Lettera 31 (Seconda Serie)

questa che offriamo alla vostra attenzione è una lettera particolarmente ricca.

Cominciamo riferendo di due ultimi interventi al Convegno “La riscoperta della Bibbia nel mondo cattolico”: quello di Lorenzo che raccontando un episodio della Bibbia ci ricorda che la grande ricchezza della Parola ci è data perché sia condivisa, e quello che ci è arrivato da Suor Maria Benedetta sulla Parola vissuta in monastero.

Vogliamo quindi ricominciare a parlare della Chiesa dei poveri, Papa Francesco ne ha fatto la vera novità della sua predicazione, in questo modo la Chiesa ritrova il tema della scelta privilegiata per i poveri come bivio ineludibile della sua storia.

Vorremmo a questo proposito iniziare a segnalare che a ottobre terremo uno dei nostri convegni affrontando di nuovo il tema dei poveri, sarà un incontro per capire cosa possiamo imparare dai poveri e come dobbiamo diventare loro discepoli, perché questo ci pare il centro del problema, passare dall’aiuto, che pure è spesso necessario, all’ascolto e da questo all’apprendere dai poveri la strada della semplicità, della gioia.

Nell’articolo di Timothy Radcliffe, che presentiamo e che ricorda la vita e la morte del Cardinale Romero, il teologo domenicano ci dice infatti che “…se permettiamo ai poveri di condividere con noi la loro sofferenza, ci comunicano anche un po’ della loro speranza. Il loro sorriso non è falso, non è una fuga, ma un riconoscimento che qualcosa sta avvenendo nel mondo, oltre all’ingiustizia e alla distruzione. I poveri sorridono perché sospettano che questo qualcosa sia più potente dell’ingiustizia.” E proprio queste parole saranno al centro della nostra riflessione.

Roma: Campo “nomadi” prima dello sgombero

Segue una intervista al rettore del Collegio di Teologia di Delhi, che ci racconta come vuole portare al centro della formazione degli studenti la scelta non solo “per i poveri” ma “con i poveri” «Penso che la teologia debba essere “fatta” e non solo “imparata”, comporta immergersi nella vita degli indigenti e venire toccati dalle loro esperienze di sofferenza, dolore, morte e resurrezione. Da questa immersione nasceranno domande che ci turberanno. Bisogna poi analizzare le cause alla base delle negatività della vita come povertà, sfruttamento, ingiustizia; cercare ispirazione nelle Scritture e nella Tradizione per capire come Gesù risponderebbe a queste situazioni e alla fine cercare di trovare una soluzione a favore dei poveri».

Il vescovo messicano Raul Vera Lopez ci dà un compito di lavoro e di lotta e con un

ricordo personale ci dice che: “ da giovane, a un certo punto mi rifiutai di integrarmi a

processi che generavano miseria e morte… Oggi, malgrado io sia un vescovo, con i miei limiti e la mia moderazione, sento che tale ribellione non si è spenta nel mio cuore: lavoro e lotto per un mondo in cui tutte e tutti operino a favore dell’uguaglianza di ogni essere umano, di ogni gruppo, di ogni popolo, di ogni nazione, nel rispetto dei diritti fondamentali e della nostra dignità come persone.”

Infine per valorizzare la novità di questo momento di grazia della chiesa abbiamo voluto ricordare il tema fondamentale del ruolo della donna con le parole del Cardinale Martini che ci ricorda che “dalla vita delle donne parte un richiamo fortissimo di novità…”

Come abbiamo più volte ricordato la spedizione di questa lettera per posta ha dei costi, vorremmo essere sicuri che tutti quelli che sono nel nostro indirizzario vogliano effettivamente continuare a riceverla. Per questo alleghiamo alla versione stampata una busta da rispedirci per confermare la scelta di continuare a ricevere “La Tenda”, lo faremo per due lettere, successivamente cancelleremo dall’indirizzario chi non ci ha risposto. Se qualcuno invece avesse la possibilità di ricevere la nostra lettera per e-mail ci mandi l’indirizzo relativo.

Sommario della 31° lettera:

  1. Convegno “La riscoperta della Bibbia nel mondo cattolico col Concilio Vaticano II Introduzione ai lavori del pomeriggio di Lorenzo D’Amico
  2. L’esperienza della Parola in Monastero di Suor Maria Benedetta O.S.B.
  3. Una Scomoda Verità di Timothy Radcliffe già Maestro generale dei Domenicani, teologo , frate della Provincia d’Inghilterra.
  4. Dio della terra indiana In visita al Vidyajyoti College of Theology di Delhi, a colloquio col rettore Francis Gonsalves
  5. Semi di ribellione di Raul Vera Lopez   frate  dell’Ordine Domenicano  vescovo della Diocesi di Saltillo in Messico
  6. Una chiesa in ascolto delle donne di C. M. Martini
    1. Convegno “La riscoperta della Bibbia nel mondo cattolico con Il Concilio Vaticano II” introduzione ai lavori del pomeriggio di Lorenzo D’amico.

Racconto un episodio accaduto circa nell’800 avanti Cristo in Samaria.

Due donne incontrano il re che si aggira tra le mura della città sotto assedio, la fame è terribile ed una delle due donne gli grida: “Salvami, o re, mio Signore!” Risponde il re: ”No, il Signore ti salvi! Come ti posso salvare io?” Quella rispose: “Questa donna mi ha detto: dammi tuo figlio perché lo mangiamo oggi, mio figlio ce lo mangeremo domani. Abbiamo cotto mio figlio e lo abbiamo mangiato. Il giorno dopo io le ho detto: Dammi tuo figlio perché lo mangiamo, ma essa ha nascosto suo figlio”.

A queste parole il re si stracciò le vesti….

[passano poche ore]

Fuori dalla porta della città vivevano quattro lebbrosi, anche loro stavano morendo di fame e si trovavano di fronte a un bivio: rientrare in città e morire di fame o passare al nemico: “se ci lasceranno in vita vivremo; se ci faranno morire, moriremo.”

Si alzarono al crepuscolo, entrarono nell’accampamento nemico, era stato abbandonato in gran fretta, entrarono in una tenda e dopo aver mangiato e bevuto, portarono via argento ed oro per nasconderli, di nuovo entrarono in una tenda e portarono via tutto e andarono a nasconderlo; ma poi si dissero: ”Non è giusto quello che facciamo, entriamo in città e annunciamo la lieta notizia a tutti.” (vedi II Re 6,26-29; 7,1-11)

Chi di noi ha scoperto la grande ricchezza che ci deriva dalla lettura della Bibbia, non può tenere per sé tale salvezza, ma deve condividerla con chi è in città, senza più forze.

[Sul sito latenda@info.it potrete trovare la presentazione a più voci del libretto di L. Maggi e A. Reginato “Dire, fare, baciare…Il lettore e la Bibbia.”]

Nella seconda parte del pomeriggio ci siamo divisi in vari gruppi e abbiamo fatto una lettura condivisa del vangelo della domenica:

  • Ci siamo divisi in gruppi di 6-10 persone;
  • L’animatore permette la partecipazione di tutti sul testo letto, evitando discussioni sugli interventi; favorisce l’incontro, favorisce l’incontro con una Parola viva, con una Persona capace di segnare gli incontri quotidiani ed essere segnati da tali incontri.
  • In pratica la lettura si svolge così:
      • Breve pausa di silenzio
      • Invocazione allo Spirito Santo
      • Si legge il testo una prima volta e ognuno legge a voce alta il versetto che gli è sembrato più significativo
      • Si legge il testo una seconda volta e ognuno dice cosa il Signore gli ha detto attraverso quel brano
      • Il testo viene letto una terza volta e si sottolinea ciò che ognuno risponde al Signore e che cosa al Signore chiede.

L’esperienza della Parola in monastero di suor Maria Benedetta.

“Scuola del servizio divino”, così il Santo Padre Benedetto definisce il Monastero, ciò significa che in questo luogo si cerca di imparare a servire Dio, eppure più il tempo passa e più si rafforza in me l’impressione che sia Dio a servire noi.

L’orario monastico è intessuto di preghiera e non so se un giorno potrò dire di aver imparato a pregare, ma mi sembra che con l’Ufficio Divino Gesù faccia a me quello che fece agli apostoli durante l’Ultima Cena, che si inginocchi ai miei piedi per lavarli. Non sono io che pregando mi metto al suo servizio, ma è piuttosto Lui che donandomi la sua Parola vuole servire me, vuole farmi capire che se io faccio entrare la sua Parola dentro di me, sarò la prima a beneficiarne. È vero che Dio viene glorificato dalle nostre azioni, dalla nostra testimonianza ed anche dalla nostra fruttuosa preghiera, ma Lui infondo non ha bisogno di questo, Lui basta a se stesso e ci Ama comunque, siamo noi a star bene se viviamo in armonia con la sua Parola, se la facciamo scivolare dentro di noi fino a mischiarsi col nostro sangue. Quando questo avviene siamo noi i primi a sentirci diversi, ci rendiamo conto di osservare il mondo con altri occhi, di avere una percezione più profonda delle cose e delle persone, diveniamo capaci di stabilire contatti più veri con tutta la realtà.

Può far sorridere ma a me sembra che nella vita monastica Dio ti insegua tutto il giorno! Lui continuamente lancia le sue frecce verso il bersaglio che è dentro di noi, e spesso ci accorgiamo che fanno centro, ci sentiamo come risvegliati da un sonno e d’un tratto ci sembra di poter respirare più profondamente, ci sentiamo ampliati, sperimentando la gioia di una consapevolezza nuova.

…L’ascolto frequente della Parola unito all’incessante salmodiare allora fanno sì che cresca e si sviluppi in noi quella che Stefano Biavaschi chiama “Conoscenza” e che descrive come “una pianta che in voi germoglia e si fa albero, e i cui frutti non sono aggiunti da nessuno, e nessuno può portarli dal di fuori, poiché sono il frutto dello sbocciare del vostro essere.”.

Questo crescere costante e silenzioso è proprio il frutto dell’ascolto e della custodia della Parola che diviene quindi fondamentale non solo per mantenere l’equilibrio in questa società chiassosa e disorientante, ma anche per mantenere il contatto con noi stessi, la consapevolezza di ciò che siamo e naturalmente la comunione con il Padre che ci Ama.

Suor Maria Benedetta O.S.B. SUBIACO Settembre 2013

Una scomoda verità di Timothy Radcliffe

(…). Mons. Oscar Romero è stato assassinato a San Salvador, il 24 marzo del 1980, mentre celebrava l’Eucaristia. È stato ucciso perché era il paladino dei poveri. Non era, tuttavia, un rivoluzionario radicale, un vescovo alla Che Guevara. Per molti versi, era un rappresentante del clero cattolico tradizionale. (…). Chiamava Roma «madre, maestra e patria». Il suo motto era “Sentir con la Iglesia”. (…). La statua davanti all’Abbazia di Westminster lo rappresenta bene, mentre ci guarda timidamente attraverso gli occhiali spessi. Come è arrivato a farsi uccidere? È stato ucciso perché ha detto la verità.

Le sue omelie venivano trasmesse dalla radio diocesana. Tutta la nazione si fermava ad ascoltarle. Si poteva attraversare a piedi un villaggio e sentirne ogni parola: tutti erano raccolti intorno alla radio. Il governo cercò di fermare la sua predicazione facendo saltare in aria la radio, ma il Cafod (l’agenzia cattolica caritativa di Inghilterra e Galles) trovò i fondi per rimetterla in funzione. (…).

È morto perché diceva la verità, una verità che coloro che guidavano El Salvador non potevano tollerare. Una volta un contadino disse che ascoltare le sue omelie era come mettere le mani in un catino pieno d’acqua salata: se le mani sono in buona salute, non si sente dolore, ma, se c’è un taglio, fa male.

Una volta, mentre faceva ritorno nel Paese, un agente dell’immigrazione, vedendolo, disse ad alta voce: «Ecco che arriva la verità». Qual era la verità scomoda che predicava? Come possiamo noi testimoniare quella stessa verità oggi?

Per Romero, si trattava, in primo luogo, della verità della Parola di Dio. Il regime militare salvadoregno temeva la Bibbia. Molti contadini la nascondevano sottoterra perché il solo fatto di possederne una avrebbe potuto portare al loro arresto e alla loro morte. Poco prima di subire il martirio, l’amico gesuita di Romero, Rutilio Grande, disse: «Ho paura che ben presto la Bibbia e il Vangelo non potranno più attraversare le nostre frontiere. Ci resterà solo la copertina, perché ogni pagina è sovversiva».

Perché la Parola di Dio è così pericolosa? Spesso la gente pensa che la Bibbia sia piena di messaggi oscuri da parte di Dio. Si studia la Bibbia in modo da ottenere istruzioni dal cielo (…).

Non è così che Romero intendeva la verità della Bibbia. (…). Per Romero leggere la Bibbia era parlare con un amico: “Hablame, Señor”, scrisse sul suo taccuino quand’era un giovane seminarista: “Parla con me, Signore”.

(…). Partecipare a una conversazione ha il potere di trasformare più che di informare. E così è stato per Romero, quando meditava di notte sul Vangelo. Non si sintonizzava su istruzioni da ricevere, ma cresceva nell’amicizia con Dio e il suo popolo. La Parola di Dio era la sua casa.(…).

Per mons. Romero, la scelta morale fondamentale era tra il dialogo e la violenza. Se rifiutò di apparire in pubblico insieme ai rappresentanti del governo, era però disponibile a dialogare con chiunque. Tant’è che citava Pio XI, il quale aveva detto che avrebbe dialogato anche con il diavolo, se necessario. Dialogare non significa scendere a compromessi. Non si tratta di negoziare, ma di trasformare. Le verità più profonde sono raggiungibili solo attraverso lo scambio paziente, la costruzione dell’amicizia, la conversione dei nostri cuori e delle nostre menti. Il contrario della violenza. (…). Le persone si aggrappano alla Bibbia usandola come un’arma. (…). Ma per Romero meditare la Parola di Dio rappresenta un’esperienza molto più inquietante. Demolisce i propri piccoli pregiudizi. Sovverte la propria identità limitata. Rende liberi di fare amicizia con Dio e con persone inaspettate. «Ho sempre voluto seguire il Vangelo – ha dichiarato – ma non sapevo dove mi avrebbe condotto».

La Gran Bretagna è di solito considerata un luogo piuttosto tollerante. Tuttavia, la maggior parte di ciò che chiamiamo “dibattito”, sia attraverso l’iter parlamentare sia in televisione o su internet, in realtà non lo è, avendo come obiettivo quello di demolire l’opposizione, ridicolizzando gli avversari e distruggendo le loro opinioni. (…). Non tendiamo più a uccidere l’altro, ma l’aria è piena di parole violente che accusano e denigrano. (…).

Così, la prima sfida che Romero pone è quella di un ascolto della Parola di Dio che ci rende suoi amici e amici tra di noi. È questo che lo ha condotto alla seconda verità su cui voglio soffermarmi, quella della terribile violenza sofferta dagli amici più stretti di Dio, i poveri.

LA VERITÀ SUI POVERI

Il 12 marzo 1977, Rutilio Grande cadde in un’imboscata mentre si recava a celebrare la messa in un villaggio. Jon Sobrino ha dichiarato che, di fronte al suo corpo mutilato, Romero aprì gli occhi. Vide la violenza che dilagava nella sua terra. Si rese conto che non poteva sfuggirle e che un giorno avrebbe ucciso anche lui.

Romero è stato assassinato perché ogni settimana diceva la verità sulla violenza sofferta dai più poveri: su chi era stato arrestato, su chi era scomparso, su chi era stato assassinato, sulle minacce ricevute. In El Salvador, la violenza era onnipresente, ma nascosta. Le persone scomparivano, e poi i loro corpi venivano scaricati sul ciglio della strada. La predicazione di Romero esprimeva la violenza incessante sofferta dai poveri: «Queste omelie – disse – cercano di essere la voce di questa gente. Cercano di essere la voce di quelli che non hanno voce. Quindi, senza dubbio, non piacciono a chi di voce ne ha troppa. Questa povera voce troverà eco in coloro che amano la verità e che amano veramente il nostro amato popolo» (29 luglio 1979). È per questo che è stato ucciso.

Romero ci pone di fronte a una seconda questione: in cosa consiste la violenza sofferta dai poveri nel nostro Paese? Qual è la verità sui più poveri che rimane in gran parte inespressa?  (…).

Ovunque vengono aperti banchi alimentari, perché sempre più persone in Gran Bretagna, il sesto Paese più ricco del mondo, non possono permettersi di comprare il cibo. Molti bambini arrivano affamati a scuola la mattina. Milioni di persone, soprattutto giovani, hanno smesso di credere nel futuro, hanno perso la speranza. (…). Il nostro Paese è colpito da una violenza contro i più poveri estesa e nascosta. Se non apriamo gli occhi e non reagiamo, questa violenza esploderà e distruggerà la società in breve tempo.

La nostra cecità non è causata solo dall’ignoranza. Il modo in cui guardiamo il mondo filtra i drammi della vita dei poveri. Secondo l’antropologo francese Pierre Bourdieu, ogni società possiede una mappa cognitiva che cancella alcune persone in quelli che egli chiama “silenzi sociali”.

Ciò accade per almeno due motivi. Nel mondo attuale tutto è quantificato, misurato, amministrato. David Graeber scrive che è «il potere del denaro a trasformare la morale in una questione di aritmetica impersonale», la quale giustifica «cose che altrimenti sembrerebbero oltraggiose e oscene». Le statistiche, certamente, hanno la loro importanza. (…). Ma se sono i numeri a plasmare la nostra mappa cognitiva, i poveri spariranno e noi non registreremo le violenze che subiscono.

Nel Vangelo di Luca, Gesù nasce durante la realizzazione di un censimento nell’Impero Romano. Il vero Signore del mondo viene riconosciuto da innumerevoli angeli del cielo e svelato ai pastori, troppo disprezzati e irrilevanti per finire nel conteggio. (…). Gli amici e i messaggeri di Dio non figurano in alcun censimento.

In secondo luogo, i poveri sono spesso denigrati. Nel Paese di Oscar Romero, si è fatto ricorso al concetto di “sicurezza nazionale” per schiacciare tutti coloro che si opponevano agli interessi dell’oligarchia. Chiunque si schierasse a difesa dei poveri doveva essere un comunista, e meritava di morire. Uno squadrone della morte distribuiva volantini in cui si leggeva: “Sii patriota, uccidi un prete”.

Nella Gran Bretagna di oggi, il disprezzo per i poveri si traduce spesso nella contrapposizione tra i poveri cosiddetti buoni e laboriosi e la presunta moltitudine di pigri e parassiti in cerca di sussidi. In realtà, la stragrande maggioranza dei poveri di questo Paese lavora, ma non è pagata abbastanza. Owen Jones ha mostrato come coloro che appartengono alla classe lavoratrice «vengano demonizzati dai tabloid e dai programmi televisivi popolari come inetti che dipendono dal welfare, che bevono e fumano troppo, che allevano troppi figli e che sono cattivi genitori: il bersaglio abituale del crudele teatro dei mass media».

Romero doveva essere assassinato perché si rifiutava di far proprio il mito della malvagità dei poveri. (…).

Il gesuita americano Dean Brackely ha descritto cosa è accaduto quando un gruppo di ricchi nordamericani della middle class ha incontrato i poveri in El Salvador: «Queste persone ci hanno scosso perché ci hanno mostrato come nel mondo le cose vadano molto peggio di quanto osiamo immaginare. Ma questo è solo un aspetto della storia. Se permettiamo loro di condividere con noi la loro sofferenza, ci comunicano anche un po’ della loro speranza. Il sorriso che sembra non avere alcuna giustificazione non è falso, lo spirito di festa non è una fuga, ma un riconoscimento che qualcosa sta avvenendo nel mondo, oltre all’ingiustizia e alla distruzione. I poveri sorridono perché sospettano che questo qualcosa sia più potente dell’ingiustizia. Quando insistono nel voler condividere la loro tortilla con un gringo in visita, ci rendiamo conto che c’è qualcosa nel mondo che è molto più bello di quanto avremmo mai pensato». (…).

Questa è la rivoluzione copernicana di cui abbiamo bisogno: niente più parole denigranti e insultanti verso i poveri. (…). Abbiamo bisogno di persone che testimonino la bontà e la dignità degli emarginati, il loro coraggio e la loro generosità. L’aborigena australiana Lilla Watson ha detto a una suora: «Se sei venuta ad aiutarmi, perdi il tuo tempo. Ma se sei venuta perché la tua liberazione è legata alla mia, allora lavoriamo insieme».Come possiamo aprire gli occhi della Gran Bretagna sull’enorme violenza subita dai poveri? Di fronte al corpo senza vita del suo amico Rutilio, Romero prese una decisione che sconvolse tutto El Salvador: stabilì che la domenica successiva si sarebbe celebrata in sua memoria un’unica messa in tutta l’arcidiocesi. Divenne nota come la misa unica, l’unica messa. Il governo, l’oligarchia e gli altri vescovi si infuriarono. Il 20 marzo, 100mila persone si radunarono davanti alla cattedrale, insieme a 150 sacerdoti, per celebrare la misa unica.Questa è la verità scomoda dell’Eucaristia. In Cristo noi siamo un solo corpo, e viviamo e moriamo insieme. (…).

Come cristiani dobbiamo, ovviamente, lottare per la giustizia. Dobbiamo candidarci alle elezioni e impegnarci in politica. Dobbiamo prendere posizione a favore di un sistema fiscale che favorisca il bene comune. Dobbiamo opporci alla disuguaglianza crescente che sta lacerando il nostro Paese. Ma dobbiamo anche trovare il modo di raggiungere l’immaginario collettivo. Abbiamo bisogno di gesti che, come la misa unica, scuotano le persone. La verità del cristianesimo è sacramentale. (…).

UN DONO DA OFFRIRE

L’ultima testimonianza della verità da parte di Romero è stata l’accettazione della propria morte. (…).

“Martire” è la parola greca per “testimone”. 100mila cristiani vengono ancora uccisi a causa della loro fede ogni anno. Vi sono stati più martiri nel XX secolo che in tutta la storia cristiana precedente. È passato molto tempo da quando i cristiani morivano per la loro fede in questo Paese. È perché la Gran Bretagna è tollerante o è perché siamo diventati innocui? Forse un po’ entrambe le cose. (…). Forse, anche noi potremmo risultare impopolari se oggi diventassimo testimoni insistenti e tenaci della violenza subita dai poveri nel nostro Paese. O se mostrassimo come la nostra prosperità sia a volte il frutto della sofferenza di persone che in tutto il mondo muoiono prematuramente a causa dell’inquinamento o dello sfruttamento o della denutrizione.

William Cavanaugh ha sottolineato come gli Stati Uniti siano strettamente coinvolti nella morte di Romero: «Il proiettile che ha frantumato il petto di Oscar Romero è stato fabbricato negli Stati Uniti, come pure il fucile che ha sparato. Entrambi sono stati pagati con le nostre tasse. Così come siamo stati noi a pagare la formazione, nella Scuola delle Americhe di Fort Benning, in Georgia, di alcuni dei responsabili dell’assassinio. (…).

Qual è la verità che i martiri testimoniano? La vita di Romero era radicata nella Parola di Dio, una parola di amicizia che ci invita a liberarci dell’autoreferenzialità e a incontrare la felicità in un amore che non conosce limiti. Il cristianesimo non è inoffensivo (…). Non è un accessorio né un collante sociale. È la follia di lasciarsi coinvolgere in un amore che è infinito. Oppure non è nulla.

A volte, ciò richiede un dono di sé drammatico e radicale, come è avvenuto ai martiri del lato ovest dell’Abbazia. (…).

Di solito, però, la nostra testimonianza è discreta e passa inosservata. Può essere quella di chi si prende cura di un malato di Alzheimer che ha dimenticato chi sei. Quella di un insegnante che resta in piedi fino a tardi per preparare le lezioni per il giorno dopo, o quella di chi si preoccupa di sorridere a qualcuno anche se è esausto. Potrebbe consistere nel dire quello che si pensa, anche quando ciò potrebbe rovinare la carriera e comportare il licenziamento.

Il domenicano Pierre Claverie, vescovo di Orano in Algeria, martire nel 1996, disse, poco prima di morire, che ciò che davvero conta è quello che lui chiamava “martirio bianco”: «Il dono della propria vita versata goccia a goccia in uno sguardo d’amore, in un sorriso, nella cura del prossimo, in un lavoro, in tutto ciò che fa sì che un po’ della nostra vita sia condivisa, donata, offerta. Non ci si può aggrappare alla propria vita». La vita è un dono da offrire. «Questo è il mio corpo dato per voi». Forse sono queste le ultime parole di Romero. Non aggrappiamoci alla nostra vita. Altrimenti la faremo appassire. (…).

Dio della terra indiana In visita al Vidyajyoti College of Theology di Delhi, a colloquio col rettore Francis Gonsalves

Raggiungiamo il Vidyajoti College of Theology di Delhi una fredda sera di gennaio. «Noi» siamo un gruppo di viaggiatori interessati a conoscere le diverse realtà religiose dell’India e la lettura di un articolo in una pubblicazione di studi teologici indiani ci ha condotti all’istituto gesuita fondato nel 1881 nel Bengala e al suo rettore,. Lo troviamo che ci aspetta sorridente davanti al cancello.

Mentre ci riprendiamo dalle ore passate nel traffico che paralizza, in un’inimmaginabile morsa di metallo e inquinamento (a Delhi come in buona parte delle megalopoli indiane), Gonsalves, nato nel 1960 a Bombay, licenza alla Gregoriana e dottorato a Madras, ci introduce alla problematicità dell’India. Un paese dalle molte lingue e dalle molte religioni che il nazionalismo hindu cerca in parte di assimilare, in parte di emarginare. Le statistiche parlano di un 82% hindu, un 13% musulmano, un 2,3% cristiano, più altre esigue realtà, su una popolazione totale di 1,2 miliardi.

Tra gli adivasi

«L’induismo – ci spiega Gonsalves — non può essere considerato un blocco unico. Quando si parla di induismo, normalmente si intende quello classico, di origine bramanica, vedica, chiamato anche “la grande tradizione”. Ma c’è una moltitudine di rami, sette, sottosette, come la bhakti (basato sulla devozione) e le religioni popolari lontane dall’induismo ufficiale». Per religioni popolari ci si riferisce soprattutto a quella dei tribali, gli adivasi, letteralmente «abitanti originari», ma comunemente chiamati neri, selvaggi, abitanti delle foreste e ufficialmente etichettati come Scheduled Castes, caste catalogate. Dei 40 milioni di indiani costretti ad abbandonare le loro terre per progetti di sviluppo dopo l’indipendenza nel 1947, 24 sono adivasi.

Rappresenterebbero un 8,2% della totalità degli indiani ma si addensano in alcuni stati, come il Gujarat, al confine con il Pakistan, dove padre Gonsalves ha svolto per due anni il lavoro sul campo richiesto dalla formazione gesuita e da cui ha tratto il materiale per un libro pubblicato nel 2010, God of our soil (Dio della nostra terra), sottotitolo «Verso una teologia trinitaria subalterna».1

In esso Gonsalves fa il punto della Chiesa in India. «La Chiesa in India si ritrova doppiamente estraniata. Da una parte i servizi della Chiesa alle classi e caste privilegiate – soprattutto nel campo dell’educazione e dell’assistenza medica – sono considerati superati e dall’altra la Chiesa ha ignorato la saggezza e gli interessi delle “tradizioni piccole”, soprattutto dalit, fuori casta, e adivasi. Sta a noi riempire questa lacuna. Occorre rinnovare l’identità cristiana indiana e riorientare la sua missione». Cosa possibile se a una funzione critica di ripensamento dei propri presupposti, la teologia associa la «costruzione» di un’immagine di Dio significativa per il contesto specifico in cui si trova a operare. In India occorre incorporare elementi dell’universo religioso/culturale di quei gruppi subalterni finora inascoltati.

Nel suo libro Gonsalves cita Gordon Kaufman, mennonita, professore emerito alla Divinity School di Harvard, che ha insegnato anche in India. «La teologia è sotto l’imperativo di diventare pienamente indigena da tutti i punti di vista… purché sia mantenuto il principio dell’assolutezza di Dio e il principio dell’umanità di Dio. Il compito principale dei teologi in ogni cultura è di produrre, di costruire un’immagine di Dio appropriata alla vita contemporanea», e ricorda documenti del Vaticano II come Gaudium et spes, Ad gentes e Nostra aetate, che invitano a costruire ponti col mondo per misurarsi con tutto ciò che è umano. La nostra conversazione parte dalla concretezza del ministero.

Chi si converte?

– Quali sono le difficoltà che incontra un sacerdote in India ?

«Per l’induismo c’è un ritmo nel cosmo, quello che nei veda è chiamato ria, un ordine nel quale tradizionalmente ognuno ha e deve mantenere il suo posto e non è possibile cambiare appartenenza. Se cambi fede perdi il tuo ruolo sociale. Così come non è possibile cambiare casta. Puoi arricchirti, ma se sei nato di casta bassa rimarrai sempre un inferiore».

– A questo tradizionale tabù si allacciano oggigiorno i fondamentalisti hindu quando accusano i cristiani di forzare le conversioni ?

«È così, anche se è vero che ci sono fondamentalisti cristiani che non vanno troppo per il sottile. Alle difficoltà sociali che seguirebbero l’abbracciare una nuova fede, in un certo senso, si può ricondurre il fenomeno dei Krista bhakta, i devoti di Cristo. Sono hindu ma hanno scelto Cristo come loro dio e la devozione a un unico dio è accettata dall’induismo. Non sono battezzati ma pregano e vengono alla messa anche se purtroppo non possono ricevere la comunione. Vengono perché vedono i nostri lavori. Non hanno studiato ma hanno una grande fede».

  • Ci sono però quelli che nascono senza diritti e non hanno nulla da perdere convertendosi. Al cristianesimo come all’islam e al buddhismo in misura minore, che predicano tutte l’uguaglianza, approdarono fin dall’inizio, cinquecento anni fa, intere comunità di dalit che vedevano nella nuova religione la possibilità di emanciparsi dall’oppressione delle caste alte. Oggi chi si converte”?

«Se è forse vero che la maggioranza delle persone che si converte dall’induismo al cristianesimo proviene dalle cosiddette “caste basse”, dalit e adivasi, certamente non è vero che solo questi si convertono. C’è anche chi proviene dalle cosiddette “caste alte”, così come ci sono persone che provengono da altre religioni come l’islam, lo zoroastrismo, il buddhismo, il giainismo, il sikhismo.

Vorrei ricordare una figura di alta spiritualità, una mistica, Vandana Mataji (scomparsa a febbraio), zoroastriana convertitasi con passione al cristianesimo cattolico e che instancabilmente durante tutta la sua lunga vita cercò di avvicinare il cristianesimo all’induismo. Indossava l’abito color zafferano dei monaci hindu, viveva fra loro, cantava canti hindu e diceva: “I cristiani hanno il monopolio sul Cristo? La conoscenza che di lui hanno non è esaustiva della sua piena realtà… Non c’è niente di contraddittorio nel constatare che altre culture e religioni sono consapevoli di altre dimensioni e aspetti del mistero chiamato Cristo».

  • Oggi cinque stati dell’Unione, fra cui il Gujarat, hanno adottato leggi anticonversione nonostante la Costituzione indiana del 1947 garantisca libertà di scelta in materia religiosa.

«Il Right to Freedom Bill, la legge sul diritto alla libertà, come è ironicamente chiamato, elimina il diritto a cambiare religione dal momento che, col pretesto che nessuno dovrebbe costringere altri a convertirsi, tutti quelli che lo vogliono fare devono informare le autorità governative. Siccome la maggioranza dei funzionari governativi è hindu, ostacolerà chiunque dica di voler essere battezzato come cristiano. La gente ha paura, soprattutto nei villaggi più remoti».

La salvezza e il contesto

  • Questo per quanto riguarda le difficoltà. Quanto alla parte costruttiva, anche in India è presente una teologia della liberazione, che forse si preferisce chiamare della condivisione con altre religioni, senza la dichiarazione di una salvezza unica. È così?

«Come cristiano credo che Gesù sia al centro della salvezza, mediatore fra gli uomini e Dio. Il problema è come poterlo dire agli altri. Non solo dirlo, ma anche realizzarlo nella vita mia e della comunità. Quando ci vedono, dunque, devono dire di vedere la salvezza nella nostra vita; concretamente, devo poter rispondere alla domanda su come quell’affermazione di fede tocca la mia vita di cristiano in India. Quando qui guardiamo al cristianesimo in Occidente, ci pare che stia morendo. Molti vengono qui dai paesi dell’Occidente per cercare la salvezza nel buddhismo o in altre religioni. Cosa è la salvezza? La si può vedere sul piano della spiritualità e su quello dei problemi umani. Penso a un mondo con un divario che cresce e una terra sempre più sfruttata. Le fonti delle altre religioni che esaltano il silenzio e il rispetto per la natura ci aiutano a capire cosa è la salvezza. Noi qui non insistiamo sulla salvezza di Cristo, preferiamo lavorare insieme per rispondere ai problemi umani perché quando ci sono stomaci vuoti non si può parlare di salvezza, quando c’è povertà e niente lavoro non si può parlare di cielo e altra vita. L’esperienza umana è il punto di partenza della teologia indiana, la quale in questo ha molto a che fare con la teologia della liberazione».

– C’è chi dice che prima si veniva qui per convertire, ora ci si viene per convertirsi, alla condivisione e alla contaminazione.

«Io stesso pensavo di sapere tutto quando sono andato via da Bombay, pensavo di evangelizzare e invece ho trovato gente più santa di me. Non c’è una teologia universale, tutte le teologie sono contestuali nel senso di un’interpretazione della fede in sintonia con i segni del tempo e i segni del posto. C’è un contesto e su quel contesto esprimiamo la nostra teologia, africana, sudamericana o australiana che sia. Sono diverse perché diversi sono i contesti umani e la fede non è solo capire — fìdes quaerens intellectum – ma anche cercare il dialogo, la relazione, la comunità. Vogliamo incontrare Dio su quella che è la nostra propria terra. Interpretarlo e invocarlo in termini e immagini indigene è la sfida».

«Fare» la teologia

  • Cosa dell’universo cristiano è più vicino alla sensibilità indiana ?

«Per noi la cosa più importante è l’amore chenotico, quello di cui parla il c. 2 della Lettera ai Filippesi. Questo è accettato da tutte le religioni indiane; è il distacco induista, lo sunyata buddhista. È il punto di contatto; l’amore di chi non pensa a se stesso ma agli altri. Per questo Cristo è rispettato. Lo stesso Gandhi era attratto dal cristianesimo anche se diceva: conosco un solo cristiano, Gesù Cristo».

  • Tornando alla vostra teologia…

«Penso che la teologia debba essere “fatta” e non solo “imparata”. Come dicevo, non si tratta tanto di un esercizio accademico, intellettuale quanto di un impegno ad agire per conto di un Dio dei poveri. L’azione a cui penso comporta una serie di passi: immergersi nella vita degli indigenti e venire toccati dalle loro esperienze di sofferenza, dolore, morte e resurrezione. Da questa immersione nasceranno domande che ci turberanno. Bisogna poi analizzare le cause alla base delle negatività della vita come povertà, sfruttamento, ingiustizia; cercare ispirazione nelle Scritture e nella Tradizione per capire come Gesù risponderebbe a queste situazioni e alla fine cercare di trovare una soluzione a favore dei poveri».

  • A questa posizione fa riscontro il programma curriculare degli studi del Vidyajyoti College dove, va ricordato, insegnò anche il belga Jacques Dupuis, sostenitore della necessità di collocare la fede cristiana in un contesto diverso da quello in cui era stata confessata per secoli. Scorrendo l’opuscolo dell’istituto si legge che la teologia contestuale presenta il suo marchio di fabbrica.

«Siccome l’opzione per i poveri viene presa seriamente, gli studenti non solo religiosi, maschi e femmine, vengono preparati ad analizzare criticamente i sistemi e le strutture religiose/culturali/socio/eco/politiche dell’India con l’obiettivo di combattere ogni forma di ingiustizia e oppressione. Ogni studente, accompagnato nel suo yatra (parola sanscrita per «ricerca spirituale») dai professori, deve a un certo punto svolgere qualche forma di lavoro sul campo come parte integrante degli studi curriculari. Ognuno deve scegliersi una comunità emarginata e lavorarci per alleviarne le sofferenze».

L’identità reinterpretata

– Quanto alla comunicazione del Vangelo…

«Non è semplice ma neppure impossibile. Ad esempio: farisei, cosa è il suo corrispettivo per un indiano? Il nostro mondo è diverso, le persone sono diverse ma il Vangelo è vivo.2 Il Dio cristiano è relazione, comunità, non un individuo. Siamo abituati a vedere solo Gesù Cristo ma cosa ne è del Padre e dello Spirito Santo? Possiamo parlare con i musulmani e con gli ebrei grazie alla figura del Padre, con le religioni orientali grazie allo Spirito Santo. L’evangelista Giovanni dice “lo Spirito soffia dove vuole”. Quando si parla di Trinità è possibile dialogare con le altre religioni, se si parla solo di Gesù Cristo è problematico. Come è possibile per un uomo di 33 anni, si chiedono, salvare tutto il mondo, prima e dopo di lui?

Per chiarire la mia riflessione voglio farvi un esempio di come si reinterpreta l’identità cristiana in funzione del contesto. Quello indiano, come si diceva, deve recuperare la “piccola” voce della sua maggioranza adivasi. Considerato che la sensibilità tribale — per cui le persone esistono in quanto relazioni all’interno del gruppo — risuona di più con immagini di Dio in comunione, si valorizzi la Trinità e la si reinterpreti non solo attraverso l’uso di Scritture e Tradizione ma anche ricorrendo a simbolismi, strutture sociali e visione del mondo di quelle comunità subalterne. Dal momento che i termini maschili non sono sufficienti a esprimere il mistero di Dio agli occhi di un adivasi del Gujarat si può allora pensare a un Dio dalle caratteristiche anche femminili, e prendere in prestito dal grande alveo dell’induismo il termine shakti, che indica la potenzialità femminile sempre associata al dio maschile. Si può ricorrere all’immagine della danza, naach/nu, momento importante della vita di villaggio, di cui ribadisce simbolicamente la solidarietà, l’uguaglianza, la vitalità. Così facendo si dà credito ai valori di gente che subisce non solo violenza fisica — espropriazione del suo spazio vitale nella foresta — ma anche simbolica, screditata come gente arretrata dalla cultura dominante. In altre parole si creano contro-spazi che possono alimentare consapevolezza dei propri diritti, resistenza e protesta».3

– A parte il sostegno attivo a movimenti quali il Control Arms Foundation of India e Men Against Violence and Abuse, caldeggiato dall’Indian Theological Association, cosa viene fatto in concreto ?

«Il Vidyajyoti College ha sostenuto recentemente l’azione dei guidatori di rickshaws a pedali, poverissimi, sul cui numero un’ordinanza municipale di Delhi, poi impugnata con successo, aveva posto un limite che avrebbe causato il naufragio economico di migliaia di famiglie. In incontri settimanali li prepariamo a riscattare il mezzo di cui pagano il noleggio. Molti dei nostri studenti e professori fanno lavoro di formazione professionale con le donne la cui situazione di vittime è illustrata già dal semplice tasso medio di natalità, 914 femmine su 1000 maschi».

I poveri, la priorità

L’impegno del Vidyajyoti College si inquadra pienamente nella linea teologico-pastorale della Compagnia di Gesù, attenta alla giustizia sociale e al dialogo interreligioso. I centri studi dei gesuiti in India hanno creato una consistente banca dati su temi quali: ruolo della foresta nella vita dei tribali, numero e tipologia di chi ha dovuto abbandonare le proprie terre per progetti di sviluppo, leggi tribali, conseguenze del cambiamento climatico sui poveri. Da un lato tali database hanno permesso alla società civile un’efficace azione di advocacy a favore delle comunità penalizzate, dall’altro divulgazioni popolari nelle lingue tribali permettono ai diretti interessati una migliore difesa dei propri diritti.

L’altro filone, quello del dialogo interreligioso, ha dato vita all’Associazione di studi islamici, che promuove la conoscenza dell’islam, cosa non irrilevante in un paese che emargina quelli che un tempo erano parte integrante della società e che li vede coinvolti in sanguinosi, sempre più frequenti scontri con gli induisti e oggetto di ghettizzazione in stati come il Gujarat. Anche l’esperienza vissuta fra i musulmani è parte integrante del programma di studi teologici del Vidyajyoti e di altri centri gesuiti in India.

Noi, gruppo italiano in visita, abbiamo ancora in mente la bambina bistrata, vestita con una parodia cenciosa di abitino da festa che, fra i fumi di scarico delle macchine bloccate a un incrocio, si esibisce in contorsioni circensi con la disperazione negli occhi. E pensiamo che quella dei poveri è davvero la priorità.

1 Di padre Gonsalves è uscito proprio in questi giorni un altro libro, Body broken for Body Building. Christic living in a Global Village, riflessioni su vent’anni di attività pastorale.

2 A questo punto della conversazione interviene un anziano sacerdote, avvolto in uno scialle color ocra, che fino a questo momento si è tenuto appartato. E lo spagnolo George Gispert-Sauch, professore emerito di Indologia e Teologia sistematica al Vidyajyoti College. Da 64 anni vive in India e del paese conosce profondamente scritture e tradizione. «Noi occidentali pensiamo agli individui ma per gli indiani cui ci rivolgiamo viene prima la comunità», dice. Ha curato un prezioso piccolo glossario di parole bramaniche che giace sul tavolo all’ingresso. Si intitola Gems of India con riferimento al mandato dei portoghesi, che sbarcarono sulla costa del Kerala del Nord cinque secoli fa, di trovare «anime, spezie e pedreria (gemme)». Lo scopo del libro è mostrare le nuove risonanze che parole classiche indiane acquistano se articolate all’interno della fede cristiana e viceversa come la fede cristiana acquista nuovo significato e valore quando articolata nelle lingue indiane.

3 Questa riflessione è assolutamente in linea con la Indian Theological Association (ITA), di cui Gonsalves è segretario. Nella sua riunione del 2011 la ITA ha tematizzato la violenza nella società indiana contemporanea individuando le seguenti categorie di vittime: dalit, adivasi, donne e bambini. I teologi indiani — si dice nel rapporto – si sentono in dovere di comprendere le cause ed articolare risposte con cui la religione può contrastare o minimizzare la violenza a danno di quei soggetti. Come Gesù non si limitò a soffrire per gli altri ma agì positivamente contro l’oppressione, così la teologia deve anche mobilitarsi per favorire la resistenza e la protesta degli oppressi, sulla scia del satyagraha, lotta non violenta, di Gandhi.

 

Semi Di Ribellione Di Raul Vera Lopez

 

Sono profondamente grato all’Università Centrale di Bayamón per il conferimento di questa laurea honoris causa (…). È proprio in un ambiente come questo, quand’ero un giovane studente universitario, che vennero gettati nel mio cuore i semi da cui sono germogliate quelle forze che hanno determinato il corso della mia vita. È stato in gioventù che ha iniziato a forgiarsi l’ideale di un mondo giusto, diverso da quello costruito e tenuto a galla dalle generazioni che ci hanno preceduto.

LA RIBELLIONE NATA DALL’ANELITO PER UN MONDO PIÙ GIUSTO

Sì, devo dirlo: nel momento in cui affiorava dal mio spirito il desiderio di un mondo diverso, nasceva in me un impulso di ribellione a cercare alternative alla mia vita personale. Si faceva cioè ogni giorno più forte la convinzione di non potermi integrare alla struttura disumana offerta da un modus vivendi più o meno confortevole, ma ottenuto al prezzo di collaborare con le ingiustizie che iniziavano a introdursi in Messico a metà del XX secolo, allo scopo di agevolare il processo di trasformazione industriale basato sugli investimenti esteri. Avendo scelto alla Unam (Università Nazionale Autonoma del Messico) la facoltà di ingegneria chimica, il mio lavoro sarebbe stato legato proprio ai processi di trasformazione industriale. Per questo la mia visione critica del Paese si centrava sul modo in cui si stavano sviluppando in Messico tali processi.

Queste ingiustizie strutturali investivano l’ordine politico e quello economico. Il Messico aveva perso la sua libertà perché era diventato oggetto dell’intervento straniero, specialmente degli Stati Uniti, da cui proveniva la maggior parte delle imprese che investivano nel mio Paese. L’obiettivo di tale intromissione era quello di assicurare che le condizioni socio-politiche e socio-economiche in Messico fossero del tutto favorevoli al moltiplicarsi degli investimenti.

I processi di industrializzazione favorivano l’arricchimento personale dei politici che ricevevano regalie per rimuovere i controlli fiscali e doganali cosi da permettere il flusso di capitali all’estero, come pure per consentire l’uscita di risorse naturali non rinnovabili, saccheggiate senza pietà. Iniziò l’abbandono dei campi, causa di un’arretratezza pagata soprattutto dai contadini. (…).

Si costituì una specie di schiavitù moderna, in cui i contadini emigrati venivano assoldati senza la preparazione tecnica o sociale sufficiente per difendersi dagli abusi delle politiche lavorative promosse dal governo con la complicità di leader sindacali corrotti e al servizio degli imprenditori. Questi uomini e queste donne dei campi, trasformati per necessità di cibo e di casa in operai e operaie, erano cosi condannati a livelli di vita molto al di sotto della dignità umana. (…).

Mi rifiutai di far parte di un sistema che, invece di generare vita, produceva strutture di morte, e di ripagare con la moneta del disprezzo e dell’abbandono le famiglie operaie e contadine che con il loro lavoro avevano sostenuto la mia formazione universitaria. Per questo scelsi di integrarmi nei processi mirati a trasformare le vittime di strutture alimentate dal commercio di carne umana in soggetti della costruzione di un nuovo Messico.

VI INVITO A PERMETTERVI FOLLIE E RIBELLIONI

(…). Quello che vi chiedo è di unirvi ai processi orientati a generare vita nella vostra patria, lasciando da parte i vantaggi personali. Non siete venuti all’università per pensare solo a voi stessi. Siate creativi nella costruzione del popolo portoricano; non aspirate a un progresso puramente personale, in qualche parte del mondo o negli Stati Uniti a cui è legato Porto Rico come Stato libero associato. Siate capaci di pensare in modo diverso, lasciatevi contagiare da quella che Platone chiamava “divina follia”, osando pensare al di fuori del modello sociale imperante.

(…). Capisco che siete stati/e formati/e in vista del disegno, dello sviluppo e della difesa di imprese e istituzioni di vario tipo, tanto pubbliche quanto private, secondo i criteri imposti dai loro dirigenti. Ma vi incoraggio a iniziare qualcosa di nuovo, qui, in questo Paese che vi ha visto nascere e crescere e vi ha formato professionalmente, creando microimprese i cui principi fondamentali siano quelli comunitari, non quelli della competizione e del primato sugli altri. (Rifiutate come criterio fondamentale quello per cui il padrone, l’azionista l’azionista e il funzionario di alto livello di queste imprese, debbano guadagnare molto di più degli operai, perché hanno diritto ad una abitazione migliore, a un’automobile migliore, a vestiti e cibo di qualità più alta. Tutto questo a spese del miserabile stipendio dell’impiegato e dell’operaio, del quartiere in cui vive, la fame e la mancanza di servizi che patisce lui o la sua famiglia e la salute e l’educazione che non hanno e che, alla fine, provocheranno negatività e insicurezza per quelli che li circondano e per la società.

Cristo disse un giorno che «la vita vale più del cibo e il corpo più del vestito», e che non dovremmo preoccuparci di cosa mangeremo e di cosa indosseremo, aggiungendo che di queste cose si preoccupano a dismisura quanti non credono in Dio. E faceva l’esempio dei corvi che «non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, e Dio li nutre». E anche dei gigli del campo che non filano e non tessono, eppure «neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» ( Lc 12,22-30). Gesù ci invita con queste parole a non preoccuparci del cibo solo rispetto alla vita personale, ma a pensare alla vita di tutte e di tutti, che per sopravvivere hanno bisogno dell’alimento necessario. Come pure a non preoccuparci unicamente del nostro corpo personale, ma del corpo di tutti coloro che hanno bisogno di vestiti. In tal modo non apprenderemo soltanto a mangiare più sobriamente, ma a preoccuparci che questo alimento arrivi a tutte e a tutti. E lo stesso vale per l’abito, perché sia modesto, cosicché tutte e tutti possano vestire degnamente.

Cosi dovete progettare le vostre imprese, non per avere abitazioni e veicoli di lusso, non per banchettare riccamente con ogni sorta di alimenti e bevande. Pensare a tutti/e ci porta a ricercare livelli di vita adeguati, che permettano a ciascuno, senza esclusione alcuna, di godere di quella vita dignitosa che spetta a ogni essere umano che nasce in questo mondo. Cercando per prima cosa il Regno di Dio, che è includente e pieno di giustizia, tutto il resto ci sarà dato in aggiunta (Lc 12,31). Non possiamo continuare a pensare che sia normale vedere tante persone condannate alla povertà, a una miseria irredimibile, mentre altre vivono nell’opulenza. Abbiate l’audacia di ribellarvi al modello di società imperante e di lavorare per un modello distinto, in cui la terra compia la funzione assegnatale da Dio quando pose gli esseri umani a vivere in essa, per coltivarla e amministrarla (cfr. Gen 1,26-29; Sap 9,1-3). Questo pianeta è la casa di tutta la famiglia umana. Costruite così la porzione di mondo in cui siete nati e in cui vivete.

Vi dicevo che, da giovane, a un certo punto mi rifiutai di integrarmi a processi che generavano miseria e morte. Oggi, malgrado io sia un vescovo, con i miei limiti e la mia moderazione, sento che tale ribellione non si è spenta nel mio cuore: lavoro e lotto per un mondo in cui tutte e tutti operino a favore dell’uguaglianza di ogni essere umano, di ogni gruppo, di ogni popolo, di ogni nazione, nel rispetto dei diritti fondamentali e della nostra dignità come persone. I diritti umani sono inerenti alla nostra natura e ciò non solo viene accettato da quanti credono nel Vangelo di Gesù, ma è anche consacrato nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, sottoscritta dalla grande maggioranza delle nazioni del mondo. Dichiarazione che siamo chiamati a promuovere e a far valere insieme ad altre dichiarazioni e ad altri trattati. (…).

“Una chiesa in ascolto delle donne” di C.M.Martini.

Intervento di Carlo Maria Martini al Convegno sulla presenza delle donne nella Chiesa tenuto a Milano nell’aprile del 1981 e recentemente riedito dal libro “Lo straordinario dell’ordinario” con prefazione di Emma Cavallaro del Coordinamento Teologhe Italiane.

«Perché, si chiede ad esempio la donna, identificare l’immagine di Dio con quella trasmessaci da una cultura maschilista? Quale l’annuncio kerigmatico per lei, non rinchiuso in una visione moralistica? Quali indicazioni per un cammino spirituale e di santità che la stimolino adeguatamente? Quali indicazioni per una rinnovata prassi pastorale, per un cammino vocazionale per il matrimonio, per la consacrazione religiosa, la famiglia, in considerazione della nuova coscienza di sé che la donna ha acquisito? Quali indicazioni per un linguaggio globale, anche liturgico, che non faccia sentire esclusa, nella sua elaborazione, la donna?Perché così poche e inadeguate risposte alla valorizzazione del proprio corpo, dell’amore fisico, dei problemi della maternità responsabile?Perché la pur grande presenza delle donne nella Chiesa non ha inciso nelle sue strutture? E nella prassi pastorale perché attribuire alla donna solo quei compiti che lo schema ideologico e culturale
della società le attribuiva, e perché non esplicitare i suoi carismi “opera dello Spirito Santo”

I ruoli ecclesiali affidati alle donne sono allora secondo i carismi di una Chiesa condotta dallo Spirito oppure ancora frutto di una mentalità maschile?
Le donne si chiedono tutto questo. Non sempre lo esprimono. Sentono ancora timore a infrangere una “iconografia” della donna cristiana, dentro la quale peraltro stentano a riconoscersi e non riescono più ad adattarsi.
La Chiesa deve porsi in ascolto. Deve lasciarle esprimere da protagoniste. Il loro modo di leggere, interpretare la vita ha una rilevanza che deve segnare un cammino pastorale che non può vedere le donne perennemente soggette o brave e fedeli esecutrici, quasi vergognose o timide di fronte alla forza che potrebbero esprimere in novità.
I ministeri, carismi, servizi, sono doni per la comunità ed esigono una profonda e attenta rilettura che apra nuove vie alla comprensione del ruolo delle donne nella Chiesa. La filosofia e la teologia nelle loro varie branche, l’esegesi biblica, la pastorale hanno un compito urgente da svolgere con gli strumenti che a loro sono propri.
Le scienze umane aprono loro ampi spazi di documentazione e di fondazione. Ma anche la vita delle donne, anzi, dalla loro vita parte un richiamo fortissimo di novità. Le più mature non esprimono vane rivendicazioni di false parità: chiedono di costruire in pienezza e con coraggio, mettendo in discussione se stesse, la società e la Chiesa».

 

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