Lettera 38 (Seconda Serie)

Questa lettera è dedicata alla scuola.

Sempre più spesso chi utilizza internet come canale di ricerca si accorge del rischio concreto di essere utilizzato; gli utenti si trovano infatti ad essere pesantemente indirizzati verso pensieri, informazioni e consumi preconfezionati. A volte viene da pensare che veniamo organizzati come “polli da batteria”, atti ad ingurgitare cibi stabiliti da altri… siamo invece esseri chiamati ad interrogarsi, ad attingere al proprio profondo, a confrontarsi con acutezza e profondo rispetto…

Il maestro Eckhart affermava: “Un maestro di vita vale più di mille maestri di dottrina”.

Se vogliamo impegnarci per un futuro capace di accogliere ed accendere vita nei giovani, dobbiamo essere capaci di risvegliare un ascolto che non si accontenti di mezze verità, che sia capace di spostare l’angolo di osservazione anche sulla sponda opposta, che non si arrocchi dietro la difesa dei propri privilegi, ma che sempre voglia cogliere anche le ragioni dell’altro… e contemporaneamente continuare a scavare nel proprio “pozzo”… il confronto che ne segue diventa realmente liberatorio.

Nel suo intervento Francesco Cagnetti ci porta a considerare la scuola come comunità educante al bene comune nel rispetto di legalità ed ambiente e tesa a promuovere l’autonomia di pensiero del discente. Mara Fabbri ci spiega poi cosa c’è e cosa manca nella riforma e Chiara Flamini si sofferma su una valutazione critica delle prove Invalsi viste dalla prospettiva degli alunni più svantaggiati. Abbiamo voluto aggiungere il tema di un alunno di Mara come esempio di pensiero critico in un ragazzo di prima media. Segue infine il dibattito su questi temi che è stato, a nostro parere, particolarmente interessante, quello che ci pare centrale nella riflessione è il proposito di lavorare perché nella scuola la competizione non prenda il posto della collaborazione e il mito del risultato quello dell’educazione ai valori.

Comunichiamo che, su richiesta, è disponibile la riedizione dell’Antologia degli articoli più significativi apparsi sulla lettera de’ LA TENDA nella sua prima serie tra il 1969 e il 1986 che publicammo con le Edizioni Dehoniane nel 2006 col titolo “Roma come chiesa locale: un’esperienza di dialogo”

Sommario della 38° lettera:

  1. Istruzione o formazione? Francesco Cagnetti
  2. La riforma di Renzi Mara Fabbri
  3. Le prove Invalsi. Uno guardo “periferico” Chiara Flamini
  4. Cosa penso della tecnologia tema di un alunno di 1ª media
  5. Segue dibattito… Aspettiamo i vostri pensieri
  6. Infine una lettera di don Franco de Donno…
    1. Istruzione o Formazione di Francesco Cagnetti

Cultura è soprattutto formazione, formazione dell’uomo, del cittadino. Cultura è educazione, è una vera e propria coltivazione…cultura ha la stessa radice di coltivare: far crescere i semi.

  1. Il grande studioso tedesco WERNER JAEGER, autore negli anni trenta di un’opera “Paideia” sulla formazione dell’uomo greco, scrive nella prefazione alla traduzione italiana: “L’educazione, in primo luogo, non è faccenda individuale, ma, per sua natura, è cosa della comunità. Il carattere di questa si imprime nei singoli suoi membri, e nell’uomo, animale politico, è sorgente di ogni azione e comportamento in una misura che non ha riscontro nell’animale. Non v’è altro caso, in cui l’influenza determinante della comunità sui suoi membri si faccia valere maggiormente, che nel suo sforzo di plasmare consapevolmente, secondo la propria idea, mediante l’educazione, i nuovi individui continuamente sorgenti dal suo seno. L’edificio di ogni comunità riposa sulle leggi e norme, scritte o non scritte, in essa vigenti, le quali vincolano essa medesima e i suoi membri. Ogni educazione è quindi emanazione diretta della viva coscienza normativa d’una comunità umana, sia quella della famiglia, sia della professione o del ceto, sia delle associazioni più vaste, come la tribù e lo Stato.”;
  2. Alla caduta del fascismo, il Ministero dell’educazione nazionale è diventato Ministero dell’istruzione pubblica. A mio avviso, anche se comprendo il motivo del cambiamento (perché l’educazione era ispirata da quella ideologia), si è introdotta così una denominazione che esprime solo un aspetto dell’educazione, sottacendo lo scopo al quale essa è ordinata. Di fatto, l’istruzione è un mezzo, mentre l’educazione è il fine;
  3. Ma non si tratta soltanto di una questione formale: il posto assegnato all’educazione civica nei programmi ministeriali, è quello di una mera appendice del programma di storia, non degna di essere materia di esame. E’ successo allora, nella maggioranza dei casi, che i professori di storia l’hanno completamente trascurata…;
  4. In un paese come il nostro, classificato tra i più corrotti dell’Unione Europea, trascurare o minimizzare la formazione del cittadino è cosa gravissima;
  5. La riforma della “Buona Scuola” (l’aggettivo suona come autopromozione visto che se lo dicono da soli…) non cambia molto rispetto al passato. Innanzitutto non riforma i programmi ministeriali (grosso modo sono ancora legati alla riforma Gentile), ma poi affida alla scelta dei singoli istituti (lettera “d” di un elenco) “lo sviluppo delle competenze in materia di cittadinanza attiva, etc, etc” e (alla lettera “e”!) “lo sviluppo di comportamenti responsabili ispirati alla conoscenza e al rispetto della legalità, della sostenibilità ambientale etc. etc. Puoi quindi scegliere tra educazione civica o il perfezionamento delle scienze matematiche, tutto è equivalente;
  6. Sulla questione dei programmi ministeriali ci sarebbero tante cose da dire, ma è un argomento troppo ampio che merita un discorso a parte. Dico soltanto che per quanto riguarda lo studio della storia e filosofia tutto è ancora fermo al XX secolo, a Giovanni Gentile e Benedetto Croce: ripercorrere ab imis il cammino plurisecolare della cultura e della storia dell’Occidente. Il percorso è senz’altro opportunamente formativo e informativo per lo studente e capace anche con un bravo insegnante di rivelare ad alcuni non passeggeri interessi, ma serie inclinazioni ad approfondire e a fare scelte per la continuazione degli studi all’università. Ma a mio parere è insufficiente per due motivi: da un lato, nell’era della globalizzazione, esclude la conoscenza di altre civiltà che stanno conquistando sempre maggiore rilevanza nel mondo attuale. D’altra parte perché esclude ogni impegno personale di riflessione e di valutazione su ciò che viene imparato.

Al solo scopo di chiarire il mio pensiero e senza voler fare dell’esterofilia cito ad esempio le prove scritte di filosofia per l’esame di “baccalauréat général” (esame di licenza liceale) francese dell’anno 2015.

A scelta:

  1. la coscienza dell’individuo è soltanto il riflesso della società alla quale appartiene?;
  2. L’artista dà qualcosa da comprendere?;
  3. Spiegate il testo seguente: “In uno stato democratico non sono da temere ordini assurdi, perché è quasi impossibile che la maggioranza di una grande assemblea si accordi su una sola e medesima assurdità. Ciò è poco da temere, anche a motivo del fondamento e del fine della democrazia, che in null’altro consiste se non sottrarre gli uomini al dominio assurdo dell’appetito e nel mantenerli, per quanto possibile, entro i limiti della ragione, affinchè possano vivere nella concordia e nella pace. Tolto tale fondamento, tutto l’edificio crolla facilmente. Al solo sovrano [1], quindi, spetta di provvedervi, ai sudditi spetta di eseguire i suoi ordini e di non riconoscere come diritto ciò che il sovrano dichiara come diritto. Si penserà forse che, con questo principio, noi trasformiamo i sudditi in schiavi; si pensa infatti che schiavo è colui che agisce per comando e l’uomo libero quello che agisce secondo il suo capriccio. Ciò non è tuttavia assolutamente vero: colui che è soggetto al suo capriccio, incapace di vedere e di fare ciò che gli è utile, è il più grande degli schiavi, e solo è libero colui che vive, con tutta l’anima, sotto la guida della sola ragione. ” SPINOZA, Trattato teologico-politico.

Si obietterà che i temi dei nostri esami maturità spesso sollecitano un giudizio personale su argomenti di attualità. Ma ciò a mio avviso non è sufficiente perché non solo l’esame finale ma l’intero corso dell’insegnamento deve essere indirizzato a suscitare l’autonomia di pensiero del discente. Sarebbe interessante sapere dagli insegnanti delle diverse discipline previste nei programmi governativi quali modifiche sia di metodo che di contenuti riterrebbero auspicabili. Una tale consultazione avrebbe potuto costituire la base per una autentica riforma della scuola.

  1. In conclusione, “buona scuola” può chiamarsi a giusto titolo 1) quella che non si limita a preparare alle varie professioni, ma che educa a considerarle come varie forme di servizio al bene comune, 2) quella che risulta da un serio aggiornamento di metodi e di contenuti.
    1. La riforma Renzi di Mara Fabbri

Il contesto della riforma della “Buona scuola”

Non è semplice riuscire a fare un discorso unitario e organico sulla legge 107/2015 che viene chiamata “Buona scuola”. La struttura stessa della legge è quantomeno “affollata” ed in un unico articolo contiene 202 commi. Tocca gli argomenti più disparati in modi a volte anche disordinati, passando dall’uno all’altro non sempre con continuità. Si passa, nell’arco di pochi commi, dagli obiettivi formativi tra cui scegliere per la formulazione del piano dell’offerta formativa, alle convenzioni per le scuole di lingua slovena, alla possibilità di utilizzare anche prodotti ittici della filiera corta e biologica nelle mense scolastiche, ai corsi di primo soccorso per gli studenti alla ripartizione del fondo di istituto ed andare avanti sul piano dell’offerta formativa. Si accatastano uno sull’altro argomenti di diversa natura e soprattutto di diversa importanza ai fini di un discorso culturale, pedagogico e didattico riguardante la scuola.

In generale, questa riforma si colloca pienamente nell’ambito delle riforme della scuola avviate a partire dalla fine degli anni ’90 con l’introduzione della autonomia scolastica e demanda molte delle “buone” intenzioni in essa contenute all’applicazione da parte di enti “altri” rispetto allo Stato centrale ed in particolare molto resta demandato alle varie istituzioni scolastiche. L’impianto della riforma si può sicuramente pensare come “liberal”, nella definizione che gli estensori della norma danno di loro stessi, ma che prevede interventi neoliberisti come il superamento del welfare in favore dell’iniziativa dei singoli, la rifondazione della Pubblica Amministrazione con criteri manageriali, la chiamata in causa del principio di sussidiarietà ed il generale alleggerimento dell’intervento pubblico. Come esempio si può fare quello delle risorse destinate agli interventi pubblici e istituzionali in materia di formazione dei docenti (pari 40 milioni di euro a partire dal 2016) e quelle da assegnare ai singoli docenti sotto forma di bonus per i loro consumi culturali pari a 500 euro annui (370 milioni di euro totali già dal 2015). E’ chiaro che il riformatore non nutre molta fiducia nella capacità delle strutture pubbliche di utilizzare le risorse e preferisce indirizzarle all’iniziativa privata (in questo caso i singoli insegnanti). Ci sarebbe da chiedersi se un livello più elevato di consumi culturali dei docenti sia però garanzia di un miglioramento della qualità della didattica e dei risultati degli allievi.

Tale impostazione si ritrova in tutta la legge 107/2015 : il ruolo rafforzato del Dirigente scolastico, il principio di efficienza e responsabilità, una certa de-regolamentazione degli ordinamenti, l’introduzione di criteri privatistici nella gestione del personale e l’ingresso di risorse private nell’area del pubblico.

Nella riforma appaiono spesso parole mutuate dai discorsi economici come “efficienza”, “efficacia”, “produttività”, “made in Italy” (per la prima volta citato in una legge riguardante il mondo della scuola) e il quasi onnipresente “senza ulteriori oneri a carico della finanza pubblica”. E’ molto ribadito il concetto della necessità di una scuola che faccia da ponte con il mondo del lavoro e con gli aspetti economici della società e guardato quasi con disattenzione l’aspetto più culturale e di formazione civica del cittadino. Non a caso, il tema dell’educazione alla cittadinanza attiva, che è il centro stesso di una scuola intesa in senso completo, viene elencato come uno (lettera d di un elenco che arriva fino ad s) tra gli altri dei molteplici obiettivi che le istituzioni si possono porre.

Tenendo conto che si trascureranno alcuni dei temi contenuti nella legge, ci sono però degli aspetti che sono più “fondanti” di altri per definire l’impianto della legge stessa. Questo articolo si concentrerà in particolare sui seguenti temi: la programmazione didattica e dell’organico, il reclutamento e la formazione dei docenti, la valutazione e l’ingresso delle risorse private nel mondo della scuola. Questi aspetti ci sembrano quelli in cui il tema di una scuola che non forma più un cittadino bensì un lavoratore si esprima in modo più palese. Sono inoltre i temi che sono stati più a lungo dibattuti anche nell’ambito del discorso pubblico e mediatico intorno alla “Buona scuola”.

Programmazione didattica e dell’organico

Fin da quando è stata introdotta alla fine degli anni novanta del secolo scorso, l’autonomia scolastica è stata legata a doppio filo con il Piano dell’Offerta Formativa (POF) che ne era lo strumento di attuazione pratica. Vi è una modifica (comma 14) di questo piano introdotta con la legge che passa da una formulazione annuale a una triennale (divenendo così PTOF, Piano Triennale dell’Offerta Formativa). La programmazione triennale può essere rivista annualmente e contiene oltre alle proposte di ampliamento e potenziamento curricolare anche i piani di miglioramento previsti per la scuola, il fabbisogno dei posti del personale (sia docente che amministrativo-tecnico-ausiliario), il fabbisogno in termini di infrastrutture e attrezzature materiali necessarie alla realizzazione di quanto programmato ed il piano di formazione di tutto il personale. Una novità consistente è quella che vede il Dirigente scolastico responsabile di individuare le linee di indirizzo “per le attività della scuola e delle scelte di gestione e amministrazione” oltre a mantenere anche i poteri di gestione. Nella maggior parte delle scuole, alcune scelte oculate hanno riportato la competenza tecnica di tipo didattico nelle mani del collegio dei docenti per le scelte metodologiche e di contenuto ma la modifica introdotta dalla legge non è di poco conto sul piano dell’impostazione culturale. Al consiglio di istituto resta la competenza dell’approvazione.

Collegato a questo piano programmatico si ha l’organico (insieme di tutti i docenti in servizio nella scuola) dell’autonomia. Tale organico dell’autonomia trova il proprio fondamento nell’organico funzionale che era stato previsto con l’introduzione dell’autonomia scolastica per permettere alle scuole di realizzare la propria offerta formativa in modo flessibile e legato al contesto territoriale al di là delle risorse calcolate mediante semplici criteri numerici legati alle classi attivate. L’attivazione di tale organico dopo essere stata tentata inizialmente nelle scuole dell’infanzia e primaria e sperimentata nelle secondarie si è fermata per ragioni legate al bilancio e ai tagli di organico, ritornando a ragionamenti legati strettamente alla consistenza numerica di alunni e classi. Si è quindi tornati a quello che viene definito l’organico di diritto con adeguamenti (organico di fatto) determinati da situazioni contingenti come aumento del numero delle classi, esoneri e semiesoneri del personale docente, distacchi, part-time, ecc. Con l’organico dell’autonomia si torna a pensare in termini di progettualità scolastica e non più di sole logiche di bilancio. In questo anno scolastico in corso, data la consistenza del piano straordinario di assunzioni, per scuole con circa 1000/1200 alunni si sono avuti 7/8 docenti aggiuntivi (per quest’anno solamente, denominati organico di potenziamento e a partire dall’anno prossimo organico dell’autonomia a tutti gli effetti). A partire dal prossimo anno scolastico la copertura dei posti per l’organico dell’autonomia sarà nelle mani del Dirigente scolastico su base triennale (rinnovabile). Il Dirigente formulerà una proposta di incarico basata sulle esigenze espresse nel proprio PTOF e dovrà scegliere tra le candidature eventualmente ricevute da docenti assegnati al proprio ambito territoriale di riferimento. Le candidature sono solo eventuali perché il Dirigente potrà formulare proposte indipendentemente dalle candidature ricevute. I docenti potranno accettare o meno gli incarichi scegliendo tra quelli ricevuti e se non ne abbiano ricevuti (o se i dirigenti scolastici risultassero inerti) averne uno dagli uffici scolastici regionali di riferimento sulla base, presumibilmente, di posti residui. Sulla carta, tale procedura è pensata per riuscire ad assegnare in modo virtuoso le professionalità disponibili secondo le effettive esigenze delle singole istituzioni e dei relativi progetti educativi. Nella pratica, tale procedura rischia di sfavorire i contesti più disagiati concentrando le professionalità più “forti” in contesti più ambiti, magari solo perché collocati in contesti meno svantaggiati e difficili di altri. Si apre in più alla possibilità di corruttela non certo limitata dalla necessità del Dirigente di dichiarare l’assenza di coniugio, parentela o affinità entro il secondo grado con i destinatari degli incarichi. Inoltre, il termine triennale della proposta, solo eventualmente rinnovabile, pone i docenti incaricati in una situazione di possibile “ricatto” o anche solo una pressione percepita a non proporsi, ad esempio, con posizioni contraddittorie o contrastanti nell’ambito delle scelte operate dal collegio dei docenti, pena la possibilità di non essere rinnovato per altri tre anni. Infine, sarà necessario vigilare attentamente per evitare che le professionalità dei singoli docenti, in particolare dell’organico potenziato, siano depresse da soluzioni estemporanee per la copertura di docenti assenti (comma 85) o legate alla pretesa affinità tra classi di concorso (comma 79).

Il reclutamento dei docenti

E qui si entra in un altro nodo fondamentale nella legge 107: il reclutamento dei docenti. La scuola italiana soffre da anni del fenomeno del precariato con storture che si sono protratte negli anni dovute all’assenza di una visione d’insieme relativa al reclutamento e alla formazione dei docenti ed al susseguirsi “a panino” di normative ad hoc per permettere ai precari di conseguire l’abilitazione e successivamente l’immissione in ruolo (contratto a tempo indeterminato). Tralasciamo il discorso storico e i motivi per cui una buona parte del corpo docente del nostro sistema di istruzione è costituito da insegnanti precari che vivono la loro intera carriera da precari e a volte raggiungono il ruolo alle soglie della pensione, occupiamoci invece di cosa prevede la “buona scuola” a tal proposito. Per tentare di sanare questa situazione è stata prevista e attuata dalla legge una procedura a quattro fasi per l’assunzione a tempo indeterminato di tutti gli iscritti alle graduatorie a esaurimento (docenti con titolo di abilitazione in lista per l’assunzione da varie procedure nei vari anni) e di tutti i docenti vincitori di concorso ordinario (ne sono stati indetti nel 1990, 1999 e 2012). Senza entrare nello specifico delle quattro fasi previste, le graduatorie ad esaurimento continueranno ad esistere fino a loro svuotamento mentre le graduatorie dei concorsi ordinari saranno soppresse alla fine delle quattro fasi. Sono stati immessi in ruolo, grazie a questa procedura più di 100.000 docenti nei vari ordini e gradi della scuola italiana. Questa legge ha inoltre stabilito che, dopo che saranno svuotate le graduatorie a esaurimento, il reclutamento a tempo indeterminato avverrà mediante indizione di concorsi pubblici nazionali su base regionale per titoli ed esami ogni tre anni. I posti saranno determinati sulla base delle esigenze espresse nei PTOF delle scuole e i vincitori dovranno esprimere preferenze per uno o più ambiti territoriali nella regione per cui hanno partecipato al concorso. Al concorso si accede solo se in possesso del titolo abilitante e i concorsi avranno validità triennale e le graduatorie perderanno di efficacia all’atto di approvazione della graduatoria successiva. Da definirsi entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore della legge la revisione dell’intero sistema di assunzioni inserendo l’istituto del tirocinio di durata triennale per i vincitori di concorso. E’ uscito proprio in questi giorni il bando di concorso per 64.000 nuovi posti da assegnare con la nuova procedura.

Per il reclutamento e l’istituzione dell’organico dell’autonomia in relazione all’attuazione del piano straordinario delle assunzioni sono stati fatti una serie di investimenti ed è prevista la costituzione di un comitato di verifica tecnico-finanziaria con rappresentanti del MIUR e del MEF. Al di là della specifica costituzione di tale comitato (senza maggiori oneri per lo Stato e dunque i suoi rappresentanti non potranno essere pagati) e dei meccanismi di premialità delle figure professionali scolastiche, il principale strumento di controllo è rimesso all’autonomia delle istituzioni scolastiche.

L’aspetto forse più caratterizzante della riforma e sicuramente uno di quelli che ha avuto più ampia eco anche nei mezzi di informazione è il ruolo del Dirigente scolastico e come esso venga modificato dalla legge 107/2015. Alla fine degli anni Novanta il tema dell’autonomia scolastica tratteggiava nuovi contesti e nuove funzioni per il capo di istituto che diventa “Dirigente Scolastico” e le funzioni di coordinamento e orientamento della scuola diventano più complesse perché devono fare i conti con le caratteristiche dell’autonomia. Vediamo in cosa le cose cambiano con questa riforma.

In linea con la figura dirigenziale già assunta nelle precedenti riforme il comma 78 stabilisce che il DS garantisce un’efficace ed efficiente gestione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e materiali, nonché gli elementi comuni del sistema scolastico pubblico, assicurandone il buon andamento. A tale scopo, svolge compiti di direzione, gestione, organizzazione e coordinamento ed è responsabile della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio.

Valutazione e ingresso di risorse private

Abbiamo già visto come sia diventato più importante rispetto a prima il ruolo del Dirigente nella scelta delle assunzioni del personale docente con un notevole aumento nella discrezionalità sulla scelta degli insegnanti. Il comma 83 prevede che il Dirigente possa individuare nell’ambito dell’organico dell’autonomia fino al 10% di docenti che lo coadiuvino in attività di supporto organizzativo e didattico dell’istituzione scolastica. Non è ancora chiaro se rientreranno in questo 10% tutte le figure strumentali (docenti che assumono incarichi di supporto organizzativo in vari ambiti della vita scolastica) che attualmente sono espressione della volontà del collegio dei docenti piuttosto che di quella del Dirigente, il quale fino ad ora poteva individuare direttamente solo i propri collaboratori e i responsabili di plesso. Spetta al Dirigente l’assegnazione annuale ai docenti di una somma bonus, con valore di salario accessorio, da un apposito fondo di 200 milioni di euro (comma 126) a partire dal 2016. Tale assegnazione viene fatta sulla base dei criteri stabiliti dal comitato di valutazione, costituito dal Dirigente stesso, da tre insegnanti (uno individuato dal consiglio di istituto, due individuati dal collegio dei docenti) e da due genitori o un genitore e uno studente nel caso della scuola secondaria di secondo grado. I criteri devono essere scelti in tre ambiti principali: la qualità dell’insegnamento, i risultati ottenuti, le responsabilità assunte nelle varie istituzioni scolastiche. I riferimenti sono molto vaghi e difficili da ricondurre a indicatori o standard condivisi ed è dunque prevedibile che il merito da valorizzare prenderà sembianze diverse da scuola a scuola e lascerà ampi margini alla discrezionalità del Dirigente stesso nella sua applicazione pratica. Il comma 84 prevede la possibilità per il Dirigente di utilizzare il proprio organico dell’autonomia assegnato anche per il dimensionamento delle classi riducendo il numero degli alunni per renderle più facilmente gestibili, tuttavia il comma 85 prevede anche che tale organico possa essere utilizzato nella sostituzione di docenti assenti per la copertura di assenze temporanee fino a 10 giorni. Se si privilegiasse tale alternativa, come è lecito al Dirigente fare, ben poco resterebbe sia per lo sdoppiamento delle classi che per un reale potenziamento. Aumentano anche le responsabilità del Dirigente nell’individuare nel “Registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro” le imprese e gli enti pubblici e privati disponibili all’attivazione dei percorsi ed è suo anche il compito di stipulare le apposite convenzioni. Al termine dell’anno scolastico, il Dirigente redige una scheda di valutazione sulle strutture con le quali sono state stipulate le convenzioni evidenziando la specificità del loro potenziale formativo e le eventuali difficoltà incontrate nelle collaborazione.

La “buona scuola” che manca

Molti sono i punti lasciati non trattati e tra questi meriterebbero una particolare ulteriore attenzione i temi della valutazione, l’alternanza scuola lavoro, la mancanza di attenzione per la scuola 0-6 anni e la sua quasi esclusione dall’ambito del curricolo verticale, il piano nazionale per la scuola digitale, ecc. Sarà importante nei prossimi mesi mantenere una vigile attenzione sui decreti attuativi di questa legge che daranno una faccia concreta e operativa a tutti gli aspetti salienti per il mondo della scuola e di chi lo abita.

Le Prove Invalsi. Uno Guardo “Periferico” Di Chiara Flamini

La mia relazione è la conseguenza di una riflessione che si è sviluppata in questi anni intorno alle PROVE INVALSI . Stiamo andando nella direzione opposta rispetto a quella auspicata da Francesco.

Dentro le scuole si sente molto il problema delle PROVE INVALSI , mentre mi sembra che al di fuori della scuola venga ignorato completamente oppure se ne sa ben poco.

Tali prove stanno indicando una direzione ben precisa, esse diventano uno dei criteri fondamentali per la valutazione delle scuole. Il rischio, forse già realtà in qualche scuola, è che si pieghi l’insegnamento verso il raggiungimento di risultati prefissati senza tenere conto affatto dei bisogni e del potenziale reale degli studenti.

Le prove Invalsi. Uno sguardo “periferico”

Vorrei gettare uno sguardo sulle prove Invalsi da un punto di vista particolare, quello di una scuola di periferia. Potrebbe sembrare che uno sguardo da un punto periferico non permetta di focalizzare bene l’oggetto, eppure gli elementi che fornisce potrebbero essere utili a chi si trova ben piazzato e ben equipaggiato per affrontare questo tipo di prove e, soprattutto, per chi decide di somministrarle.

Per tanti le prove Invalsi sono del tutto sconosciute. Dirò, dunque, brevemente cosa sono: prove di italiano e di matematica, somministrate a tutti gli studenti che frequentano la II e la V elementare, la III media e il II superiore, che vengono utilizzate per valutare le competenze nelle due materie dei bambini e dei ragazzi a livello nazionale. Sono dunque prove uguali per tutti. In particolare, le prove Invalsi di III media fanno parte delle prove scritte d’esame e si aggiungono a quelle di italiano, matematica, inglese e seconda lingua, che vengono redatte dagli insegnanti della scuola (5 prove scritte per la III media). Come ogni prova scritta, hanno un peso nella valutazione finale che viene definita facendo la media matematica dei voti di tutte le prove scritte e orali. Quindi le prove Invalsi pesano un settimo: voto di presentazione, cinque scritti e un orale. Riguardo agli studenti con disabilità, decidono gli insegnanti se farli partecipare alle prove o escluderli, portandoli fuori dall’aula. Da queste prove sono esclusi anche i dislessici che hanno bisogno di un lettore informatico. Quando vengono rilevati i dati, gli studenti con disabilità…loro non esistono, sono fuori e non contano ai fini della valutazione generale. Pensate che significa tutto questo in termini di inclusione… o di esclusione!. Questo ad eccezione degli alunni diversamente abili di III media, per i quali gli insegnanti stessi possono preparare una prova semplificata. Aggiungo solo che gli alunni provenienti da altri paesi e inseriti, all’arrivo in Italia, in III media, sono obbligati ad affrontare le prove Invalsi di italiano come tutti i loro compagni, senza tener conto della loro difficoltà. Il voto conseguito fa media con tutte le altre prove.

Ed eccoci in una scuola di un quartiere popolare: periferia di una grande città, spazi ampi attorno alle case e al quartiere (fino a poco tempo fa, avevamo greggi nei campi attorno), basso inquinamento acustico e luminoso (è possibile osservare alcune costellazioni, nel periodo in cui si affronta l’astronomia a scuola!), relazioni senza filtri, dirette, fiducia e insieme diffidenza dei genitori nei confronti della scuola. Ma fermiamoci un momento: diffidenza nei confronti di un’istituzione dello Stato a causa dell’emarginazione subita, ma fiducia nei confronti degli insegnanti e del loro modo di insegnare: gli insegnanti, almeno quelli che non si pongono su un piedistallo, sono persone, prima di tutto, e di fiducia. Un piccolo esempio esplicativo. Un’insegnante si ammala di TBC e i genitori degli alunni, in questo quartiere popolare, manifestano partecipazione, affetto. Un’altra insegnante, in un quartiere più centrale, si ammala della stessa malattia e i genitori minacciano di denunciarla, perché sospettata, in modo del tutto gratuito, di essere andata a scuola pur sapendo di avere una malattia infettiva.

Torniamo alle prove Invalsi. Ci sono alcuni elementi che vorrei mettere in evidenza. Partiamo dallo svantaggio sociale e culturale di cui soffrono i ragazzi della scuola di periferia: i genitori spesso hanno avuto un percorso scolastico molto difficile, nelle famiglie si devono affrontare problemi gravi, a volte gravissimi, che impediscono, – letteralmente impediscono -, di imparare. (Ma chi di noi, adulti, – mi sono chiesta tante volte -, avendo un problema familiare molto grave, riuscirebbe a concentrarsi al meglio su un libro?). Ragazzi con tale svantaggio possono trovarsi in qualsiasi posto, mi direte. Ma in un quartiere popolare vengono appunto concentrate famiglie svantaggiate. E tale svantaggio si moltiplica a causa della concentrazione e, nello stesso tempo, dell’isolamento: mancano ancora, dopo vent’anni circa dall’assegnazione delle case, moltissime infrastrutture, come la posta e la ASL, i collegamenti con il centro, luoghi di aggregazione e di promozione sociale e culturale. La scuola italiana prevede la possibilità di percorsi individualizzati che permettano la promozione di ciascuno e nella mia scuola periferica abbiamo imparato a metterli in atto, fanno parte ormai del bagaglio che abbiamo costruito. Anche la valutazione degli apprendimenti viene fatta in base a elementi che tengano conto anche delle diverse situazioni, dei vissuti… ma a livello nazionale i nostri ragazzi sono sottoposti alle stesse prove dei loro compagni, che godono di “vantaggi” culturali, familiari e sociali. Potete immaginare la frustrazione che si infligge loro rimarcando, con tali prove, la loro inadeguatezza. E all’esame di III media tali prove generano ansia e frustrazione sia nei ragazzi che negli insegnanti, che devono fare i salti mortali affinché il percorso di crescita degli alunni sia tutelato.

Ma allarghiamo ora lo sguardo. Posso dire con cognizione di causa (potete verificarlo andando a cercare sulla rete una qualsiasi prova Invalsi) che le prove di matematica di III media, costituite da circa 28 problemi da risolvere in 75 minuti (poco più di 2,5 minuti a problema!) risultano impossibili da affrontare per i laureati in discipline non scientifiche. Mi chiedo, dunque, se uno scopo della scuola italiana è formare tutti futuri ingegneri! In realtà, in un dossier dell’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia (“La didattica per competenze”), si legge: “L’approccio e gli strumenti presentati sono stati, in particolar modo, studiati e sperimentati nell’ambito dei percorsi di formazione realizzati dall’USR in collaborazione con la rete alternanza scuola-lavoro e del progetto “Lo sviluppo di «reti di imprese» per il rilancio dell’istruzione tecnica” di Assolombarda (Associazione di industriali)”. Più in là nel testo: “E’ nella relazione tra sapere e fare che si colloca la questione della competenza. Non una semplice capacità di fare, non una semplice conoscenza, ma un saper applicare. Più conoscenza consentirà di riconoscere una molteplicità di casi di (possibile) applicazione, più applicazione consentirà di usare meglio le conoscenze nel caso specifico. È il sapere a sviluppare, potenzialmente, l’innovazione. Il sapere rappresenta per il fare un processo di organizzazione dei dati dell’esperienza molto economico. Costruendo un sistema (informazioni classificate in concetti posti in relazione tra loro mediante una teoria), il sapere stabilisce molto più rapidamente dell’esperienza cosa deve essere fatto e come per utilizzare al meglio le risorse disponibili e produrre il risultato migliore possibile”. E ancora: è necessario proporre un’attività didattica che “sviluppi la capacità di lavorare con gli altri, promuovendo una competizione orientata a conseguire il risultato, a sconfiggere le difficoltà e i problemi, non i compagni”. Infine: “Il nodo cruciale per lo sviluppo della didattica per competenze è la capacità della scuola di ridisegnare il piano di studi in termini di competenze, ripensando e riorganizzando la programmazione didattica non più a partire dai contenuti disciplinari, ma in funzione dell’effettivo esercizio delle competenze da parte degli studenti e dell’accertamento della loro capacità di raggiungere i risultati richiesti”.

Che si lavori a scuola perché le conoscenze diventino anche competenze, cioè vengano utilizzate in altri ambiti per risolvere situazioni problematiche, credo sia una cosa positiva: è stato importante passare da una scuola basata sull’apprendimento mnemonico, poco ragionato, di tante nozioni ad una scuola che promuove l’utilizzo di abilità e conoscenze in ambiti diversi da quelli precipui della disciplina in cui vengono apprese. Ma non si può finalizzare l’apprendimento solo all’acquisizione di competenze: la speculazione, l’astrazione, la riflessione sono altrettanto importanti.

Ciò che colpisce nel documento dell’USR della Lombardia è il fatto che non si fa nessun riferimento a chi non riesce a raggiungere i “risultati richiesti”. Ed è questo il punto: le prove Invalsi sono orientate a valutare le competenze di italiano e matematica degli alunni. Il sapere è esclusivamente orientato ad un saper fare, oltre tutto di un livello molto alto, e la valutazione è strettamente legata all’ottenimento del risultato richiesto. Eppure la scuola italiana è organizzata in gruppi di apprendimento misti (ricordiamo che sono state superate le classi differenziali…). E in tali gruppi di apprendimento, se si lavora insieme e in maniera solidale, probabilmente non sempre si raggiungono i “risultati richiesti”, ma si impara ad aspettare chi rimane indietro, ad aiutarlo… si impara dalle difficoltà dell’altro e non ci si vergogna delle proprie difficoltà. Faccio degli esempi concreti di vita vissuta nella mia scuola. In una seconda media c’è aria di rivolta a causa dei compiti diversificati dati a seconda delle possibilità di ciascuno: “Non è giusto che alcune persone abbiano dei compiti più facili e poi facciano delle verifiche facilitate!”. Per due giorni si discute del problema cercando di arrivare al nodo. Ed il nodo, alla fine, non risulta la disparità di trattamento, perché si rendono bene conto che non si possono dare gli stessi compiti a tutti, ma il fatto che alcuni alunni non svolgano i compiti a casa. Uno di loro, prende in mano tutto il coraggio che ha, e dice: “Voi non sapete… che io a casa, davanti ad un esercizio, non capisco più niente, anche se a scuola riuscivo a farlo…”. Alla fine tutti accettano compiti e verifiche diversificati, ma chiedono un maggiore impegno di tutti i compagni nello svolgimento degli esercizi a casa. Due giorni persi per una scuola che certamente non prepara tutti a raggiungere i “risultati richiesti” dalle prove Invalsi… ma due giorni di formazione umana e di crescita per tutti: alunni ed insegnante.

Un altro esempio. Un alunno si arrabbia perché un suo compagno, in classe, svolge un’attività diversa e ai suoi occhi più semplice rispetto a tutti gli altri: “Perché noi dobbiamo faticare e lui no?”. Il compagno, con molta calma, lo guarda e gli risponde: “E che devo dire io, che non capisco quello che c’è scritto in un libro?”. Due mesi dopo l’insegnante chiede al primo alunno di aiutare il compagno a preparare un argomento per l’interrogazione di scienze. Sbirciando si accorge dell’impegno che entrambi ci mettono. Alla fine l’esposizione dell’argomento preparato risulta molto più accurata e coerente di quanto l’insegnante avrebbe potuto sperare! Certamente il primo alunno ha perso alcune ore per aiutare il compagno, ore perse per ottenere risultati migliori in scienze… ma ore preziosissime per la sua formazione e la sua crescita. Tutt’altro rispetto a promuovere una competizione orientata a raggiungere dei risultati! Se si promuovesse una competizione, una parte della classe rimarrebbe emarginata, perderebbe motivazione e non studierebbe più. Promuovendo invece una solidarietà e un aiuto reciproco (cosa che i miei ragazzi di periferia accolgono sempre molto volentieri… forse perché coscienti delle proprie e delle altrui difficoltà), si ottiene un avanzamento nell’apprendimento per tutti, oltre che la formazione di cittadini che cooperano per il bene comune.

Volevo concludere con la “bellezza”… In una scuola che lavora solo per l’acquisizione delle competenze, la matematica diventa un mero strumento per la risoluzione di problemi… Anche la lingua viene utilizzata solo come strumento di comunicazione efficace: gli alunni devono saper decodificare un testo e dedurre da esso il maggior numero di informazioni oltre che riconoscere le funzioni di alcune frasi o parti di frasi. E la bellezza di una poesia o di un’astrazione matematica non sono altrettanto importanti? Se si pensa alla sezione aurea e al modo in cui è stata utilizzata per costruire i templi nell’antica Grecia (il Partenone) o statue o ritratti (la Gioconda), perché se ne ritrovano in natura le tracce… – pensate che la sezione aurea sta dietro la forma del fiore d’arancio, la stella marina, la spirale del cavolfiore…. e la spirale del nostro orecchio… – si può immaginare una scuola in cui la matematica e la lingua italiana perdano il loro legame con la bellezza?

“Cosa Penso Della Tecnologia” Di Un Alunno Di 1ª Media

Quando noi pensiamo alla tecnologia, pensiamo subito ai telefonini, ai tablet, ai televisori, ma in realtà anche una penna è frutto della tecnologia.

Dietro la realizzazione di una penna a partire dai materiali di cui è formata fino ad arrivare alla sua produzione, c’è un grande impiego di energia.

La tecnologia aiuta l’uomo nella sua quotidianità, cioè entra a far parte della sua vita in tutte le ore della giornata ed è molto più diffusa. A volte mi trovo a pensare che, se le fonti energetiche come il petrolio si esaurissero, la tecnologia e le industrie si fermerebbero e noi sprofonderemmo in un’età di buio. Anche se può sembrare uno scenario catastrofico, prima o poi i combustibili fossili finiranno.

In questi ultimi anni sono stati messi in produzione televisori giganteschi full HD 4k, adesso stanno per entrare in commercio anche televisori 8k pieghevoli e telefoni di ultima generazione.
Tutti questi oggetti per quanto possano essere belli e utili, hanno comunque un costo molto elevato.
Grazie ai progressi informatici anche i sistemi di produzione delle industrie sono mutati: molti dipendenti sono stati licenziati e sostituiti da macchine molto più precise dell’uomo così da mandare in rovina l’artigianato e facendo perdere molti posti di lavoro.
Secondo me questi oggetti a noi tanto cari vanno comunque usati con moderazione: è importante poter preservare il più evoluto computer: il nostro cervello.

Dibattito

Franco: Nella riforma non viene mai nominata la creatività, cioè la capacità di andare oltre gli schemi, oltre le singole prove che hanno un solo risultato prestabilito.

Micaela: Lo studio proposto nelle prove Invalsi è basato fondamentalmente sull’analisi di un testo, esercizio sicuramente necessario, ma limitante se esclusivo. Credo che occorrano uno studio – e una conseguente verifica – capaci di far emergere la profondità e l’unicità di ogni individuo che ne faccia esperienza. Altrimenti si perde la capacità di cogliere e sviluppare la bellezza, la poesia, la fantasia. C’è uno studio che ha mostrato come l’alternanza dei due emisferi cerebrali, deputati a campi diversi del sapere, mette in movimento una grande complessità del pensiero…invece in questo progetto mi pare che ci sia uno sviluppo unidirezionale.

Maurizio: Ho fatto 5 anni di Istituto Tecnico e 5 anni di Ingegneria, perciò 10 anni decisivi della mia formazione con totale assenza di ragazze e di formazione letteraria, artistica, musicale…La mia scuola è stata proprio quello che criticava Francesco: non formativa rispetto alla società ma finalizzata alla professione. Gli unici due 30 che ho preso non sono stati per la conoscenza di quella materia, ma perchè mi era stato chiesto: “Cosa pensi di ciò che hai studiato?”.

Gli insegnanti non devono approfittare della loro posizione per trasmettere un pensiero, il loro pensiero, ma per aiutare a pensare.

Micaela : La scuola dovrebbe formare cittadini capaci di collaborare al bene comune, ma occorre un onesto accordo su ciò che intendiamo per “bene comune”. Io credo sia riconducibile a un costruttivo ascolto reciproco, che in una classe deve essere fondamentale. Solo apprendere l’arte di un confronto civile può far crescere la cultura e di conseguenza una reale civiltà.

Antonella: L’insegnante non deve solo istruire, ma anche educare, dal latino “educere”: portar fuori dalla persona le sue qualità, far emergere dagli studenti o da un testo ciò che è più necessario per l’individuo e per la collettività.

E’ utile far lavorare gli studenti in piccoli gruppi, perché questo permette loro di cogliere l’importanza della collaborazione che dovranno praticare anche nel mondo del lavoro. E’ decisivo far crescere la ricchezza dell’aiuto reciproco. Una cosa efficace che ho applicato è stata la responsabilizzazione da parte dei più bravi nei confronti dei compagni in difficoltà. Nella stesura dei testi, a gruppi di quattro alunni disposti banco contro banco, facevo in modo che unissero le idee e controllassero insieme grammatica e sintassi. Il voto veniva assegnato al gruppo.

Durante le prove di matematica, i più veloci, terminato il lavoro, correggevano gli elaborati degli altri spiegando loro il modo corretto per eseguirli e questo creava anche complicità anziché rivalità.

Ho trovato citato nell’Avvenire un convegno dal titolo “La scuola del Gratuito” in cui si consigliava di non dare voti sugli elaborati degli studenti ma consigli utili a svolgerli correttamente una prossima volta.

Mara: L’idea che i bambini abbiano una responsabilità collettiva e non solo individuale è un’idea completamente morta e spesso sono proprio i genitori a spingere verso questa individualità.

Anche quando sono lì per insegnare il teorema di Pitagora, non trasmetto un sapere tecnico ma insegno stabilendo una relazione; è la relazione che veicola la conoscenza. Quando nell’insegnamento di matematica e scienze parlo della costituzione non esulo dalla mia materia, ma sviluppo la responsabilità comune che sta alla base di ogni insegnamento. Io non insegno per formare un lavoratore, ma un cittadino consapevole, anche attraverso materie che sono tecniche.

Giuseppe: Da cosa è nato nel gruppo de “La tenda” il proposito di parlare della scuola?

Gianfranco: La dimensione ecclesiale sta e trova senso in una Polis. Nella prima serie de “La tenda” (v. www.gruppolatenda.org) ci siamo occupati della scuola, delle classi differenziali, dell’abitazione, del lavoro minorile etc…

Micaela: Siamo cristiani, ma anche cittadini.

Gianfranco: L’incarnazione infatti spinge ogni cristiano ad immergersi nella storia.

Nella nostra società passiamo da una riforma all’altra (spesso riforme inutili), ma ciò che peggiora la situazione è che il vero regolatore di tutto è il mercato, il profitto, la logica di profitto a qualunque costo. E’ quello che Papa Francesco illustra con tanta chiarezza.

Oggi abbiamo una scuola governata dal mercato globale, ma non poteva essere diversamente, essendo la stessa politica soggetta all’economia. La logica del mercato del profitto non sta solo nella testa dei governanti, ma di molti genitori e di molti insegnanti. Ciò che mi pare particolarmente interessante è il vedere come il mondo insegnante e gli stessi genitori, qua e là, resistano a questa logica. Mi pare che ci siano interessantissimi laboratori concreti.

Personalmente ho avuto due insegnanti che mi hanno trasmesso una grande passione per la cultura partecipativa mentre d. Nicola Barra mi ha educato al senso della responsabilità verso la società.

Ritengo decisivo l’insegnamento che ho ricevuto: più ancora che un sapere nozionistico, l’insegnamento a saper lavorare in gruppo.

Per quanto riguarda i genitori è fondamentale un loro coinvolgimento, non tanto per favorire il successo dei loro figli, ma per contribuire ad un futuro più solidale.

Uno dei compiti primordiali della scuola è quello di contribuire alla crescita della fiducia in se e nella collaborazione, questo soprattutto nella scuola di base, la scuola dell’obbligo.

Un futuro positivo della scuola lo aspetto non da questa o da future riforme, ma dalla fiducia, sperimentazione e collegamento di singole realtà. Solo chi sarà capace di sperare, di osare e contemporaneamente di creare confronti darà vita ad una scuola positiva.

Marco: L’aver vissuto il Concilio ed il ’68 ci ha radicalmente segnati.

Due slogan venivano usati nel ’68: “la fantasia al potere”, cioè la capacità di uscire dall’appiattimento generale e poi “il 6 politico” che non era la volontà di essere promossi senza studiare ma un impegno ad una formazione per tutti senza esclusioni di sorta.

La prepotenza del mercato è molto più pesante oggi rispetto a quei tempi. “Lettera ad una professoressa” aveva risvegliato una capacità critica intorno al mondo della scuola, profondamente in relazione con la società intera…

Come risvegliare una sana capacità critica non solo individuale ma anche collettiva? Cambiamenti seri possono esserci solo attraverso un impegno duraturo e contagioso. La stanchezza non deve toglierci l’urgenza di un maggiore impegno nel quotidiano, altrimenti la stanchezza può solo aumentare.

Nunzia: La volontà di una maggiore efficienza da parte di chi progetta sia nella scuola così come nella sanità, spinge il lavoratore ad una maggiore precarietà e questo non migliora la resa, ma porta ad una considerazione di sé e della collettività così scarse da abbassare il livello del lavoro. Dietro certe riforme e decisioni non c’è un corrispettivo miglioramento del bene comune, ma solo una concentrazione del potere decisionale.

Come fisioterapista per bambini, anche io “insegno” e lo faccio a bambini che hanno difficoltà, limiti nella resa; in alcuni casi non raggiungeranno la media dei compagni. Ebbene ciò che mi impegna è far emergere da quel bambino la “diversa abilità” che può essere: la relazione, la serenità… e laddove possibile, accettazione e consapevolezza dei propri limiti, ma anche delle proprie possibilità. In questo impegno alla valorizzazione dei potenziali del bambino è bene coinvolgere il bambino, i genitori e la scuola.

Micaela: Occorre mettere a fuoco e valorizzare ciò che può essere realizzato nei singoli casi.

Gianfranco: Non dobbiamo fare una scuola che abbia lo scopo di sfornare dirigenti.

Giuseppe: Nel libro di H. Baharier, “Una valigia quasi vuota”, una autobiografia che si intreccia con la vita di un barbone che è al contempo un uomo di grande cultura e che Levinas descrive: «Tutto ciò che io sapevo lui conosceva molto meglio, capace di parlare perfettamente la lingua di ogni interlocutore e che viveva la “CLAUDICANZA”». L’autore parla di questa caratteristica non come un difetto da correggere, ma della necessità di assumere la coscienza della propria condizione per poter essere pienamente se stessi. Baharier porta questo sguardo positivo sull’accoglienza della propria claudicanza in varie conferenze…e viene pesantemente riprovato: “Certo che parla così, ha una figlia handicappata!”. Invita la figlia alle proprie conferenze ed è lei che fa le domande a cui il padre prova a rispondere. Da questi incontri ne nasce un libro; l’editore vorrebbe intitolarlo: “La Genesi spiegata a mia figlia” ma l’autore interviene deciso: «No, il titolo è “La Genesi spiegata da mia figlia”».

Il centro non è il far sì che chi ha un “problema” stia al passo con gli altri, quanto capire che chi ha un “problema” è il punto di partenza, la risorsa da utilizzare perchè gli altri stiano al passo loro.

La “claudicanza” è la pietra d’angolo su cui costruire e questo devo ricordarmelo quando per uscire con mia madre ci metto 20 minuti per arrivare al portone.

Franco: Uno dei problemi dei governanti attuali è la logica del profitto: “ogni cosa che dico o faccio deve darmi dei risultati immediati”. La scuola non può rispondere a questi criteri: una buona scuola darà risultati positivi tra 20-30 anni e anche oltre.

Il nazismo aveva puntato all’eliminazione di tante persone per una società migliore, invece è proprio la loro valorizzazione che permette una società migliore.

Parlo come tecnico: un ingegnere potrebbe costruire auto o treni, ma “cosa conviene alla società?”.

A questa domanda occorre rispondere prima di richiedere le competenze del tecnico.

Ho l’impressione che questa riforma sia stata affidata a tecnici, trascurando il compito primario di chi pone domande sul senso.

Gianfranco: Una base di legittimazione per l’educazione civica nella scuola la possiamo trovare oggi nella riforma del Titolo V della Costituzione che apre nuovi orizzonti alla cittadinanza attiva, allorché stabilisce, nel quarto comma dell’art. 118, che “Stato, Regioni, Città metropoliltane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Il sociologo Giuseppe Cotturri, che è tra gli ispiratori di questa riforma, nel suo libro “La forza riformatrice della cittadinanza attiva” tiene ben presente quanto sia necessario che cresca oggi una consapevolezza diffusa di questa possibilità partecipativa che, nel costruire legami, può produrre beni comuni. In questo senso, la formazione scolastica, restituendo lo spazio che non ha mai avuto all’educazione civica, potrebbe offrire un valido contributo alla promozione di una nuova cittadinanza solidale. Le varie riforme, compresa l’attuale, non possono allontanarsi da questa priorità costituzionale. Come TENDA nell’incontro “Scuola tra piccoli”, abbiamo messo al centro cammini in cui cresca la consapevolezza della piccolezza ed al contempo della PREZIOSITA’ DELL’ ESSERE E DEL COOPERARE TRA PICCOLI.

Maurizio: Non bisogna confondere pubblico con gratuito. In Inghilterra la scuola è pubblica con programmi statali, ma affidata a enti privati, quindi a pagamento.

Chiara: E’ la relazione dell’insegnante con i ragazzi che facilita l’apprendimento: i ragazzi amano le materie degli insegnanti che riescono ad instaurare con loro una relazione basata sulla stima, sul rispetto e sull’ascolto. Questo alle medie, almeno, è molto evidente e, forse, è esperienza di molti.

Riguardo alla direzione che sta prendendo la scuola, vorrei aggiungere un’altra riflessione.

Nelle scuole, da parte dei dirigenti, c’è una pressione forte per favorire, come criterio guida, le prove INVALSI; i dirigenti stessi ricevono pressioni dall'”alto” in questa direzione. Ma allora quale strada è possibile percorrere per salvaguardare la crescita e la formazione di tutti gli alunni, nessuno escluso? Penso che in questo momento la strada sia quella dell’assunzione di responsabilità: mi assumo la responsabilità di determinati risultati, anche negativi, facendomi forte della riflessione che conduco insieme ad altri a partire dalla realtà che vivo e osservo.

Antonella: A proposito dell’insegnamento, una cosa efficace che ho applicato è stata la responsabilizzazione da parte dei più bravi nei confronti dei compagni più in difficoltà. I primi terminato il loro lavoro aiutavano gli altri e questo creava anche una complicità.

Mara: Volevo ringraziarti Giuseppe perché il tuo intervento mi ha ricordato la “claudicanza” di mia madre, per la quale a 16 anni ho dovuto imparare a fare punture sottocutanee e intramuscolari. Questa necessità mi ha causato per un lungo periodo nausea e io allora non ne capivo le ragioni…ma ha anche generato in me una competenza di cui oggi sono grata: la fatica può generare grosse opportunità.

Ho fatto la 5a elementare, la 1a e 2a media in Florida e a New York. Dopo la laurea sono tornata a S. Diego in California, all’università. Anche se le notizie sono legate a 20-30 anni fa quello che mi rimane chiaro è un insegnamento legato ad una grande competitività, con una premiazione immediata che poteva essere un lecca-lecca mangiato davanti agli altri compagni che “rosicavano” e ciò accresceva la competizione…Tornando in Italia ho percepito immediatamente come questa competizione che spingeva ad un maggiore studio apriva il pericolo dell’isolamento rispetto ai compagni. Anche la valutazione del tuo studio è legato alla classe a cui appartieni: se ad esempio c’è una classe di caproni, il tuo rendimento leggermente superiore fa di te e del tuo ottimo risultato un “genio”; se invece hai una classe di geni, il tuo rendimento leggermente inferiore fa di te un “caprone”. Quando da laureata in chimica ho fatto un anno in California, ho trovato un terreno ideale per la ricerca scientifica; nonostante questo ho rifiutato un lavoro, proposto da un’azienda chimica, perché non volevo far crescere i miei figli con quella mentalità e sono tornata in Italia.

Chiara: Diane Ravitch, viceministro dell’istruzione nell’amministrazione Bush (1991), in un articolo del 2010, denuncia i danni che la scuola americana e gli studenti hanno ricevuto da un sistema di valutazione che noi stiamo impiantando oggi…

La Caritas Di Ostia Condanna L’ennesimo, Inutile E Dispendioso ‘Sgombero’ Forzato Dei Rom Delle Acque Rosse

Rimane sempre più incomprensibile a ROMA (Ostia) – capitale del Giubileo della Misericordia – il ripetersi di azioni distruttive , senza alternative, nei confronti di persone che continuano a vivere ai margini della società perché rifiutati dalla stessa società nella quale vorrebbero integrarsi..

La Caritas di Ostia con la Caritas Diocesana di Roma sta accompagnando da vari anni i senza dimora e i Rom con progetti alternativi di inclusione lavorativa e di autocostruzione senza mai aver avuto il tempo di completare il progetto con gli interlocutori naturali per la loro realizzazione: gli organi amministrativi comunali e municipali.

Tuttavia tali organi amministrativi – nel loro modo miope di far politica – per ben 5 volte in tre anni non trovano soluzione migliore che abbattere, radendo al suolo, con le povere abitazioni-rifugio temporanee, anche la dignità delle persone.

E’ questa un’operazione non molto dissimile dal ‘terrorismo’ di questi giorni!

Ogni sgombero costa alle casse del Comune dai 30.000 ai 50.000 Euro con il risultato di indurre le persone – già nella illegalità per povertà – a compiere altre azioni illegali, sempre per povertà e per difesa della propria incolumità fisica!

Si sta parlando – ipocritamente – di PIANO FREDDO! Ma che razza di Piano Freddo è quello di aggiungere altre persone sulle strade e sulle piazze della nostra Città, per poi avere la paura che qualcuno di loro muoia letteralmente di ‘freddo’: e allora si faranno i soliti discorsi di chi è la colpa!

OSTIA una città deturpata da altre sozzure – mafia, corruzione, racket e usura – assiste ancora una volta – allibita – alla politica che continua a mostrarsi ‘ DEBOLE CON I FORTI E FORTE CON I DEBOLI’!

CHI HA MESSO IN RIDICOLO – con questa operazione – le parole dette pubblicamente in SALA CONSILIARE del X Municipio il 30 luglio 2015 dal Prefetto Gabrielli: ‘d. Franco assicuro NON PIU’ SGOMBERI’ e confermate poi anche dall’allora Commissario Alfonso SABELLA ?!

d. Franco DE DONNO,

(responsabile della CARITAS XXVI PREFETTURA DIOCESANA DI ROMA-OSTIA)

dddfranco@tin.it – 3391510787

Nota di servizio: anche questa lettera è stata spedita al nostro indirizzario. Chi si trovi inserito senza desiderarlo ci scusi, basta una comunicazione e provvederemo a cancellare l’indirizzo. Chi invece viene a conoscenza di questa lettera e vuole riceverla ce lo faccia sapere. Come sempre sono gradite segnalazioni di indirizzi di persone interessate. Come sapete non prevediamo un abbonamento per ricevere questa nostra lettera in modo da non limitarne la diffusione, le spese di stampa e di spedizione infatti sono contenute. Ogni partecipazione a queste spese sarà comunque gradita, il nostro Conto Corrente Postale è il 45238177 intestato a Francesco Battista

 

  1. Qui s’intende l’assemblea democratica sovrana