Lettera 29 (Seconda Serie)

Cari amici,

in questo numero, insieme all’invito al nostro prossimo incontro, presentiamo quattro testi che ci hanno in vario modo colpito, il filo conduttore, che parte dalla presentazione delle considerazioni del benedettino inglese Basil Christopher Butler sul Concilio, incontra il forte richiamo del vescovo messicano Vera Lopez per una presa di responsabilità dei problemi sociali e delle ingiustizie del mondo e arriva al messaggio di papa Francesco a Lampedusa e alla semplice, ma intensissima testimonianza di Malala Yousafzai all’Assemblea delle Nazioni Unite

Sommario della 29° lettera:

  1. “E’ ora che chi ama appassionatamente il Concilio e crede che esso ci offra la chiave per il futuro cristiano ed umano, faccia sentire la sua voce” da B.C. Butler
  2. “Il coraggio di creare qualcosa di nuovo.” La lezione del vescovo Raul Vera Lopez
  3. L’omelia di Papa Francesco a Lampedusa
  4. Il discorso di Malala Yousafzai all’ONU

“E’ ora che chi ama appassionatamente il Concilio e crede che esso ci offra la chiave per il futuro cristiano ed umano, faccia sentire la sua voce” da B.C. Butler di Francesco Cagnetti

Cari amici,

vi presentiamo il profilo di un personaggio che ha svolto nel Vaticano II un ruolo di primo piano, in particolare nella elaborazione della Dei Verbum.

Basil Christopher Butler è nato a Reading (Inghilterra) nel 1902, terzogenito di un commerciante di vini e liquori. Eccellente scolaro e studente, a diciott’anni entra a Oxford con una borsa di studio. Fu allora che si dedicò allo studio della critica neotestamentaria, avvalendosi delle sue conoscenze sulla moderna indagine dei testi antichi.

A ventiquattro anni fu ordinato diacono nella Chiesa Anglicana. Ma due anni dopo, nel 1928, entrò nella Chiesa cattolica.

Quale fu il motivo di questa conversione? Principalmente l’esigenza di un’istanza autorevole che fungesse da contrappeso all’esercizio della libera critica dei testi sacri, che a volte sembrava privarlo di ogni certezza di fede.

La sua fedeltà alla critica testuale non venne però meno, pur essendo in contrasto con l’avversione ad essa prevalente nella Chiesa cattolica, specie in Inghilterra.

E così pure, nell’episcopato cattolico inglese, non era condivisa la sua opinione che la Chiesa diventando via via sempre più centralizzata, avrebbe finito col perdere la sua linfa vitale.

Ma egli si rendeva ben conto che invertire la tendenza sarebbe stata impresa non facile in un’epoca caratterizzata dalla civiltà di massa.

Nel 1929 entrò nell’Ordine benedettino: scelta motivata dal fatto che, pur entro certi limiti, quell’Ordine applicava nella sua struttura il principio dell’autonomia locale: ogni abbazia è infatti un tutto in sé, pur essendo connessa con le altre, sotto la guida – prevalentemente onoraria – dell’abate presidente.

Critico nei confronti di una liturgia in latino, che escludeva di fatto la partecipazione dei laici, Butler era già da allora favorevole ad una liturgia in lingua volgare.

Anche sul tema dell’ecumenismo egli dissentiva dall’opinione contraria dei cattolici inglesi: a favore del dialogo con gli anglicani lo induceva anche il fatto che in quella Chiesa aveva ricevuto il battesimo e che i suoi più stretti familiari le appartenevano.

Nel 1961 Butler fu eletto Presidente dell’Ordine benedettino inglese, e come tale fu chiamato a far parte dei padri conciliari.

Quando Giovanni XXIII convocò il concilio, Butler fu piuttosto scettico sulla possibilità che un consesso di prelati, con un’età media di sessant’anni, potesse contrastare la curia romana.

Ma il rinvio al mittente, da parte dei padri conciliari, dei documenti preparatori proposti dalla curia sulla liturgia e sulle fonti della Rivelazione, e la creazione di una nuova commissione incaricata di elaborarne una nuova versione lo convinsero che il concilio era giunto ad un punto di svolta.

Fu nel corso della seconda sessione che egli entrò in più stretto contatto con i teologi, che erano allora presenti a Roma in gran numero. Nella commissione per la Dottrina era presente un notevole gruppo di esperti, come Karl Rahner, Congar, De Lubac, Benoit, Smulders, Laurentin. Determinante fu la loro influenza sui Padri conciliari.

Fu questa esperienza a rivelargli che la teologia – che per anni aveva considerato noiosa, anche se indispensabile – non solo poteva essere affascinante, ma anche estremamente potente:

“mostrò il suo potere nel Concilio contro il tradizionalismo e contro la singolare presunzione di subordinarla al diritto canonico invece del contrario”(Butler, A Time to Speak, cap.13).

Inoltre, il Concilio lo indusse a prestare maggiore attenzione ai diritti, allo statuto e alle funzioni del laicato nella Chiesa. Punto cruciale fu per lui la decisione apparentemente tecnica del Concilio di collocare, nella Costituzione sulla Chiesa, un capitolo sul ‘Popolo di Dio’, prima del capitolo sulla gerarchia. Con questa decisione, suggerita dal card. Suenens, la Chiesa veniva ad essere rappresentata come la grande fratellanza di tutti i battezzati.

Per Butler il popolo di Dio non includeva solo i cristiani, ma tutti gli uomini di buona volontà:

“Ogni uomo di buona volontà è in grazia ed è misticamente unito nel Cristo con tutti gli altri uomini di buona volontà. Tutti insieme, essi costituiscono il corpo di Cristo nel suo elemento mistico, in quanto distinto dal suo visibile aspetto istituzionale”(Butler, Christians in a New Era, p.20).

Più tardi Butler prese coscienza che andava ancora compiuto un lavoro di demitologizzazione sul concetto del sacerdozio di Cristo:

“ Il Concilio aveva fatto propria la distinzione tra le tre funzioni in Cristo – regale, sacerdotale e profetica -, ma forse non aveva sufficientemente prestato attenzione al fatto che, poiché il regno di Cristo non è “di questo mondo”, il suo sacerdozio non è da intendersi nel senso dei sacerdozi cultuali del giudaismo e del paganesimo. L’elemento cultuale è in realtà del tutto secondario nel sacerdozio di Cristo, come si evince dal fatto che il suo “sacrificio” fu l’autosacrificio esistenziale del Calvario. Ciò che accadde nel Calvario difficilmente può essere considerato come un atto cultuale, benché senza dubbio l’Eucaristia, intimamente connessa col Calvario, ha un aspetto cultuale. Ciò che veramente implica la dottrina del sacerdozio del popolo di Dio è che siamo chiamati, collettivamente e individualmente, a portare lo spirito di Cristo nelle cose di questo mondo.”(Butler, A Time to Speak, cap.13)

 

Butler riconobbe al Concilio altri due grandi meriti: in primo luogo, di avere unificato la conoscenza teologica, superandone la schematizzazione in branche e fondando una nuova sintesi, in cui alla Scrittura veniva assegnato un ruolo centrale.

A questo proposito, egli scrive:

“Oggi può sembrare strano che ciò sia stato necessario. Anche San Tommaso d’Aquino aveva fondato la sua teologia sulla Bibbia. Ma nei tempi moderni aveva prevalso la separazione tra studi scritturali e teologia dogmatica in due discipline, ed era stata data la priorità a quest’ultima quando sorgeva un contrasto tra le due”(ibidem)

L’altro merito che Butler riconosce al Concilio fu il recupero della speranza: nella situazione preconciliare i movimenti che operavano per un fecondo cambiamento nella Chiesa erano una minoranza e sotto costante minaccia. Ora col Concilio questa minoranza aveva ottenuto diritto di cittadinanza.

Per concludere, abbiamo tratto dal percorso di questo abate un’ ulteriore conferma che lo Spirito soffia dove vuole. La Chiesa cattolica inglese, che era una delle più conservatrici, attraverso due convertiti dall’anglicanesimo, Butler e il cardinale Newman (di cui Butler si dichiarava discepolo), ha dato un contributo fondamentale al rinnovamento della Chiesa.

Il Concilio Vaticano II ha dato inoltre occasione ai fautori dell’aggiornamento di conoscersi personalmente, e, unendo le loro forze, di essere determinanti nello sviluppo del Concilio. Tutto questo non era certo previsto dai prelati della curia, che non avevano saputo scrutare i “segni dei tempi”. …

Aggiungiamo, per chi ha la pazienza di leggerle, alcune citazioni da vari scritti di Butler, con nostre evidenziazioni:

In una lettera alla sorella Mary del 3 ottobre 1964, egli scrive:

“Nella conferenza-stampa di giovedì ho dato un’idea di ciò che intendo per “rinnovamento” nella Chiesa. Ho detto che sin dal secondo secolo la Chiesa si è andata adattando alla sua epoca. Nel secondo secolo, dalla sua originaria ebraicità si è europeizzata. Imparò a pensarsi e ad esprimersi nei termini della filosofia greca. In seguito si è romanizzata (avrei potuto aggiungere che in seguito si è feudalizzata). E si è trascinata appresso i residui di questi passati adattamenti (avrei potuto aggiungere che, in seguito alla Riforma, si è cristallizzata nei modi della decadenza medievale che adottò contro i Riformatori).Per me rinnovamento significa non qualche cambiamento di facciata, ma un radicale ritorno alle origini – non certo diventando ebrei del primo secolo, ma ‘traducendo’ la pienezza del Vangelo in termini significativi per il nostro tempo. (Il Concilio, beninteso, può tentare solo uno o due passi nella direzione voluta, ma spetterà alla Chiesa esplorarla ulteriormente)”.

Ma su quest’ultimo punto nutriva qualche preoccupazione:

“In Concilio i progressisti trascinarono a sé il centro con l’esercizio di una santa retorica; ma quando questi stessi vescovi del centro saranno di nuovo al lavoro nelle loro diocesi è serio il pericolo che soccombano alle pressioni delle associazioni tradizionaliste”

Butler, con la sua esperienza di studio critico dei testi antichi e giovandosi nel sostenere le sue idee della sua padronanza della lingua latina, svolse un ruolo rilevante nel persuadere all’aggiornamento molti vescovi di formazione tradizionalistica:

“Non abbiate paura della verità scientifica e storica…Non abbiate paura che i nostri studiosi possano mancare di lealtà verso la Chiesa e la dottrina tradizionale…Certo alcuni volgeranno la libertà in licenza – ma noi dobbiamo rischiare ciò per amore di un bene maggiore. Certo, errori sono stati fatti e saranno fatti in questo campo – ma questo è un campo in cui l’esperimento e l’errore sono la via verso la verità

Sul problema del primato della coscienza, Butler sostiene:

“Se la Chiesa non ha impegnato la sua infallibilità su un punto del suo insegnamento, allora essa non può esigere un assenso incondizionato a questo insegnamento…E quando la guida morale della Chiesa non procede con rigorosa inferenza dall’insegnamento infallibile della Chiesa, allora c’è la possibilità di un legittimo dissenso. In entrambi i casi, poiché la Chiesa è, per dono di Dio, la nostra guida nel cammino della salvezza, l’onus probandi, come sostiene Newman, spetta all’uomo che rifiuta l’assenso ad una dottrina o l’obbedienza a un comando…. Un cattolico non può respingere un insegnamento non infallibile dei vescovi o del Papa come se non avesse più importanza dell’opinione di un teologo; cioè, egli non lo può” a priori” . Egli deve dimostrare che in quel caso ha il diritto e il dovere di dissentire”. (Christians in a New Era, p.101)

Sulla Chiesa preconciliare, il giudizio dell’abate è severo:

“ Ora che cosa dire della Chiesa preconciliare? Essa si trascinava dietro singolari nubi di gloria da un passato sempre più remoto e irrilevante – come le tre corone della tiara papale. La sua legge era articolata in principi…che erano in definitiva quelli della legge civile romana. La sua amministrazione centrale ricalcava quella degli imperatori romani, e il suo cerimoniale rifletteva quello della corte bizantina. Solo un occhio critico era in grado di discernere, nell’azione e nella teoria del primato papale, ciò che era del vangelo da ciò che era di Cesare. Essa non aveva mai superato il distacco tra chiesa cattolica occidentale ed orientale, simboleggiato dalle reciproche scomuniche tra Roma e Costantinopoli. Privata del contrappeso delle Chiese orientali, l’Occidente è giunto praticamente a identificare la sua tradizione locale con quella universale, per cui le minuscole chiese orientali in comunione con la Santa Sede erano trattate come mere appendici ed eccezioni alla regola generale. La koinonia della Chiesa prima di Nicea era diventata la “societas” latina, e la societas, da imperializzata, diventò poi feudalizzata nel Medio Evo. Ancora nella metà del XX secolo, sembrava tremante per lo shok della riforma protestante, e, sull’esempio della sua reazione contro la nuova teologia del sedicesimo secolo, aveva agito contro la generale corrente di progresso in quell’area della superficie della terra in cui era a casa propria geograficamente, ma non più spiritualmente..”(Butler, “Aggiornamento” of Vatican II, pp.258-260)

Le notizie e le citazioni sono tratte da:

Sr Anne T.Flood, S.C., B.C.Butler’s Developing Understanding of Church: An Intellectual Biographie, Washington, 1981

Arthur Wells, Bishop Christopher Butler OSB – His Role in Dei Verbum, in Vatican II –Voice of the Church.

Dom Daniel Rees OSB, Bishop Christopher Butler, Seventh Abbot of Downside and Bishop of Nova Barbara

“Il coraggio di creare qualcosa di nuovo. La lezione di un vescovo “ribelle”

di Raul Vera Lopez (da Adista)

È un vero elogio della ribellione quello espresso dal domenicano mons. Raul Vera Lopez, il vescovo più profetico del Messico e il più impegnato nella difesa dei diritti umani, nel suo discorso di ringraziamento per la laurea honoris causa conferitagli il 25 giugno scorso dall’Università di Bayamón, a Porto Rico. «Lasciatevi contagiare da quella che Platone chiamava “divina follia”, osando pensare al di fuori del modello sociale imperante», ha esortato gli studenti venuti ad ascoltarlo. E di certo mons. Vera Lopez ha tutte le carte in regole per rivolgere ai giovani tale invito. Già coadiutore con diritto di successione a San Cristóbal de las Casas, in Chiapas, dove era stato inviato nel 1995 da Roma con il mandato di normalizzare la diocesi, alla fine del 1999 era stato rimosso come punizione per essersi ribellato al compito di rimettere in riga mons. Samuel Ruiz, rivelandosi totalmente in sintonia con lui. Spedito all’altro capo del Paese, a Saldilo, alla frontiera con gli Stati Uniti (ma portandosi il Chiapas nel cuore, v. Adista n. 11/00), il vescovo si è ripetutamente scontrato con il potere, come quando, nel 2006, dopo l’esplosione nella miniera di carbone di Pasta de Conchos, si pose immediatamente a fianco dei parenti dei 65 lavoratori morti nel giacimento sostenendoli nella loro lotta per il recupero dei corpi delle vittime, o quando intervenne nel caso degli 11 militari accusati di violenza aggravata ai danni di un gruppo di 13 prostitute e ballerine del municipio di Castanos, sempre nel 2006, denunciando le pesanti intimidazioni nei confronti delle vittime, per non parlare del suo sistematico impegno a sostegno dei migranti, messicani e stranieri, in viaggio dal Chiapas al Texas, o in difesa della dignità degli omosessuali.

Sono profondamente grato all’Università Centrale di Bayamón per il conferimento di questa laurea honoris causa (…). È proprio in un ambiente come questo, quand’ero un giovane studente universitario, che vennero gettati nel mio cuore i semi da cui sono germogliate quelle forze che hanno determinato il corso della mia vita. È stato in gioventù che ha iniziato a forgiarsi l’ideale di un mondo giusto, diverso da quello costruito e tenuto a galla dalle generazioni che ci hanno preceduto.

LA RIBELLIONE NATA DALL’ANELITO PER UN MONDO PIÙ GIUSTO

Sì, devo dirlo: nel momento in cui affiorava dal mio spirito il desiderio di un mondo diverso, nasceva in me un impulso di ribellione a cercare alternative alla mia vita personale. Si faceva cioè ogni giorno più forte la convinzione di non potermi integrare alla struttura disumana offerta da un modus vivendi più o meno confortevole, ma ottenuto al prezzo di collaborare con le ingiustizie che iniziavano a introdursi in Messico a metà del XX secolo, allo scopo di agevolare il processo di trasformazione industriale basato sugli investimenti esteri. Avendo scelto alla Unam (Università Nazionale Autonoma del Messico) la facoltà di ingegneria chimica, il mio lavoro sarebbe stato legato proprio ai processi di trasformazione industriale. Per questo la mia visione critica del Paese si centrava sul modo in cui si stavano sviluppando in Messico tali processi.

Queste ingiustizie strutturali investivano l’ordine politico e quello economico. Il Messico aveva perso la sua libertà perché era diventato oggetto dell’intervento straniero, specialmente degli Stati Uniti, da cui proveniva la maggior parte delle imprese che investivano nel mio Paese. L’obiettivo di tale intromissione era quello di assicurare che le condizioni socio-politiche e socio-economiche in Messico fossero del tutto favorevoli al moltiplicarsi degli investimenti.

I processi di industrializzazione favorivano l’arricchimento personale dei politici che ricevevano regalie per rimuovere i controlli fiscali e doganali cosi da permettere il flusso di capitali all’estero, come pure per consentire l’uscita di risorse naturali non rinnovabili, saccheggiate senza pietà. Iniziò l’abbandono dei campi, causa di un’arretratezza pagata soprattutto dai contadini. (…).

Si costituì una specie di schiavitù moderna, in cui i contadini emigrati venivano assoldati senza la preparazione tecnica o sociale sufficiente per difendersi dagli abusi delle politiche lavorative promosse dal governo con la complicità di leader sindacali corrotti e al servizio degli imprenditori. Questi uomini e queste donne dei campi, trasformati per necessità di cibo e di casa in operai e operaie, erano cosi condannati a livelli di vita molto al di sotto della dignità umana. (…).

Mi rifiutai di far parte di un sistema che, invece di generare vita, produceva strutture di morte, e di ripagare con la moneta del disprezzo e dell’abbandono le famiglie operaie e contadine che con il loro lavoro avevano sostenuto la mia formazione universitaria. Per questo scelsi di integrarmi nei processi mirati a trasformare le vittime di strutture alimentate dal commercio di carne umana in soggetti della costruzione di un nuovo Messico.

VI INVITO A PERMETTERVI FOLLIE E RIBELLIONI

(…). Quello che vi chiedo è di unirvi ai processi orientati a generare vita nella vostra patria, lasciando da parte i vantaggi personali. Non siete venuti all’università per pensare solo a voi stessi. Siate creativi nella costruzione del popolo portoricano; non aspirate a un progresso puramente personale, in qualche parte del mondo o negli Stati Uniti a cui è legato Porto Rico come Stato libero associato. Siate capaci di pensare in modo diverso, lasciatevi contagiare da quella che Platone chiamava “divina follia”, osando pensare al di fuori del modello sociale imperante.

(…). Capisco che siete stati/e formati/e in vista del disegno, dello sviluppo e della difesa di imprese e istituzioni di vario tipo, tanto pubbliche quanto private, secondo i criteri imposti dai loro dirigenti. Ma vi incoraggio a iniziare qualcosa di nuovo, qui, in questo Paese che vi ha visto nascere e crescere e vi ha formato professionalmente, creando microimprese i cui principi fondamentali siano quelli comunitari, non quelli della competizione e del primato sugli altri. (Rifiutate come criterio fondamentale quello per cui il padrone, l’azionista l’azionista e il funzionario di alto livello di queste imprese, debbano guadagnare molto di più degli operai, perché hanno diritto ad una abitazione migliore, a un’automobile migliore, a vestiti e cibo di qualità più alta. Tutto questo a spese del miserabile stipendio dell’impiegato e dell’operaio, del quartiere in cui vive, la fame e la mancanza di servizi che patisce lui o la sua famiglia e la salute e l’educazione che non hanno e che, alla fine, provocheranno negatività e insicurezza per quelli che li circondano e per la società.

Cristo disse un giorno che «la vita vale più del cibo e il corpo più del vestito», e che non dovremmo preoccuparci di cosa mangeremo e di cosa indosseremo, aggiungendo che di queste cose si preoccupano a dismisura quanti non credono in Dio. E faceva l’esempio dei corvi che «non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, e Dio li nutre». E anche dei gigli del campo che non filano e non tessono, eppure «neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» ( Lc 12,22-30). Gesù ci invita con queste parole a non preoccuparci del cibo solo rispetto alla vita personale, ma a pensare alla vita di tutte e di tutti, che per sopravvivere hanno bisogno dell’alimento necessario. Come pure a non preoccuparci unicamente del nostro corpo personale, ma del corpo di tutti coloro che hanno bisogno di vestiti. In tal modo non apprenderemo soltanto a mangiare più sobriamente, ma a preoccuparci che questo alimento arrivi a tutte e a tutti. E lo stesso vale per l’abito, perché sia modesto, cosicché tutte e tutti possano vestire degnamente.

Cosi dovete progettare le vostre imprese, non per avere abitazioni e veicoli di lusso, non per banchettare riccamente con ogni sorta di alimenti e bevande. Pensare a tutti/e ci porta a ricercare livelli di vita adeguati, che permettano a ciascuno, senza esclusione alcuna, di godere di quella vita dignitosa che spetta a ogni essere umano che nasce in questo mondo. Cercando per prima cosa il Regno di Dio, che è includente e pieno di giustizia, tutto il resto ci sarà dato in aggiunta (Lc 12,31). Non possiamo continuare a pensare che sia normale vedere tante persone condannate alla povertà, a una miseria irredimibile, mentre altre vivono nell’opulenza. Abbiate l’audacia di ribellarvi al modello di società imperante e di lavorare per un modello distinto, in cui la terra compia la funzione assegnatale da Dio quando pose gli esseri umani a vivere in essa, per coltivarla e amministrarla (cfr. Gen 1,26-29; Sap 9,1-3). Questo pianeta è la casa di tutta la famiglia umana. Costruite così la porzione di mondo in cui siete nati e in cui vivete.

Vi dicevo che, da giovane, a un certo punto mi rifiutai di integrarmi a processi che generavano miseria e morte. Oggi, malgrado io sia un vescovo, con i miei limiti e la mia moderazione, sento che tale ribellione non si è spenta nel mio cuore: lavoro e lotto per un mondo in cui tutte e tutti operino a favore dell’uguaglianza di ogni essere umano, di ogni gruppo, di ogni popolo, di ogni nazione, nel rispetto dei diritti fondamentali e della nostra dignità come persone. I diritti umani sono inerenti alla nostra natura e ciò non solo viene accettato da quanti credono nel Vangelo di Gesù, ma è anche consacrato nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, sottoscritta dalla grande maggioranza delle nazioni del mondo. Dichiarazione che siamo chiamati a promuovere e a far valere insieme ad altre dichiarazioni e ad altri trattati. (…).

L’omelia di Papa Francesco a Lampedusa

“Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte”. Così il titolo nei giornali. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta per favore. Prima però vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi, abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà. Grazie!

Grazie anche all’Arcivescovo Mons. Francesco Montenegro per il suo aiuto e il suo lavoro e la sua vicinanza pastorale. Saluto cordialmente il sindaco, signora Giusy Nicolini. Grazie tante per quello che lei ha fatto e fa. Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che stanno oggi, alla sera, iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie.

Questa mattina alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti. «Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei, Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello. Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza; tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.

«Dov’è tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà – e le loro voci salgono fino a Dio. E un’altra volta a voi, abitanti di Lampedusa, ringrazio per la solidarietà! Ho sentito recentemente uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui, sono passati per le mani dei trafficanti, quelli che sfruttano la povertà degli altri; queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto. E alcuni non sono riusciti ad arrivare.

«Dov’è tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno. Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro.

Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto. «Adamo dove sei?», «Dov’è tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?», chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere. Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo. «Chi ha pianto?», chi ha pianto oggi nel mondo?.

Signore in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo, Padre, perdono per chi si è accomodato, si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore; Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratello?».”

 

Il discorso di Malala all’Onu

Pubblichiamo il testo integrale del discorso che Malala Yousafzai –  la giovane pakistana colpita alla testa e al collo da un colpo di pistola esploso da un talebano il 9 ottobre del 2012 –   ha tenuto il 12 luglio scorso nella sede di New York delle Nazioni Unite, nel giorno del suo sedicesimo compleanno, durante l’Assemblea della Gioventù.

“Onorevole Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon, spettabile presidente dell’Assemblea Generale Vuk Jeremic, onorevole inviato speciale delle Nazioni Unite per l’istruzione globale Gordon Brown, rispettati anziani e miei cari fratelli e sorelle:

Assalamu alaikum (la pace sia con voi).

Oggi è un onore per me tornare a parlare dopo un lungo periodo di tempo. Essere qui con persone così illustri è un grande momento nella mia vita ed è un onore per me che oggi sto indossando uno scialle della defunta Benazir Bhutto. Non so da dove cominciare il mio discorso. Non so cosa la gente si aspetti che dica, ma prima di tutto voglio ringraziare  Dio per il quale siamo tutti uguali e ringraziare tutti coloro che hanno pregato per una mia veloce guarigione e una nuova vita. Non riesco a credere quanto amore le persone mi hanno dimostrato. Ho ricevuto migliaia di cartoline di auguri e regali da tutto il mondo. Grazie a tutti. Grazie ai bambini le cui parole innocenti mi hanno incoraggiato. Grazie ai miei anziani le cui preghiere mi hanno rafforzato. E grazie agli infermieri, ai medici e al personale degli ospedali in Pakistan e nel Regno Unito e il governo degli Emirati Arabi Uniti che mi hanno aiutato a stare meglio e a riprendere le forze.

Sono qui per dare tutto il mio appoggio al segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon nella sua Iniziativa Globale “Prima l’istruzione” e al lavoro dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per l’Educazione Globale Gordon Brown. Li ringrazio per la leadership che continuano a esercitare. Essi continuano a stimolare tutti noi all’azione. Cari fratelli e sorelle, ricordiamo una cosa: il Malala Day non è il mio giorno. Oggi è il giorno di ogni donna, ogni ragazzo e ogni ragazza che hanno alzato la voce per i loro diritti.

Ci sono centinaia di attivisti per i diritti umani e operatori sociali che non solo parlano per i loro diritti, ma che lottano per raggiungere un obiettivo di pace, educazione e uguaglianza. Migliaia di persone sono state uccise dai terroristi e milioni sono state ferite. Io sono solo una di loro. Così eccomi qui, una ragazza come tante. Io non parlo per me stessa, ma per dare voce a coloro che meritano di essere ascoltati. Coloro che hanno lottato per i loro diritti. Per il loro diritto a vivere in pace. Per il loro diritto a essere trattati con dignità. Per il loro diritto alle pari opportunità. Per il loro diritto all’istruzione.

Cari amici, il 9 ottobre 2012, i talebani mi hanno sparato sul lato sinistro della fronte. Hanno sparato ai miei amici, anche. Pensavano che i proiettili ci avrebbero messi a tacere, ma hanno fallito. Anzi, dal silenzio sono spuntate migliaia di voci. I terroristi pensavano di cambiare i miei obiettivi e fermare le mie ambizioni. Ma nulla è cambiato nella mia vita, tranne questo: debolezza, paura e disperazione sono morte; forza, energia e coraggio sono nati. Io sono la stessa Malala. Le mie ambizioni sono le stesse. Le mie speranze sono le stesse. E i miei sogni sono gli stessi.

Cari fratelli e sorelle, io non sono contro nessuno. Né sono qui a parlare in termini di vendetta personale contro i talebani o qualsiasi altro gruppo terroristico. Sono qui a parlare per il diritto all’istruzione per tutti i bambini. Voglio un’istruzione per i figli e le figlie dei talebani e di tutti i terroristi e gli estremisti. Non odio nemmeno il talebano che mi ha sparato.

Anche se avessi una pistola in mano e lui fosse in piedi di fronte a me, non gli sparerei. Questao è il sentimento di compassione che ho imparato da Maometto, il profeta della misericordia, da Gesù Cristo e Buddha. Questa è la spinta al cambiamento che ho ereditato da Martin Luther King, Nelson Mandela e Mohammed Ali Jinnah. Questa è la filosofia della non violenza che ho imparato da Gandhi, Bacha Khan e Madre Teresa. E questo è il perdono che ho imparato da mio padre e da mia madre. Questo è ciò che la mia anima mi dice: stai in pace e ama tutti.

Cari fratelli e sorelle, ci rendiamo conto dell’importanza della luce quando vediamo le tenebre. Ci rendiamo conto dell’importanza della nostra voce quando ci mettono a tacere. Allo stesso modo, quando eravamo in Swat, nel Nord del Pakistan, abbiamo capito l’importanza delle penne e dei libri quando abbiamo visto le armi. Il saggio proverbio “La penna è più potente della spada” dice la verità. Gli estremisti hanno paura dei libri e delle penne. Il potere dell’educazione li spaventa. Hanno paura delle donne. Il potere della voce delle donne li spaventa. Questo è il motivo per cui hanno ucciso 14 studenti innocenti nel recente attentato a Quetta. Ed è per questo che uccidono le insegnanti donne. Questo è il motivo per cui ogni giorno fanno saltare le scuole: perché hanno paura del cambiamento e dell’uguaglianza che porteremo nella nostra società. Ricordo che c’era un ragazzo della nostra scuola a cui un giornalista chiese: “Perché i talebani sono contro l’educazione dei ragazzi?”. Lui rispose molto semplicemente: indicò il suo libro e disse: “I talebani non sanno che cosa c’è scritto in questo libro”.

Loro pensano che Dio sia un piccolo esseruccio conservatore che punterebbe la pistola alla testa delle persone solo per il fatto che vanno a scuola. Questi terroristi sfruttano il nome dell’islam per i propri interessi. Il Pakistan è un Paese democratico, amante della pace. I Pashtun vogliono educazione per i loro figli e figlie. L’Islam è una religione di pace, umanità e fratellanza, che dice: è un preciso dovere quello di dare un’educazione a ogni bambino. La pace è necessaria per l’istruzione. In molte parti del mondo, in particolare il Pakistan e l’Afghanistan, il terrorismo, la guerra e i conflitti impediscono ai bambini di andare a scuola. Siamo veramente stanchi di queste guerre. Donne e bambini soffrono in molti modi in molte parti del mondo.

In India, bambini innocenti e poveri sono vittime del lavoro minorile. Molte scuole sono state distrutte in Nigeria. La gente in Afghanistan è colpita dall’estremismo. Le ragazze devono lavorare in casa e sono costrette a sposarsi in età precoce. La povertà, l’ignoranza, l’ingiustizia, il razzismo e la privazione dei diritti fondamentali sono i principali problemi che uomini e donne devono affrontare.

Oggi, mi concentro sui diritti delle donne e sull’istruzione delle ragazze, perché sono quelle che soffrono di più. C’è stato un tempo in cui le donne hanno chiesto agli uomini di difendere i loro diritti. Ma questa volta lo faremo da sole. Non sto dicendo che gli uomini devono smetterla di parlare dei diritti delle donne, ma il mio obiettivo è che le donne diventino indipendenti e capaci di combattere per se stesse. Quindi, cari fratelli e sorelle, ora è il momento di alzare la voce. Oggi invitiamo i leader mondiali a cambiare le loro politiche a favore della pace e della prosperità. Chiediamo ai leader mondiali che i loro accordi servano a proteggere i diritti delle donne e dei bambini. Accordi che vadano contro i diritti delle donne sono inaccettabili.

Facciamo appello a tutti i governi affinché garantiscano un’istruzione gratuita e obbligatoria in tutto il mondo per ogni bambino. Facciamo appello a tutti i governi affinché combattano il terrorismo e la violenza. Affinché proteggano i bambini dalla brutalità e dal dolore. Invitiamo le nazioni sviluppate a favorire l’espansione delle opportunità di istruzione per le ragazze nel mondo in via di sviluppo. Facciamo appello a tutte le comunità affinché siano tolleranti, affinché rifiutino i pregiudizi basati sulle casta, la fede, la setta, il colore, e garantiscano invece libertà e uguaglianza per le donne in modo che esse possano fiorire. Noi non possiamo avere successo se la metà del genere umano è tenuta indietro. Esortiamo le nostre sorelle di tutto il mondo a essere coraggiose, a sentire la forza che hanno dentro e a esprimere il loro pieno potenziale.

Cari fratelli e sorelle, vogliamo scuole e istruzione per il futuro luminoso di ogni bambino. Continueremo il nostro viaggio verso la nostra destinazione di pace e di educazione. Nessuno ci può fermare. Alzeremo la voce per i nostri diritti e la nostra voce porterà al cambiamento. Noi crediamo nella forza delle nostre parole. Le nostre parole possono cambiare il mondo, perché siamo tutti insieme, uniti per la causa dell’istruzione. E se vogliamo raggiungere il nostro obiettivo, cerchiamo di armarci con l’arma della conoscenza e di farci scudo con l’unità e la solidarietà.

Cari fratelli e sorelle, non dobbiamo dimenticare che milioni di persone soffrono la povertà, l’ingiustizia e l’ignoranza. Non dobbiamo dimenticare che milioni di bambini sono fuori dalle loro scuole. Non dobbiamo dimenticare che i nostri fratelli e sorelle sono in attesa di un luminoso futuro di pace.

Cerchiamo quindi di condurre una gloriosa lotta contro l’analfabetismo, la povertà e il terrorismo, dobbiamo imbracciare i libri e le penne, perché sono le armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo. L’istruzione è l’unica soluzione. L’istruzione è la prima cosa. Grazie”.

 

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