tavolino. Disegnate sull’equazione quartiere=parrocchia, con enormi templi, veri containers di cristiani, con personale presbiterale curiosamente raggruppato e gerarchizzato, parroco-viceparroci-avventizi. Fecero il resto il sovraffollamento delle periferie, la mancanza di clero, il ritardo nella costruzione degli impianti parrocchiali, l’attribuzione alla parrocchia di compiti sociali (sport, ecc.). Gonfiate oltre misura in tutti i sensi finirono anch’esse immobilizzate, le parrocchie urbane, veri pachidermi fuori epoca.

C’era stata una svista. Si era scelta la “parrocchia” e va bene, ma si era deciso di farla “esistere” non di farla “nascere”. E si erano decise le dimensioni, la quantità di personale, le funzioni, il tipo di edificio ed annessi e quindi la pastorale corrispondente, implicitamente anche il costo di gestione e amministrazione e quindi pure il ricorso obbligato a metodi corrispondenti di drenaggio del denaro, e quindi di stile umano, eccetera…

La volontà del legislatore ebbe sempre il sopravvento sulle indicazioni naturali:”abbiamo parrocchie di venti-trentamila anime” lamenta in quel tempo Pio X, ebbene, aggiunge, “potenziate la parrocchia” !

3) Al tempo della “querelle” sulla prima comunione i parroci romani si opposero alla concentrazione di tutta la pastorale nella parrocchia e pian piano le motivazioni si fan più chiare.

Nel caso della prima comunione le ragioni più semplici e certo vere furono che i parroci erano assai legati all’opera di Ponterotto perché era espressione di figure venerabili del clero romano delle generazioni precedenti (v. Mancini, cit.) e che Ponterotto liberava le parrocchie da parecchio lavoro.

Ma immaginiamo che oltre a motivi sentimentali e di comodo abbia giocato nel profondo una sensazione forse non avvertita esplicitamente: che l’accentrare nelle mani di uno solo una complessa realtà pastorale avrebbe ucciso proprio la complessità articolata di quella risposta pastorale che un intero secolo di chiesa aveva costruito nella “prima Comunione” distribuita fra parrocchie, case di esercizi e privati. E che la distribuzione si sarebbe fatta senza proporre un’alternativa ugualmente articolata, ma il puro e semplice accentramento.

E forse la scaltrezza dei parroci romani riusciva ad individuare nella loro promozione ad agenti unici autorizzati una specie di vittoria di Pirro che li avrebbe legati ad un enorme lavoro di routine su ondate annuali di infanti e su tante altre cose ancora. E che avrebbero dovuto così abbandonare quel calmo procedere senza scadenze che caratterizzava la vita del clero ottocentesco e si sarebbe avviata la loro utilizzazione subordinata e acritica in una struttura di cui non sarebbero certo stati loro i capi manovratori. Che insomma sotto lo stesso nome di “parrocchia” si tentava di mettere nelle loro mani qualcosa di profondamente diverso da ciò che essi con tale nome avevano finora conosciuto e guidato.

Questo processo mostrerà di lì a poco la sua esigenza di piena utilizzazione dei parroci come personale subalterno (vedi il periodo dell’autoritario Card. Marchetti, con i suoi tentativi di razionalizzazione della conduzione della diocesi, illustrato già in “la Tenda” n. 5, pag. 2 e seg.). Allora l’opposizione dei parroci romani non sarà più l’inconscia motivazione da noi ipotizzata per lo strano “no” alla prima comunione dei bambini in parrocchia, ma invece una lunga lotta di resistenza passiva, anche se condotta da posizioni deboli che costringevano ad una guerra di logoramento. Studi migliori potrebbero illustrare la resistenza ai cambiamenti liturgici preconciliari. Il boicottaggio dei parroci all’Azione cattolica, la resistenza opposta ai viceparroci visti come elementi rinnovatori ecc….Il tutto con un continuo rimandare a privilegi e consuetudini, con un abile navigare tra un “superiore” e l’altro, fidando che “alla fine anche questa passerà, Roma è eterna”.

(In questa linea, si situano anche oggi le attuali resistenze alla macrodiocesi e alle macroparrocchie. Di queste resistenze talvolta disordinate e confuse cerchiamo di essere attenti cronisti e nelle nostre comunità parrocchiali di base lucidi protagonisti, per quanto è possibile).

4. Nella controversia tra il Procacci ed i parroci ad un certo punto si fu ad un passo dal chiarire l’ambiguità del concetto di parrocchia e la portata della differenza di due prospettive.

Procacci parlò di metà dei bambini romani senza comunione e chiamò in causa la parrocchia. I parroci reagirono portando come esempio la popolare parrocchia di S. Maria in Trastevere dove a lor dire solo trenta adulti erano senza comunione. Un bambino saprebbe riconoscere che le due parti parlavano di cose diverse. Procacci di bambini e di impegno dei parroci. I parroci di adulti e di impegno anche di altri. Procacci intendeva la parrocchia come strumento per affrontare con un’unica azione pastorale tutti i fedeli di una data età. I parroci non conoscevano questa generalizzazione e quindi tiravano le somme molto più tardi. Il momento della conta per i parroci era al termine di un periodo lungo che aveva permesso il concludersi degli itinerari di tutti.

Al primo scontro i parroci avvertirono inconsciamente l’estraneità della proposta Procacci. Erano tanto lontani con la testa dal pensare ad una macchina-parrocchia che producesse bambini-comunicati-ad-anni-otto, che all’accusa del canonico risposero candidamente: “ma a quarant’anni sono tutti comunicati” !! Davvero aveva ragione Procacci: i parroci non pensavano alla prima comunione dei bambini. Soprattutto non pensavano ad una prima comunione da bambini.

  1. Facciamo ancora un passo e ulteriormente domandiamoci dove sia la radice della divisione tra i parroci romani da un lato e Procacci e Pio X dall’altro. I nostri amici vogliano riflettere con attenzione alla ulteriore ipotesi che esporremo e con la quale ci pare di portare un iniziale contributo allo sblocco del problema della macroparrocchia romana che negli anni 70-80 dovrà in qualche modo avvenire.

Procacci era sabino e veniva a Roma dalla campagna. Pio X aveva anch’egli notevole esperienza pastorale paesana e rurale. La struttura pastorale rurale era semplice. Alcune famiglie con situazioni più o meno simili da famiglia a famiglia, stessi problemi di sole e pioggia, di semina e raccolto, stessa campana e orari di vita. La comunità cristiana si esprimeva facilmente in azioni interessanti tutti più o meno allo stesso modo nello stesso momento. La struttura pastorale rurale o paesana era semplice e solida della sua semplicità.

La struttura cittadina è invece tendenzialmente più complessa. Le famiglie hanno situazioni eterogenee, nella stessa casa si vivono anche in cose fondamentali, mangiare lavorare riposare, vite diverse. Tanto più sul piano interiore. Non può che esistere una situazione pastorale complessa, solida piuttosto della sua complessità (va senza dirlo che ormai campagna paesi e città vanno realizzando situazioni di uguale complessità).

Ebbene, qui la nostra ipotesi: la struttura pastorale parrocchiale così come venne proposta alla città da Pio X in poi fu una semplicistica trasposizione di un modulo rurale antico alla città moderna senza alcun serio adattamento.

Quando nei tempi antichi la fede si sparse dalle città alle campagne si comprese che non si poteva costringere la gente ad aver centro a troppa distanza. Nacquero le parrocchie di campagna. Insieme a un criterio di partecipazione comunitaria interveniva un motivo di ordine pratico. E anche nelle città si comprese che si potevano collegare la comunità e la liturgia ad un luogo solo a patto che tale luogo fosse alla immediata portata di tutti. Una passeggiata di cinquecento metri era il massimo che si potesse pretendere ad esempio da vecchi e bambini e da tutti per le liturgie quotidiane. E ciò era quanto rispecchiavano le dimensioni delle parrocchie urbane ancora fino al 1870.

Quando a Roma iniziò il boom edilizio del novecento il criterio metrico fu applicato naturalmente, troppo naturalmente. Una parrocchia per chilometro e basta. Uno sguardo sommario alla dislocazione delle chiese cittadine del novecento lo conferma. (È una generalizzazione la nostra, ma non troppo. Il Cardinal Marchetti, 1931-50, pose la norma del chilometro di distanza come legge tassativa per i religiosi e le religiose che volevano aprire a Roma case, scuole, ricoveri, asili, ecc. Egli costrinse in aperta campagna più e più opere con l’assicurazione che di lì a dieci-venti anni sarebbe arrivata la città. Così fu difatti e il Cardinale, quello che maggiormente in questo secolo ha agito pensando al domani della diocesi, poté far fronte in prima istanza alla richiesta di servizi religiosi delle zone di seconda periferia, Prenestino Casilino Tiburtino Tuscolano-Appio, Cassia-Flaminia, Aurelia ecc. anche usando per gli impianti il ricavo del plusvalore di parte delle aree. Ciò permise poi al suo successore, Card. Micara, 1951-60, con il controllo di un grosso pacchetto di servizi di interesse cittadino ben comodi per le autorità civili del tempo, amministrazioni Rebecchini-Cioccetti, di portare la diocesi di Roma come protagonista degli affari ai margini della politica e della urbanistica romana. Ma non divaghiamo).

Dunque una parrocchia per chilometro, grosso modo, proprio come in paese o in campagna abitata. Ma ecco il punto: quanta gente in questo chilometro ? Venti-duecento famiglie in campagna o in paese. Ma cinquemila-diecimila famiglie in città ! La trasposizione pura e semplice di un criterio metrico in città ha portato a parrocchie di dieci-ventimila “anime” con punte, guarda caso proprio nei quartieri a costruzione intensiva, di cinquanta-sessantamila “anime”.

  1. La reazione che si va svolgendo negli anni 70 è quotidianamente sotto i nostri occhi: individualismo religioso diffuso da un lato, e dall’altro esigenze comunitarie che esplodono in sussulti di gruppi, comunità di base, comunità impegnate, comunità catecumenali, movimenti biblici, spirituali, sociali, tutti divisi in mille modi ma uniti a tutt’uomo nel rifiutare l’idolo gigantesco, la parrocchia che si cerca di superare, distruggere, sostituire con niente o con comunità elettive, personali.

Noi assai moderatamente anche perché l’argomento merita ben più che una trattazione in appendice, ci situiamo ancora al di qua di quelle drastiche e forse premature conclusioni. Ci limitiamo a porre un interrogativo. Che il rapporto parrocchia-città non sia stato ancora studiato, almeno per quanto concerne la città moderna. Che l’attuale parrocchia di città sia una semplice trasposizione di quella rurale, costruita prevalentemente sul criterio metrico di superficie. Che a suo tempo i parroci di città (della piccola città di Roma) vennero fatti tacere troppo rapidamente, per imporre una serie di gabbie parrocchiali uniformi, strutture da moltiplicare a piacere.

  1. Ma poiché quasi senza accorgercene siamo giunti a prospettare l’idea di un ritorno a parrocchie di dimensioni ridottissime rispetto a quelle attuali, sarà opportuno aggiungere qualche precisazione, pur nell’ambito della ristrettezza di questa nota che resta sempre estranea ad una trattazione esplicita e approfondita dell’argomento quale con l’aiuto di Dio prima o poi faremo.

Va detto per esempio che il ritorno a piccole parrocchie territoriali ha qualche precedente. Il Cardinale Ascalesi a Napoli intorno agli anni 30-40 eresse a parrocchia innumerevoli chiese o cappelle del centro di Napoli. Evidente che quel che lui si proponeva era un recupero della dimensione orizzontale della chiesa, oggi diremo del dialogo.

Va precisato che il passaggio da macroparrocchie a parrocchie territoriali di dimensioni minori non è desiderata per obbedire a criteri sociologici di moda che impongono il dialogo come dimensione sine qua non di ogni gruppo umano. Proponiamo invece parrocchie a piccola dimensione perché emerga ad esempio lo scambio delle esperienze interiori nella fede, una preghiera viva e concreta, una carità tra noti e non tra ignoti, cose dunque non puramente naturali ma anzi veri frutti dello Spirito compromessi irrimediabilmente nelle parrocchie attuali.

Tuttavia perché appaia subito la complessità del problema, diremo ancora telegraficamente che la parrocchia piccola di oggi non sarebbe certo quella di ieri. Già proprio la struttura della città organizzata in zone socialmente uniformi e indipendenti (qua tutti ricchi, là tutti poveri) farebbe le piccole parrocchie ben diverse da quelle dell’ottocento. Si proporrebbero quindi problemi di eccessiva omogeneità interna della parrocchia, problemi dello stesso ordine di quelli delle macroparrocchie attuali, anche se su scala minore e quindi più facilmente aggredibili.

Inoltre oggi non c’è da scegliere, come semplicisticamente si potrebbe immaginare, tra il distribuire i cittadini=cristiani di Roma in comunità di dimensioni grandi oppure piccole. Ci sono quartieri dove su cinque-diecimila famiglie si possono contare non più che duecento-trecento famiglie normalmente partecipanti ad una vita comunitaria Così paradossalmente il grosso quartiere è forse ormai la dimensione territoriale migliore per una comunità parrocchiale …piccola. In ogni caso anche le piccole parrocchie territoriali sarebbero, data la situazione religiosa, sempre entità a forte caratterizzazione missionaria. Altro elemento di diversità dalle antiche piccole parrocchie.

E qui ad esser sinceri si vede bene che al fondo occorre risolvere prima un altro problema, quello cioè della identificazione dei cristiani appartenenti alla comunità, e il problema connesso della ammissione indiscriminata ai sacramenti. Senza di che anche la creazione di piccole parrocchie (che resta sempre un obiettivo lecito) potrebbe ridursi ad una mossa di più accorta amministrazione del patrimonio esistente, addirittura un tentativo più articolato per fingere che non c’è ancora crisi.

Lasciamo anche nella penna ciò che riguarda la posizione del clero nell’ambito di queste nuove eventuali prospettive. C’è evidente la necessità di pensare a nuovi tipi di clero (questo punto e la sacramentalizzazione di massa sono i due nodi che bloccano ogni altro rinnovamento pastorale, ne riparleremo). Limitandoci al clero esistente dobbiamo dire che nessuna prospettiva potrà crescere finché esso sarà docilmente acquiescente alla attuale acritica ripetizione di atti di culto o di modi catechetici o di sacramenti a prezzo fisso, magari calmierato con decreto episcopale.

Ma basta con questa lunga digressione sulla parrocchia, cui aveva dato la stura un certo modo di agire dei parroci romani sul problema delle prime comunioni. Torniamo ancora una volta ai nostri bravi bambini.

(continua)

Cari amici,

facendo seguito alla notizia apparsa sull’ultimo numero di “La Tenda”, vi informiamo che l’incontro sui fondamenti biblici dell’Anno santo, da noi organizzato, è spostato a domenica 10 giugno p.v. , con inizio alle ore 16,30. L’incontro si terrà presso il Convento dei PP. Camaldolesi di S. Gregorio al Celio (Salita di S. Gregorio, 2, Roma).

Al più presto contiamo di farvi avere il testo scritto della conferenza del Prof. Tommaso Federici. Fin da ora vi preghiamo di leggervelo attentamente, appena lo riceverete. In questo modo potremo avviare subito il dibattito, in sede di incontro.

Fraterni saluti

gli amici di “La Tenda”