Lettera 39 (Seconda Serie)

Con questa lettera vi invitiamo a collaborare alla preparazione di uno o più incontri sull’esercizio della responsabilità.

Perché proprio la “responsabilità”?

A volte ci troviamo di fronte ad analisi sulle situazioni attuali capaci di mettere a fuoco le cause dei migrazioni, inquinamento, strangolamento economico…. ma spesso tali analisi sono senza via d’uscita.

Come è possibile tornare ad esercitare la nostra responsabilità?

  • Quali ambiti sono più urgenti?
  • Come uscire dal ruolo di spettatore e tornare ad essere responsabili?
  • Come rinunciare alle deleghe in bianco ed imboccare i sentieri in cui sia possibile intrecciare misericordia e verità?

Un criterio fondamentale ha accompagnato i nostri incontri: uno sguardo sulla realtà, partendo sempre da e con gli ultimi. Tra i temi attorno all’esercizio della responsabilità vi sono forse alcuni prioritari:

Su una parete della scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani

  • Migrazione: quali cause? quale futuro?
  • La responsabilità nell’ambito educativo e familiare
  • La responsabilità nella comunità cristiana
  • La responsabilità riguardo all’ecologia e all’economia

In questo numero presentiamo testi vari, ma uniti tutti dalla personale presa in carico della situazione della chiesa e del mondo, a Cuba come nelle chiese locali o come in Vaticano, nel riscoprire i valori della vita dalla prospettiva della sua fine come nel quotidiano lavoro a scuola per educare a questi valori.

Buona lettura.

Sommario della 39° lettera:

  1. L’esperienza vissuta nella comunità cristiana di Puerta de Golpe (Cuba) di p. s. Costanza
  2. Misericordia e coraggio: quello che avrei detto al Concistoro. Intervista con il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires
  3. Lettera del Santo Padre al presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina
  4. Vivere meglio per accettare la fine di Piero Benedetti da il Vascello Maggio 2016
  5. Desiderio di black-out: otto cose da fare a scuola, a schermi spenti di Raffaele Mantegazza Pedagogista
    1. L’esperienza vissuta nella comunità cristiana di Puerta de Golpe (Cuba) di piccola sorella Costanza

L’esperienza vissuta nella comunità cristiana di Puerta de Golpe (Cuba)

Ho vissuto 18 anni in questo paese di 5000 abitanti nella campagna di Pinar del Rio, a Cuba.

Siamo arrivate in due, piccole sorelle, agli inizi degli anni ’90. A Cuba, fino al 1990, lo stato si dichiarava ateo e l’insegnamento della religione e la pratica erano fortemente ostacolate.

Dopo 30 anni di questo regime pochissima gente aveva accesso a qualche conoscenza di religione o alla lettura della Bibbia.

L’arrivo di religiose in questo contesto suscitava curiosità e subito la gente ha cominciato a visitarci e a frequentare la nostra casa da quando ritornavamo dal lavoro fino alla sera tardi.

Un giorno abbiamo detto alle persone che venivano a trovarci che noi alle 20:30 pregavamo, pensando che se ne sarebbero andate, invece questo ha suscitato ancora più curiosità. Per capire che cosa significasse pregare hanno iniziato a venire sempre più numerosi ogni sera.

Così abbiamo adattato la recita dei Vespri, semplificandola, e cominciando a leggere ogni sera un testo del Vangelo in modo continuato e chiedendo a ciascuno di rileggere a voce alta il passo che lo aveva colpito. Questo è durato un po’ di tempo, poi la curiosità è passata ed è rimasto il piccolo gruppo di persone che era più interessato.

Così abbiamo cominciato a vederci una volta alla settimana per continuare la lettura orante del Vangelo con il metodo della lectio divina praticata nelle comunità di base di America Latina.

Alla gente piaceva perché ognuno si sentiva interpellato in prima persona e, sminuzzando il testo con piccole domande accessibili a tutti, ciascuno poteva partecipare attivamente e sentirsi protagonista. Insieme cercavamo di capire il messaggio che l’evangelista trasmetteva alla sua comunità e quello che trasmetteva a noi.

La comunità era cresciuta e venivano persone anche dal paese, che è a due chilometri di distanza: noi abitavamo in una piccola frazione.

Le piccole sorelle non sono preparate per questo genere di attività (il nostro carisma è piuttosto annunciare il vangelo con la vita). Avevamo studiato il metodo e cercavamo di applicarlo. All’inizio lo facevo io, come potevo, in modo poco sicuro e maldestro anche per la povertà del mio vocabolario in spagnolo. Una persona che partecipava e che aveva più facilità di parola mi disse che, se io l’aiutavo, lei poteva animare l’incontro. E così abbiamo cominciato ad aiutare lei e poi altre persone che si sono proposte di animare altri gruppi nelle loro case.

A noi sembrava una cosa meravigliosa e ci siamo impegnate a fondo per preparare le animatrici e l’unico animatore. Preparavamo insieme l’incontro che ogni animatore avrebbe fatto nella sua casa con i suoi vicini. Così sono sorte sei (per un periodo sette) comunità con una sessantina di persone in tutto che leggevano e pregavano settimanalmente il Vangelo, anche se la maggior parte di essi non frequentava la celebrazione eucaristica e la parrocchia.

I due parroci che abbiamo avuto in quel periodo ci hanno sostenuto e aiutato procurandoci Bibbie e partecipando a volte agli incontri, celebrando anche battesimi e matrimoni nelle comunità.

Abbiamo avuto anche l’aiuto di persone esperte che venivano per preparare gli animatori (Laura Brusotto da Milano, don Cesare Sommariva dal Salvador, don Giovanni Baldinelli dall’Uruguay, una comunità colombiana….). Tutto questo ha contribuito ad ampliare gli orizzonti, ad approfondire dal punto di vista teologico, a confermare gli animatori che sarebbero stati già in grado di continuare il cammino soli.

Un aiuto particolare lo ha dato don Giulio Battistella di Verona che per 5 anni è stato il nostro parroco e che, per la sua umiltà, l’ascolto, la sua predicazione ha segnato lo stile della comunità e ha lasciato un ricordo indelebile nella gente.

Questo è stato il periodo d’oro delle comunità, durato circa 15 anni.

Poi è venuto un giovane parroco cubano che, vedendo che molte persone dei gruppi del Vangelo non frequentavano la chiesa, ha pensato che le piccole comunità dividevano la grande e le ha soppresse, senza rendersi conto che toglieva la possibilità di continuare il cammino a persone che non sarebbero andate comunque in chiesa. Poi ha cambiato idea e avrebbe voluto che le comunità riprendessero, ma il nuovo parroco che gli è succeduto, un giovane colombiano, ha eliminato quello che sopravviveva e l’unica comunità che non si è arresa ha continuato a ritrovarsi in una casa quasi di nascosto.

E’ stato triste. Un animatore mi commentava tristemente: ‟Noi siamo stati troppo deboli e ubbidienti e ogni parroco la faceva da padrone, ma rimaneva solo qualche anno, mentre la comunità siamo noi che viviamo qui”.

Per fortuna l’ultimo parroco arrivato, giovane colombiano, è molto aperto e in ascolto di quello che la gente ha vissuto. Io non lo conosco, ma lui stesso mi scrive impressionato dalla profondità delle persone e dalla loro risposta.

piccola sorella Costanza

Misericordia e coraggio

Quello che avrei detto al concistoro. Intervista con il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires su quello di cui c’è più bisogno nella Chiesa oggi Da 30 giorni nella Chiesa e nel mondo anno XXV n. 11- 2007.

«Devo tornare», ripete. Non che l’aria di Roma non gli garbi. Ma quella di Buenos Aires gli manca. La sua diocesi. «Esposa» la chiama. A Roma, il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, passa sempre di corsa. Ma stavolta una sciatalgia l’ha costretto ad allungare al sua permanenza nella Città eterna con qualche giorno di riposo. Per di più, umorismo delle circostanze, l’appuntamento per cui aveva attraversato l’oceano, l’incontro con il Papa e tutti i cardinali riuniti in concistoro, gli è toccato saltarlo.

È una compagnia, la sua, mai lontana. Ci racconta com’è andata la Conferenza di Aparecida, dove proprio lui ha presieduto il comitato di redazione del documento finale. Confida che al concistoro il suo intervento sarebbe stato su questo. E con quel suo modo di dire lieve e insieme acuto, incisivo, che spiazza e sorprende, così ne parla.

Eminenza, al concistoro avrebbe parlato di Aparecida. Che cosa per lei ha caratterizzato questa quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano?

JORGE MARIO BERGOGLIO: La conferenza di Aparecida è stata un momento di grazia per la Chiesa latinoamericana.

Non sono però mancate polemiche riguardo al documento conclusivo…

BERGOGLIO: il documento conclusivo, che è un atto del magistero della Chiesa latinoamericana, non ha subito nessuna manipolazione. Né da parte nostra né da parte della Santa Sede. Ci sono stati alcuni piccoli ritocchi di stile, di forma, e alcune cose che sono state tolte da una parte sono state rimesse dall’altra: la sostanza, quindi, è rimasta identica, non è assolutamente cambiata. Questo perché il clima che ha portato alla redazione del documento, è stato un clima di autentica e fraterna collaborazione, di rispetto reciproco, che ne ha caratterizzato il lavoro, un lavoro che si è mosso dal basso verso l’alto, non viceversa. Per capire questo clima bisogna guardare a quelli che per me sono i tre punti-chiave, i tre “pilastri” di Aparecida. Il primo dei quali è proprio questo: dal basso verso l’alto. È forse la prima volta che una nostra Conferenza generale non parte da un testo base preconfezionato ma da un dialogo aperto, che era già iniziato prima tra il Celam e le Conferenze episcopali, e che è continuato poi.

Ma le direttive della Conferenza non erano già state segnate dall’intervento d’apertura di Benedetto XVI?

BERGOGLIO: Il Papa ha dato indicazioni generali sui problemi dell’America latina, e ha poi lascito aperto: fate voi, fate voi! È stato grandissimo, questo, da parte del Papa. La Conferenza è cominciata con le esposizioni dei ventitré presidenti delle diverse Conferenze episcopali e da lì si è aperta la discussione sui temi nei differenti gruppi.

Anche le fasi della redazione del documento sono rimaste aperte al contributo di tutti. Al momento di raccogliere i “modi”, per la seconda e terza redazione, ne sono pervenuti 2.240! La nostra disposizione è stata quella di ricevere tutto ciò che veniva dal basso, dal popolo di Dio e di fare non tanto una sintesi, quanto piuttosto un’armonia.

Un lavoro impegnativo…

BERGOGLIO: “Armonia”, ho detto, questo è il termine giusto. Nella Chiesa l’armonia la fa lo Spirito Santo. Uno dei primi padri della Chiesa scrisse che lo Spirito Santo « ipse armonia est », lui stesso è l’armonia. Lui solo è autore al medesimo tempo della pluralità e dell’unità. Solo lo Spirito può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e allo stesso tempo fare l’unità: Perché quando siamo noi a voler fare la diversità facciamo gli scismi e quando siamo noi a voler fare l’unità facciamo l’uniformità, l’omologazione. Ad Aparecida abbiamo collaborato a questo lavoro dello Spirito Santo. E il documento, se si legge bene, si vede che ha un pensiero circolare, armonico. Si percepisce quell’armonia non passiva, ma creativa, che spinge alla creatività perché è dello Spirito.

E il secondo punto-chiave qual è?

BERGOGLIO: È la prima volta che una Conferenza dell’episcopato latino-americano si riunisce in un santuario mariano. E il luogo già di per sé dice tutto il significato. Ogni mattina abbiamo recitato le lodi, abbiamo celebrato la messa insieme ai pellegrini, ai fedeli, Il sabato o la domenica ce n’erano duemila, cinquemila. Celebrare l’Eucaristia insieme al popolo è diverso che celebrarla tra noi vescovi separatamente. Questo ci ha dato vivo il senso dell’appartenenza alla nostra gente, della Chiesa che cammina come popolo di Dio, di noi vescovi come suoi servitori. I lavori della Conferenza poi si sono svolti in un ambiente situato sotto il santuario. E da lì si continuavano a sentire le preghiere, i canti dei fedeli… Nel documento finale c’è un punto che riguarda la pietà popolare. Sono pagine bellissime. E io credo, anzi, sono sicuro, che siano state ispirate proprio da questo. Dopo quelle contenute nell’Evangelii nuntiandi, sono le cose più belle scritte sulla pietà popolare in un documento della Chiesa. Anzi, oserei dire che quello di Aparecida è l’Evangelii nuntiandi dell’America Latina, è come l’Evangelii nuntiandi.

L’Evangelii nuntiandi è un’esortazione apostolica sulla missionarietà.

BERGOGLIO: Appunto. Anche per questo c’è una stretta somiglianza. E qui vengo al terze punto. Il documento di Aparecida non si esaurisce in sé stesso, non chiude, non è l’ultime passo, perché l’apertura finale è sulla missione. L’annuncio e la testimonianza dei discepoli Per rimanere fedeli bisogna uscire. Rimanendo fedeli bisogna uscire, Rimanendo fedeli si esce Questo dice in fondo Aparecida. Che è il cuore della missione.

Può spiegare meglio questa immagine?

BERGOGLIO: il restare, il rimanere fedeli implica un’uscita: proprio se si rimane nel Signore si esce da sé stessi. Paradossalmente proprio perché si rimane, proprio se si è fedeli si cambia. Non si rimane fedeli, come tradizionalisti o i fondamentalisti, alla lettera. La fedeltà è sempre un cambiamento, un fiorire, una crescita. Il Signore opera un cambiamento in colui che gli è fedele. È la dottrina cattolica. San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo, tra l’uomo che crede e la Tradizione che, nel trasmettere da un’epoca all’altra il depositum fidei, cresce e si consolida con il passo del tempo: «Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate.

Questo è ciò che avrebbe detto al concistoro?

BERGOGLIO: Si. Avrei parlato di questi tre punti-chiave.

Nient’altro?

BERGOGLIO: Nient’altro… No, avrei forse accennato a due cose delle quali in questo momento si ha bisogno, si ha più bisogno: misericordia, misericordia e coraggio apostolico.

Cosa significano per lei?

BERGOGLIO: per me il coraggio apostolico è seminare. Seminare la Parola. Renderla a quel lui e a quella lei per i quali è data. Dare loro bellezza del Vangelo, lo stupore dell’incontro con Gesù… e lasciare che sia lo Spirito Santo a fare il resto. È il Signore, dice il Vangelo, che fa germogliare e fruttificare il seme.

Insomma, chi fa la missione è lo Spirito Santo.

BERGOGLIO: I teologi antichi dicevano: l’anima è una specie di navicella a vela, se lo Spirito Santo è il vento che soffia nella vela, per farla andare avanti, gli impulsi e le spinte del vento sono i doni dello Spirito. Senza la Sua spinta, senza la Sua grazia, noi non andiamo avanti. Lo Spirito santo ci fa entrare nel mistero di Dio e ci salva dal pericolo di una Chiesa gnostica e dal pericolo di una Chiesa autoreferenziale, portandoci alla missione.

Ciò significa vanificare anche tutte le vostre soluzioni funzionaliste, i vostri consolidati piani e sistemi pastorali…

BERGOGLIO: Non ho detto che i sistemi pastorali siano inutili. Anzi. Di per sé tutto ciò che può condurre per i cammini di Dio è buono. Ai miei sacerdoti ho detto: «Fate tutto quello che dovete, i vostri doveri ministeriali li sapete, prendetevi le vostre responsabilità e poi lasciate aperta la porta». I nostri sociologi religiosi ci dicono che l’influsso di una parrocchia è di seicento metri intorno a questa. A Buenos Aires ci sono circa duemila metri tra una parrocchia e l’altra. Ho detto allora ai sacerdoti: «Se potete, affittate un garage e, se trovate qualche laico disposto, che vada! Stia un po’ con quella gente, faccia un po’ di catechesi e dia pure la comunione se glielo chiedono». Un parroco mi ha detto: «Ma padre, se facciamo questo la gente poi non viene più in chiesa». «Ma perché?» gli ho chiesto: «Adesso vengono a messa?». «No», ha risposto. E allora! Uscire da sé stessi è uscire anche dal recinto dell’orto dei propri convincimenti considerati inamovibili se questi rischiano di diventare un ostacolo, se chiudono l’orizzonte che è di Dio.

Questo vale anche per i laici…

BERGOGLIO: La loro clericalizzazione è un problema. I preti clericalizzano i laici e i laici ci pregano di essere clericalizzati… È proprio una complicità peccatrice. E pensare che potrebbe bastare il solo battesimo. Penso a quelle comunità cristiane del Giappone che erano rimaste senza sacerdoti per più di duecento anni, Quando tornarono i missionari li ritrovarono tutti battezzati, tutti validamente sposati per la Chiesa e tutti i loro defunti avevano avuto un funerale cattolico. La fede era rimasta intatta per i doni di grazia che avevano allietato la vita di questi laici che avevano ricevuto solamente il battesimo e avevano vissuto anche la loro missione apostolica in virtù del solo battesimo. Non si deve avere paura di dipendere solo dalla Sua tenerezza… Conosce l’episodio biblico del profeta Giona?

Non lo ricordo. Racconti.

BERGOGLIO: Giona aveva tutto chiaro. Aveva idee chiare su Dio, idee molto chiare sul bene e sul male. Su quello che Dio fa e su quello che vuole, su quali erano i fedeli all’Alleanza e quali erano invece fuori dall’Alleanza. Aveva la ricetta per essere un buon profeta. Dio irrompe nella sua vita come un torrente. Lo invia a Ninive. Ninive è il simbolo di tutti i separati, i perduti, di tutte le periferie dell’umanità. Di tutti quelli che stanno fuori, lontano. Giona vide che il compito che gli si affidava era solo dire a tutti quegli uomini che le braccia di Dio erano ancora aperte, che la pazienza di Dio era lì e attendeva, per guarirli con il Suo perdono e nutrirli con la Sua tenerezza. Solo per questo Dio lo aveva inviato. Lo mandava a Ninive, ma lui invece scappa dalla parte opposta, verso Tarsis.

Una fuga davanti ad una missione difficile…

BERGOGLIO: No. Quello da cui fuggiva non era tanto Ninive, ma proprio dall’amore senza misura di Dio per quegli uomini. Era questo che non rientrava nei suoi piani. Dio era venuto una volta… “e al resto adesso ci penso io”: così si era detto Giona. Voleva fare le cose alla sua maniera, voleva guidare tutto lui. La sua pertinacia lo chiudeva nelle sue strutturate valutazioni, nei suoi metodi prestabiliti, nelle sue opinioni corrette. Aveva recintato la sua anima col filo spinato di quelle certezze che invece di dare libertà con Dio e aprire orizzonti di maggior servizio agli altri avevano finito per assordare il cuore. Come indurisce il cuore la coscienza isolata! Giona non sapeva più come Dio conduceva il suo popolo con cuore di Padre.

In tanti ci possiamo identificare con Giona.

BERGOGLIO: le nostre certezze possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo. Colui che isola la sua coscienza dal cammino del popolo di Dio non conosce l’allegria dello Spirito Santo che sostiene la speranza.

È il rischio che corre la coscienza isolata. Di coloro che dal chiuso mondo delle loro Tarsis si lamentano di tutto o, sentendo la propria identità minacciata, si gettano in battaglie per essere alla fine ancor più autoccupati e autoreferenziali.

Che cosa si dovrebbe fare?

BERGOGLIO: Guardare la nostra gente non per come dovrebbe essere ma per com’è e vedere cosa è necessario. Senza previsioni e ricette ma con apertura generosa. Per le ferite e le gracilità Dio parlò. Permettere al Signore di parlare… In un mondo che non riusciamo a interessare con le parole che noi diciamo, solo la Sua presenza che ci ama e che ci salva può interessare. Il fervore apostolico si rinnova perché testimoni di Colui che ci ha amato per primo.

Per lei, quindi, qual è la cosa peggiore che può accadere nella Chiesa?

BERGOGLIO: È quella che De Lubac chiama «mondanità spirituale». È il pericolo più grande per la Chiesa, per noi, che siamo nella Chiesa. «È peggiore», dice De Lubac, «più disastrosa di quella lebbra infame che aveva sfigurato la Sposa diletta al tempo dei papi libertini». La mondanità spirituale è mettere al centro sé stessi. È quello che Gesù vede in atto tra i farisei: «… Voi che vi date gloria. Che date gloria a voi stessi, gli uni agli altri».

Lettera Del Santo Padre Francesco Al Cardinale Marc Ouellet, Presidente Della Pontificia Commissione Per L’America Latina

Eminenza,

Al termine dell’incontro della Commissione per l’America Latina e i Caraibi ho avuto l’opportunità d’incontrare tutti i partecipanti dell’assemblea, nella quale si sono scambiati idee e impressioni sulla partecipazione pubblica del laicato alla vita dei nostri popoli.

Vorrei riportare quanto è stato condiviso in quell’incontro e proseguire qui la riflessione vissuta in quei giorni, affinché lo spirito di discernimento e di riflessione “non cada nel vuoto”; affinché ci aiuti e continui a spronare a servire meglio il Santo Popolo fedele di Dio.

È proprio da questa immagine che mi piacerebbe partire per la nostra riflessione sull’attività pubblica dei laici nel nostro contesto latinoamericano. Evocare il Santo Popolo fedele di Dio è evocare l’orizzonte al quale siamo invitati a guardare e dal quale riflettere. È al Santo Popolo fedele di Dio che come pastori siamo continuamente invitati a guardare, proteggere, accompagnare, sostenere e servire. Un padre non concepisce se stesso senza i suoi figli. Può essere un ottimo lavoratore, professionista, marito, amico, ma ciò che lo fa padre ha un volto: sono i suoi figli. Lo stesso succede a noi, siamo pastori. Un pastore non si concepisce senza un gregge, che è chiamato a servire. Il pastore è pastore di un popolo, e il popolo lo si serve dal di dentro. Molte volte si va avanti aprendo la strada, altre si torna sui propri passi perché nessuno rimanga indietro, e non poche volte si sta nel mezzo per sentire bene il palpitare della gente.

Guardare al Santo Popolo fedele di Dio e sentirci parte integrale dello stesso ci posiziona nella vita, e pertanto nei temi che trattiamo, in maniera diversa. Questo ci aiuta a non cadere in riflessioni che possono, di per sé, esser molto buone, ma che finiscono con l’omologare la vita della nostra gente o con il teorizzare a tal punto che la speculazione finisce coll’uccidere l’azione. Guardare continuamente al Popolo di Dio ci salva da certi nominalismi dichiarazionisti (slogan) che sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità. Per esempio, ricordo ora la famosa frase: “è l’ora dei laici” ma sembra che l’orologio si sia fermato.

Guardare al Popolo di Dio è ricordare che tutti facciamo il nostro ingresso nella Chiesa come laici. Il primo sacramento, quello che sugella per sempre la nostra identità, e di cui dovremmo essere sempre orgogliosi, è il battesimo. Attraverso di esso e con l’unzione dello Spirito Santo, (i fedeli) “vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo” (Lumen gentium, n. 10). La nostra prima e fondamentale consacrazione affonda le sue radici nel nostro battesimo. Nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare. Ci fa bene ricordare che la Chiesa non è una élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formano il Santo Popolo fedele di Dio. Dimenticarci di ciò comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato. Siamo, come sottolinea bene il concilio Vaticano II, il Popolo di Dio, la cui identità è “la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio” (Lumen gentium, n. 9). Il Santo Popolo fedele di Dio è unto con la grazia dello Spirito Santo, e perciò, al momento di riflettere, pensare, valutare, discernere, dobbiamo essere molto attenti a questa unzione.

Devo al contempo aggiungere un altro elemento che considero frutto di un modo sbagliato di vivere l’ecclesiologia proposta dal Vaticano II. Non possiamo riflettere sul tema del laicato ignorando una delle deformazioni più grandi che l’America Latina deve affrontare – e a cui vi chiedo di rivolgere un’attenzione particolare –, il clericalismo. Questo atteggiamento non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente. Il clericalismo porta a una omologazione del laicato; trattandolo come “mandatario” limita le diverse iniziative e sforzi e, oserei dire, le audacie necessarie per poter portare la Buona Novella del Vangelo a tutti gli ambiti dell’attività sociale e soprattutto politica. Il clericalismo, lungi dal dare impulso ai diversi contributi e proposte, va spegnendo poco a poco il fuoco profetico di cui l’intera Chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli. Il clericalismo dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, nn. 9-14), e non solo a pochi eletti e illuminati.

C’è un fenomeno molto interessante che si è prodotto nella nostra America Latina e che desidero citare qui: credo che sia uno dei pochi spazi in cui il Popolo di Dio è stato libero dall’influenza del clericalismo: mi riferisco alla pastorale popolare. È stato uno dei pochi spazi in cui il popolo (includendo i suoi pastori) e lo Spirito Santo si sono potuti incontrare senza il clericalismo che cerca di controllare e di frenare l’unzione di Dio sui suoi. Sappiamo che la pastorale popolare, come ha ben scritto Paolo VI nell’esortazione apostolicaEvangelii nuntiandi, “ha certamente i suoi limiti. È frequentemente aperta alla penetrazione di molte deformazioni della religione”, ma prosegue, “se è ben orientata, soprattutto mediante una pedagogia di evangelizzazione, è ricca di valori. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione. A motivo di questi aspetti, Noi la chiamiamo volentieri ‘pietà popolare’, cioè religione del popolo, piuttosto che religiosità… Ben orientata, questa religiosità popolare può essere sempre più, per le nostre masse popolari, un vero incontro con Dio in Gesù Cristo” (n. 48). Papa Paolo VI usa un’espressione che ritengo fondamentale, la fede del nostro popolo, i suoi orientamenti, ricerche, desideri, aneliti, quando si riescono ad ascoltare e a orientare, finiscono col manifestarci una genuina presenza dello Spirito. Confidiamo nel nostro Popolo, nella sua memoria e nel suo “olfatto”, confidiamo che lo Spirito Santo agisce in e con esso, e che questo Spirito non è solo “proprietà” della gerarchia ecclesiale.

Ho preso questo esempio della pastorale popolare come chiave ermeneutica che ci può aiutare a capire meglio l’azione che si genera quando il Santo Popolo fedele di Dio prega e agisce. Un’azione che non resta legata alla sfera intima della persona ma che, al contrario, si trasforma in cultura; “una cultura popolare evangelizzata contiene valori di fede e di solidarietà che possono provocare lo sviluppo di una società più giusta e credente, e possiede una sapienza peculiare che bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine” (Evangelii gaudium, n. 68).

Allora, da qui possiamo domandarci: che cosa significa il fatto che i laici stiano lavorando nella vita pubblica?

Oggigiorno molte nostre città sono diventate veri luoghi di sopravvivenza. Luoghi in cui sembra essersi insediata la cultura dello scarto, che lascia poco spazio alla speranza. Lì troviamo i nostri fratelli, immersi in queste lotte, con le loro famiglie, che cercano non solo di sopravvivere, ma che, tra contraddizioni e ingiustizie, cercano il Signore e desiderano rendergli testimonianza. Che cosa significa per noi pastori il fatto che i laici stiano lavorando nella vita pubblica? Significa cercare il modo per poter incoraggiare, accompagnare e stimolare tutti i tentativi e gli sforzi che oggi già si fanno per mantenere viva la speranza e la fede in un mondo pieno di contraddizioni, specialmente per i più poveri, specialmente con i più poveri. Significa, come pastori, impegnarci in mezzo al nostro popolo e, con il nostro popolo, sostenere la fede e la sua speranza. Aprendo porte, lavorando con lui, sognando con lui, riflettendo e soprattutto pregando con lui. “Abbiamo bisogno di riconoscere la città” – e pertanto tutti gli spazi dove si svolge la vita della nostra gente – “a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze… Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero” (Evangelii gaudium, n. 71). Non è mai il pastore a dover dire al laico quello che deve fare e dire, lui lo sa tanto e meglio di noi. Non è il pastore a dover stabilire quello che i fedeli devono dire nei diversi ambiti. Come pastori, uniti al nostro popolo, ci fa bene domandarci come stiamo stimolando e promuovendo la carità e la fraternità, il desiderio del bene, della verità e della giustizia. Come facciamo a far sì che la corruzione non si annidi nei nostri cuori.

Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come, nella sua attività quotidiana, con le responsabilità che ha, s’impegna come cristiano nella vita pubblica. Senza rendercene conto, abbiamo generato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano in cose “dei preti”, e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede. Sono queste le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché è più preoccupato a dominare spazi che a generare processi. Dobbiamo pertanto riconoscere che il laico per la sua realtà, per la sua identità, perché immerso nel cuore della vita sociale, pubblica e politica, perché partecipe di forme culturali che si generano costantemente, ha bisogno di nuove forme di organizzazione e di celebrazione della fede. I ritmi attuali sono tanto diversi (non dico migliori o peggiori) di quelli che si vivevano trent’anni fa! “Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane” (Evangelii gaudium, n. 73). È illogico, e persino impossibile, pensare che noi come pastori dovremmo avere il monopolio delle soluzioni per le molteplici sfide che la vita contemporanea ci presenta. Al contrario, dobbiamo stare dalla parte della nostra gente, accompagnandola nelle sue ricerche e stimolando quell’immaginazione capace di rispondere alla problematica attuale. E questo discernendo con la nostra gente e mai per la nostra gente o senza la nostra gente. Come direbbe sant’Ignazio, “secondo le necessità di luoghi, tempi e persone”. Ossia non uniformando. Non si possono dare direttive generali per organizzare il popolo di Dio all’interno della sua vita pubblica. L’inculturazione è un processo che noi pastori siamo chiamati a stimolare, incoraggiando la gente a vivere la propria fede dove sta e con chi sta. L’inculturazione è imparare a scoprire come una determinata porzione del popolo di oggi, nel qui e ora della storia, vive, celebra e annuncia la propria fede. Con un’identità particolare e in base ai problemi che deve affrontare, come pure con tutti i motivi che ha per rallegrarsi. L’inculturazione è un lavoro artigianale e non una fabbrica per la produzione in serie di processi che si dedicherebbero a “fabbricare mondi o spazi cristiani”.

Nel nostro popolo ci viene chiesto di custodire due memorie. La memoria di Gesù Cristo e la memoria dei nostri antenati. La fede, l’abbiamo ricevuta, è stato un dono che ci è giunto in molti casi dalle mani delle nostre madri, delle nostre nonne. Loro sono state la memoria viva di Gesù Cristo all’interno delle nostre case. È stato nel silenzio della vita familiare che la maggior parte di noi ha imparato a pregare, ad amare, a vivere la fede. È stato all’interno di una vita familiare, che ha poi assunto la forma di parrocchia, di scuola e di comunità, che la fede è giunta alla nostra vita e si è fatta carne. È stata questa fede semplice ad accompagnarci molte volte nelle diverse vicissitudini del cammino. Perdere la memoria è sradicarci dal luogo da cui veniamo e quindi non sapere neanche dove andiamo. Questo è fondamentale, quando sradichiamo un laico dalla sua fede, da quella delle sue origini; quando lo sradichiamo dal Santo Popolo fedele di Dio, lo sradichiamo dalla sua identità battesimale e così lo priviamo della grazia dello Spirito Santo. Lo stesso succede a noi quando ci sradichiamo come pastori dal nostro popolo, ci perdiamo. Il nostro ruolo, la nostra gioia, la gioia del pastore, sta proprio nell’aiutare e nello stimolare, come hanno fatto molti prima di noi, madri, nonne e padri, i veri protagonisti della storia. Non per una nostra concessione di buona volontà, ma per diritto e statuto proprio. I laici sono parte del Santo Popolo fedele di Dio e pertanto sono i protagonisti della Chiesa e del mondo; noi siamo chiamati a servirli, non a servirci di loro.

Nel mio recente viaggio in terra messicana ho avuto l’opportunità di stare da solo con la Madre, lasciandomi guardare da lei. In quello spazio di preghiera, le ho potuto presentare anche il mio cuore di figlio. In quel momento c’eravate anche voi con le vostre comunità. In quel momento di preghiera, ho chiesto a Maria di non smettere di sostenere, come ha fatto con la prima comunità, la fede del nostro popolo. Che la Vergine Santa interceda per voi, vi custodisca e vi accompagni sempre!

Dal Vaticano, 19 marzo 2016

Francesco

Vivere Meglio Per Accettare La Fine Di Piero Benedetti

da IL VASCELLO maggio 2016

Nella mia vita professionale di quasi 40 anni di medico ospedaliero ho visto morire tantissime persone: quante storie, quante sofferenze, paure, angosce e disperazione. Nella nostra cultura occidentale la morte è un tabù, un non-valore, un’esperienza che spesso viene percepita come una sconfitta e a volte rinfacciata come tale. Il medico, anch’egli figlio di questa cultura, spesso, di fronte al paziente che si sta avviando verso la fine dei suoi giorni, ha un atteggiamento apparentemente contrapposto ma in realtà con un comune denominatore che è quello della paura, la paura di affrontare la drammatica realtà della fine: da un lato mette in atto un iperdinamismo diagnostico-terapeutico prescrivendo controlli di esami del sangue, fleboclisi o altre terapie sostanzialmente inutili trasformando la morte in un fatto tecnico o, dall’altro, dirada le sue visite al letto del malato o le fa più brevi e fuggenti. In realtà in quei momenti i gesti e le parole sono, a volte, più potenti di qualsiasi altra medicina. Ma le conosciamo ancora queste parole? Una volta sì, le conoscevamo, perché avevamo una diversa esperienza della morte. Si moriva in gran parte dei casi nella propria casa, fra i propri familiari e l’evento aveva anche una rilevanza sociale, con la veglia al morto da parte dei vicini di casa e dei conoscenti. I figli vedevano morire i padri e i padri non di rado vedevano morire i figli, frequenti infatti erano le morti infantili e puerperali. Insomma la morte era di casa e la nostra mente aveva le parole giuste da dire a chi se ne stava andando. Oggi non è più così. Quando ci si ammala si va in ospedale dove il linguaggio che si apprende è quello della malattia e quando sopraggiunge la morte, questa avviene tra l’inevitabile freddezza di tutti perché i tempi del lavoro sono cadenzati, c’è poco tempo e così non troviamo le parole della vicinanza, della comprensione. Rischiamo così di non conoscere più le parole che l’imminenza della morte suggerisce al cuore e non riusciamo neppure a metterci in ascolto che a volte vale più delle parole, soprattutto quelle di circostanza. Oggi spesso si muore comunicando con gli sguardi e le parole un senso di angoscia, di tristezza, a volte di disperazione. Lasciare la vita, non vedere più i propri cari e non sapere dove di lì a poco ci troveremo può provocare tristezza ed angoscia. Ma la disperazione può anche riguardare il fatto che ciò per cui ci siamo affannati nella vita, gli obiettivi che volevamo raggiungere e che magari abbiamo anche raggiunto forse non erano così importanti come abbiamo creduto o non valevano i sacrifici che hanno richiesto, perciò abbiamo l’impressione di aver sbagliato tutto. Scrive il prof. Umberto Galimberti che di fronte alla morte la gerarchia dei valori che hanno regolato la nostra vita subisce molto spesso un capovolgimento. Forse nulla era così importante come credevamo che fosse quando abbiamo intrapreso a perseguire i nostri ideali che forse erano solo abbagli e per loro abbiamo trascurato quelle vie di dedizione, di affetto, di comprensione e di amore che sono l’unica ragione per cui vale la pena di vivere. Dunque pensiamo ogni tanto alla morte, che comunque ci attende, non per deprimerci, ma per avere il giusto criterio per distinguere, tra le offerte della vita, quelle che valgono e quelle per le quali non conviene spendere nemmeno un giorno.

POST SCRIPTUM

Ho visto recentemente il film Fuocoammare di Gianfranco Rosi, vincitore dell’Orso d’Oro al Festival del Cinema di Berlino di questo anno. Il film è uno squarcio sulla vita a Lampedusa diventata il confine più simbolico d’Europa, attraversato negli ultimi 20 anni da migliaia di migranti in cerca di libertà. I lampedusani, che meriterebbero il nobel per la pace, diventano così i testimoni di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi. Tra i protagonisti del film un medico, il dott. Pietro Bartolo che interpreta se stesso, cioè colui che, assieme a soli altri due colleghi, ha visitato, dal 1991, oltre 240.000 migranti sbarcati a Lampedusa spesso in condizioni critiche. Dopo qualche giorno ho rivisto il dott. Bartolo, ospite in televisione, nella trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio. Sono rimasto molto colpito dalle sue parole che esprimevano tanta comprensione, umanità, capacità di ascolto, professionalità ed amore per il suo lavoro. Un vero modello di medico che più che curare, mette in atto quell’atteggiamento del “prendersi cura” del malato con la sua malattia. Ed è ciò che fa la differenza.

Desiderio Di Black-Out : Otto Cose Da Fare A Scuola, A Schermi Spenti Di Raffaele Mantegazza Pedagogista, Dipartimento Di Scienze Umane Per La Formazione, Università Degli Studi Di Milano Bicocca Raffaele.Mantegazza@Unimib.It

DOSSIER Dal 13 al 14 luglio 1977 la città di New York fu colpita da un black-out che rimane nella storia della Grande Mela come uno dei momenti di maggiore crisi e purtroppo anche di maggiori violenze. Non pensiamo dunque che un black-out totale di due giorni possa esser desiderabile per le nostre città. Ma ci piacerebbe davvero che per una settimana la corrente elettrica sparisse dalle nostre scuole, magari quando fa caldo per non creare problemi di riscaldamento. Perché francamente saremmo curiosi di constatare se alcuni insegnanti sono ancora in grado di fare lezione senza prese di corrente, videoproiettori, chiavette Usb, connessioni wifi, plugs, slides, e tutto ciò che, oltre ad avere nauseanti nomi nel globish che ha sostituito l’italiano e l’inglese, per funzionare deve essere connesso a un dispositivo elettronico. Ma la scuola per fortuna funziona anche a luci spente. Anzi, la scuola non “funziona” perché è già l’utilizzo di questo termine a essere sbagliato (del resto, certa psicologia lo utilizza anche a proposito degli esseri umani con effetti agghiaccianti). Le macchine funzionano: i rapporti umani e le istituzioni vivono, crescono, a volte muoiono. Intendere la scuola come un organismo ci può aiutare a pensare alle nuove tecnologie e al digitale come strumenti (a volte) utili e non come il nuovo “ambiente di apprendimento” come spesso ci si balocca a dire. Cosa si può fare dunque a scuola a schermi spenti e solo a schermi spenti?

1. Instaurare relazioni: è possibile avere una relazione tramite Twitter o Whatsapp? È possibile una relazione umana a distanza? Siamo convinti che qualunque medium che permette relazioni a distanza (comprese le lettere) abbia senso solamente per confermare, potenziare, al limite allentare, relazioni nate tra corpi nella prossimità fisica. E sappiamo bene quanto il “restiamo in contatto” detto a un amico che deve partire precede già lo scolorimento della relazione, almeno per certi versi. Per questo le “amicizie” su Facebook non meritano il nome di relazioni. Di Abelardo ed Eloisa abbiamo le lettere: ma la loro relazione è stata una storia carnale, così come profondamente corporea è stata la ferita subita da Abelardo e della quale Eloisa parla con vibrante commozione. Quella ferita non è virtuale ed è la sua bruciante carnalità a permetterle di abitare la relazione virtuale via lettera. Il carattere disincarnato delle relazioni via web colonizza anche le relazioni interumane, come capita alle coppiette che si lasciano via sms. La scuola invece è un ruolo di relazioni fisiche, di corpi che occupano spazi, di prossimità e di intimità. E sono queste relazioni a dover essere potenziate da una scuola che cerchi di fare controcultura rispetto al dominio disincarnato delle relazioni virtuali.

2. Confrontare i corpi: quello che accade nei bagni e negli spogliatoi delle scuole sarebbe degno di un intenso studio pedagogico e non a caso occupa molte pagine dei migliori romanzi che a scuola hanno la loro ambientazione. Del resto è poco più che un’ovvietà il fatto che in età evolutiva il confronto tra i corpi costituisce una straordinaria occasione di crescita. L’irrilevanza dei corpi a scuola non è certo figlia del digitale: i Marcello Bernardi e i Mario Lodi hanno criticato la scuola che eliminava il bambino “dal collo in giù”; ma la demagogia del digitale annienta la dimensione corporea perché la spaccia per irrilevante. Se ho 15 anni, sono grasso e ho i brufoli, le ore passate in un social nel quale mi chiamo “Brad2000” e il mio avatar è quello di un adolescente ariano, non sto “liberamente giocando con le identità” (cosa che anche a un adulto richiede una dose altissima di consapevolezza) ma sto semplicemente fuggendo il mio corpo, che però mi attenderà al varco al momento di spegnere lo schermo. Annusare gli odori corporei, cogliere il corpo dell’altro nel banco, con le sue gomitate, come mio limite, condividere i brividi a dicembre e i sudori a giugno, sentire l’affaticamento della mano che scrive senza digitare: questa non è semplicemente la “vita sotterranea” della scuola ma ne costituisce il vero curricolo implicito.

3. Calibrare i gesti: click, doppio click, trascinamento del mouse, accensione e spegnimento. I gesti standardizzati che il digitale (riduzione della vita alle dita: magia dei nomi?) richiede ai suoi utenti mettono in scena almeno due caratteristiche sulle quali si riflette troppo poco: da un lato la riduzione al minimo della libertà del corpo, che può scegliere tra infiniti effetti, sintetizzati da tutti i menù che ci sono accessibili, e un numero limitatissimo di cause (due o tre gesti limitati ai polpastrelli); dall’altro la sproporzione tra causa ed effetto, che rende totalmente differente distruggere un bunker nemico in uno dei giochi elettronici di guerra – i cosiddetti “sparatutto”- e fare realmente a pezzi un oggetto con la fatica e la pesantezza che questa azione comporta. Lungi dall’essere iper-realistici i new media sono iper-mediati proprio perché limitano alla dimensione oculare-digitale l’esperienza della realtà svalutando la gestualità proprio quando apparentemente ne potenziano al massimo gli effetti (con un click del mouse abbatto un nemico con un perfetto colpo di karate). Ma a scuola il corpo deve fare altro: giocare con i fagioli (con buona pace delle paranoiche prescrizioni delle Asl) o scrivere con il gesso sulla lavagna di ardesia, imparando a non premere troppo per non rompere il gessetto e a calcare a sufficienza perché si possa vedere il tratto, cosa che nessuna LIM permetterà mai.

4. Allenare la memoria: il computer ha la memoria ma non il ricordo. Affermazione vera se pensiamo alla dimensione del ricordo come declinazione soggettiva della memoria, ma ben magra consolazione in un mondo nel quale la dimensione della memoria è ormai quasi totalmente affidata alle macchine (chi di noi può dire di ricordare a memoria almeno dieci numeri telefonici? E tra questi dieci, quanti sono di telefoni fissi, memorizzati prima dell’avvento del cellulare?). Le nuove tecnologie ci espropriano di competenze specifiche che non possono poi essere recuperate, soprattutto quando queste tecnologie non sono di supporto alle precedenti ma letteralmente le espellono e le cancellano. Basti pensare all’idea ministeriale di abolire i libri cartacei dalla scuola per sostituirli del tutto con i libri elettronici; come se, dopo l’avvento della scrittura, un governo totalitario avesse vietato alle nonne di raccontare oralmente le fiabe perché era un comportamento poco ”up-todate”. La memoria dunque viene appaltata, ma non c’è ricordo soggettivo senza memoria oggettiva, e dunque insieme allo sforzo di memorizzare va persa anche la dimensione umana del ricordare. Oggi Proust non ricorderebbe che cosa mangiava a merenda dalla zia a Combray e a poco gli servirebbe cercare “madeleine” su Wikipedia. A scuola dunque però si può ancora imparare a memoria una poesia e soprattutto si può dimenticarla, esercitando quella funzione assolutamente centrale della psiche umana che è l’oblio: un oblio però che è consapevole dimenticanza connessa al superamento e al perdono, e non perdita di dati in una memoria artificiale o rimozione dei dati sensibili da un sito quando lo decide il webmaster di turno.

5. Essere irraggiungibili: La tracciabilità totale e completa di ogni nostro movimento attraverso le scorie delle nostre permanenze in rete o dell’utilizzo dei telefoni, non disegna solamente un mondo orwelliano (o snowdeniano) che solo i miopi o gli apologeti ritengono impossibile, ma soprattutto allena la psiche all’ideologia dell’assoluta reperibilità e dell’immediata risposta che a noi sembra la più perturbante delle conseguenze dell’uso dei nuovi media. Se i programmi che dovrebbero consentire i contatti tra amici riferiscono al mittente l’ora di lettura del messaggio da parte del destinatario, tolgono a quest’ultimo il diritto al nascondimento e anche il diritto al dominio della dimensione del tempo (sappiamo la differenza tra lo scrivere con calma una lettera e il rispondere immediatamente a una e-mail. Noi lo sappiamo. Ma i nostri figli?). Proprio il nascondimento dovrebbe allora essere permesso a scuola; non solo il nascondersi in bagno per schivare un’interrogazione o per fumare (che nell’essere giustamente perseguito dagli insegnanti mette in moto quella salutare e pedagogica dinamica di potere e contro-potere che è tipica dei processi educativi) ma anche il nascondersi nel banco, il distrarsi per un attimo, il passare una mattina solamente ad ascoltare, vivendo la scuola anche come spettatore, recuperando quella dimensione vitale che la scuola troppo spesso criminalizza e che chiama “passività”.

6. Guardare negli occhi i detentori del potere. Da decenni gli insegnanti lamentano l’assenza di alcuni genitori ai momenti di confronto e ai colloqui; da sempre sostengono che per fortuna il momento della consegna delle pagelle è l’unica occasione per costringere questi genitori a recarsi a scuola per un contatto diretto con i docenti che possono almeno guardarli in faccia (e quanti insegnanti conoscono l’importanza dell’incontro fisico con i genitori per capire meglio i propri allievi). Il Ministero dunque prevede l’obbligo delle pagelle on-line. Ci si domanda se chi fa queste proposte e chi le approva sia mai entrato una volta nella propria vita in una scuola, almeno da genitore (visto che da studente si spera le abbia frequentate) perché qui siamo davvero di fronte all’arrogante ignoranza (nel senso latino dell’ignorare) rispetto alle dinamiche quotidiane dell’accadere scolastico. E questo nascondimento virtuale vale anche per gli insegnanti, che sempre meno mostrano il loro volto: all’Università i voti degli esami scritti sono comunicati agli studenti tramite sms e così viene eliminato il momento di confronto e anche di conflitto presente nel contatto diretto. Dunque a scuola ci si guardi negli occhi, e si valuti un insegnante non tanto dalla sua capacità di accendere un i-pod (un topos che piace tanto al nostro iper-virtuale capo del Governo) ma da come sa rimproverare, consolare, motivare un ragazzo, con gli sguardi, le pacche sulle spalle le carezze (sì, le carezze!). A meno che si voglia affermare che rifiutare un 18 premendo un tasto del cellulare e farlo invece guardando in faccia il docente, magari anche con uno sguardo di sfida, siano la stessa cosa: una affermazione che anche gli apologeti delle nuove tecnologie dovrebbero perlomeno argomentare.

7. Argomentare (appunto): l’argomentazione è un’altra delle vittime del digitale a scuola, perché è la principale sua vittima nella società. In un social non si argomenta, si gioca una partita a ping-pong, si spara contro un nemico assente, si usano le parole nemmeno come pietre ma come quei tracciati della contraerea cui ci hanno abituati le immagini della prima guerra di Bush. Tracciati virtuali, che non fanno male se goduti dalla propria poltrona ma che considerano l’altro come target, senza cercare nei suoi confronti altro rapporto che la distruzione. E il risultato di tutto ciò è la distruzione di una cultura (illuministica fin che si vuole. Staremmo molto attenti a gettare nel pattume l’Illuminismo senza avere perlomeno tentato di coglierne la Dialettica) e il proliferare di ragazzi che non sanno scrivere una lettera, ragazzi che rispondono alle e-mail senza firmare “tanto il nome c’è nell’intestazione della mail” (è necessario insistere sul valore pedagogico della firma nella nostra cultura?), ragazzi che considerano l’ “I like” su Facebook come una (l’unica?) modalità per prendere una posizione o per intervenire sulla realtà (e una riflessione occorrerebbe anche sul proliferare delle mozioni on-line da firmare con un click), ragazzi che non sanno confrontare, criticare, discutere argomentando le proprie posizioni. E se la scuola non è in grado di insegnare l’arte dell’argomentazione, molto meglio chiuderla, e lasciare quest’arte alle minoranze poco rappresentative tanto odiate (in modo non argomentato) dal politico citato qualche riga sopra.

8. Sentire la dolcezza e la violenza: perché in fin dei conti questo è la scuola. Uno spazio per portare al concetto le emozioni, come direbbe Adorno, o ancora meglio, come direbbe Schiller, per accompagnare le sensazioni al regno dell’intelletto attraverso il regno mediano dell’estetica. Un regno che è quello della bellezza, di una bellezza carnale e fisica che è già intellettuale proprio nel suo essere virtuale. Perché il virtuale non è stato inventato dagli amichetti di Bill Gates: virtuale è l’arte, virtuale è il bruciore del fuoco nell’Inferno dantesco e l’alba che si riflette sulla cattedrale dipinta da Seurat, virtuale è il bello nel suo non negarsi alla dolcezza e alla violenza ma nel trascenderle in una dimensione che sia sensoriale che intellettuale. Troppo poco virtuale allora è il digitale che vuole far dimenticare la sua virtualità, i suoi “non falsi errori” spacciando la sua falsità come più reale del reale. Virtuale è dunque a scuola il gioco con lo schermo spento, che lo trasfigura in casco dell’astronauta o in specchio della matrigna di Biancaneve e solo così, sottraendosi al suo totalitarismo, riesce a capire quanto dietro il suo fascino si nasconda, ancora una volta, il nuovo e sempre antico volto del dominio.

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