Lettera 24 (Prima Serie)

Agli Amici

Cari amici,

avevamo preparato questo lavoro ancor prima che cominciasse il terzo Sinodo Episcopale e senza alcun riferimento diretto ad esso.

Ora, tuttavia, nel costatare quanto stia divenendo centrale nello svolgimento dei lavori sinodali il tema del sacerdozio ministeriale e come, via via, si vadano ponendo sul tappeto, da parte di molti rappresentanti delle Conferenze episcopali, i problemi più significativi che ad esso attengono, ci sentiamo ancor più convinti di quanto abbiamo scritto e incoraggiati a comunicare le nostre riflessioni ai fratelli proprio in questo momento. Riteniamo, a tale proposito, che il Sinodo non costituisca solo un importante momento collegiale dell’episcopato, ma un’occasione per tutti i cristiani per prendere più intensamente coscienza della missione salvifica della Chiesa e del conseguente atteggiamento di servizio che ad essa è richiesto. Ciò affinché l’episcopato, nel lasciarsi guidare dallo Spirito, “il quale distribuisce i Suoi doni a ciascuno come vuole” (I Cor., 12-11), possa cogliere il Suo soffio nella Sapienza del popolo di Dio. Perciò tutte le Chiese sono chiamate, ancor più in questo momento, a vivere nella santità e nella giustizia e ad offrire anche un contributo di pensiero ai vescovi. E se può rattristare il fatto che qualcuno fra questi concepisca la sua presenza nell’assise sinodale come espressione di un mandato di natura parlamentaristica, ciò non dovrà essere motivo di sconforto per le comunità cristiane, bensì di maggior impegno a rendere testimonianza allo Spirito di Verità.

Con questo intendimento vi presentiamo il nostro modesto lavoro, perché sia per tutti motivo di riflessione e di incoraggiamento a vivere nella Chiesa con maggior senso di responsabilità.

Vi salutiamo fraternamente

Gli amici di “la tenda”

Chi è Prete Romano

La presente riflessione si divide in tre parti:

1°) Rilievi ed alcuni documenti del Consiglio presbiterale romano

riguardanti l’identificazione del clero di Roma.

2°) Alcune nostre prospettive di ricerca sul medesimo argomento.

3°) Due aspetti particolari della funzione sacerdotale e la garanzia del loro

esercizio.

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1°) Documenti del Consiglio presbiterale romano sulla identificazione del presbiterio.

Un gruppo di studio del Consiglio presbiterale romano ha ricevuto il compito di tentare di individuare i criteri in base ai quali possa determinarsi chi è prete della diocesi di Roma.

Abbiamo dinanzi tre documenti successivi così intestati: “Vicariato di Roma – Consiglio Presbiteriale – Gruppo di studio n°. 1: autentica fisionomia del presbiterio della chiesa locale”. Si ponga, mente a questo titolo, che meriterebbe da sé solo uno studio. Per ora diciamo appena che la chiesa locale di Roma non è un “Vicariato”, ma una diocesi vera e propria (comprendente anche la Città del Vaticano e la Basilica di San Pietro: Sinodo romano, art. 11; v. La Tenda, 21 pag. 9). Il Consiglio Vaticano II prevede un Consiglio presbiterale della diocesi, non uno del Vicariato, ameno di definirlo già “In capite libri”o come un organo di ufficio o come riguardante una sola parte della diocesi togliendogli intanto, ogni competenza sui problemi globali della Chiesa locale romana nella Sua interezza. Ma andiamo avanti.

I tre documenti sono i seguenti:

1°) Doc. A (la denominazione per lettere è nostra) composto di cinque pagine, inviato al clero intorno all’aprile-maggio 1971. Comprende una breve “premessa” sui principi in base ai quali si può identificare un prete. Segue una lunga enumerazione di attività svolte dal clero ed un elenco di problemi (vita spirituale e culturale, previdenza sociale della categoria, come tenere unito il Clero di Roma). Su questo documento lavora il gruppo di studio che decide subito di restringere l’attenzione alla “premessa” di esso. Si ritiene, infatti, troppo ampia la materia di tutto il documento perché se ne possa fare oggetto di discussione approfondita in riunione plenaria del presbiterio. Del resto nella “premessa” viene individuato un problema di fondo di capitale importanza, come vedremo. Ne risulta il

2°) Doc. B, che rielabora appunto la sola premessa del doc. A. Porta il titolo generale di “Autentica fisionomia del presbiterio nella chiesa locale. Introduzione”.

E’ composto di due pagine, è inviato al clero a fine maggio 1971 e proposto come base i discussione alla seduta plenaria del Consiglio presbiterale del 17/VI/1971.

3°) Doc. C, lo stesso documento precedente con le correzioni approvate nella detta seduta

plenaria del 17/VI/1971 e pubblicato in Rivista Diocesana di Roma, 1971, 7-8, pag. 799.

Esaminiamo parallelamente i doc. B e C, quello cioè effettivamente discusso e quello approvato.

Iniziamo con la constatazione di fatto che a Roma sono presenti due tipi di servizio sacerdotale. Ecco i testi paralleli (sottolineature nostre):

B

  1. “I sacerdoti al Servizio del Papa, come capo della chiesa universale (Curia romana, uffici centrali, organismi internazionali, omissis)
  2. I sacerdoti al Servizio del Papa, come Vescovo di Roma (sacerdoti secolari e religiosi in cura d’anime, insegnanti di religione, cappellani vari, omissis)”.

C

  1. “Sacerdoti secolari e religiosi al Servizio della Chiesa universale in dipendenza e collaborazione con il Papa, capo della Chiesa.
  2. I Sacerdoti secolari e religiosi al servizio della diocesi in Comunione con il Papa, Vescovo di Roma”.

Possiamo ascrivere a mancanza di vocabolario la difficoltà che si incontra nel nominare i rapporti diocesi-clero-vescovo, ma questa dei “Sacerdoti al Servizio del Papa” è sembrata troppo grossa anche al consiglio presbiterale. Si è trovato perciò, necessario correggere nel Doc. C la forma. I membri del gruppo di studio estensori del Doc. B hanno mostrato una ben singolare concezione del rapporto prete-vescovo. Ma, ripetiamo, preferiamo attribuire la cosa al difficile sorgere di un retto vocabolario in “figure ecclesiali” soggette a tensioni di ogni tipo e solo da poco riestratte da scaffalature teologiche cinquecentesche. Chiuso l’incidente proseguiamo. Fatta eccezione per questo “lapsus calami” il Doc. B si rivela nel resto migliore della sua bella copia C.

B

“Questi due tipi diversi di servizio sacerdotale che si possono ricondurre a due diversi servizi nell’ambito della stessa realtà ecclesiastica romana:

C

“Questi due tipi diversi di servizio sacerdotale che si possono ricondurre a due diversi servizi nell’ambito della stessa realtà ecclesiale romana:

 

possono essere e realizzare un unico presbiterio? O sono due presbiteri distinti, perché riferiti a due distinti e scindibili aspetti dell’autorità del romano pontefice?

Si rimanda ad un approfondimento successivo tutta questa problematica e ci si limita ora ad esaminare l’aspetto più tipicamente pastorale della diocesi”.

Non c’è dubbio che con tutta la “nonchalance” possibile un problema di fondo è stato posto a Roma e sono due ordini sacerdotali separati! Senza far vedere, di passaggio, senza insistere, il gruppo di studio estensore di B ha buttato là il problema. Si affretta a dire che non vuole discutere, che se parlerà poi, che “si rimanda ad approfondimenti successivi”. Ma intanto si toglie anche la soddisfazione di chiamare “ecclesiastica” tutta questa realtà, indicando che in sede di discussione alcune parti della “realtà” sarà in grado di storicizzarle e giudicarle. Il Doc. C non contrasta tutta la frase, si limita ad una piccola correzione: “ecclesiastica” diventa “ecclesiale”. Così con un leggero tocco di penna una realtà presentata come dato sociologico da discutere diventa un fatto con una qualifica teologica già acquisita.

Tutta l’analisi, tutta la problematica del Doc. B-C è in queste brevi frasi. Ben poca cosa, eppure ci si potrebbe dire già contenti dell’aver essi centrato uno dei problemi del rapporto clero-vescovo di Roma, se mai ne rimanesse qualcosa per gli “approfondimenti successivi”. Si faranno? Vedremo più oltre su cosa poggiano le nostre speranze. Procediamo velocemente.

I Doc. B e C sanno di non poter procedere molto sui problemi di fondo e delimitano un campo di interesse più ristretto: “Scopo pratico e immediato resta quindi quello di individuare le persone ed i servizi che, secondo le finalità proprie di ogni presbiterio, concorrono corresponsabilmente alla necessità ed allo sviluppo della vita cristiana della diocesi”.

Problemi, come si è detto, niente. Quello che interessa, lo “scopo pratico”, è l’individuare chi concorra”. Non si può fare a meno di pensare che quando un consiglio presbiterale si riduce ad un livello puramente operativo e funzionale si merita l’intestazione che ha avuto: “Vicariato di Roma – Consiglio presbiteriale”.

I documenti sono ormai privi di interesse e persino di connessione interna. Dopo aver rinunciato a cercare i problemi e dopo aver pregiudicato e accantonato l’unico indicato che senso ha intitolare a pag. 2 “Principi per l’identificazione del presbiterio”. Identificazione di chi? In base a che? Eppure andiamo avanti.

Vengono tuttavia enunciati due criteri per identificare un prete della diocesi:

a) una valida ordinazione;

b) “una opzione e impegno personale di servizio alla chiesa diocesana accolta dal

vescovo”. B aggiunge: “Si auspica che tutto ciò (l’ordinazione, e l’accettazione del vescovo, noi pensiamo, ndr.) avvenga con l’eventuale ascolto del presbiterio”. Piccola, timida insinuazione a chiamare il clero già ordinato a dire qualcosa in merito alle nuove cooptazioni nel collegio dei preti.

Neanche a dirlo, la frase sparisce in C.

Pur mantenendo verso la figura del Consiglio presbiterale un giudizio negativo di fondo che più oltre giustificheremo, abbiamo dato credito più volte a quello di Roma e ci aspettavamo ben altro dal suo impegno di autoriflessione sulla figura del prete romano. Vogliamo ancora pensare che il Consiglio Presbiterale romano stia pazientemente cercando se stesso e la forza per dialogare e che ci vuol tempo. Sappiamo che conta persone capaci. Sapranno fa tesoro della esperienza, sapranno non sottovalutare la forza ipnotica che la struttura finisce per esercitare sugli interlocutori, saprà autogiudicarsi sulla base di ciò che riesce a produrre? Provare, riprovare, ma poi bisogna esaminare i frutti della propria azione e decidere se insistere. Tanto più che in capo a tre anni la normale rotazione dei membri porterà il rodaggio del Consiglio presbiterale di nuovo al chilometro zero.

C’è qualcosa che fondi in noi la speranza, che si affronteranno le questioni di fondo? Sì, la speranza cristiana che non ha basi su documenti ma che aspetta il dono del Padre, quando non ci sarà più in noi alcuna speranza nella forza e nella volontà degli uomini. Per questo speriamo, noi che non vediamo dove appoggiare un’altra speranza.

E siccome sperare significa lavorare sperando ecco che ci applichiamo a nostra volta a libere considerazioni sul problema “chi è prete romano”. Aspetti quantitativi e descrittivi furono già oggetto di nostri piccoli lavori (La Tenda n.ri 1, 2, 3, 5, 8). Questa volta veniamo al dunque.

2°) Alcune nuove prospettive di ricerca sul problema: “chi è prete romano”.

Esaminando poco più su i documenti del Consiglio presbiterale, abbiamo trovato l’indicazione di due criteri adatti ad individuare un prete della diocesi di Roma. Erano: 1) una valida ordinazione e 2) una libera opzione del soggetto ad esercitare il servizio sacerdotale nella diocesi di Roma.

Un terzo criterio veniva indicato, ma solo a metà: l’accettazione del Vescovo (dell’altra metà, l’accettazione della comunità, nulla). I documenti hanno inoltre posto l’accettazione del vescovo contestualmente alla opzione del soggetto (dicono: “un impegno-opzione personale di servizio alla chiesa locale, accolto dal vescovo”, doc. C). Riemerge una concezione del presbiterato come rapporto bilaterale e per di più dove uno solo s’impegna, l’altro accetta. Il doc. B aveva tentato di reintrodurre la responsabilità della comunità sia pure in forma di “eventuale” “auspicato” “ascolto del presbiterio”, quindi in una forma assai precaria e ristretta al solo contributo presbiterale, mentre persino il rito della ordinazione sacerdotale comporta una esplicita approvazione della comunità tutta. Ma come vedemmo provvide subito a cancellare tutta la frase.

In ogni caso i tre sullodati criteri:

  1. valida ordinazione;
  2. opzione del soggetto a fare il prete in una data chiesa locale e
  3. accettazione del vescovo e della comunità, sono criteri validi per riconoscere un normale inizio della esistenza presbiterale. Con quei tre criteri potremmo contare quante persone hanno iniziato un servizio sacerdotale nella diocesi. Ma la domanda è un’altra: quanti e quali sono i preti che oggi esercitano la funzione sacerdotale a Roma ?

Con buona pace di tutto quanto detto e scritto finora, noi partiremo da un unico, diverso criterio: le attuali celebrazioni delle eucaristie di base. Chi sono i preti di Roma ? Risponderemo: coloro che abitualmente guidano oggi le normali eucaristie di base in comunione non interrotta col vescovo della diocesi (diocesi oggi identificata da un territorio, data di partenza che al momento assumiamo senza fare questioni).

Spieghiamoci meglio. Schematicamente parlando poniamo un territorio diocesano con i suoi cristiani ed il loro vescovo. I cristiani si riuniscono nelle eucaristie domenicali. I presbiteri che le “dirigono” sono il presbiterio della diocesi: non uno di più, non uno di meno.

Approfondiamo subito il contenuto reale di questa “presidenza” del prete. Non si tratta di aprire un messale e di recitare una Messa. L’eucaristia è un atto in cui vengono ammesse a “comunicare” tra loro, con tutta la chiesa e quindi con Cristo nello Spirito, cristiani che hanno una personalità assolutamente propria e non tanto per originalità naturale quanto per la sovrabbondante ricchezza dello stesso Spirito che ha creato “quella” personalità cristiana. Puerilmente esemplificando: i tre cristiani con i quali il prete X celebra si portano il primo un modo suo di risolvere il problema della paternità responsabile, il secondo una sua opzione tra i partiti ed i sindacati che il mercato nazionale presenta, il terzo l’esercizio di una morale professionale con i compromessi che di volta in volta la realtà impone. Qualcuno dirà che X è un prete discretamente sfortunato se incontra tre cristiani così problematici e tutti in una volta. A noi pare invece che gli sia andata ancora bene. Infatti le persone psicologicamente normali che entrano in chiesa hanno tutti e tre quei problemi insieme, con relative discordanti soluzioni e in tutte le combinazioni possibili.

Ora il presbitero fa ben più che tenere un sermoncino a tutti e tre (o più) i presenti. Li accetta nella comunione della eucaristia di base con gli altri fratelli e riconosce così le loro soluzioni di vita come valide espressioni dello Spirito Santo. Dà così a ciascuno il conforto di una seconda garanzia, quella della comunità, dopo quella che ognuno già ha nella corrispondenza della sua decisione con la coscienza personale. In più il sacerdote si impegna a portare in sede di riunione di presbiterio unito al Vescovo questa decisione sua e della comunità di tenere per buono un certo comportamento del singolo, e di chiarirne la portata, diremmo quasi di difenderne la legittimità (non la verità), in vista di un ritorno alla propria eucaristia di base e al singolo con la consolazione di una approvazione, di una terza garanzia, che raggiunge i limiti della comunità diocesana, e attraverso la comunione dei vescovi l’infallibile comunità di tutta la chiesa. (E, di passaggio, ci si perdonino i termini di “conforto”, “consolazione” usati, ma chi ha affrontato nel profondo problemi come quelli indicati negli esempi sa che nella chiesa proprio quelle cose ha cercato, una consolante, confortante partecipazione fraterna alle sue scelte). Nell’esemplificazione abbiamo seguito piuttosto una linea ascendente. Il presbitero è nello stesso tempo parte di una linea discendente che viene dalla libera, generosa, gratuita rivelazione di Gesù Cristo che continua nella Sua chiesa. Pur non essendo questo ovviamente il luogo per sintesi teologiche complessive, va detto, a scanso di equivoci, che funzione del presbitero è anche il partecipare alla base tutto il complesso di tradizioni, verità e comportamenti che ha la comunità radicata in Cristo. Del resto la chiave di volta è di un equilibrio perfetto: Giov. 16, 14: “Lo Spirito riceverà del mio e ve lo farà conoscere”.

Ecco dunque chi è un presbitero e come a nostro avviso si contano i presbiteri di una diocesi. Il vescovo e la comunità che accettano il tale come titolare di questa funzione presbiterale-eucaristica sono i due criteri, le due coordinate che si incrociano nell’atto eucaristico celebrato dal presbitero nel senso suddetto. Contare i preti di Roma vuol dire contare le eucaristie stabili, abituali, normali della città. Esse si prolungano in un incontro normale, abituale, stabile tra i presbiteri della diocesi. Se questi incontri non sono vivaci, dialogici, vorremmo dire effervescenti, vedremo i singoli cristiani andare alla deriva senza il confronto intraeucaristico pur se aggrappati alla coscienza personale, o vedremo andare alla deriva le comunità di base col loro prete qualora mancasse il dialogo tra i presbiteri col vescovo. Come anche va alla deriva dal resto della chiesa la diocesi che non accetta il dialogo interepiscopale. Ciò perché nessuno ha avuto da sé solo il dono della verità. Essa è stata promessa come il frutto dell’intero processo di comunicazione-comunione orizzontale e verticale, ascendente e discendente (“affinché siano perfetti nell’unità”, Giov. 17, 23, come tutto il Cap. 17, preghiera per l’unità nella verità. Trascuriamo in questa sede la funzione del primo dei vescovi).

Tornando a noi: la comunità-celebrazione può essere sclerotica, ritualista, adialogica quanto si vuole e quanto di fatto è, ma per la sua intrinseca natura rimane a nostro parere l’unico criterio per individuare un prete sia pure sclerotizzato, adialogico e ritualista a sua volta. Nella situazione attuale è un alibi derivare dalle cose come stanno dei criteri di pura e semplice catalogazione dei presbiteri per lasciare tutti al loro posto, come fa appunto il doc. A, assolutamente descrittivo. Non ha alcun valore fare una lunga lista di funzioni attualmente esercitate dal clero di Roma, come fa il doc. A, e ritenerle tutte buone per individuare un prete di Roma. È il più classico dei circoli viziosi, è davvero l’equazione ecclesiastico = ecclesiale. Bisogna piuttosto ricercare qual’è la sostanza della funzione sacerdotale (per noi l’Eucaristia) e poi verificare la posizione dei singoli cosiddetti preti. Il problema sarà allora di come riportare a funzioni naturali organi impigriti o deviati.

Qualche esempio prendendo per buona la nostra identificazione prete = capo di una eucaristia. Se Monsignor X, legittimamente ordinato ecc. ecc. , ha manovrato per tutta la settimana 100 miliardi (si fa per dire) della diocesi e domenica mattina ha confessato il nipotino e lo ha riammesso alla comunione, è questo atto che lo fa membro attuale del presbiterio ed è in merito a questo che deve rispondere al presbiterio riunito col Vescovo, se il piccolo, evidentemente ben dotato come lo zio, ha imposto a quest’ultimo di accettare come ecclesiale un comportamento che p.e. Domenico Savio avrebbe rifiutato.

E ciò a non essere pignoli con monsignore, perché il problema non è di avere qualche occasionale week-end per mantenere in esercizio la capacità sacerdotale, ma di guidare stabilmente una comunità. Per quanto riguarda i cento miliardi, ha svolto al massimo un’attività diaconale. (Il che poi è certo solo nel caso che li abbia distribuiti ai poveri, Atti 6; perché il diaconato non si definisce attribuendogli qualsiasi funzione non presbiterale. E qui non è il caso di affrontare i casi del diaconato, che non sono pochi).

A costo di fare cosa sgradita a molti diremo che a nostro modo di pensare non fanno parte del presbiterio coloro che esercitano solo funzioni amministrative, persino di controllo e distribuzione del clero, financo catechetiche e di evangelizzazione (affermazioni certo da sgrossare). Sacerdote è chi comunica e scomunica e tanti sono i preti quante le eucaristie di base. Chi non celebra vere comunioni tra cristiani non ha motivo di partecipare alla assemblea dei presbiteri col vescovo.

Evidentemente perché hanno un intrinseco aspetto di verifica dello stato dei soggetti riteniamo sacerdotale l’intervento in altri sacramenti come il battesimo e il matrimonio (ovviamente la penitenza). Qualche incertezza abbiamo su attività parasacramentali. Non sapremmo dire ad esempio se i sacerdoti impiegati all’ufficio matrimoni del Vicariato che autorizzano 25.000 matrimoni l’anno fanno parte a questo titolo del presbiterio romano. Ciò vorrebbe che essi esaminassero la interiore posizione dei nubendi, non ritenendo sufficiente la verifica delle figure giuridiche previste o non ritenendole necessarie in presenza di particolari situazioni di coscienza. Il che non sappiamo sia mai avvenuto, mentre sappiamo di rifiuti preliminari ad ogni dialogo. Si dirà che le forme consentite non ammettono casi oltre quelli previsti (la solita petizione di principio del diritto) e che l’esame dell’interiorità spetta ai parroci (beninteso nei…..limiti stabiliti). D’accordo: i parroci fanno parte del presbiterio, gli archivisti no. Ma forse hanno un nipotino per la domenica.

Insomma sulla porta dell’assemblea del clero ci dovrebbe essere uno a domandare: “Scusi, Lei, da quale Comunità di base proviene, di quale eucaristia è presidente ?”.

I preti dunque non sono individuati dal vescovo che li ordina validamente e li destina ad un qualche ufficio, ma da un vescovo che li ordina collegati ad una comunità di base (più o meno partecipe della scelta, qui non approfondiamo) nella quale comunità è abilitato ad ammettere ed escludere dall’eucaristia, cioè dalla comunità stessa. Il conto dei preti si fa contando le comunità (trascuriamo il caso di preti evangelizzatori, un problema da…Consiglio presbiterale quando vorrà esercitarsi sul serio e qualcuno lo proporrà).

Si vede bene quale punto cruciale sia la persona del presbitero nella vita della chiesa. Il presbitero è situato là dove si incontrano in comunione le “personalità spirituali” dei singoli cristiani (le eucaristie di base); è anche là dove un comportamento recepito nella comunità chiede di essere portato a conoscenza e accolto nella carità da altre comunità e dal Vescovo: il presbiterato quindi “è” l’esercizio di funzioni di giudizio e mediazione sollecitate dal continuo fiorire dello Spirito, funzioni provenienti e legittimate dalla partecipazione al Sacerdozio del Vescovo, trasmesso dall’unica radice, Cristo, lungo la discendenza ecclesiale (Vescovo – popolo di Dio).

Molte cose verranno in mente a voi come prolungamento di queste idee, ma alcune vogliamo esprimerle anche noi.

Primo: le dimensioni obbligate di un atto eucaristico sono quelle del dialogo umano (trascurando il caso di saltuarie riunioni generali del popolo cristiano). Mantenere “comunità” di base con decine di migliaia di “fedeli”, costruire luoghi di culto di dimensioni colossali, con altari sopraelevati a predicazione necessariamente microfonica, vuol dire contrastare il dialogo, le aperture e il confronto delle coscienze, la chiarificazione delle idee, vuol dire immobilizzare la chiesa. Sotto questo aspetto a Roma con l’attuale impostazione della edilizia sacra si sta strutturando, quartiere per quartiere, parrocchia per parrocchia, una vera non-chiesa.

Oggi non esiste a Roma un prete in grado di verificare l’appartenenza alla chiesa di coloro che chiedono per un motivo o per l’altro i sacramenti. Tutti coloro che lo vogliano vengono ammessi a qualsiasi sacramento senza alcuna seria possibilità di controllo sulla ortodossia e il comportamento. Quanto sia grave questa situazione traspare dall’accostare la suddetta sacramentalizzazione di massa con la realtà tratteggiata dalla “Indagine sulla religiosità dei romani” (che purtroppo non abbiamo ancora avuto modo di presentare). Resta un vero atto di coraggioso realismo del nostro Cardinale Vicario, cui la diocesi non ha ancora risposto con adeguati aggiustamenti della prassi pastorale. L’indagine verrà pubblicata nella estate 1970.

Secondo: lo scambio di idee e di Comunione tra presbiteri col vescovo impone anch’esso rapporti numerici umani. La diocesi di Roma con centinaia di preti escogita invece nel Consiglio presbiterale un dialogo per rappresentanza che ha come primo immediato effetto (salvo l’intenzione) l’esclusione dal dialogo diretto per tutti i non eletti. Ci sembra di dover dire che il Consiglio presbiterale è organo di natura sua antiecclesiale, adatto al massimo a periodi di transizione, un tentativo di sopravvivenza per diocesi a dimensioni anormali. Normale invece è l’assemblea di tutti i preti col vescovo. Se la diocesi diventa troppo grande occorre sdoppiarla. Bisognerà vincere la tentazione di tutti i direttori generali che anziché vedersi accanto un altro pari grado preferiscono avere due vicedirettori e poi magari cinque ausiliari, trentacinque prefetti, e così via….

Terzo: singolare è il caso di molti presbiteri che a Roma realizzano comunità di particolare impostazione. Sono più numerosi di quanto si creda e meritano una ricerca assai attenta, alla quale ci impegneremo prima o poi; in genere si costituiscono “piccole comunità” e rapporti di “sincero e puro cristianesimo”, con “relazioni umane” assai sviluppate e spesso con “impegni comunitari”. Più spesso svincolate dalla comunità parrocchiale, si assicurano una comunione diretta col Vescovo. Ipotizzano di essere il germe delle comunità cristiane del futuro. Quel che al momento ci sentiamo di rilevare è che legandosi direttamente al vescovo e trascurando il rapporto con la ”decadente struttura parrocchiale” stabiliscono di bel nuovo delle catene sacerdotali indipendenti (sia pure inizialmente di un solo anello) e comunicanti solo nel vertice. Presentano una curiosa doppia densità del termine “comunione”: all’interno della piccola comunità giunge fino a vita comune e impegni sociali di gruppo. Verso le altre comunità, pur legate al vescovo, chiusura per complesso di superiorità. Ovviamente così non ci si sente pesanti dei peccati delle altre comunità. Ma resta intatto il pericolo di essere usati come copertura a sinistra da una eventuale scaltra dirigenza, o di rendere possibile la comoda politica dei giri di valzer, o solo di essere tollerati in attesa di affondamento tra pareti mantenute impermeabili. In ogni caso si vive in isolamento sterilizzando se stessi dalla possibilità di agire all’interno della chiesa in cui pure si dice di restare. Queste comunità non curano il dialogo di base con il resto della diocesi, anzi la loro costituzione è spesso lo sbocco di difficili dialoghi presbiterali. Il fatto che queste comunità neppure siano sufficientemente conosciute nel resto della diocesi dice chiaramente come lo “splendido isolamento” possa agire contro le stesse intenzioni di rinnovamento della chiesa che i protagonisti hanno (o dicono di avere, o hanno il dovere di avere). E quando si pensa a certa politica del

“a Roma tutto calmo” si comprende quanti sospiri di sollievo si possano fare quando le “intuizioni profetiche” vanno a rincantucciarsi “a latere” della disprezzata struttura diocesana.

Quarto: i Candidati al presbiterato vengono educati, particolarmente a Roma, in totale distacco dal popolo cristiano, separati per anni in appositi istituti. Formati dal resto del corpo sacerdotale ( e spesso da una frazione particolarmente addestrata), saranno adatti a trasmetterne le opzioni tradizionali. Assai meno a favorire e difendere carismi personali. (Ma vedi qualche tentativo di rinnovamento in La Tenda 16, pag.3).

Quinto: pensiamo che quanto più il rapporto eucarisitico diverrà un atto concreto di comunione tra persone diverse ottenuto in comunità di base di dimensioni umane, nella mediazione di un presbitero, tanto più apparirà innaturale, sconveniente, cioè illecito, il far succedere presbiteri diversi alla guida della comunità. Portare a mediazione le coscienze nella eucaristia e riportarle alla seconda verifica nella riunione dei presbiteri postula una reale capacità di leggere e riesprimere quelle coscienze, il che si acquista solo nel contatto prolungato. Sostituire i preti come pedine vuol dire favorire l’individualismo, ostacolare la comunione, peccare insomma contro l’eucaristia. Si vede bene quali e quanti problemi e realtà vengono compromessi quando si tocca (o non si tocca) il fondo del rapporto vescovo-prete-comunità. A noi sembra opportuno dedicare subito un’altra parte del nostro lavoro alla quinta considerazione suesposta, la necessità di rapporto stabile tra prete e comunità. Riesaminando ancora le funzioni presbiterali e le garanzie che ne proteggono l’esercizio nella chiesa daremo una maggiore completezza all’oggetto principale di questa esposizione.

3°) Due aspetti della funzione presbiterale (giudizio e mediazione) e le garanzie del loro esercizio.

Dicevamo che nelle eucaristie di base si compie una positiva esclusione dalla comunione di coloro che hanno comportamenti che lo Spirito cristiano (vivente nella comunità, nel presbitero, nel vescovo) rifiuta. Ciò non toglie che dopo questa prima selezione restino nella comunione comportamenti contrapposti su piani diversi da quello religioso e che anche sul piano della fede e del comportamento il filtraggio non sia stato perfetto e uniforme.

Siedono dunque fianco a fianco politici di diversi partiti, gente con interessi economici oggettivamente contrastanti, con ideologie e filosofie contrapposte, anche con teologie e prassi differenti. Su costoro (come su quelli che ha escluso) il presbitero ha esercitato una funzione di giudizio verificando la presenza (rispettivamente l’assenza) della carità e della sua effettiva funzione annullatrice delle divisioni. Compiuta questa delicata verifica egli diventa, per così dire, sacerdote, celebrante: innalza la comunicazione e offerta al Padre, a lode, compie i segni della comunione. Il suo agire, perché legato al sacerdozio del Vescovo, è garanzia della presenza “eucaristica” di Cristo. (Qui nasce il problema della opportunità o meno per il prete di esprimere in proprio una ideologia, una filosofia, una azione di parte, persino una teologia, lui che riunirà nella liturgia domenicale gli uomini di tutte le parti. Questo problema lo nominiamo appena, avvertendo che non può essere affrontato in buona fede che da chi riconosce contestualmente ai laici pieno diritto al pluralismo delle idee e delle prassi di parte. Troppo facile sarebbe pretendere dal clero il silenzio e dai laici il partito unico, in politica e nel resto.

Terminata l’eucaristia di base l’opera del presbitero continua. Avere ammesso alla comunione qualcuno o averlo escluso comporta che egli riporti nel collegio presbiterale quanto ha approvato o riprovato. Non deve difendere come vero tutto ciò che ciascuno ha fatto ma deve difenderne la legittimità. Sia ad esempio il nostro caso: noi che prepariamo il foglio de La Tenda abbiamo le nostre idee. I presbiteri delle Comunità cristiane che frequentiamo le conoscono e tuttavia ci mantengono nella Comunione. Siamo automaticamente certi di essere in comunione piena (seppur sempre in verifica reciproca) con tutti i fratelli nella chiesa. E abbiamo dato ai nostri preti tutti gli elementi che hanno ritenuto doverci chiedere per giustificare il loro darci comunione e per esporre le nostre idee al vescovo o ai presbiteri che crederanno doversi informare su di noi. Non che debbano difendere le nostre tesi, ma solo difendere che uno con le nostre idee non può essere solo per questo allontanato dall’eucaristia. Il che ci basta, finché i nostri preti non torneranno dalle riunioni del presbiterio convinti a negarci la Comunione.

Tornando a parlare in generale affrontiamo il nocciolo della questione: può nascere tensione tra laici e prete, e tra prete e altri preti o vescovo. Ci limitiamo al secondo caso: possibilità di disaccordo tra un prete e il resto del collegio presbiterale. Trascuriamo anche il problema delle materie discutibili o indiscutibili, materie di competenza laicale o meno. La nostra attenzione è rivolta alla forma del procedimento ecclesiale.

Si supponga che un prete con la sua comunità abbia ammesso alla comunione un tale cristiano che ha assunto un comportamento nuovo, discutibile, inusitato nella chiesa. Il prete deve riferire e chiarire davanti a presbiterio e vescovo. Infine si deve decidere: comunione o scomunica. Non c’è terza via.

Un procedimento tanto semplice che porta in due mosse a dire sì o no a persone concrete su posizioni concrete può far paura, e chi temesse il continuo doversi compromettere cercherebbe vie intermedie, consigli bonari, avvisi fraterni, abbracci paterni. E anche promozioni, rimozioni, trasferimenti.

Si vede bene che nel normale procedimento di comunicazione-comunione (posto che funzioni) il prete si trova in una posizione delicata e diremmo precaria se non esistessero reali garanzie alla tranquillità di esercizio della sua funzione.

L’unica vera garanzia è che lui e gli altri abbiano piena consapevolezza della funzione ecclesiale del prete e la volontà di rispettarla. Il prete è ben più che “a servizio del papa ecc.”. Solo una continua autocritica su quel che si implica quando si preme sulla funzione del presbitero da una parte e dall’altra può evitare veri peccati contro la chiesa. Sia da parte del laico che superficialmente facesse a meno del comportamento propostogli dal presbitero in reale contatto col vescovo e con la tradizione della discendenza episcopale, sia da parte del vescovo che non rispettasse la reale capacità di mediazione e di giudizio del prete che condivide con lui lo stesso Spirito e lo stesso sacerdozio ed è in contatto con la non meno reale tradizione della comunità di base e con lo Spirito che vive e fruttifica in ogni cristiano.

Detto che in fondo l’unica garanzia sta nella meditazione interiore sulle realtà ecclesiali con le quali si ha a che fare, dirigiamo però l’attenzione su due figure giuridiche poste dal diritto canonico a difesa ausiliaria dell’esercizio delle funzioni sacerdotali: la “inamovibilità” e la “incardinazione”.

Primo: il parroco legittimamente nominato è inamovibile. Purtroppo il diritto non accetta il valore delle realtà teologiche: “Il prete ordinato e celebrante l’eucaristia” per essere considerato dal diritto deve risultare “il parroco legittimamente nominato”.

Questo parroco dunque, secondo il diritto, non può essere rimosso o trasferito se non per regolare processo, quindi con giudizio sul merito del suo operato. Questo dettato della legge garantisce il legame prete-comuntà da ingiustificati rifiuti della comunità e da eventuali soprusi del vescovo.

Secondo: il prete è legato, incardinato alla sua diocesi dal giorno della sua ordinazione. Così mai più un vescovo può liberarsene mandandolo fuori diocesi. Giungendo in diocesi un vescovo appena nominato (attualmente da Roma e perciò forse in contrasto con la chiesa locale), quel vescovo trova non solo dei cristiani già tali da parecchio ma anche dei preti con i quali non resta che dialogare. La incardinazione garantisce il legame prete-diocesi.

Si noti che quasi paradossalmente il diritto canonico attuale si preoccupa più del legame prete-comunità di base e prete-diocesi che del legame vescovo-diocesi, a tutt’oggi assai precario.

Tutte e due queste garanzie della funzione presbiterale vengono però largamente violate, e in maniera speciale a Roma dove persino i due concetti giuridici sono obsoleti. A riguardo di questa ultima affermazione si osservi che nel Sinodo romano del 1960 l’inamovibilità non è neppure nominata e l’incardinazione è espressa in tre articoli generalissimi.

L’inamovibilità dunque proteggeva il legame eucaristico tra prete e comunità di base. Ci sono è vero molti motivi per ritenere che un legame giuridico sia pericoloso se troppo stretto, ma la necessità di riesprimere l’involucro giuridico non sarà mai un motivo per manomettere il rapporto eucaristico soggiacente.

Di fatto mettendo in mora l’istituto giuridico (la mano più svelta dell’occhio) si turbano i rapporti clero-comunità che lo Spirito ha costruito con la lentezza delle cose umane, che il diritto poteva aiutare a custodire, non però inglobandoli per trascinarli con sé in eventuali revisioni legislative.

Venendo al pratico, siamo dell’idea che ancor oggi un prete che viene mandato da un’eucaristia all’altra ha il dovere di discutere col vescovo il suo trasferimento, perché si tratta di un trapianto in corpore vivo che vuole almeno il consenso dell’organo trapiantato se non quello della comunità donante. E il prete che dice: “non decido senza parlare con la mia comunità” ha tanto di virtù quanto ne ha l’altro che giungendo in parrocchia dice: “non farò nulla che non ridiscuterò col presbiterio e col vescovo”. Pertanto riteniamo assolutamente estranea alla chiesa la prassi del vicariato di Roma (in via di lento miglioramento solo nell’evitare le forme più odiose) di compiere i trasferimenti e le attribuzioni dei preti alla comunità con semplici comunicazioni amministrative.

Altrettanto singolare è la prassi che si tiene a Roma quanto al legame fisso tra prete e diocesi, l’incardinazione. Più su si parlava nei documenti del vicariato di una opzione del prete a “servire” la diocesi. Si dimenticava che essa viene espressa nella ordinazione sacerdotale contestualmente alla “opzione” del vescovo e della diocesi a “servirsi” di quel prete, cioè ad accettare senza limiti di tempo l’esercizio di presidenza, giudizio e mediazione di “quel” prete (“quel”, nel senso più pregnante della parola), ovviamente fino a provata mancanza contro la comunione diocesana.

A Roma la grande maggioranza dei preti “in cura d’anime” è sprovvista di questa garanzia giuridica (dell’assenza della garanzia radicata nel senso ecclesiale neppure parliamo). Le parrocchie romane sono affidate per il 55% ai religiosi, ovviamente non legati alla diocesi, nell’altro 45% si fa largo uso di sacerdoti provenienti da altre diocesi e che ivi restano incardinati. Praticamente del clero “in cura d’anime” sono incardinati 111 parroci e circa 70 viceparroci (solo l’ultima cifra è approssimativa, vedi la sua giustificazione in La Tenda, pp.8-9. Le altre cifre sono riportate in Annuario della diocesi di Roma, 1971-72, p.590).

Limitandoci a parlare dei religiosi e dei non incardinati e ragionando teoricamente, la situazione è la seguente: un ipotetico vescovo di larga coscienza può fare uso oggi a Roma di religiosi e preti non romani e un giorno per motivi suoi, in caso di attrito, senza affrontare giudizi può chiedere al superiore o al vescovo di altrove di riprendersi l’individuo non gradito, rammaricandosi magari con lui per l’inatteso richiamo. E può previamente condurre le cose facendo pesare sul tale questa possibilità.

È chiaro che non crediamo i nostri vescovi capaci di simili bassezze. Neanche il diritto canonico lo credeva, ma ciò non gli impedì le leggi sulla inamovibilità e le incardinazioni.

Candidamente il documento B a piè di pagina dice: “Nota: non viene ora affrontato il problema giuridico dell’incardinazione”. Per noi è ben più che un problema giuridico. Di fatto in questa pretesa “vacatio legis” si manomettono realtà ecclesiali ben più importanti che le figure giuridiche poste in aspettativa.

Immaginate che uno di noi comunichi: “visto che il diritto di famiglia è antiquato e soggetto a revisione quest’anno vado in ferie con la signora del piano di sotto”. La stessa sensazione proviamo noi quando il vescovo, approfittando di una inadeguatezza della legge sulla incardinazione e inamovibilità fa nessun caso del naturale legame tra prete e comunità di base o diocesana.

Ma nei periodi di transizione occorrono norme di assoluto riguardo per i diritti fondamentali delle persone. Proprio in questa materia esiste uno statuto che prevede un procedimento quasi automatico (motu proprio Ecclesiae Sanctae, di Paolo VI, 6-8-1966, Acta Apostolicae Sedis, 1966, p.757, parte prima, n.1, traduzione nostra).

“Per rendere più agevole il passaggio da una diocesi all’altra, fermo l’istituto dell’incardinazione che pur deve essere adattato, si stabilisce quanto appresso:… paragrafo 5: il prete che legittimamente abbia lasciato una diocesi per un’altra, passati cinque anni è automaticamente incardinato a quest’ultima diocesi se avrà manifestato per iscritto tale volontà all’uno e all’altro vescovo e non avrà ricevuto risposta contraria entro quattro mesi”.

Per quanto il dettato della legge sia assai imperfetto (un modo per non far scrivere quelle lettere può essere la minaccia…di una risposta. E la risposta non è tenuta ad essere circostanziata), malgrado queste limitazioni la legge è chiaramente in favore del clero e tende (in voto più che con una reale percettività) a sfavorire l’impiego a lungo termine di clero avventizio. Ma la legislazione sul lavoro è in pochi posti disprezzata come a Roma, e almeno in questo il clero assomiglia a tanta parte della popolazione della città che lavora senza il riconoscimento dei diritti altrove molto meglio difesi.

Può sembrare comodo al vescovo disporre di clero avventizio facilmente eliminabile, ma resterà poi sorpreso quando la legislazione matrimoniale (quel poco che ne uscì) fu del tutto inefficace perché i due terzi del clero operante a Roma poté opporre di essere di altra “obbedienza” ? Il tentativo di riportare i religiosi alla “pastorale unitaria” si fa concedendo ad essi uno dei dodici posti episcopali, o rivedendo in radice il rapporto tra religioso e prete, prete religioso e comunità cristiana ?

Lasciamo da parte questi ed altri interrogativi che comportano approfondimenti teologici (di dottrina e di prassi insieme). Non possiamo però non tornare al caso dei singoli preti avventizi: vorremmo che il Consiglio presbiterale non disprezzasse di farsi portavoce di un diritto che gli interessati non osano invocare, ma che è diritto anche di tutte le comunità di base.

Intanto si porterebbe tutto il clero in una situazione di certezza di diritto e si riscatterebbe la diocesi di Roma dall’essere affidata ad una vera e propria legione straniera di clero.

Concludiamo con il suddetto particolare un lavoro che senz’altro si è disperso in un vastissimo campo.

Se avrà portato nei nostri amici una maggiore conoscenza sul problema dei rapporti chiesa-prete pensiamo di aver dato un contributo per chiarire uno dei passaggi obbligati per il vero rinnovamento della chiesa.