Lettera 33 (Seconda Serie)

 

Carissimi amici,

con questa lettera vogliamo invitarvi al nostro prossimo incontro. Come già avevamo annunciato, il tema sarà quello della povertà visto dall’ottica che Papa Francesco ci ha indicato: vivere la povertà da poveri insieme ai poveri per poter in questo modo, alla scuola dei poveri, imparare ciò che è veramente essenziale e, guidati dalla presa di coscienza della nostra debolezza ed insufficienza, aprire il cuore agli altri e all’azione del Padre.

Ci sono situazioni che generano una povertà devastante ed è necessario che ognuno di noi si senta responsabile e sia capace di lottare contro una miseria che può causare l’espropriazione della vita. Ma è altrettanto importante impegnarsi a cogliere ciò che già germoglia, occorre essere attenti a chi continua a seminare vita e lasciarsi coinvolgere su questa strada. La povertà può divenire un’opportunità di vivere ciò che è essenziale. Vogliamo aiutarci, partendo da alcune testimonianze, a interrogarci e riflettere su ciò che di prezioso andiamo scoprendo in quest’ambito.

Occorre saper cogliere ciò che di veramente prezioso c’è nell’animo delle singole persone e saperlo far interagire.

Siamo dunque chiamati, come credenti, a collocarci in una prospettiva paradossale: quella di riorientare il cammino personale e comunitario assumendo la povertà come orientamento. E questo molto concretamente, con una verifica continua, perché non rimanga nelle parole e nei desideri.

Prendere sul serio la povertà significa orientarsi verso quella a cui siamo chiamati, personalmente e comunitariamente, alla scuola della cattedra dei piccoli. Come insegna Pio Parisi, essa consiste in quel cambiamento radicale nel nostro modo di guardare attorno a noi, “per cui scopriamo che quelli che non stanno in cattedra e che a nessuno verrebbe in mente di metterceli hanno tante cose da insegnarci. Questa è la meraviglia: sembra che siano solo da aiutare e invece sono quelli di cui abbiamo maggior bisogno e più possono aiutarci”.

Per prepararci a questo incontro vi proponiamo il testo di una conferenza di Padre Ghislain Lafont, che i nostri amici ben conoscono, che analizza novità e prospettive di questo anno con Papa Francesco; seguono due esempi concreti di impegno a fianco dei più poveri dove la solidarietà attiva tra poveri diventa preciso impegno politico.

Infine un testo da un intervento di Giorgio Marcello che ci aiuta, sulle tracce de “ La cattedra dei piccoli e dei poveri” di Pio Parisi a capire che un mondo più giusto, “per chi si rende conto della tragicità del mondo in cui viviamo e non si sente ben collocato in esso”, non può venire dalla presa del potere da parte dei poveri del mondo, ma solo dalla possibilità, attraverso le esperienze di solidarietà e di partecipazione, di sminuire l’importanza del potere in una società che ritrovi “assunzione di responsabilità, condivisione, compassione, conoscenza intima, cordiale e sofferta dei problemi di tutti”, “questo è il frutto proprio dei piccoli e dei poveri che si mettono insieme resistendo alla tentazione di diventare grandi e ricchi”

Chiudiamo la lettera con alcuni brevi messaggi dei lettori, che valgano da stimolo a superare pigrizia e timidezza e condividere idee e impressioni, insieme naturalmente a critiche e suggerimenti.

Sommario della 32° lettera:

  1. Riformare la Chiesa? di Ghislain Lafont
  2. Gloria Recio, l’imprevisto di Dio di Marie-Hélène de Cherisey
  3. Un sistema che produce esclusione Intervista con Juan Grabois
  4. Una riflessione sul tema della povertà di Giorgio Marcello
  5. Lettere

Riformare la Chiesa? di Ghislain Lafont[1]

Un anno con papa Francesco[2]**

I1 tema della riforma della Chiesa si pone oggi in modo nuovo rispetto a quanto accadeva in un passato anche recente: papa Francesco ha infatti compiuto gesti e pronunciato parole che fanno sì che le problematiche non siano più esattamente le stesse. Si tratta di gesti e di parole che ci spingono a pensare che stiamo entrando in un periodo nuovo della storia conciliare e post conciliare. Nelle pagine che seguono mi propongo di riflettere su alcuni momenti di questo pontificato, a un anno dal suo inizio: mi concentrerò in particolare su quattro punti.

1. Lo scorso anno abbiamo tutti vissuto con molta emozione le dimissioni di Benedetto XVI e l’elezione di papa Francesco; inoltre siamo stati tutti molto colpiti dal modo in cui il nuovo papa si è presentato alla Chiesa, appena dopo l’elezione. Si tratta di novità radicali. Da secoli non accadeva che un papa desse le dimissioni. Dobbiamo allora chiederci: è un gesto come un altro oppure ha un significato teologico e dice dunque qualcosa del papato e della Chiesa? Siamo inoltre rimasti tutti veramente stupiti dal modo in cui papa Francesco si è presentato: prima di dare la benedizione Urbi et orbi si è inchinato e ha chiesto alla gente di pregare per lui, domandando una benedizione. Qual è il significato di un gesto così umile? Si tratta di un gesto apparentemente umile, ma in fondo è un segno di autorità.

Da secoli non accadeva che un papa desse le dimissioni: è un gesto come un altro oppure ha un significato teologico e dice dunque qualcosa del papato e della Chiesa?

2. Il papa ha deciso di canonizzare insieme Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Per quanto riguarda Giovanni XXIII, si dice che non ci fosse ancora il miracolo che, secondo prassi, pone il sigillo divino al discernimento ecclesiale circa la santità di qualcuno. Che cosa significa dunque una simile decisione? Sappiamo inoltre che il papa, che è gesuita, ha canonizzato nel dicembre 2013 il beato gesuita Pietro Favre: anche in questo caso la canonizzazione è avvenuta in assenza

di miracoli o altro. C’è un significato teologico in questo? Che valore ha il riconoscimento della santità di papa Roncalli e di Pietro Favre al di fuori della procedura abituale e in assenza di miracolo? Anche questo rappresenta una novità.

  1. Il papa ha avviato una consultazione universale dell’intero popolo cristiano sul tema della famiglia. Non so come si sia proceduto in Italia, ma in Francia tutte le diocesi hanno distribuito un questionario semplificato, giacché alcune domande erano un po’ tecniche: le risposte sono state inviate dalle singole diocesi alla Conferenza Episcopale e poi a Roma. Penso che si sia proceduto in modo simile un po’ ovunque, o almeno lo spero. Che cosa implica dunque consultare in questo modo il popolo cristiano? È soltanto un gesto di cortesia, proprio di un papa particolarmente gentile, oppure significa qualcosa di più? Questo è un punto importante: quando si è risposto e si è fatta una sintesi diocesana, con quale autorità ci si è espressi e che importanza avrà per il papa un simile contributo?
  2. Papa Francesco ha più volte rinnovato il suo appello alla povertà: «Andare nelle periferie», egli dice. All’indomani della sua elezione, papa Francesco ha tenuto una breve omelia durante la messa con i cardinali, nella quale ha insistito sulla necessità di confessare Gesù crocifisso: «Se non confessiamo Gesù crocifisso» – ha detto -«possiamo essere papi, cardinali, preti etc, ma non valiamo niente». E questo l’ha ripetuto molte volte, giacché il papa non è parsimonioso con le parole, è anzi molto loquace. I temi che ritornano spesso, come «andare alle periferie», «confessare Gesù Cristo Crocifisso», «soccorrere i poveri», rappresentano soltanto pie esortazioni oppure si tratta di qualcosa di importante per la Chiesa? Essa è dunque intrinsecamente la Chiesa di Gesù crocifisso, la Chiesa che va nelle periferie, la Chiesa che si interessa dei poveri? Tutto questo manifesta certamente, da parte del papa, una certa consapevolezza di che cosa sia la Chiesa. Ma se fosse soltanto una consapevolezza personale di papa Francesco, potremmo pensare che ogni papa abbia la propria. In realtà, il papa dice oggi cose che erano molto importanti al tempo del Concilio, ma che nel tempo non sono state forse prese sufficientemente in considerazione. Oggi stiamo così percorrendo il secondo tratto di un cammino iniziato cinquant’anni fa con il Concilio Vaticano II: si sta dunque aprendo una nuova tappa della storia della Chiesa e dell’intelligenza che la Chiesa ha di se stessa.

La canonizzazione di papa Giovanni e di Pietro Favre

Che cosa significa il fatto che il papa abbia rinunciato alla prova del miracolo nella canonizzazione di papa Giovanni e Pietro Favre? Si potrebbe chiedere al papa sulla base di quale autorità egli dica che queste due persone sono sante al punto da essere dichiarate tali dalla Chiesa, dato che non disponiamo di alcun elemento tangibile, come, per esempio, il fatto che una persona malata è guarita grazie alla loro intercessione. Penso che qui tocchiamo una questione teologica riconosciuta da sempre, ma non da sempre in opera alla stessa maniera: si tratta dell’infallibilità nel sentire cristiano, ovvero della capacità che il popolo cristiano ha di discernere nelle cose evangeliche essenziali. Si tratta di qualcosa che appartiene alla Chiesa prima di appartenere al papa e, direi, a Dio stesso, dato che Egli fa i miracoli, mentre la Chiesa riconosce la verità. Il compito del papa non è dunque quello di dichiarare da se stesso la santità di queste persone, ma di ascoltare il sentimento del popolo cristiano (intendendo la parola sentimento in senso intellettuale, naturalmente), di riconoscere che in questo sentimento si pronuncia lo Spirito Santo che dice la verità: quella verità che lo Spirito Santo vuole mettere in rilievo in questo caso particolare. Ciò che è in gioco è dunque l’autorità della Chiesa, in quanto popolo di Dio, di discernere le cose importanti per la vita del popolo stesso. In latino si parla di fama santitatis, della “reputazione, di santità”: il popolo cristiano riconosce che una certa persona ha veramente vissuto il Vangelo in modo tale da poter essere proposta come modello per tutti i cristiani. Tale autorità fondamentale appartiene al popolo cristiano.

Ho ottantasei anni e ho dunque vissuto con l’entusiasmo di un giovane adulto il Concilio Vaticano II: all’epoca avevo trenta/trentacinque anni. Alla fine del Concilio, papa Roncalli era morto già da tre anni e da più parti era stata avanzata la richiesta che colui che aveva iniziato il Concilio Vaticano II – un evento unico nella Chiesa! – e che tutti conoscevano come “il papa buono”, fosse fatto “santo subito”. Ma papa Paolo VI non volle. Alcuni furono molto delusi da questo rifiuto. Tra questi Giuseppe Alberigo: uno storico italiano di valore e molto famoso negli ambienti della teologia, scomparso di recente. Anche alla fine della sua vita, Alberigo ha ribadito che Paolo VI ha sbagliato: non acconsentendo che si proclamasse subito santo Giovanni XXIII sarebbe venuta a mancare una spinta decisiva per gli anni successivi. Io sono tuttavia tentato di pensare che Paolo VI non abbia sbagliato: affinché la Chiesa possa comprendere in profondità, riconoscendo la santità di una persona, mi sembra che il tempo aiuti molto. Quando papa Giovanni XXIII è stato beatificato, erano già passati quasi quarantanni dalla sua morte, ma era rimasto come un modello: un esempio da seguire. Si è voluto beatificare nello stesso momento papa Pio IX, il quale non aveva le stesse qualità: era certamente un santo, ma la sua beatificazione non avrebbe dato alla Chiesa la medesima spinta profetica per la quale occorreva, per così dire, un “santo profeta”. La Chiesa oggi ha maturato la questione, ed è molto importante che sia dichiarato davanti al mondo che colui che ha dato avvio al Concilio Vaticano II è stato un profeta e un santo.

Nel corso della mia vita, sono stato molte volte impaziente circa l’andamento della Chiesa: oggi riconosco che il tempo è necessario, che il tempo lavora per noi.

In questo senso, avrei preferito che si aspettasse un po’ prima di procedere alla beatificazione di Giovanni Paolo II Occorre tempo per “vedere”: dopo dieci o vent’anni si può apprezzare meglio la figura, se ne vedono meglio le sfumature. Il tempo consente di capire meglio se si tratta di qualcosa di imposto dall’alto o magari condiviso soltanto da un certo tipo di persone. Il tempo è importante: con il tempo ogni cosa riesce meglio. Posso dire che, nel corso della mia vita, sono stato molte volte impaziente circa l’andamento della Chiesa: oggi riconosco che il tempo è necessario, che il tempo lavora per noi. Ma lavora per noi se abbiamo la consapevolezza di essere una Chiesa che è responsabile del proprio discernimento: ogni membro del Popolo di Dio deve, in connessione con tutti gli altri, pensare, riflettere, pregare per far andare avanti la Chiesa.

In questo senso, il miracolo può essere utile, ma non è fondamentale: l’ordinario è più importante dello straordinario. Il miracolo è dell’ordine dello straordinario, ma questo ha un senso un po’ negativo, nello stesso modo in cui – all’università – si parla di professori straordinari, i quali sono qualcosa di meno rispetto ai professori ordinari! La cosa ordinaria è l’intelligenza del Popolo di Dio, la sua capacità di discernere. E il compito di un vescovo in una diocesi, o del papa per la Chiesa universale, è di sentire come sente il Popolo di Dio.

La consultazione del popolo cristiano sulla famiglia

Certo, può capitare che il popolo cristiano non raggiunga la sua profondità di discernimento perché non è abbastanza rispettato nella sua dignità di Popolo di Dio. Oggi però papa Francesco, con la consultazione sulla famiglia, applica quanto il Concilio ha dichiarato nella Lumen Gentium.[3] Penso che si tratti di qualcosa che non è mai accaduto nella Chiesa: una consultazione di tutto il popolo cristiano affinché esso dica ciò che pensa. Non è irrilevante che si sia proceduto in piccoli gruppi, in modo che potesse emergere una coscienza su scala diocesana. Non si è dunque cercata una consapevolezza unitaria – non possiamo pensare tutti allo stesso modo – ma alcune grandi linee fondamentali di cui tutti possono sentire la verità. Il papa ascolterà dunque il contenuto della fede del popolo cristiano sulle questioni della famiglia.

Tutto questo ha un forte valore teologico: il papa crede che, se il popolo cristiano è interpellato nel modo giusto, esso risponderà nel modo giusto. Il papa troverà poi le formule per restituire al popolo cristiano ciò che il popolo cristiano gli avrà detto.

Questo ci condurrà – e condurrà anche il papa – a sentire, forse ancora più di oggi, che la consapevolezza cristiana non è unitaria. Ho trascorso sei mesi in Africa nell’arco degli ultimi tre anni: a livello sociale, politico, cristiano, in Africa la famiglia non si presenta come da noi. Ci sono altre strutture, altre culture, altri punti di riferimento, che fanno sì che, su diverse questioni, sia possibile che il papa non riceverà una risposta univoca, unitaria. Probabilmente ci saranno diverse risposte. Ma anche questo è un elemento della teologia della Chiesa: la Chiesa non è una sola voce, la Chiesa concreta è fatta di Chiese diverse, che hanno ciascuna una propria sensibilità. La vera svolta consisterà nell’ascoltare tutte queste sensibilità, rimandando magari alcuni temi a conferenze regionali: a una conferenza della Chiesa africana o a una della Chiesa europea, per esempio. O magari a una conferenza della Chiesa italiana, la quale è certamente diversa dalla Chiesa francese: le sensibilità sono in gran parte le stesse, ma non lo sono del tutto.

Ascoltare la Chiesa tutta intera non significa dunque dare una risposta che sia valida per tutti, ma rispettare le diversità delle Chiese locali e anche la maturità del popolo cristiano. Una maturità che suppone anche l’istruzione, gli studi, le ricerche: tutto questo non va ovunque allo stesso passo. E dunque, in sintesi, questa consultazione ha come sottofondo – per un verso – un’ecclesiologia basata sull’autorità del popolo cristiano (secondo Lumen Gentium) e – per altro verso – un riconoscimento della diversità delle Chiese particolari. Tutto questo la rende un’iniziativa molto audace: il papa ha osato molto. È possibile che, quando si troverà davanti le risposte, gli sarà difficile operare un discernimento, ma questo è il suo compito.

L’appello alla povertà

Durante il Concilio si parlava molto di Chiesa serva e povera. In quegli anni vi furono molti tentativi di andare verso i poveri: penso, per esempio, alla Fondazione dei Piccoli Fratelli e delle Piccole Sorelle di Charles de Foucauld, che rappresenta una forma di vita religiosa molto diversa da quelle allora conosciute e molto vicina ai più poveri, ma anche all’esperienza dei preti operai. Emergeva l’idea che si dovesse andare dove sono i poveri: quella, dunque, di una Chiesa serva e povera.

La Chiesa non è una sola voce, la Chiesa concreta è fatta di Chiese diverse, che hanno ciascuna una propria sensibilità.

Oggi il papa riprende questo tema. È – il suo – semplicemente un atteggiamento di misericordia verso i poveri o magari il tentativo di promuovere un tipo specifico di evangelizzazione? Penso che la questione sia molto più profonda: attraverso il ripetuto appello alla povertà, il papa vuole sottolineare che la Chiesa non può che essere come Cristo stesso è stato.

Quando pensiamo a Cristo Gesù e alla sua vita terrena, rimaniamo impressionati: egli è vissuto da operaio per trent’anni. Egli è il Figlio di Dio, venuto a salvare il mondo: è impressionante che

Dio abbia mandato il suo unico Figlio, il Verbo, a perdere trent’anni facendo il falegname! La sua vita pubblica è durata appena tre anni. Tre anni sono un niente! Durante questi tre anni, egli ha fatto inizialmente l’esperienza di una vita apostolica coronata di successo, di un’evangelizzazione riuscita, ma molto presto è stato rifiutato. Ha cominciato con il successo e ha terminato con la morte. L’itinerario di Gesù dunque è stato molto umile, ed è finito male: molto male.

Ora, come Chiesa potremmo mai avere la pretesa di non seguire Gesù e di portare avanti un’evangelizzazione differente rispetto alla sua? Ma di chi saremmo allora discepoli?

Quando papa Francesco invita ad «andare nelle periferie», laddove le donne e gli uomini del nostro tempo non sono onorati, presso la gente comune, laddove Gesù stesso è andato, ciò che egli ci invita a fare è seguire Gesù, custodire al centro del nostro cuore la preferenza del Figlio di Dio per la povertà, per l’umiltà, per le cose che non sono straordinarie, per le cose semplici, la preoccupazione per coloro che non hanno niente. Questo non vale soltanto per i religiosi, per le persone scelte, ma per tutti noi, come comunità e come singoli.

Cercando di trovare in questo un senso teologico, credo che la Chiesa – nell’evoluzione della sua storia – abbia seguito le tracce di Cristo. È partita nella gloria della risurrezione: ecco allora il Cristo Pantocratore che domina tutto, il Cristo Risorto, come quello di Monreale e Cefalù. Probabilmente, all’epoca serviva cominciare con il Pantocratore, così come Gesù aveva cominciato con successo la sua vita apostolica, quando tutti andavano dietro a lui. Oggi siamo invece chiamati a imparare dal Cristo umile: come la traiettoria di Cristo è andata dal successo alla croce, così la traiettoria della Chiesa passa dall’essere la Chiesa del Pantocratore ad essere la Chiesa del Crocifisso.

Questo ci aiuta a capire meglio la situazione attuale della Chiesa, che non è certo gloriosa. In Italia c’è ancora una certa gloria, ma da noi, in Francia, questa è totalmente finita: siamo una chiesa povera economicamente, povera di preti, povera di religiosi, povera di tante cose. E tuttavia, in un certo senso, questa povertà è un privilegio, nella misura in cui cominciamo a seguire davvero le tracce di Cristo senza sapere dove andiamo, senza avere più appoggi. Cominciamo così a vedere che è necessario pensare alla riforma della Chiesa, e pensare alla Chiesa con quell’unico punto di riferimento che è Gesù crocifisso. Andare nelle periferie perché siamo fondamentalmente poveri: questa è una scoperta che dobbiamo fare, che è ancora del tutto nuova, ma che è teologica, nella misura in cui la traiettoria della Chiesa non può essere diversa dalla traiettoria di Gesù. Già Giovanni XXIII l’aveva proposto, seppure in modo differente. Egli apparteneva a un’altra generazione e l’aveva proposto da uomo povero quale era: un contadino senza molta cultura, una persona umile, neanche un grande vescovo. Che però ci aveva già messi su questa strada.

Le dimissioni di Benedetto e la benedizione del popolo su Francesco

L’ultimo punto che voglio affrontare riguarda le dimissioni di Benedetto XVI e la richiesta di Francesco di essere benedetto dal popolo prima di impartire la sua benedizione. Entrambi i gesti hanno sullo sfondo la consapevolezza, maturata durante il Concilio Vaticano II e sviluppata fino a oggi, del fatto che la Chiesa è più grande del papa.

Dio ha voluto riunire tutti gli uomini in Cristo e la Chiesa è sua: il disegno di Dio è di salvare tutti gli uomini attraverso il mistero della croce e della risurrezione e tutti – che siano, come dice Francesco, preti, cardinali, vescovi o laici – sono membri di questo popolo consacrato a Cristo e, attraverso Cristo, agli uomini.

La richiesta di Francesco di essere benedetto mostra che il papa non è un sovrano pontefice: sì, lo è, ma in quanto servitore e uomo umile di fronte al popolo. È un paradosso. Anche le dimissioni di Benedetto XVI presuppongono una certa concezione del papato.

Oggi siamo chiamati a imparare dal Cristo umile: come la traiettoria di Cristo è andata dal successo alla croce, così la traiettoria della Chiesa passa dall’essere la Chiesa del Pantocratore ad essere la Chiesa del Crocifisso.

È interessante paragonare il modo in cui Pio XII definiva il papa, prima del Concilio, e il modo in cui lo definiva Paolo VI, dopo il Concilio. Nel 1945, Pio XII ha emanato la Costituzione Apostolica Vacantis Apostolicae Sedis, in cui si parla del papa come del «successore del Beato Pietro, Principe degli Apostoli, che in questa Terra fa le veci di Gesù Cristo Signore nostro e Salvatore ed è il supremo pastore e il capo dell’universo Popolo di Dio, del gregge del Signore». Paolo VI, nella Costituzione Apostolica Romano Pontifici Eligendo, del 1975, parla del Pontefice Romano, il quale, «in quanto Successore di San Pietro nella sede di Roma, è Vicario di Cristo in terra, Supremo Pastore e Capo visibile di tutta la Chiesa» (“qui, ut Beati Petti in huius Urbis sede Successor, est Christi in terris Vicarius nec-non Supremus Pastor atque visibile universalis Ecclesiae Caput”). Il tono è po’ diverso e si evidenzia per quale qualità il papa

sia tale: egli è il pastore universale, in quanto è vescovo di Roma. Egli è dunque, prima di tutto, vescovo di Roma. Nella Costituzione di Pio XII non si parlava affatto della sede di Roma.

Non solo: Pio XII diceva che il papa riceve la sua autorità al momento dell’elezione. Quando l’eletto accetta l’elezione, egli acquista l’autorità universale sulla Chiesa e, se egli non è ancora vescovo, dovrà farsi ordinare tale; ma dal momento in cui ha ricevuto da Dio questa autorità può compierne tutti gli atti. Nel Concilio Vaticano II questa impostazione di Pio XII è stata totalmente soppressa. Durante il Concilio, infatti, ci sono state discussioni epiche sul fatto che ciò che dà a un vescovo l’autorità è la consacrazione episcopale: se non sei vescovo, non hai nessun potere sacramentale e nessun potere di governo. Anche il papa, dunque, come tutti gli altri, riceve il suo potere con la consacrazione sacramentale. L’unica soluzione era dunque di rimettere il papa nella sua Chiesa, che è quella di Roma: il papa ha il potere universale perché occupa la sede di Pietro.

Nell’ottica di Pio XII, secondo la quale Dio conferisce al papa l’autorità universale nel momento della sua elezione, questa autorità fa parte di lui, della sua persona. Ma se invece Dio, come fa per tutti i vescovi, dà al papa l’autorità di Gesù Cristo mediante la consacrazione episcopale, ne deriva che – quando la persona del papa non sia più in grado di esercitare il ministero affidatogli – egli possa rimettere la sua autorità a coloro che lo hanno eletto.

Si dice che a Giovanni Paolo II fu suggerito di dare le dimissioni, data l’età avanzata e la malattia, ma che egli avrebbe risposto: «Dio mi ha istituito, non posso niente, ho ricevuto da Dio, a chi potrei dare le dimissioni?». Nella prospettiva del Concilio Vaticano II, il vescovo di Roma può invece rimettere le proprie dimissioni a coloro che l’hanno eletto. Il papa è un vescovo come tutti i vescovi, un cristiano come tutti i cristiani: quando ha compiuto il suo lavoro, se ne va tranquillamente. Benedetto XVI è un buon teologo e sapeva dunque bene chi è il papa: era consapevole che poteva dare le dimissioni, e che questo non avrebbe configurato un’ingiuria a Dio.

Probabilmente avremo bisogno di molto tempo per ritrovare una visione più semplice e più umile del papa. Quando un papa è molto popolare, come Francesco, questo può forse mettere la sua persona troppo in rilievo rispetto agli altri vescovi e rispetto a noi, popolo cristiano. Applaudiamo pure il papa, ma non dimentichiamo che quel 13 marzo 2013 egli si è inchinato di fronte a noi.

Riformare la Chiesa

Gli atti di papa Francesco che ho fin qui ricordato costituiscono un passo importantissimo nel cammino della Chiesa. E se noi, popolo di Dio, rispondiamo nel modo giusto alle sue indicazioni possiamo veramente riformare la Chiesa. Non parlo delle riforme che non spettano a noi, come per esempio la riforma della Curia romana: mi riferisco alla necessità di sviluppare la consapevolezza di essere un popolo cristiano responsabile, che ha il senso della fede. Un popolo che sa riconoscere la santità di un santo e promuovere la sua canonizzazione; un popolo che deve vivere ancora di più sul modello di Gesù crocifisso e che può dunque andare nelle periferie. Gesù non è forse andato nelle periferie? È rimasto all’interno della Palestina, ma ci ha detto «andate e predicate il Vangelo a tutte le creature»: non dunque soltanto ai grandi di questo mondo. L’evangelizzazione tocca a noi: se abbiamo questa consapevolezza comunitaria del Cristo crocifisso e povero, troveremo anche i modi concreti per metterla in pratica.

Gloria Recio, l’imprevisto di Dio di Marie-Hélène de Cherisey

“Carissimi, non siate sorpresi per l’incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano”(1P 4,12)

20 settembre 2013. “Smokey mountain, l’immensa discarica di Manila, fuma in modo anormale. In questa parte della capitale che detiene il record mondiale di densità della popolazione, un violento incendio ha appena devastato un quarto del bidonville di Sitio Damayan. Un disastro per le centinaia di famiglie che sopravvivono su questa gigantesca pattumiera, con cento pesos al giorno (1,50 euro) e che hanno perso d’un colpo tutto ciò che possedevano!

“Dove c’è tristezza, che io metta la gioia”

Come non essere sconcertati da tale accanimento della sorte sui più poveri? Gloria Recio è in buona posizione per misurare l’ampiezza del dramma. Responsabile del programma bidonville della fondazione Tulay Ng Kabataan (“Un ponte per i bambini”), ella accompagna quotidianamente queste famiglie, da anni, al fine di migliorare le loro condizioni di vita. Immediatamente organizza una distribuzione di cibo nei luoghi dell’incendio, ringraziando le vittime di accettare questo aiuto. Nei giorni seguenti, con la professionalità che la caratterizza, attiva la rete di mamme volontarie dei bidonvilles da lei formata . Insieme raccolgono e immagazzinano in una sala del centro derrate alimentari e vestiti. Notte e giorno cucinano dei pasti. Tutto è pronto quando arrivano le famiglie. La distribuzione si svolge con calma, seguita da un pasto servito in un clima festoso. Sui volti rinasce la speranza. Gloria non ha dormito da molti giorni, e tuttavia, eguale a se stessa, offre il suo sorriso tranquillo, mai sopraffatta dagli eventi.

L’imprevisto fa parte della vita.

“E’ raro che io sia scoraggiata perché la Provvidenza mi ha tanto aiutata” afferma Gloria con una forza e una umiltà sconcertanti. “Nei momenti di prova rileggo spesso le lettere di san Pietro”. Un’infermiera che ha lavorato con lei è stata colpita dal vedere che l’imprevisto non è per lei un incidente di percorso ma fa parte della vita. “Benché turbata, non è schiacciata. Fa quello che può!”. E la missione prosegue come in un solito giorno: l’accoglienza dei piccoli negli otto nidi, l’assistenza ai bambini fragili nei quattro centri di nutrizione e di salute, la visita delle famiglie. Gloria ne conosce ciascuna, riceve le molte confidenze delle donne, la loro sofferenza. Poi, col favore della notte, disbriga le pratiche amministrative sul computer, e infine s’addormenta qualche ora sul pavimento, in una stanza del centro d’accoglienza.

Nata in una famiglia molto credente, Gloria ha sempre sognato e pregato di avere l’occasione di servire i più poveri. La sua assunzione come infermiera nella fondazione, nel 1995, è stata la conferma della sua vocazione. Se ha pensato per qualche tempo di diventare suora della Carità, ha preferito questa vita comune, tra le donne del bidonville.

Poiché anche i Recio vivono un’esistenza molto precaria, Gloria ha dovuto affrontare sin da giovanissima le avversità. “ Avendo avuto l’esperienza di essere tanto povera, posso comprendere la misera vita dei poveri dei bidonville. Non fare troppe domande, ma essere dinamica nel mio modo di rispondere ai bisogni, alle situazioni che si presentano, senza perdere un’occasione di rendere un servizio”.

Questa esperienza non le impedisce di essere molto esigente con le madri di famiglia, per portarle verso l’alto. Una di loro non si è rimessa dai ripetuti decessi di molti suoi figli, a tal punto che non riusciva più ad occuparsi di quelli che le rimanevano. Gloria non si dà mai per vinta, e non esita a dirle ciò che pensava. Oggi questa donna è diventata una volontaria, e ha rivelato capacità insospettate.

Ma come fa a reggere?

Le donne che aiuta la circondano come sorelle. Ci sarà sempre qualcuna per prepararle del riso e condividerlo con lei, per fare il suo bucato quando è sovraccarica, per aiutarla nella preparazione di una festa o per sopperire a un imprevisto.

Padre Dauchez, direttore della fondazione, si stupisce soprattutto della sua assoluta fiducia in Dio: “ Ha fede, ovunque e in ogni circostanza!”

Gli imprevisti, le prove quotidiane diventano così tanti atti di fede che permettono a Dio di

manifestarsi.

L’amore “condizionato”

Una madre di famiglia si rifugia nel Quartiere Generale di Tulay Ng Kabataan, terrorizzata dalle atrocità che le ha fatto subire suo marito. Sua sola speranza è che, a differenza di altri, egli non ha mai disertato il focolare domestico.

“Vai a denunciarlo alla polizia, altrimenti non ci occuperemo più di te!”, la sfida Gloria.

La donna sa che non ne ha la forza. Dopo aver pregato, per la prima volta osa, da sola, fare la denuncia. Quando suo marito finisce per essere convocato, è già riuscita a parlarne e a risolvere il problema con lui. Da allora è diventata capace di gestire la complessità della situazione, ma anche di rispondere ai bisogni del marito e dei figli.

Un sistema che produce esclusione Intervista con Juan Grabois

Juan Grabois, avvocato, è co-fondatore del Movimento dei Lavoratori Esclusi e docente in diverse università a Buenos Aires.

Juan Grabois, come ha avuto inizio il suo impegno?

La mia esperienza comincia, potremmo dire, il 20 dicembre 2001. Le politiche neoliberiste ci avevano condotti a livelli di miseria paurosi, mai visti prima in Argentina. Quel giorno ci fu una grande rivolta popolare, che portò alle dimissioni del presidente De La Rua, mossa da un deciso rifiuto del pacchetto economico del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, molto simile alle politiche che oggi si applicano in Italia, Spagna, Portogallo e Grecia: riforme strutturali, flessibilizzazione del lavoro, privatizzazione di tutto, saccheggio delle risorse naturali. Insomma: precarizzazione della vita e distruzione della sicurezza sociale.

Avevo 17 anni e la polizia non ebbe alcun dubbio a detenermi senza mandato della magistratura, insieme con tanti altri militanti del nostro popolo. finita la sospensione delle garanzie costituzionali legata allo stato d’emergenza, ci liberarono in una Argentina senza lavoro, senza pane, senza tetto per tutti, con migliaia di intere famiglie che rovistavano nella spazzatura alla ricerca di qualcosa da mangiare o di materiali da rivendere: cartonero è appunto un lavoratore che vive della vendita dei residui solidi urbani riciclabili che raccoglie per le strade, porta a porta, o dai contenitori per la spazzatura.

Lei è ilco-fondatore del Movimento dei Lavoratori Esclusi (MTE).

Il MTE (Movimiento del los Trabajadores Excluidos) è un’organizzazione popolare indipendente dai partiti politici e dallo Stato che fondammo nel 2002 con i lavoratori più sofferenti. Lo fondammo tra camion sgangherati e carretti pieni di spazzatura, tra mense popolari e assemblee, nelle zone più povere di Buenos Aires, a partire dalla solidarietà elementare che sorge dal dialogo fraterno tra coloro che soffrono e coloro che non hanno avuto la fortuna di nascere poveri, ma che aderiscono a questa lotta. Circa trenta persone, tra lavoratori e studenti, componevano il nucleo iniziale del MTE, che è poi cresciuto e si è andato rafforzando nel tempo.

Il nostro primo obiettivo era restituire dignità alle attività lavorative che davano il pane ai nostri compagni. Per questo sfidammo la mafia, che controlla la raccolta della spazzatura sfruttando i nostri compagni -inclusi i bambini-, e la polizia corrotta, che controlla gli affari. Dopo molti anni di lotta, ottenemmo che il Governo riconoscesse il beneficio apportato, dal punto di vista ecologico, dai cartoneros, avviando un programma di riconoscimento formale che può essere conosciuto in dettaglio attraverso il sito www.cartoneando.org.ar.

Oggi il MTE raggruppa varie cooperative di cartoneros che raccolgono più di cinquemila lavoratori in diversi punti del Paese. Il nostro Movimento ha fondato, insieme ad altre organizzazioni sociali nate dalla crisi del 2001, la Confederazione dei Lavoratori dell’Economia Popolare (CTEP), una unione di lavoratori informali, in proprio o riuniti in cooperative, che raggruppa cartoneros, sarti, artigiani, venditori ambulanti, produttori di mattoni, addetti alle consegne, lavoratori di infrastrutture sociali, imprese recuperate, operatori sanitari e contadini. La CTEP ritiene sia necessario guardare al lavoro al di fuori dei paradigmi del mercato, ovvero come a un diritto non riducibile al concetto capitalista di produttività. Da qualche tempo, dal sottosuolo della nostra patria, i poveri di oggi stanno scrivendo, con le unghie e con i denti, il loro capitolo della storia dei lavoratori. Sono orgoglioso del fatto che possiamo accompagnarli.

In molti suoi interventi, lei parla della necessità di un cambio di paradigma rispetto al sistema economico attuale. In che cosa dovrebbe consistere questo cambio?

Il cambio consiste in un superamento della globalizzazione capitalista attraverso il rafforzamento dei legami comunitari di solidarietà. Non sappiamo ancora come chiamare questo modello alternativo. Non importa il nome, come popoli lo inventeremo. Però la società non può continuare ad essere governata dalla voracità di un pugno di gruppi finanziari transnazionali che stanno divorando la natura, la vita e l’anima delle persone.

Prescindiamo per un momento dalla questione sociale. Tutti gli scienziati seri, senza differenze di ideologia, affermano che il collasso ecologico sarà imminente se proseguiremo con questo meccanismo irrazionale di consumare e buttare via.

La pace mondiale, inoltre, è appesa a un filo, fondamentalmente a causa delle dispute tra grandi gruppi economici e la lobby dei fabbricanti di armi.

Per risolvere il problema alla radice occorre un cambio di paradigma che orienti le forze creative dell’umanità in una direzione differente. Il guadagno e il consumo non possono essere le nostre bussole.

Da dove giungerà a suo giudizio il cambiamento?

Personalmente credo che il cambiamento giungerà dagli angoli più oscuri del mondo, e che l’organizzazione e l’unità degli esclusi produrrà una vera rivoluzione pacifica che ci avvicinerà maggiormente a quella società di fratelli a cui aspiriamo.

Una riflessione sul tema della povertà di Giorgio Marcello

La crisi in atto impone una riflessione sul tema della povertà. È sempre più evidente il suo carattere multidimensionale, non riducibile agli aspetti puramente materiali. È necessario affrontarla in una prospettiva planetaria, anche per comprenderne le manifestazioni più circoscritte.

Poveri e disuguali non si nasce, ma si diventa. Una efficace politica di redistribuzione rappresenta la condizione necessaria, ma non sufficiente, a sradicare la povertà.

La Fondazione Zancan ci aiuta a riflettere sul fatto che bisogna pensare con urgenza ai modi di rigenerare le risorse disponibili.

Per sradicare le cause che producono l’aumento progressivo delle situazioni di povertà e di disuguaglianza, si considera necessario ridefinire il modo di pensare e di vivere la libertà in una prospettiva generativa (Giaccardi, Magatti 2014). Tutto ciò per superare la concezione che la riduce al perseguimento e alla massimizzazione dell’utilità personale, e per ritrovare il fondamento più autentico di essa, che consiste nell’assumere consapevolmente la responsabilità dei legami con altri.

La libertà intesa come responsabilità non è compatibile con la ricerca del benessere per se stessi o per gli appartenenti alla stessa cerchia; né con propositi di “fuga” dalla crisi. Al contrario, essa ci permette di stare nella crisi, aiutandoci reciprocamente a cogliere gli aspetti fecondi della “grande contrazione” (Magatti 2012) in atto, ovvero a comprendere sempre meglio qual è la novità che ci viene incontro, offrendoci la possibilità di riorientare i nostri cammini personali e comunitari.

Un segno della novità che avanza può essere individuato proprio nella povertà, in un modo diverso di viverla e rappresentarla.

I significati che oggi vengono associati a questo termine sono molteplici.

La si può intendere come misura di una mancanza, effettuata attraverso la individuazione di soglie convenzionali. Oppure come fenomeno multidimensionale, provocato dall’indebolimento delle principali forme di regolazione sociale. O, ancora, alla Sen (…), come mancanza di libertà sostantiva, o riduzione di capacità di essere e di fare. Un testo recente (Paugam 2014) la definisce come relazione di interdipendenza tra gruppi umani a cui è attribuito lo statuto di poveri e il resto della società, che ad essi fornisce gli aiuti essenziali per vivere. C’è, inoltre, chi distingue la povertà dalla miseria, sottolineando la necessità di ritrovare uno stile di vita sobrio, non predatorio, conviviale (Rahnema 1 e 2).

Possiamo intenderla, infine, non solo come inconveniente da evitare, ma come prospettiva a cui convertirsi per ritrovare una dimensione autenticamente umana (Collard-Gambiez M. e C. 2004), per ripensare la convivenza sulla base di relazioni comunitarie e fraterne, e per la sostenibilità stessa della vita futura sulla terra. A questo proposito, nell’ultimo messaggio per la giornata mondiale della pace, Papa Francesco così afferma:

Infine, vi è un ulteriore modo di promuovere la fraternità – e così sconfiggere la povertà – che dev’essere alla base di tutti gli altri. È il distacco di chi sceglie di vivere stili di vita sobri ed essenziali, di chi, condividendo le proprie ricchezze, riesce così a sperimentare la comunione fraterna con gli altri. Ciò è fondamentale per seguire Gesù Cristo ed essere veramente cristiani. È il caso non solo delle persone consacrate che professano voto di povertà, ma anche di tante famiglie e tanti cittadini responsabili, che credono fermamente che sia la relazione fraterna con il prossimo a costituire il bene più prezioso (n.5).

Le parole del Papa aiutano a comprendere come, alla luce delle Scritture, la povertà costituisce una dimensione essenziale del cammino dei credenti. C’è un legame stretto tra l’impegno orientato a combattere i meccanismi che generano impoverimento e la scelta di diventare poveri e impegnarsi nella tessitura di relazioni comunitarie e fraterne.

La stessa Chiesa è un mistero di povertà (Tillard). Non possiamo non prendere atto di come l’attenzione su questo tema – vivissima durante il Concilio, basti pensare alle sollecitazioni, tra gli altri, di Lercaro e Dossetti – sia clamorosamente scemata negli anni successivi.

Siamo chiamati, come credenti, a collocarci in una prospettiva paradossale: quella di riorientare il cammino personale e comunitario assumendo la povertà come orientamento. La vita cristiana, infatti, “è cammino di minorità intesa come la intendeva Francesco d’Assisi, essere di quelli che contano di meno, non solo con loro, ma come loro, dei loro. E questo molto concretamente, con una verifica continua, perché non rimanga nelle parole e nei desideri. La condizione di minore è assicurata a chi prende sul serio il Vangelo e più che cercarla occorre essere pronti ad accoglierla: viene da sé a chi segue il Signore. Un sentiero che porta alla povertà e alla minorità è quello di scegliere sempre di fare ciò di cui c’è più bisogno, alla luce del Vangelo, con un discernimento continuo di quel che accade nel mondo e nella Chiesa” (Parisi 1995?).

Prendere sul serio la povertà significa dunque non limitarsi a parlare della povertà degli altri, ma soprattutto orientarsi verso quella a cui siamo chiamati, personalmente e comunitariamente, alla scuola della cattedra dei piccoli. Come insegna Pio Parisi, essa consiste in quel cambiamento radicale nel nostro modo di guardare attorno a noi, “per cui scopriamo che quelli che non stanno in cattedra e che a nessuno verrebbe in mente di metterceli hanno tante cose da insegnarci. Questa è la meraviglia: (…) sembra che siano solo da aiutare e invece sono quelli di cui abbiamo maggior bisogno e più possono aiutarci”. (ibidem)

La lezione di Pio Parisi è quanto mai attuale.

In conclusione, vorrei citare un suo testo del 1989, che invito tutti a rileggere. Si intitola “Appello ai piccoli e ai poveri” (Parisi 2000). È presentato come un appello politico che contiene in modo implicito l’annuncio del Vangelo. Un Appello che l’autore stesso definisce paradossale. Può essere compreso solo da chi si rende conto della tragicità del mondo in cui viviamo e non si sente ben collocato in esso. E da chi prende consapevolezza del fatto che tanti sono poveri perché altri sono grandi e ricchi, con tante ingiustizie e violenze; e che tutti siamo piccoli e poveri in quanto condividiamo la fragilità incomprimibile della condizione creaturale.

L’appello è rivolto ai piccoli e ai poveri, perché si uniscano in tale esperienza e portare i frutti di cui la società ha più bisogno.

Essi sono invitati a restare uniti per sostenersi nell’esperienza della debolezza. A questo riguardo, P. Pio aggiunge: “La storia e la ragione suggeriscono che i piccoli e i poveri si uniscano perché l’unione fa la forza, e che cerchino in tal modo di diventare grandi e ricchi. Non si vuole negare questa via e la necessità, in qualche modo, di percorrerla, ma il nostro appello punta a qualcosa di più grande, di più incisivo, di più decisivo: rimanere piccoli e poveri scoprendo il valore di tale condizione” (ivi, 55).

L’autore è convinto che questa ricerca può dar luogo ad esperienze in grado di generare i frutti di cui la società ha più bisogno: la conoscenza dei suoi problemi reali, per crescere e governarsi; la crescita della carica di gratuità, la forza di combattere contro il male.

C’è una dimensione generativa della povertà, dunque, che va continuamente riscoperta. Essa si radica nella esperienza che ognuno fa della propria debolezza e di quella altrui. In un passaggio significativo dell’Appello, si afferma che “la coscienza dolorosa della propria insufficienza fa uscire da se stessi e incontrare l’altro, gli altri, tutti gli altri. E l’incontro con gli altri è un’espansione della propria coscienza, se non l’inizio di questa. (…) Quando si riconosce l’altro, comincia la vera conoscenza che è anche amore. Così ciò che a prima vista sembra pura negatività, la sofferenza, si rivela sorgente di grandi valori: la conoscenza e l’amore” (ivi, 59).

Alla scuola della cattedra dei poveri, matura una coscienza politica in grado di cogliere che, per realizzare cambiamenti in profondità nella polis occorre non solo cambiare i titolari e i meccanismi del potere, ma sminuire l’importanza di esso. La coscienza politica agitata dal Vangelo può alimentare percorsi di partecipazione alla vita della città che non si riducano e divisioni e moltiplicazioni del potere, ma siano vissuti “come assunzione di responsabilità, condivisione, compassione, conoscenza intima, cordiale e sofferta dei problemi di tutti: e questo” – precisa P. Pio – “è il frutto proprio dei piccoli e dei poveri che si mettono insieme resistendo alla tentazione di diventare grandi e ricchi” (ivi, 57).

Per noi si tratta di prendere sul serio l’appello e l’annuncio sottostante. In essi possiamo trovare il fondamento per ogni percorso di tessitura intenzionale di legami, per ogni processo di autentica ricomposizione sociale dal basso e nel basso, per qualsiasi esperienza di partecipazione attiva sul territorio.

In tema di povertà, si propone un cambio radicale di paradigma. Il punto di partenza non è quello di considerarla solo come un fenomeno da combattere, ma di riconoscerla in se stessi e negli altri, radicandosi in essa, facendosi aiutare dai più fragili. Tutto ciò permette di intraprendere una strada di liberazione che consiste nel cercare insieme di rimuovere i bisogni che compromettono la dignità e amplificano la disuguaglianza e i problemi ad essa connessi, aiutandosi reciprocamente a restare poveri, scoprendo continuamente la fecondità generativa di questa condizione.

Lettere

Angela Bettazzi (Prato)

Per il momento vorrei continuare a ricevere La Tenda per posta. Ti mando un piccolo contributo -bolli. Quando potrò via email vi farò sapere. La Tenda è un contributo importante per “essere in contatto”, far “crescere” insieme. Un caro saluto.

Gemma Vitolo (Roma)

Ricevo molto volentieri la vostra lettera. Cercherò di partecipare di più e meglio alle vostre iniziative.

Anna Maria Bianchi (Roma)

Cari amici del Gruppo La Tenda, spero che tutto proceda nel migliore dei modi per voi tutti. Vi ringrazio se continuate a spedirmi La Tenda tramite email. Molti saluti e auguri di buona Pasqua a tutti.

Piccola Sorella Patrizia (Berlino)

Grazie di continuare ad inviarmi il resoconto dei vostri incontri. Da lontano ne beneficio anch’io! E mi rallegro che ci siate!

Luigi e Concetta Bertino (Paternò)

Pasqua. Di questo santo ed eterno sacrificio divengono partecipi tutti coloro che sono veramente contriti e fanno penitenza dei peccati commessi e che sono fermamente decisi a non riprendere più i loro vizi, ma a perseverare con costanza nella ricerca della virtù. Auguri!

Ave Foroni ved. Di Napoli (Roma)

Gentilissimi amici de La Tenda, nel ringraziarvi per la gentilezza usatemi inviando anche a me questo magnifico lavoro, sono tuttavia dispiaciuta nel chiedervi di volerne sospenderne l’invio. Purtroppo i miei 87 anni non mi permettono più di contare sulla vista come dovrei. Devo quindi ripetervi tutta la mia ammirazione per i vostri magnifici interventi e per il continuo lavoro che fate. Dispiaciuta di non esservi d’aiuto come meritereste, invio a tutti gli auguri più belli di costanza nel bene che sapete diffondere e di Buona Pasqua a voi e tutte le vostre famiglie salutandovi uno per uno con tanta gratitudine per l’invio costante de La Tenda per tanto tempo.

Giovanna Tiralongo (Avola)

Colgo l’occasione della S. Pasqua per mandarti il ricordino di Francesca. Il giorno 15 anche papà è volato in Paradiso, dopo tanta sofferenza. Adesso festeggeranno insieme e sono certa che veglieranno su di noi. Francesca nel suo diario di ventenne scrive in prima pagina: “Chi semina Amore deve saper aspettare il raccolto”, un pensiero di Madre Teresa. Papà e Francesca hanno saputo aspettare… Hanno elargito Amore in abbondanza, lasciando in ognuno di noi la gioia di averli avuti accanto e amati. Quante belle testimonianze sto ascoltando da amici e parenti! Francesca: una grande donna dal cuore puro come un bimbo.

PS Tengo cara la testimonianza che lei ha dato nel vostro gruppo (www.latenda.info/022ns.pdf).

Padre Pino Stancari s.j. (Cosenza)

Scrivo per confermare il desiderio di ricevere il vostro periodico La Tenda. Benedizioni!

 

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  1. * Monaco dell’Abbazia di Sainte Marie de la Pierre-qui-Vire (Francia), già professore all’Università Gregoriana e a Sant’Anselmo a Roma. Membro del Comitato scientìfico di Munera.
  2. ** Conferenza tenuta a Oristano su invito del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale (MEIC) il 15 marzo 2014. Si ringrazia Egle Pagliara per la trascrizione.
  3. Cfr. i numeri 10, 11 e 12, dedicati al sacerdozio comune e al senso della fede.