Lettera 41 (Prima Serie)

Alcuni Punti Di Riferimento Per Una Teologia Della Chiesa Locale

(conversazione di Carlo Molari all’incontro degli amici de “la Tenda” di S. Gregorio al Celio – 10 dicembre 1972)

INTRODUZIONE

Quando mi presentaste il tema io ebbi una certa sfiducia di portare avanti una tale riflessione, perché temetti ù, e questo rischio è molto forte per noi teologi, di cadere in quelle forme di giustificazione delle cose di fatto, di ciò che esiste; si fa cioè una riflessione teologica strumentale, per giustificare la situazione. I teologi sono sempre stati straordinari nel trovare le ragioni per giustificare i dati e diventalo poi strumenti di conservazione, del potere e dello stato di fatto. Andando avanti nella riflessione ho visto che il campo si allargava e realmente era necessario sviluppare un tema di questo tipo.

Io questa sera non affronto neanche tutte le domande che avete poste perché ne sarebbe troppo ampio il campo. Vorrei limitarmi, almeno per questo primo momento; avrete poi occasione di continuare ancora la riflessione, e io la continuerò per conto mio. Vorrei limitarmi a due idee centrali: 1) richiamare qualche elemento della microecclesiologia (per dare alle cose un nome pomposo) e cioè qualche riflessione della chiesa locale; 2) poi vedere almeno una certa introduzione ad un tipo di riflessione relativo a Roma, alla chiesa locale romana.

PARTE PRIMA

Qualche riflessione sugli elementi essenziali della chiesa locale . qui evidentemente non faccio altro che raccogliere cose già abbastanza note; vorrei sottolineare però alcuni elementi, perché saranno poi importanti per le applicazioni. ( [1])

1) La Chiesa così come è emersa dal Vaticano II è descritta come luogo dove viene offerta la salvezza all’uomo e quindi il luogo della verifica (= realizzazione) e della testimonianza di salvezza operata e annunciata da Cristo. In altre parole il Vaticano II definisce la Chiesa “sacramento di salvezza”. Tale termine è già stato molto chiarito e non c’è bisogno di tornarci sopra; in rapporto alla riflessione sulla chiesa locale fermiamoci un po’ ad analizzare la formula usata: “luogo di verifica e di testimonianza per la salvezza dell’uomo”.

2) Per il momento partiamo da una riflessione molto semplice, da un dato di fatto: tutti noi stiamo alla ricerca di qualcosa, alcuni la chiamano la nostra piena maturazione, altri lo sviluppo totale della nostra personalità o il raggiungimento di uno stato di perfetta armonia di coscienze. Sono formule vaghe che evidentemente non possiamo neppure arricchire di contenuti diversi finche non maturiamo questa tensione che portiamo in noi, e raggiungiamo così la “nostra pienezza”. Col termine di “salvezza” indichiamo precisamente questo orizzonte verso il quale andiamo, queste promesse che la vita e la storia ci fanno e alle quali in fondo noi crediamo, perché se continuiamo a vivere è proprio perché noi riteniamo valide queste offerte che la vita e la storia continuano a proporci. Il problema è: c’è realmente la possibilità di realizzare questa nostra tensione, di raggiungere questa pienezza? E’ veramente possibile attuare ciò che a noi sembra essenziale per la vita e per la realizzazione quindi degli ideali storici? E’ possibile? Nella storia vi è stato fra gli altri l’annuncio di Cristo. Egli fondamentalmente ha detto questo ad ogni uomo: tu puoi diventare te stesso nonostante il tuo passato, nonostante le difficoltà, le situazioni nelle quali ti trovi, puoi rinnovarti, puoi essere nuovo da domani. L’annuncio che Cristo ha fatto può essere proprio ricondotto a questo. Garaudy, in una pagina famosa relativa a Cristo pubblicata qualche anno fa, riassumeva da un suo punto di vista storico la figura di Cristo in questo modo: Egli ha fatto capire ad ogni uomo che da ogni giorno può cominciare un nuovo avvenire. In fondo questo è il senso profondo di ciò che diceva alla peccatrice: va e non peccare più; ad ogni uomo che incontrava, ad ogni donna, annunciava: il regno di Dio viene, oggi puoi cominciare ad essere nuovo, sei chiamato alla salvezza, ed è possibile realizzarla perché il Padre ti ama e ti chiama. Questo annuncio è stato fatto: noi lo abbiamo accolto, ma lo abbiamo accolto nella fede per la testimonianza di Cristo. Perché nessuno di noi ha ancora verificato che questo è possibile, nessuno di noi ha vissuto nella propria carne questa maturazione completa e può in base alla propria esperienza annunciare che la salvezza dell’uomo completa e definitiva è possibile. Nessuno di noi può dire che di qui a cinquanta anni confermerà “non ho sbagliato nella mia scelta”. L’accettazione è fatta sempre in atteggiamento di fede. Tuttavia questo atteggiamento di fede ha un fondamento nella testimonianza di Cristo risorto nella esperienza, ancora parziale, di salvezza che facciamo nella storia. L’esperienza è la possibilità di accogliere la promessa che la vita ci fa, l’esperienza della salvezza attuale fonda la possibilità di continuare a sperare nella realizzazione dell’annuncio fatto da Cristo.

3) Ma questa verifica che noi operiamo, giorno per giorno, e nella misura in cui l’operiamo, chiede costantemente anche il richiamo, il confronto con le esperienze altrui. Non è sufficiente mai la mia esperienza per capire realmente che la salvezza a cui sono chiamato è possibile. Io ho ad esempio una certa età, altri accanto a me hanno un’età maggiore o minore. Io non posso dire anche per loro: l’annuncio è valido; io sono maschio e non sono femmina. Come posso dire: l’annuncio è valido anche per le donne? Io sono nato in una determinata cultura, vivo in una determinata nazione, ho una determinata esperienza. Per questo mi sembra che anche se realmente il riferimento a Cristo è significativo ed efficace, anche se riesco a trovare una mia identità, a raggiungere e a maturare la mia personalità, per gli altri il mio annuncio può essere valido finché viene confortato dalla esperienza di tutti gli altri che vivono con me, che raccolgono con me lo stesso dono, la vita, riferendosi a Cristo.

4) Allora la Chiesa, questo universale sacramento di salvezza, diventa precisamente “il luogo dove viene accolta, viene verificata (= resa vera, completata) e quindi viene testimoniata la salvezza offertaci di Cristo”. Questo evidentemente suppone la località dell’esperienza di salvezza. Non si fa un’esperienza al di fuori della storia. Dice la Gaudium et Spes, n. 44, che l’incarnazione dell’annuncio nelle culture è una legge fondamentale dell’evangelizzazione. Non si verifica ( non si fa vero), non si accoglie il dono di Dio e quindi non lo si testimonia se non all’interno di una particolare struttura, di una particolare cultura, di una storia. Per questo l’esperienza, cioè la verifica e quindi la testimonianza della salvezza è sempre locale, situata storicamente e geograficamente. Per questa ragione ogni testimonianza di salvezza è sempre parziale e provvisoria. Essa vale precisamente all’interno di un particolare orizzonte, quindi per natura esige un confronto di tutte le altre esperienze. Ne deriva subito una conseguenza molto semplice. La Chiesa come luogo di verifica, di accoglimento e di realizzazione del dono di Dio manifestato in Cristo è inserita in un luogo, in uno spazio: è necessariamente locale. Ma in quanto tale questa comunità che è Chiesa e che è interamente Chiesa non è la Chiesa intera.

5) Perché allora ogni comunità in cui viene accolto il dono di Dio, manifestato in Cristo, dove viene verificata la validità di ciò che Cristo ha annunciato, può essere chiamata veramente Chiesa? Non mi dilungo su questo perché possono supporsi noti gli elementi che costituiscono una Chiesa e d’altra parte non interessano per il momento. Diciamo in generale “E’ veramente Chiesa perché vi è l’esperienza del dono dello Spirito”, usando la formula di Pietro (lo Spirito che voi vedete ed ascoltate, Atti, 2, 37 ). Similmente, al capitolo quinto degli Atti, quando lo stesso Pietro parla di fronte al Sinedrio. In fondo è sempre questo il punto di partenza: la verifica(=la presenza) del dono dello Spirito. Ricordate Gal. II, dove dice: la verifica che avete fatto del dono dello Spirito, i miracoli o meglio le cose meravigliose che avete vissuto, non è questo che vi dà la prova che il dono di Dio vi è venuto per la fede e non per l’osservanza della legge?

Quindi il punto di partenza, il momento della verifica è proprio lo sperimentare che riferendoci a Cristo veniamo trasformati, che possiamo realmente diventare uomini, che il suo dono (lo Spirito) ci trasforma. Quando questo avviene lì c’è la Chiesa, la comunità che vive così è interamente Chiesa, ma non è la Chiesa intera.

6) Per questo la testimonianza e la verifica di una Chiesa locale è sempre insufficiente e parziale, richiede la testimonianza di tutte le altre comunità. Questo è importante sottolinearlo: una comunità che non sente questa esigenza di cattolicità è in se stessa un po’ malata, le manca qualcosa per essere Chiesa; la comunità che non sente questa esigenza fondamentale di aprirsi, di confrontarsi con gli altri (non dico di annullare la propria situazione storica, che sarebbe uscir fuori dal tempo e sarebbe annullare la propria identità) di ricostruire, cercare e raggiungere la propria identità, nel confronto costante con tutte altre situazioni soffre di un sottile male ecclesiale. In altre parole, se, per esempio, la Chiesa olandese si presentasse a tutti e dicesse questo è l’unico modo per essere Chiesa sbaglierebbe, ma sbaglieremmo anche noi se dicessimo il nostro è l’unico modo di essere Chiesa e il vostro è sbagliato. Concludendo queste veloci riflessioni possiamo ritenere, per il momento, che la Chiesa è necessariamente locale, che la Chiesa locale è interamente Chiesa, ma non è la Chiesa intera, perché la sua testimonianza è insufficiente, e richiede di essere garantita dagli altri, accolta dagli altri, suffragata dagli altri.

7) E qui rientra un processo molto interessante, cioè la necessità del riconoscimento, dell’accoglienza delle altre Chiese, per il momento siano arrivati a questo punto, c’è la necessità di apertura a tutte le altre comunità perché la testimonianza sia valida, non solo per noi che abbiamo una determinata cultura, per noi che abbiamo una determinata età, per noi che abbiamo una determinata esperienza, ma per tutti; perché la verifica di salvezza e il suo annuncio sia veramente universale è necessario un confronto costante, una apertura. Ciascuna comunità deve portare l’eco di tutte l’esperienze di salvezza delle altre comunità (in fondo questo vuol dire essere cattolica), deve risuonare di tutte le verifiche di tutte le altre comunità. Ma perché questo sia possibile, è necessario che la testimonianza di fede data comunitariamente in un determinato luogo venga riconosciuta come valida, accolta e riconosciuta dalle altre comunità. Questo è un processo abbastanza difficile. E’ interessante notare che è un processo cominciato all’inizio della chiesa. Si sentì subito la necessità che possiamo chiamare della comunione o della Koinonia, di essere cioè riconosciuti ed accolti dagli altri. Quando una chiesa locale non sente questa esigenza non dico solo di cattolicità di riferimento e quindi di conforto, ma proprio questa esigenza di essere riconosciuta dalle altre comunità è segno che sta cadendo in quella forma di autosufficienza che è uno degli impedimenti più grandi della conversione. In fondo l’atteggiamento autentico della comunità che vuole verificare costantemente la salvezza è proprio quello di assumere la disposizione di conversione. Deve riconoscere che il punto in cui è arrivata non basta, che l sua testimonianza è ancora insufficiente, che ne dovrà dare un’altra. Quando non esige l’accoglienza da parte degli altri, e di essere giudicata e criticata dagli altri, non è più nell’atteggiamento di rinnovamento e di conversione e quindo la sua testimonianza minaccia di diventare sterile, di fissarsi in un tempo. Se la testimonianza della chiesa romana, per esempio dal 1915, fosse rimasta omogenea nel tempo, oggi non sarebbe più sufficiente; valida allora oggi non basterebbe più, perché la verifica di fede necessariamente deve essere costantemente rinnovata. Se un bambino di otto anni fosse ben maturo e soddisfatto della sua fede poi a dodici a tredici, a quindici anni dovrebbe riconoscerne l’insufficienza. E’ chiaro, non basta la verifica (= realizzazione) che ha fatto fino ad otto anni, egli deve essere capace di rinnovare la sua esperienza, perché possa continuare ad avere fede e possa ritrasmetterla. Ogni comunità locale ha perciò l’esigenza di mettersi in confronto con le altre, di essere accolta dalle altre, di essere riconosciuta da loro come valida

8) questo è un processo che comporta alle volte degli scontri. Nella storia ci sono stati dei momenti di conflitto, dei momenti in cui una comunità non ha riconosciuto un’altra, si è trovata in dissidio con tutte le altre. A Gerusalemme, all’inizio si ebbe un momento di frizione molto forte: negli Atti è indicato in modo abbastanza chiaro. Il conflitto esisteva tra gli ellenisti (quelli di ispirazione, di formazione ellenistica, chiamati greci) e i giudeo-cristiani, quelli legati alla tipica formazione giudaica che facevano capo a Giacomo. Il conflitto mise in luce che a Gerusalemme di fatto esistevano due chiese locali di cui una, quella ellenistica, appunto, non si riconosceva nelle tradizioni, negli usi giudaici. L’identità di una comunità è fatta dalla sua storia, dalla sua esperienza, dalla sua cultura, quindi dal contesto in cui l’annuncio viene incarnato, necessariamente la verifica (=realizzazione) dell’annuncio è diversa. Non voglio dire che la cultura fa parte dell’annuncio di salvezza, di per sé, ma che ne è strumento necessario. Esistono di fatto diversità culturali, che non sono dipendenti dall’unica fede, dall’unica salvezza che si vive, ma dalle componenti diverse, storiche, diciamo locali.

PARTE SECONDA

Abbiamo dunque appurato che l’esigenza di riconoscimento e di accoglienza di una chiesa da parte delle altre è stata avvertita fin dall’inizio. Passiamo alla seconda riflessione: la necessità di un unico punto di riferimento per il confronto tra le comunità locali. Qui il discorso è un po’ difficile.

1) certo possiamo dir questo, teoricamente è avvenuto che fin dall’inizio c’era un punto di confronto comune per il riconoscimento delle comunità. Il riconoscimento non veniva fatto in base alla stessa formula di fede perché ci potevano essere comunità che avevano le stesso simbolo ma non si riconoscevano. Le formule potevano essere interpretate in modo diverso perché la fede era “vissuta” diversamente questo fu uno dei problemi che poi ha sempre accompagnato la chiesa, quello di una autenticità di una chiesa, o potete anche dire della ortodossia nel senso forte della autenticità o della apostolicità di una chiesa; il problema del collegamento alla testimonianza apostolica. All’inizio lo risolsero con il riferimento costante ad una chiesa: la chiesa di Gerusalemme. Ci sono vari indizi che convergono tutti proprio a questa affermazione: il riconoscimento reciproco nelle varie comunità inizialmente aveva come punto di riferimento la chiesa di Gerusalemme. Seguo per questi piccoli accenni una conferenza di J.J.von Allmen ([2]): è un protestante e lo seguo appositamente per questo, perché non ha certamente il pregiudizio dell’unità che potremmo avere e noi cattolici (von Allmen ha tenuto a Chevetogne nel 1969 una conferenza pubblicata in “La Chiesa Locale” Ave- 1972, £ 1.200. L’ottimo volumetto contiene due studi, l’altro dei quali, del P.Lanne, è stato da noi adoperato su “La Tenda”.

Von Allmen identifica tre gruppi di indizi che sono tutti orientati alla conclusione che Gerusalemme inizialmente aveva un compito di riferimento unitario per le varie comunità cristiane. Se una comunità era riconosciuta ed accolta da Gerusalemme veniva riconosciuta anche dalle altre. Voi sapete che in epoca successiva vi fu anche un segno esteriore dell’accettazione nel ricordo dopo la consacrazione nella messa, quando si faceva memori dei vescovi con cui i celebranti erano in comunione, con i quali cioè avevano “Koinonia”. Questa manifestazione aveva un significato non giuridico, ma ecclesiale molto ricco. Dunque inizialmente la Chiesa di Gerusalemme sembra avesse una funzione di comunione. Il riconoscimento che era il criterio di comunione non aveva valore giuridico, ma un significato prevalentemente soteriologico (da Soter=salvo). Significava: la salvezza che voi accogliete è vera; cioè camminando così giungete realmente al vostro destino, siete incamminati alla resurrezione; questa è una strada buona. Il riconoscimento della Koinonia non va mai inteso nel senso formale o giuridico, è riconoscimento ecclesiologico e soteriologico.

I tre gruppi di indizi a cui mi riferivo sono i seguenti: il primo si richiama al già indicato dissidio all’interno della stessa comunità di Gerusalemme. Dietro il racconto di Luca si indovina, a Gerusalemme, a fianco della comunità degli ebrei, raggruppata attorno ai dodici, o forse attorno a Giacomo fratello del Signore, la presenza di un’altra comunità cristiana formata da ellenisti. Le difficoltà sorte fra queste due comunità sono state regolate con decisione comunitaria. I dodici riuniti insieme impongono le mani a sette uomini e costituiscono quest’altra comunità nella stessa Gerusalemme; la persecuzione che poi sorge riguarderà la Chiesa degli ellenisti, non quella di Giacomo; Stefano era uno dei sette.

Secondo gruppo di indizi: Gerusalemme segue attentamente il lavoro missionario degli ellenisti. Quando questi costituiscono nuove comunità, la chiesa di Gerusalemme manda un suo rappresentante autorevole per riconoscere la nuova comunità e stabilire il rapporto di comunione. Filippo si porta in Samaria, battezza, e subito Pietro e Giovanni partono da Gerusalemme per la Samaria. Quando Paolo stesso inizierà il suo primo viaggio missionario, e costituirà la comunità di Antiochia, Barnaba verrà inviato da Gerusalemme. Tutto ciò lo potremmo interpretare anche secondo schemi diversi, però in ogni caso credo che lo schema del riconoscimento e del rapporto unitario sia abbastanza fondato. Questi indizi, conclude Allmen, ci permettono di affermare che la Chiesa di Gerusalemme si considera come chiesa di riferimento, quella con cui bisogna essere in comunione se si vuol essere chiesa nel senso pieno del termine.

Il terzo gruppo di indizi è tutto attorno alla figura di Paolo; Paolo viene a Gerusalemme per essere riconosciuto come apostolo, e deve impegnarsi non pocoa tale scopo perché incontra resistenze: non era stato con i dodici, non aveva conosciuto Gesù. Gerusalemme è, anche per lui, la fonte della ecclesialità delle chiese: Paolo si vuole e si dice apostolo partendo dalla città santa di Gerusalemme.

2) A questo primo dato di carattere storico vorrei aggiungere una piccola osservazione: la necessità di riconoscersi attraverso il punto di riferimento è sempre attuale per una comunità locale. Se la chiesa è invece concepita come struttura universale, il problema non esiste. Solo la chiesa, in quanto inserita in un determinato luogo, e in quanto annunzia la salvezza attraverso una particolare cultura, vive il problema del riconoscimento. Altra considerazione: questo riconoscimento non è definitivo, perché il peccato e l’errore possono sempre riprendere il sopravvento sulla verità e sull’amore. La comunità perde il suo carattere ecclesiale e la sua testimonianza non è più genuina. Se realmente in un luogo determinato non viene più accolto il dono di Dio, neppure esiste più la chiesa; se non vi è l’esperienza dello Spirito, se non vengono accolti i suoi doni, non esiste più la chiesa. In altre parole, se non ci sono degli uomini salvati, che diventino liberi, capaci di amare e segni per gli altri della possibilità di diventare uomini riferendosi a Cristo, non vi è Chiesa, sacramento di salvezza.

Il discorso è fatto al limite ma è conseguente. Ora se tutto questo è vero, è possibile che una comunità pur essendo chiesa ad un certo momento perda la sua ecclesialità, non sia più un sacramento universale di salvezza (dove universale=per tutti coloro che vengono a contatto con la comunità). Nella storia è già accaduto a molte comunità, per es., a quelle dell’Asia Minore, o dell’Africa del Nord. Comunità riconosciute come chiese a un certo momento sono scomparse: i loro corpi sono cancellati dal canone, non hanno più rapporti con le altre comunità. Questo può avvenire ancora di ogni comunità. Il riconoscimento non è solamente la conferma della propria origine, ma la certezza della continuità. L’essere accolti dagli latri è un giudizio critico costante della propria ecclesialità cioè della salvezza che viene vissuta e che viene annunciata. E’ un problema di vita, non è solamente un problema giurdico. Se ci poniamo in prospettiva giuridica le cose possono ugualmente procedere anche se manca la realtà (esistono sull’annuario pontificio vescovi di città inesistenti: i vescovi titolari), ma la Chiesa non esiste se manca la vita dello Spirito.

Non bisogna però dire che il riconoscimento degli altri fonda o costituisce l’ecclesialità, quanto piuttosto la certezza della propria ecclesialità. Altro è il riconoscere di essere chiesa, alto è fondarla. L’ecclesialità viene fondata solo dallo Spirito. Ciò che costituisce comunità ecclesiale è l’azione dello Spirito, e l’accoglimento nella fede, del dono dello Spirito. Questi sono gli elementi costitutivi. Il riconoscimento dell’altro non fonda la ecclesialità, ma è criterio di certezza della propria ecclesialità. Quando una comunità è in comunione con tutte le altre ed è accolta ed è riconosciuta come tale, cammina bene, va avanti.

3) Possiamo ora capire meglio la figura che ha assunto la comunità di Roma. Nella storia è avvenuto subito un cambiamento, probabilmente proprio attraverso Pietro e Paolo. Dal punto di vista storico è molto importante questa unità di Pietro e Paolo con la comunità di Roma, perché le comunità giudeo-cristiane sono scomparse (anche se un po’ più tardi di quanto abitualmente si pensava in un primo momento) ma subito hanno perso la loro importanza. E’ certo che molte comunità cristiane di cultura ebraica non sono riuscite ad assorbire tutti gli elementi che man mano la storia offriva loro, e a risolverne i problemi. Allora è avvenuto che la chiesa di Gerusalemme non ha svolto più il suo compito, di unità. A questo si è aggiunto il fatto che Pietro e Paolo hanno spostato altrove il loro centro di irradiamento apostolico. Di fatto Roma ha acquistato subito una grande importanza.

Per il momento non parlo ancora delle strutture e degli apostoli, parlo della comunità che diventa un punto di riferimento, in virtù degli apostoli Pietro e Paolo: nel 2° e poi successivamente nel 3° secolo la comunità di Roma.

Insisto nel dire comunità perché è la Chiesa che è il punto di riferimento anche se nella chiesa c’è il testimone apostolico, la figura del vescovo. La chiesa locale diventa punto di riferimento unitario per tutte le altre comunità. Ciò non significa che essa viva la salvezza in un modo più ricco, perché abbia una fede maggiore (anche se Paolo potrà dire che la fede della comunità di Roma viene annunciata in tutto il mondo) piuttosto perché di fatto è necessario che ci sia un punto di riferimento unitario. E’ una necessità pratica, concreta, è necessario che ci sia un punto di riferimento unitario per garantire la comunione nella fede.

4) di fatto la Comunità di Roma ha acquistato questa funzione. Ed io dico neppure che essa conserverà sempre questo suo carattere, ma solo che di fatto nella storia per tutte le comunità locali ha acquistato e conserva questa specifica funzione unitiva. Ciò è avvenuto per la sua tradizione, per la sua posizione nel mondo antico: per motivi storici. Quello che è importante è che di fatto ha acquistato questa funzione e che la può perdere per la propria infedeltà come l’ha persa Gerusalemme che l’aveva inizialmente.

5) l’ultima osservazione sempre a proposito di questo punto di riferimento , è che in ogni caso la testimonianza della propria fede diventa la condizione per poter riconoscere le altre comunità. Supponiamo una comunità locale, che ad un certo momento non vive più la salvezza, non accoglie più il dono dello Spirito, ma che conserva ancora le strutture. Pensate a tante comunità antiche: rimanevano in piedi e mettendosi in confronto con le altre erano portate ad accusarle di eresia, ad escluderle dalla propria comunione. Con il proprio atteggiamento di esclusione esse indicavano il proprio isolamento e la propria separazione. In tale modo escludendo le altre, una comunità manifesta la propria insufficienza, cioè afferma la propria non ecclesialità. Mettersi in confronto con le altre significa essere disposti a riconoscere la propria ecclesialità; perché se una comunità non vive il dono della salvezza, nel momento in cui si mette in confronto con le altre è portata a separarsi da loro. Credendo di giudicare gli altri giudica se stessa. Il processo di riconoscimento vicendevole quindi non è qualcosa di automatico, legato solo a forme esteriori: è un potere proveniente dalla fede vissuta. Si è in grado di accogliere le altre comunità, di entrare in comunione con loro e di riconoscerle come chiese autentiche nella misura in cui si vive la salvezza, si accoglie in proprio il dono di Dio che ci salva, si diventa liberi e capaci di amare.

6) Procedo molto velocemente; che posto ha in questa missione il vescovo? Non parlo solo di Roma, parlo in genere delle varie comunità locali. Direi, per riassumere in modo molto breve, che all’interno di una comunità il vescovo è il testimone della fede di tutte le altre comunità e diventa per le altre comunità il testimone della fede della sua comunità. ([3])

Consideriamo una comunità che vive la salvezza nel suo determinato ambiente culturale, con una e propria storia ed una particolare esperienza. Pensiamo ad una comunità (p.es. africana) che vive la fede e la formula secondo le strutture della propria cultura. La esprime nei riti e nei suoi simboli, ed è chiesa autentica, luogo di verifica e di accoglimento del dono di Dio. Perché la sua testimonianza venga giudicata deve essere confrontata con quella delle altre comunità che vivono la stessa fede secondo modalità diverse. Il vescovo diventa precisamente il testimone della sua comunità nell’assemblea di tutti i vescovi. E’ chiaro che c’è un aspetto in questo annuncio che noi non possiamo giudicare (anche se a volte siamo tentati di farlo). Possiamo dire: mostrate i vostri frutti, verificate realmente i doni dello Spirito. Se vi sono i frutti del regno (S. Paolo riferendosi alle pratiche dei giudaizzanti dice che il regno non è né mangiare né bere, ma la pace nella giustizia, il gaudio nello Spirito.

Dove sono i segni della salvezza in atto, là è la Chiesa. Il vescovo è il testimone delle realizzazioni di salvezza effettuate dalla sua comunità e delle formulazioni che la fede assume nella sua terra. In questo senso è testimone della sua comunione di fronte a tutte le altre. Si comprende che il senso della comunione dei vescovi nel concilio o nelle altre strutture di comunione non è solamente esteriore, è precisamente la messa in comune della esperienza di fede delle varie culture. Il vescovo non può tradire la sua gente, deve essere fedele alla sua gente: è il testimone della sua comunità.

C’è poi il secondo aspetto. Il vescovo all’interno della sua comunità è il testimone della fede di tutti gli altri, il testimone della fede apostolica, cioè della esperienza di fede fatta da tutte le comunità della storia e del presente. Diviene così stimolo e contestazione dei limiti di fede della propria comunità.

Concludendo, io penso che un punto di riferimento unitario all’interno della comunità non solo sia necessario, ma che questa funzione venga svolta precisamente dal vescovo come testimone della fede apostolica. Non perché egli abbia un’altra conoscenza, non perché abbia un altro criterio di fede: ha gli stessi criteri che ha tutta la comunità; solo che all’interno della comunità ha questa funzione come l’antenna, che accoglie tutte le esperienze della comunità, le unifica e le testimonia di fronte alle altre comunità.

CONCLSIONE

Per concludere richiamo lo schema delle nostre riflessioni. E’ solo uno schema, perché evidentemente sono idee da sviluppare.

Primo punto: la chiesa locale è interamente chiesa, ma non è la chiesa intera perché esige il complemento della testimonianza; la chiesa esiste solo localmente, cioè inserita in una struttura, come la salvezza, quindi ha una testimonianza di fede, è provvisoria, comunitaria e tendenzialmente cattolica, cioè esige il complemento di tutte le altre.

Secondo punto: la necessità della comunione e quindi del riconoscimento da parte delle altre comunità; questa accettazione avviene attraverso il riferimento ad un’unica comunità; inizialmente questa era la comunità Gerusalemme, poi è diventata di fatto la comunità di Roma che è stata un punto di riferimento costante per il riconoscimento e l’accettazione della ecclesialità. Ciò non significa che la comunità di Roma abbia vissuto sempre la fede in un modo autentico, anzi è stata spesso contestata dalle altre. Che cosa ne segue almeno per noi, che vogliamo riflettere un momento sul significato della comunità locale di Roma? Credo che almeno ne derivano queste due conseguenze:

Primo : dobbiamo renderci conto di una funzione storica che possiamo anche perdere e tradire. Che tutti i cristiani ricordino nella loro preghiera il vescovo di Roma, è realmente un segno, di questa responsabilità della comunità di Roma come segno di riconoscimento per l’autenticità delle chiese. Dobbiamo prendere coscienza di questa responsabilità che non significa la nostra grandezza, ma solo l’esigenza di un impegno di vita di fede.

Certamente ci sarà sempre un punto di riferimento, ma non necessariamente la comunità di Roma.

Secondo : gli incontri, le strutture, i vari riti di comunione (ce ne sono alcuni quotidiani: la messa, ma ce ne possono essere alcuni straordinari: come il giubileo, che servono precisamente per questo confronto) devono diventare un momento di giudizio per la comunità di Roma. A confronto con le altre comunità si deve accorgere della propria insufficienza, della precarietà della sua fede, se volete del suo giuridismo, delle esteriorità.

Molti sconvolgimenti ecclesiali possono derivare appunto dalla mancanza di riferimento. Pensate per esempio ad una comunità che non all’interno un punto di riferimento valido, pensiamo ad un santo, uno che vivendo realmente testimoni che la salvezza è possibile. Sentiamo alle volte questa insufficienza della testimonianza, p.es. dei sacerdoti. Il sacerdote dovrebbe avere questa funzione specifica di testimone della fede: all’interno della sua comunità dovrebbe indicare con la sua presenza che è possibile diventare liberi, che è possibile amare e che l’annuncio fatto da Cristo è reale, cioè può essere attuale per tutti. Quando il prete viene meno la comunità ne soffre tutta: non basta la sua testimonianza, perché è valida in quanto c’è quella egli altri, ma quando non c’è la sua c’è un momento di dispersione. Ebbene questo avviene anche nella Kainonia: quando ci sono dei periodi di crisi, di sconvolgimento, di dispersione delle esperienze ecclesiali, c’è da chiedersi se è perché viene a mancare un punto di riferimento unitario nell’esperienza dei fedeli. Non parlo di formule di fede, sono sempre secondarie, non parlo neppure di strutture unitarie (come quando ad esempio si pensava che dire la messa in latino fosse il vincolo dell’unità) perché ci si attacca alle cose esteriori quando non si ha la vita profonda

Non è forse il caso che la comunità di Roma inizi proprio questo esame di coscienza? Vista anche la dispersione che c’è attualmente nella chiesa, la mancanza di unità, non formale, ma reale nell’esperienza di fede, non è forse opportuno che la chiesa locale di Roma faccia questo esame di coscienza, se forse non sta perdendo la sua funzione, se non sta venendo meno al suo compito? Un esame di coscienza che credo può diventare (adesso per l’anno santo o per altri motivi) può diventare una presa di coscienza, non tanto della propria storia, della propria tradizione, quanto dell’esigenza fondamentale che nella chiesa ci siano punti di riferimento validi,in cui realmente il dono di Dio si manifesta. Se nessuno di noi potrà dire “lo Spirito che voi vedete ed ascoltate”, qualcosa di essenziale viene meno nella storia. Se nel mondo non ci saranno più comunità che potranno dire “lo Spirito che vedete e ascoltate” la chiesa scompare nella sua funzione di sacramento di salvezza e la gente ne cercherà altri nelle religioni d’oriente, nei riti, in qualsiasi altra cosa perché manca la testimonianza, perché nessuno può più dire “lo Spirito che vedete e ascoltate”. In fondo noi dobbiamo richiamare costantemente questa esigenza della testimonianza della forza dello Spirito, che trasforma gli uomini e rende loro possibile la certezza, la speranza che noi possiamo diventare noi stessi, possiamo raggiungere la nostra perfezione, trovare la nostra identità, completare questo cammino al quale il Signore ci ha chiamati.

Il destino verso cui stiamo camminando non lo conosciamo, ma sappiamo che è possibile. La fede in Cristo significa appunto che è possibile diventare uomini, raggiungere la nostra pienezza, ma la verifica (=la prova) è necessaria. Le comunità dovrebbero essere de segni costanti della venuta del Signore: che è possibile cioè diventare uomini.

Qualche parola a margine.

La conversazione di d. Carlo Molari, che abbiamo qui riportato per intero, ci sembra crei aperture che aiutano a camminare su strade nuove, e necessiti perciò di una attenta riflessione.

Ci sembra opportuno sottolineare ad esempio, le considerazioni relative alla possibilità, per la chiesa di Roma, di perdere la sua funzione primaziale, come già è avvenuto a suo tempo per Gerusalemme. Ciò dovrebbe ricordarci che non siamo insostituibili ed allo stesso tempo, richiamarci alle nostre responsabilità, per il nostro abituale disinteresse per il compito di fare da riferimento, come chiesa di Roma,per le altre comunità, il che ci fa spesso comodo pensare sia funzione esclusiva del Papa.

Ci pare anche che nell’incontro non sia stato possibile affrontare tutti gli interrogativi che avevamo posto nella lettera d’invito (n. 37 di “la Tenda”). È necessario perciò ripresentarli, affinché ciascuno, da solo ed in gruppo, possa portare avanti il lavoro di approfondimento, alla luce della realtà di cui ha esperienza, così da dare concretezza ad una chiesa-soggetto pensante alla teologia di se stessa.

Ecco le domande:

1. Ci pare che, per ogni situazione concreta, possa esistere una concettualizzazione teologica specifica. Qual è dunque la teologia della chiesa locale di Roma, vista nella sua doppia realtà di vera chiesa locale e di riferimento unificante della comunione universale?

2. Il Papa è il vescovo di Roma, il vescovo di Roma è il Papa. Quali sono le relazioni corrette tra queste due funzioni o “servizi alla chiesa”? Nell’esercizio, i due servizi si qualificano in qualche modo a vicenda?

3. La funzione unificante della chiesa locale romana si esaurisce nell’esercizio che della stessa funzione fa il vescovo, il Papa, oppure tutto il corpo della chiesa locale ne partecipa in qualche modo attivamente?

4. Esiste un compito peculiare del presbiterio romano e dei laici della diocesi, nonché dei diaconi e di eventuali altri gradi o “ordini” in questa funzione unificante della chiesa di Roma?

 

5. Come valutare teologicamente le deleghe e sottodeleghe alla guida della diocesi di cui fruiscono cardinale, vicario, vicari generali, vice gerenti, ausiliari, ecc. (sinodo romano art.18)?

6. Quali rapporti devono esistere tra chiesa locale di Roma e gli stati maggiori di ordini religiosi multilocali? Nonché tra chiesa locale di Roma quella parte di clero e laici, curia romana, particolarmente addetta alla comunione universale? Esiste, magari nel solo Papaina appartenenza alla chiesa universale senza riferimento primitivo ad un chiesa locale?

Saremmo lieti se qualcuno vorrà parteciparci le sue riflessioni sulla conversazione di d. Molari e sulle domande qui riproposte.

In uno dei prossimi numeri riporteremo anche una sintesi del dibattito che si è avuto nell’incontro di San Gregorio.

BANDO DI CONCORSO

L’associazione per lo sviluppo delle scienze religiose in Italia bandisce un concorso a borse di studio per l’addestramento alla ricerca scientifica nelle discipline storico-religiose, presso l’Istituto per le scienze religiose. Le borse sono quadriennali: ciascuna ammonta a £ 1.800.000 annue. Possono concorrere tutti i giovani laureati italiani e stranieri che non abbiano superato il 25° anno di età. Le domande, in carta semplice, indirizzate alla segreteria dell’istituto (Via S.Vitale 114-Bologna), devono pervenire entro il 30-6-1973. Alla domanda va allegato un dettagliato curriculum ed un’esposizione degli orientamenti scientifici e degli argomenti che il candidato amerebbe approfondire. Non oltre il 31-7 successivo potrà essere inviato qualsiasi altro documento atto a dimostrare gli interessi del candidato nelle discipline storico-religiose; sarà gradita l’indicazione delle lingue antiche e moderne conosciute e dell’avvento adempimento o meno degli obblighi militari. Il godimento della borsa implica il soggiorno a Bologna, la frequenza a tempo pieno dell’istituto e la realizzazione del programma di lavoro concordato. Per informazioni ulteriori rivolgersi alla segreteria dell’istituto.

Cogliamo l’occasione per ricordare che “la Tenda” è disposta a costituire piccole borse di studio per studenti che intendessero compiere ricerche sulla storia della chiesa locale a Roma.

((((((((((((((((((((((((((())))))))))))))))))))))))))

Cari amici vi informiamo che stiamo preparando un incontro sui fondamenti biblici dell’Anno santo. Siamo orientati a programmarlo per il pomeriggio del 31 maggio p.v., giorno dell’Ascensione. Ve ne diamo notizia fin da ora affinché, se siete interessati a parteciparvi, possiate tenervi liberi per quella data.

Nel prossimo numero di “la Tenda” che cercheremo di farvi avere al più presto riporteremo per intero il testo della conferenza in tal modo, in sede d’incontro, potremo avviare subito il dibattito ed entrare nel vivo del tema.

Anche se vi giungeranno in ritardo, vi inviamo molti fraterni auguri per la S. Pasqua

gli amici de “la Tenda”

  1. () Riassumo uno studio più ampio ora pubblicato nel volume “La fede e il suo linguaggio”, Assisi 1973 pp. 245-276.
  2. () la chiesa locale tra le alte chiese locali, in “La chiesa locale” – Ave – Roma 1972 pp. 71-114. –
  3. () riassumo qui parte di un articolo che ho pubblicato in Concilium n.1 del 1972. –