Lettera 22 (Seconda Serie)

In questa lettera proponiamo la seconda parte del Convegno “Dialoghi sulla sofferenze e la morte” che si è tenuto a Roma presso la Parrocchia dei SS. Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela il 29 ottobre 2011.

Sono le relazioni del pomeriggio incentrate sulla sofferenza causata dall’ingiustizia e la nostra responsabilità e i nostri compiti al riguardo. Segue il dialogo che è scaturito dalle relazioni.

Nella prima lettera avevamo già invitato tutti i nostri amici ad intervenire e partecipare alla nostra riflessione e ora pubblichiamo qualcuno dei contributi che abbiamo ricevuto, rinnoviamo comunque l’invito a intervenire, come leggerete molti sono stati gli interventi durante il convegno e tutti molto attenti e profondi. Noi pensiamo che solo confrontandoci ed uscendo così dalla cerchia ristretta dei più vicini possiamo cercare, se non di trovare significato, cosa ardua, ma almeno di fare pace con la sofferenza e la morte, che accompagnano la nostra vita e che ci è così difficile accettare e giustificare.

Per chiudere la relazione di questo convegno vogliamo fare a tutti noi un piccolo regalo ricordando le parole di Meheretu[1], un giovane “santo” che abbiamo conosciuto attraverso l’esperienza della comunità dei malati di lebbra fondata e guidata da Carlo e Franca Travaglino in Eritrea ed Etiopia, la sua storia e quella di tanti altri “piccoli e poveri” continua ad essere la cattedra da cui imparare, la quotidiana fonte di saggezza a cui abbeverarsi.

“Dopo una medicazione che inevitabilmente gli aveva provocato atroci spasimi e forti lamenti, subito seguiti dall’abituale sorriso a Carlo che gli chiede: ”Come mai dopo tanta sofferenza , torni subito a sorridere, ad essere sereno?” Meheretu risponde:

Io non sono la malattia. Io sono la vita e, passato il momento di atroce dolore, la sento scorrere dolce dentro di me. Chi ha l’amore nel cuore non può non essere gioioso, io ho l’amore nel cuore, l’amore di Dio, l’amore dei fratelli. Perciò sorrido sempre.”

Meheretu Salomon

Sommario della 22° lettera:

Seconda parte del convegno “Dialoghi sulla sofferenza e la morte”

  1. La sofferenza dovuta a una società ed un mondo ingiusto: quali i segni di speranza? di Giorgio Marcello (comunità di S. Pancrazio di Cosenza)
  2. Profughi politici in Italia : la testimonianza di una ingiusta sofferenza di Giovanni La Manna (Centro Astalli)
  3. Interventi e risposte
  4. Contributi dei lettori

La sofferenza dovuta a una società ed un mondo ingiusto: quali i segni di speranza? di Giorgio Marcello

1. I caratteri principali della povertà nel mondo, alla luce del MDG’s Report 2010

I dati sulla distribuzione della povertà nel mondo ci dicono che il problema della diseguale distribuzione delle risorse nel mondo è ancora drammaticamente attuale.

I report annuali delle nazioni unite sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio lo dimostrano inequivocabilmente.

Gli obiettivi[2] di sviluppo sono quelli che tutti i 191 stati membri dell’ONU si sono impegnati a raggiungere entro il 2015. Essi sono stati esplicitati per la prima volta nella Dichiarazione del Millennio (delle Nazioni Unite), un documento sottoscritto nel settembre 2000. Attraverso di esso, i paesi aderenti si sono impegnati a garantire ad ogni nazione – e ad ogni individuo – il diritto allo sviluppo e la liberazione dal bisogno.

I report annuali vengono redatti allo scopo di verificare se, e in che misura, le regioni in via di sviluppo si stanno avvicinando o meno agli obiettivi fissati, e sono delle importantissime fonti di informazione sui principali indicatori [3] di povertà nei paesi in via di sviluppo.

Nei report citati, compreso quello del 2010 a cui facciamo riferimento in queste pagine, si considera la povertà come fenomeno multidimensionale. Già a partire dalla fine degli anni Ottanta, nell’ambito dei programmi di sviluppo delle nazioni unite lo sviluppo umano viene misurato attraverso un indice (Human Development Index) che non tiene conto solo del PIL pro capite ma anche di altri elementi, come l’aspettativa di vita e il grado di istruzione della popolazione. In altri termini, si considerano una molteplicità di indicatori, che fanno riferimento ai diversi aspetti da cui dipende lo “star bene” (o la vita buona, come direbbe Sen) delle persone.

La povertà non si distribuisce in maniera omogenea (nell’ambito del pvs). Esistono differenze ragguardevoli tra paesi appartenenti ad una stessa regione. E, inoltre, all’interno degli stessi paesi, tra il quintile più ricco e quello più povero della popolazione, oppure tra zone rurali e zone urbane. Nell’ambito dei contesti urbani, bisogna tener conto del fenomeno della progressiva favelizzazione (con tutto quel che ne consegue in termini di regolazione e di tenuta della coesione).

Diamo uno sguardo ad alcuni dei dati più significativi.

  1. Povertà estrema e fame

Uno degli obiettivi del millennio è quello che si propone di sradicare la povertà estrema e la fame. La linea di povertà (nei paesi considerati) si colloca ad un livello pari a $ 1,25 al giorno.

Dal 1990 al 2005 la percentuale delle persone che possono disporre una somma inferiore a quella considerata è scesa dal 46 al 27%, per cui il numero complessivo di quanti vivono in questa condizione si è abbassato da 1,8 miliardi (1990) a 1,4 miliardi (2005).

Per il raggiungimento dell’obiettivo 1, la percentuale dovrebbe calare al 15% (corrispondente a 920 milioni di persone). Vi sono però alcuni nodi problematici che non appaiono facilmente affrontabili. La crisi economica e finanziaria che ha colpito inizialmente le economie più avanzate (Stati Uniti ed Europa) ha prodotto come effetto anche il rallentamento della crescita dei paesi in via di sviluppo. Sulla base di stime recenti della Banca Mondiale, tra il 2009 e il 2010 si è verificato lo scivolamento nella povertà estrema di almeno 100 milioni di persone in più (rispetto a quelle previste in uno scenario di non crisi). Ad essere colpite sono soprattutto l’Africa Subsahariana e il

Sud-est asiatico. Sempre per effetto della crisi, la percentuale dei poveri continuerà a crescere fino al 2020, per poi riprendere a diminuire.

I maggiori successi nella riduzione della povertà globale non si sono distribuiti in maniera uniforme, ma hanno riguardato in realtà solo alcuni paesi come la Cina e l’India: dal 1981 al 2005 il numero dei poveri in Cina è sceso da 835 milioni a 207 milioni, ovvero dall’84% al 16% circa; entro il 2015, il tasso di povertà calerà al 5%. In India si abbasserà dal 51% (1990) al 24% (2015), il che vuol dire fuoriuscita dalla povertà estrema di circa 190 milioni di persone.

Ragguardevoli sono anche i progressi registrati tra il 1990 e il 2008 dal Vietnam e dal Brasile, dove nell’arco temporale considerato il tasso di povertà è calato rispettivamente del 74% e dell’81%.

Alla luce dei dati considerati, si può sin da ora prevedere che alcune regioni sicuramente non raggiungeranno l’obiettivo 1 (Africa Subsahariana, p.es.).

Tra il 1990 e il 2007 la percentuale delle persone che hanno sofferto la fame è scesa dal 20% al 16%. La decrescita si è arrestata nel 2000. È aumentato però il numero complessivo: da 817 a 830 milioni.

Dopo la crisi del 2008, l’aumento del prezzo del cibo e la diminuzione del reddito pro-capite (conseguente all’aumento della disoccupazione) hanno prodotto effetti devastanti. Da notare che non è la disponibilità complessiva del cibo che viene meno, ma i titoli di accesso al cibo (A. Sen).

Sono molto gravi i dati relativi alla percentuale dei bambini (0-5 anni) malnutriti (Dato fornito dall’Unicef e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità). Dal 1990 al 2008 si passa dal 31 al 26%. Progressi indiscutibili, ma non tali da permettere di raggiungere l’obiettivo del dimezzamento entro il 2015. Da sottolineare che il dato non tiene conto dell’impatto della crisi del 2008.

Cause denutrizione: mancanza di cibo (e di cibo di buona qualità), scarsità di acqua, di servizi igienici e sanitari, inadeguatezza delle attività di cura e delle pratiche alimentari. Tutti questi fattori fanno dell’Asia Meridionale e dell’Africa Subsahariana le regioni con le percentuali più alte di bambini denutriti.

  1. La mortalità infantile

Le informazioni più raccapriccianti sono forse quelle riguardanti la mortalità infantile.

Complessivamente, il fenomeno va diminuendo, ma molto lentamente.

Dal 1990 al 2008, il tasso di mortalità (per ogni mille nati vivi) è sceso da 100 a 72 (-28%). Il numero totale dei bambini morti al di sotto dei cinque anni è passato da 12.5 milioni (1990) a 8.8 milioni (2008). Tutto ciò vuol dire che nel 2008 sono morti ogni giorno 10 mila bambini in meno rispetto al 1990. Il numero rimane tuttavia impressionante: equivale a più di 24 mila bambini al giorno, più di mille ogni ora.

Ad aumentare lo sconcerto che queste cifre provocano, v’è il fatto che la maggior parte delle morti infantili potrebbe essere evitata, attraverso interventi tempestivi e appropriati di prevenzione e cura. Inoltre, tra i 67 paesi con il tasso di mortalità infantile più alto (quelli cioè che registrano 40 o più morti per ogni 1000 nati vivi), solo 10 sono sulla via di conseguire gli obiettivi fissati dall’ONU.

Quattro malattie costituiscono la causa del 43% delle morti infantili: polmonite, dissenteria, malaria e aids. La maggior parte di queste vite potrebbe essere salvata, attraverso attività di prevenzione (che hanno peraltro un costo bassissimo) e interventi appropriati: somministrazione di antibiotici per le infezioni respiratorie acute, reidratazione orale in caso di dissenteria, somministrazione di vaccini, uso di zanzariere trattate con insetticida e farmaci per la malaria. Un aspetto fondamentale della prevenzione è garantire una alimentazione adeguata.

È necessario incrementare gli investimenti nella prevenzione, ma è più facile a dirsi che a farsi. Vedi il caso del vaccino contro il morbillo: dal 2000 al 2008 la copertura nei paesi in via di sviluppo è passata dal 70% all’81%. Il dato maschera le profonde disuguaglianze nell’accesso al vaccino. Ai bambini delle famiglie più povere o residenti nelle zone rurali, numerose, con basso livello di istruzione è garantita una copertura più bassa, ad esempio. Inoltre, per una copertura efficace, è necessaria una somministrazione duplice. A partire dal 2008, in 132 paesi è stata introdotta la doppia somministrazione di routine. Dal 2000 al 2008, l’estensione della copertura e l’introduzione della doppia somministrazione hanno determinato – complessivamente – la riduzione delle morti per morbillo in una misura pari al 78% (da 733 mila morti nel 2000 a 164 mila nel 2008).

La riduzione dei fondi per campagne di immunizzazione costituisce perciò un grosso problema. È a rischio in molti paesi la possibilità della seconda somministrazione. Si preannunciano pertanto effetti disastrosi: tra il 2010 e il 2013 si prevedono 1.7 milioni di morti per il morbillo.

  1. La favelizzazione delle periferie urbane

Uno degli obiettivi che l’onu si è dati per il 2015 riguarda il miglioramento delle condizioni di vita di almeno 100 milioni di abitanti di slums.

Dal 2000 al 2010 la percentuale di persone che vive negli slums è calata dal 39% al 33%. In termini assoluti, però, il numero dei favelados è salito dai 650 milioni circa del 1990 a quasi un miliardo, ed è destinato a crescere ancora.

Perché le persone si riversano negli slums, per vivere in condizioni precarie, spesso caratterizzate dalla mancanza di servizi essenziali (nonché dall’assenza delle condizioni minime per una vita dignitosa)?

  1. La questione della povertà delle aree rurali (in Brasile, ad esempio, la questione agraria che rimane ampiamente irrisolta);
  2. Il fallimento delle politiche pubbliche su quattro questioni: la mancanza da parte dei più poveri di titoli di possesso certo della terra; i tagli agli interventi per la costruzione di alloggi a beneficio dei più poveri; mancanza di terreni riservati alla costruzione di alloggi popolari; incapacità di intervenire per arginare speculazioni nell’ambito della terra e della proprietà.

I redditi si abbassano, mentre il prezzo della terra cresce. Tutto ciò impedisce ai working poors di accedere alla proprietà della terra, ed inasprisce il problema degli slums.

  1. I conflitti

Uno dei maggiori impedimenti al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo è rappresentato dai conflitti.

Sono circa 42 milioni le persone sradicate a causa di conflitti o di persecuzioni (15,2 milioni sono i rifugiati: 10.4 milioni – la metà di essi sono afghani e iracheni – sotto la protezione delle nazioni unite più 4.8 milioni di rifugiati palestinesi).

I 4/5 dei rifugiati provengono da paesi in via di sviluppo.

1.1 Perché restiamo insensibili alle disuguaglianze che generano una sofferenza così diffusa?

Che cosa impedisce la maturazione di un sentimento di responsabilità diffusa per quello che accade? Sono interrogativi che poniamo a noi stessi, tutte le volte che ci poniamo di fronte ad indicatori così drammatici.

In un articolo di qualche anno fa, Grossman pone in relazione la storia dell’olocausto con le conseguenze delle disuguaglianze globali del nostro tempo, e si chiede: “in questo momento sto forse collaborando – coscientemente o inconsapevolmente, attivamente o passivamente – a un processo il cui scopo è danneggiare un altro uomo o un gruppo di persone? ‘La morte di un uomo è una tragedia’, ha detto Stalin, ma quella di milioni è statistica”.

Come può accadere che la tragedia si trasformi in statistica? Si ha l’impressione, secondo lo scrittore israeliano, che la maggior parte di noi sia quasi indifferente alla sofferenza di popoli interi, vicini e lontani, che mancano dell’essenziale per vivere, che sono drammaticamente esposti ai rischi della guerra, della malattia, della dittatura, della schiavitù. “Con stupefacente facilità – così scrive – creiamo meccanismi che hanno il compito di farci prendere le distanze dalla sofferenza altrui. Riusciamo, nella nostra coscienza e a livello emotivo, a ignorare il nesso causale che esiste fra la prosperità economica delle nazioni occidentali e la povertà altrui; tra il nostro benessere e le vergognose condizioni di lavoro di altra gente; tra la qualità della nostra vita, i nostri condizionatori d’aria e le nostre automobili, e le sciagure ecologiche che si abbattono su altri”. Come è accaduto in occasione dell’olocausto e in tutti i casi di genocidio programmato, così anche la fame, la povertà, le

malattie, l’esilio spengono e uccidono gradualmente l’anima del singolo, e talvolta di un popolo intero. A fronte di queste tragedie, prevale nel pezzo di mondo in cui viviamo, quello dei privilegiati, una irresponsabilità diffusa, che trasforma le persone in una massa indistinta, “priva di volto, di identità, e all’apparenza libera da oneri e colpe. (…) Ci trasformiamo in ‘massa’ nel momento in cui rinunciamo a pensare, a elaborare le cose secondo un nostro lessico, e accettiamo automaticamente e senza critiche espressioni terminologiche e un linguaggio dettatoci da altri”.

In questa dinamica diffusa di ripiegamento di ognuno su se stesso e sui propri bisogni, che equivale ad un rifiuto della responsabilità verso gli altri, giocano un ruolo fondamentale i mezzi di comunicazione di massa. Questi ultimi contribuiscono in modo determinante a rendere asfittica la coscienza politica, sociale e morale delle persone, e a trasformarle in massa”.

2. Le disuguaglianze in Italia

Diamo ora uno sguardo alle principali manifestazioni della disuguaglianza nel nostro paese, facendo riferimento ad un testo (M. Revelli, “Poveri, noi”) che contiene al riguardo indicazioni molto utili.

I dati disponibili mostrano che, tra i paesi occidentali, l’Italia è tra quelli in cui sono più manifesti i segnali di una modernizzazione regressiva, i quali dicono che il nostro è un paese che declina, mentre crede di crescere.

L’impoverimento del nostro paese riguarda innanzitutto le condizioni materiali di vita. Nel periodo che va dal 1998 al 2007 il Prodotto interno lordo pro capite è calato di 18 punti percentuali. Ciò significa che il nostro paese è quello che in Europa ha subito il ridimensionamento più grave.

Se nel 2001-2002 la percentuale di italiani che si percepiscono poveri è inferiore al 50%, nel 2006 tale valore sale al 75%.

I dati sulla povertà relativa e assoluta confermano che l’Italia era e resta un paese sostanzialmente povero. O meglio, un paese strutturalmente fragile, fortemente esposto al rischio di deprivazione, con sacche di povertà superiori alla maggior parte dei nostri partner europei.

Un aspetto rilevante del declino italiano è rappresentato dall’impoverimento del lavoro, soprattutto di quello operaio. È molto elevata infatti la percentuale di lavoratori esposti al rischio della povertà assoluta o relativa, soprattutto se appartenenti a famiglie meridionali con figli minori.

Questo fenomeno si inserisce in una dinamica più ampia, in atto in tutti i paesi economicamente più sviluppati, che consiste nello spostamento di quote di ricchezza prodotta (nelle economie più sviluppate) dai salari ai profitti.

In Italia lo spostamento è stato di circa 8 punti percentuali sul PIL, corrispondente ad una cifra di circa 120 miliardi di euro (dal 1983 al 2005 la percentuale di profitti sul PIL passa dal 23% al 31%; mentre la quota destinata alla remunerazione del lavoro scende dal 77,8% al 68%). In altri termini, il capitale si rinforza mentre il lavoro si indebolisce.

Per effetto delle trasformazioni raccontate il lavoro degrada da “soggetto” produttivo a “fattore” della produzione.

Diventa sempre più consistente l’area della deprivazione materiale. Si tratta di un fenomeno che non coincide necessariamente con la povertà; con esso si intende la mancanza di beni materiali per il soddisfacimento di bisogni essenziali, la presenza dichiarata di difficoltà finanziarie e in generale l’incapacità individuale di vivere una “vita decente”.

Si calcola che le famiglie che rientrano in questa fascia di popolazione vulnerabile sono quasi 5 milioni e mezzo (il 22,2% del totale delle famiglie italiane), per un totale di poco meno di 19 milioni persone.

All’impoverimento del lavoro fa da pendant la crescente autoreferenzialità del capitale. L’Italia è il paese con il tasso più basso di investimenti nell’ambito dell’innovazione produttiva, e con la tendenza più spiccata allo spostamento di risorse dalla produzione ai mercati finanziari. Il sistema delle imprese italiano non ha impiegato il surplus di ricchezza accumulata in conseguenza di una

più squilibrata distribuzione delle risorse (smistamento delle risorse dai salari ai profitti) per modernizzare l’apparato produttivo, ma l’ha investita nei circuiti finanziari globali (per finalità extra produttive).

Queste e altre informazioni evidenziano il fatto che nel nostro paese crescono le disuguaglianze. Nel 2007 la metà più povera delle famiglie italiane deteneva meno del 10% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco deteneva quasi la metà della ricchezza complessiva.

In Italia e in tutto l’occidente le società si allungano: cresce la distanza tra i primi e gli ultimi.

Con una novità rispetto al passato: l’assuefazione. La disuguaglianza si dà per scontata. Il perseguimento della giustizia sociale, attraverso una redistribuzione delle ricchezze, non costituisce più un valore guida (v. art. 3 della Costituzione).

Si tratta di un fenomeno planetario, che determina la polarizzazione tra élite e popolo: élite (sempre più ristrette) e maggioranza della popolazione si collocano all’interno di due sfere di cittadinanza separate, e non comunicanti.

La ricchezza degli uni diventa inattaccabile. La condizione degli altri è bloccata, con possibilità di ascesa sempre più ridotte.

Questo fenomeno genera il conflitto orizzontale dei penultimi verso gli ultimi, che è espressione di un risentimento sempre più diffuso.

Si tratta, dice Revelli, di una manifestazione di invidia sociale, che è una patologia della relazionalità, un sentimento ambivalente: contiene sia l’avversione per l’altro che il dolore per sé. Essa consiste infatti nel “dolore della percezione delle differenze con proprio svantaggio”.

Tale sentimento si sperimenta non tanto nei confronti di chi ha di più, ma alimenta il rancore verso chi ha di meno. I conflitti orizzontali costituiscono il tratto dominante di una società bloccata verso l’alto, nella quale cioè il conflitto redistributivo appare confinato al circuito inferiore della stratificazione sociale. Nell’impossibilità di salire, ovvero di colmare la distanza dai primi, si approfondisce la distanza nei confronti degli ultimi, spinti sempre più giù.

Ad aggravare la situazione c’è la debolezza strutturale delle politiche sociali. L’arretratezza del modello italiano di protezione emerge in maniera inequivocabile attraverso il confronto con altri sistemi europei.

L’Italia, ad esempio, è il paese europeo che investe di meno per le politiche di sostegno a minori e famiglie (2,1% pil m.e.; Danimarca 3,7%; Germania 2,8%; Francia 2,5%; Italia 1,2%).

Registriamo anche il valore più basso per ciò che riguarda le politiche di contrasto all’esclusione sociale (Italia 12,9 euro per abitante; Olanda 558 euro; Danimarca 221; Francia 122; Germania 48). Insieme alla Grecia e all’Ungheria è l’unico paese europeo a non avere introdotto la misura del reddito minimo di cittadinanza.

Alla debolezza delle politiche fa riscontro la costruzione artificiale di un nemico concreto, l’altro, l’ultimo, il radicalmente povero, sulla cui esclusione elaborare il proprio “essere dentro” o il proprio “essere con”.

3. Quali segni di speranza

In questo contesto di disuguaglianza e di sofferenza diffuse, a livello planetario come a livello nazionale e subnazionale, i segni di speranza sono rappresentati da contesti, ambienti, luoghi di vita, di lavoro, di ricerca insieme, in cui ci si impegna a ritessere i fili di una convivenza sensata, e in cui si contribuisce alla maturazione di una coscienza politica popolare e diffusa.

La coscienza politica è quell’atteggiamento personale e collettivo che si manifesta attraverso l’attenzione e l’assunzione di concrete responsabilità nei confronti di tutto e di tutti, specialmente nei confronti dei più fragili.

Come insegna P. Pio Parisi, la speranza in questo tempo notturno è rappresentata dalla ricerca di vie nuove per la politica, e per la formazione di una coscienza politica alimentata dal Vangelo. Fare questo, significa, per chi crede, cercare vie nuove per la fede.

Questo punto viene sviluppato in un testo molto denso, dal titolo “Lo scasso. Per un ritorno alle radici”[4]. Lo scasso è quello del vomere, che entra nel terreno per rivoltarlo e riportare alla luce le

radici nascoste. L’idea di fondo di questo scritto è che la radice dell’impegno sociale e politico è la fede, e che la crisi dell’impegno sociale e politico dei credenti scaturisce proprio da una crisi di fede.

Il saggio mette in discussione tutta quella cultura dell’ispirazione cristiana che, come si è detto in premessa, “non è solo una cultura, ma un abito mentale. Ora, superare la crisi politica, non vuol dire solo trovare una nuova mediazione culturale, vuol dire affrontare un processo di conversione”[5].

Il cammino che P. Pio propone si radica nell’ascolto della parola di Dio, e si articola nelle seguenti tappe:

cercare Dio per Dio e non in funzione di qualcos’altro; aprirsi al mistero; cercare un cammino popolare; nell’impegno sociale e politico [6]

Nel testo ricordato si mettono in evidenza alcuni rischi che possono condizionare questo cammino, in particolare l’attivismo e il protagonismo. Formare una coscienza politica illuminata dalla fede nel Vangelo vuol dire perciò superare la tentazione attivistica e la presunzione di essere protagonisti nella storia. Come sfuggire a questa duplice tentazione? Attraverso quella che Pio chiama cattedra dei piccoli e dei poveri.

Nella scoperta di questa cattedra sta il segreto di un cammino autenticamente popolare.

Scoprire questa cattedra vuol dire cambiare radicalmente quel modo di guardare il mondo e di stare nelle relazioni per cui si dà la preferenza ai ricchi e ai potenti e si trascurano quelli che contano di meno.

Vuol dire anche superare la tentazione di rivolgersi ai piccoli e ai poveri solo per aiutarli, e non per essere aiutati.

C’è un passo ancora da fare, difficile però decisivo per un cammino popolare nella ricerca di Dio e nell’apertura al mistero:

Si tratta di imparare dai piccoli e dai poveri, di riconoscere che ogni esperienza di debolezza, di dipendenza, di emarginazione rende l’uomo più saggio, più consapevole, più cosciente della propria dipendenza da Dio. La povertà, nelle sue molteplici dimensioni, pone l’uomo in cattedra. (…) Non si tratta evidentemente solo di un meccanismo psicologico umano; è la dinamica del Regno di Dio, nel quale la salvezza entra nel mondo attraverso la debolezza[7] .

La cattedra dei piccoli e dei poveri, aggiunge P. Pio, rivoluziona la nostra vita interiore, poiché sconvolge il nostro modo abituale di pensare e di cercare le sicurezze di cui sentiamo il bisogno. È una rivoluzione anche per la vita sociale:

senza violenza alcuna essa sovverte l’ordine, in tanta parte violento che tiene in piedi la società attuale, sostenendone i principali pilastri di potere [8].

La coscienza politica di cui P. Pio ci parla sostiene l’impegno di quanti sono presenti quotidianamente nelle situazioni di sofferenza e di ingiustizia, nel tentativo di riannodare i fili di relazioni fraterne, alimentando così un giorno dopo l’altro la speranza del cambiamento.

Profughi politici in Italia : la testimonianza di una ingiusta sofferenza di Giovanni La Manna (Centro Astalli)

Innanzitutto grazie per la possibilità di condividere con voi, accetto volentieri quest’opportunità per portare la voce di chi non ha ancora voce, e mi permetto di dire qualcosa perché, come diceva padre Pio Parisi, è importante stare con chi è nella sofferenza. Spesso i volontari pensano che il fare abbia la priorità, mentre invece è lo stare. Stare con le persone che sono in sofferenza, stare nei luoghi dove le persone soffrono.

E questo non vuol dire, in relazione ai profughi politici, stare nei campi profughi o nei paesi in cui si vivono contrasti. Anche qui, in Italia, i profughi che accogliamo incontrano luoghi di

sofferenza –e sottolineo sempre “coloro che hanno la fortuna di arrivare”, perché non sapremo mai il reale numero di morti che fra deserto e Mediterraneo pesa sulla nostra coscienza.

Inizio con una domanda che è fondamentale, per realizzare quanto il papa, nel suo ultimo messaggio per la Giornata dei Migranti e dei Rifugiati, ha sottolineato. Il papa, prima di arrivare a dire che è doveroso da parte nostra accogliere i rifugiati, ricorda che non sono persone che hanno potuto decidere liberamente di venire da noi in Italia o in Europa, ma sono costrette da conflitti, da persecuzioni in cui abbiamo tutti la nostra parte di responsabilità. Però prima ancora di accoglienza, il papa parla di comprensione. Allora io, per poter comprendere, devo stare lì dove ci sono i profughi o dove i profughi bussano, per poter realizzare un incontro, stabilire una relazione per poterli conoscere. E’ fondamentale la comprensione, perché è quello che consente di vivere con gli occhi aperti e le coscienze sveglie. Tutto questo si realizza in un contesto più ampio, dove l’indifferenza predomina, dove solo perché i conflitti si realizzano geograficamente lontano da noi, ci lasciano tranquilli. Vi invito a sfogliare qualche rivista o viaggiare sui canali non ufficiali di internet, per capire quanti paesi sono ancora messi in croce. Fa effetto la guerra in Libia, tra poco non ne parleremo più. Come è stato per la Tunisia, per l’Egitto. L’Afghanistan fa eccezione quando interessa gli USA o quando ci scappa il morto.

Allora la prima domanda che io vi pongo è: come abbiamo deciso di vivere?

In Afghanistan da anni c’è una missione di pace che però di pace ne testimonia poca. E’ in realtà un presidio armato.

Un’altra questione che si pone con forza in tempi di crisi è: quanto ci costa?

Ora in Libia riproduciamo lo stesso sistema, con meccanismi più sottili. Ci proponiamo sempre nuovi alibi, ma era davvero necessario in Libia l’intervento armato? La maggior parte degli arrivi a Lampedusa (dichiarata porto non sicuro) è proveniente dalla Libia. E’ stata la vendetta di Gheddafi. I richiedenti asilo giunti in Italia dichiarano che lavoravano in Libia – economicamente stabile – da qualche anno, ma provenivano da altri paesi ancora, come Mali o Nigeria. O addirittura dal Pakistan, con scalo a Qatar.

Secondo i racconti pubblici, le dichiarazioni ufficiali rilasciate dai rifugiati ai militari italiani, quando gli Europei hanno portato la guerra in Libia, i militari di Gheddafi per vendicarsi del tradimento italiano hanno tolto loro soldi e documenti, costringendoli a imbarcarsi per l’Italia.

Ecco perché la domanda rimane: come abbiamo deciso di vivere? Era davvero impossibile trovare alternative?

Attualmente è stata mobilitata la protezione civile per dare a queste persone la possibilità di trovare assistenza su tutto il territorio italiano. Da diversi anni l’Italia aveva fatto progressi nell’accoglienza dei rifugiati, coinvolgendo anche gli enti locali a livello comunale (SPRAF). Ora, che senso ha attivare un circuito parallelo e non potenziare una realtà preesistente che poteva essere migliorata e funzionare come fa da anni? Che senso ha in un momento di crisi come questo in cui chiudono le fabbriche e gli operai sono costretti a protestare sui tetti?

Chi ha la responsabilità di gestire questo fenomeno dovrebbe avere l’onestà di ammettere che in un periodo di crisi si stanno spendendo soldi in una maniera che suscita dubbi. La Protezone Civile sta spendendo 45 euro al giorno per ogni persona accolta. Chiedo: in cosa vengono spesi?

Devono essere spesi per le persone a cui sono destinati. Non è possibile ascoltare storie di persone che, stando male, vanno all’ospedale a piedi e risultano ufficialmente accolte in un Centro su territorio nazionale.

Non è pensabile sentire storie di richiedenti asilo con problemi di salute, che nel Centro non possono comunicare con noi perché manca il mediatore. Perché il mediatore ha un costo che rientra nei 45 euro e se si tagliano le spese per la persona rimane un maggiore guadagno per qualcun altro.

Un’altra domanda è: io avrei il coraggio di chi ha pagato un prezzo così alto per le proprie idee, la propria fede? E pagare, in quei paesi, significa carcere e tortura. Queste persone mi insegnano che è ancora possibile pagare per la propria fede, per la propria idea. Allora, già solo per questo è un’umanità sofferente che merita grande rispetto.

Ora bisogna considerare: come noi stiamo funzionando?

In tutta Italia non solo è stato attivato questo circuito parallelo attraverso la Protezione Civile, ma che senso ha un Centro dove coesistono 2000 di queste persone – a Mineo, vicino Catania, ex base

NATO statunitense – e dove il richiedente asilo riceve una scheda telefonica, ma deve percorrere una strada a scorrimento veloce per arrivare al paesino, raggiungendo così l’unica possibilità di telefonare. Vi rendete conto dell’assurdità? Io mi permetto di parlare ad alta voce delle cose che non vanno senza nessun timore, perché le ho vissute in prima persona. Sono andato a San-Pietro-Al-Natisone, un paesino della provincia di Trieste: in un bell’alberghetto del paese ci sono 15-20 persone provenienti da Togo, Costa d’Avorio, Ghana. Certo, il posto è bello, stanno bene, ma chi gli spiega quale sarà l’iter della richiesta d’asilo politico? Chi inizierà a preoccuparsi di insegnargli un po’ di italiano, chi spiegherà loro che hanno diritto all’assistenza sanitaria o come funziona il sistema sanitario nazionale?

Quando realizziamo accoglienza con 2000 persone, come si può realizzare la comprensione dell’altro? Quanti operatori ci vogliono? E quanti ce ne sono? Con 2000 persone erano ammessi solo gli avvocati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite (UNHCR), ma alla fine hanno dovuto chiedere aiuto: 2 avvocati per 2000 persone.

Questi sono i luoghi di sofferenza sul nostro territorio, che creiamo noi: il nostro silenzio avalla questo sistema. Per cui ancora una volta ribadisco l’importanza di conoscere la situazione di queste persone in croce, per aprire gli occhi e le coscienze degli Italiani, per farsi delle domande. Credo che mai come oggi abbiamo bisogno di vivere una certa irrequietezza, crisi a livello di coscienza.

Prima un amico ci diceva che viviamo nell’illusione di stare bene. E questo è il pericolo più grande. Quando vogliamo aiutare una persona, se l’altro non ha la coscienza del fatto che sta male, è tutto inutile. Noi dobbiamo prendere coscienza di come stiamo vivendo, allora ci renderemo conto che c’è qualcosa che non funziona.

La sofferenza di queste persone non è solo nel luogo di accoglienza (o di non-accoglienza, che comunque ha un costo).

Chi ha relazione con una persona straniera, facilmente ha la possibilità di sapere quanto costa un rinnovo del permesso di soggiorno. In termini economici, e di tempo. L’ultima persona che nella recente alluvione di Roma ha perso la vita, era scesa per recuperare un archivio di permessi di soggiorno. Per salvare dei pezzi di carta. Perché senza pezzi di carta, in Italia, non c’è vita.

E questo avvalora la nostra convinzione che invece la persona è tale anche senza documenti; valutiamo quindi anche quando diciamo che per noi il centro è la persona, perché sono solo parole. Ma poi di fatto, se manca un pezzo di carta, non esistono più diritti, smette di esistere la persona. Senza documenti, si va in un altro luogo di sofferenza che è il Centro di Identificazione e di Espulsione, che è un centro di detenzione. Quello di Roma è a Ponte Galeria.

Se io giro per le strade di Roma senza carta d’identità, a nessuno viene in mente di fermarmi. Se capita a uno straniero, è destinato a un Centro di Identificazione e di Espulsione. Allora dove sta la centralità della persona?

In precedenza abbiamo anche aiutato Gheddafi a costituire in Libia dei Centri di detenzione come quelli italiani. Nei Centri della Libia, la violenza riservata alle donne è sotto gli occhi di tutti. Per andarsene da quei Centri, i militari passano ai reclusi il cellulare dicendo: “chiama e fatti mandare i 200, 300 dollari per uscire”.

Noi abbiamo alimentato questo sistema anche coi respingimenti. Nonostante l’Italia nel 1951 abbia firmato la Convenzione di Ginevra, che riconosce il diritto all’asilo politico.

Noi abbiamo l’articolo 10 della nostra Costituzione che è stupendo: restituisce la dignità a noi Italiani. Perché ogni volta che non accogliamo e sprechiamo le risorse (anche se poche) di cui disponiamo, ogni volta che offendiamo la dignità di un rifugiato, di un immigrato, offendiamo prima la nostra dignità come Italiani.

[Art. 10_ L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.]

Eppure dal 1951 ad oggi, nonostante lo splendido articolo 10 della nostra Costituzione, l’Italia non è stata capace di arrivare ad una legge organica sull’asilo politico. Ed è l’unico paese. Abbiamo un primato, di cui vergognarci. Rispondiamo in continuazione alle direttive dell’Unione Europea, per uniformare gli standard, ma anche in questo caso non siamo capaci. Uniformare significa che in Italia, in Spagna, in Germania, in Inghilterra, in Svezia e così via, ci dovrebbe essere lo stesso trattamento. Ma allora non mi spiego come mai la donna somala che arriva in Svezia con i suoi bambini viene accolta in una casa, quando viene rispedita in Italia in nome di una convenzione crudele che è la Convenzione di Dublino, si ritrova a elemosinare un posto in un Centro. Se le va bene. Sennò dorme fuori. Queste sono le sofferenze gratuite che noi offriamo a chi, già messo in croce, ha pagato sulla propria pelle molto altro, prima di arrivare in Italia.

Grazie a Dio però c’è anche tanta brava gente che è disposta a incontrare i richiedenti asilo, i rifugiati, gli immigrati, per cui è possibile accogliere, comprendere e accompagnare tenendo vivo l’unico bagaglio con il quale arrivano queste persone, cioè la speranza. La speranza di potersi rimettere in piedi. E per noi è doveroso stabilire una relazione, conoscere, per tenere viva questa speranza. Di brave persone ce ne sono tante, legate alla Chiesa e non legate alla Chiesa, che testimoniano come dovremmo funzionare. Però, purtroppo, sulla povera gente c’è sempre qualcuno disposto a guadagnare.

Io dico sempre ad alta voce che in questo contesto, in questo momento, dovremmo tutti avere più coscienza. Perché col sociale non si possono fare i soldi. Andiamo a vedere quanti Centri sono nati su ex villaggi turistici, che ora operano nell’accoglienza. Ed è importante, perché tutto nasce da una battaglia culturale che richiede tempo ma è prioritaria. Gli Italiani devono chiedersi come vogliono vivere, riacquistando dignità.

Allora, come vogliamo vivere? Perché, se non ci trasformiamo noi, il sistema non cambia.

Quindi incontrarsi, parlare, anche e soprattutto nelle scuole, perché i giovani hanno la possibilità di rendere nuovamente degno il nostro paese. Non è un problema politico, perché i Centri di Identificazione sono nati con un Governo di Sinistra. Se qualcuno ricorda l’ultima campagna elettorale si può rendere conto che l’immigrazione è una tematica impopolare. L’accoglienza progettuale fa perdere voti. Quindi se l’Italia non arriva a ricercare la propria e altrui dignità, il sistema non cambia. Si tratta davvero di una battaglia a lungo termine nel campo educativo e formativo delle coscienze.

Chi pensa che sparando sugli immigrati acquista voti, dovrebbe vergognarsi. Perché l’Italia nella Costituzione riconosce il diritto di asilo. E’ un comportamento schizofrenico. Il tutto poi, con falsità viene venduto come uno strumento per colpire i trafficanti di uomini. Cosa in realtà comportano i respingimenti? Avere tante persone nei Centri in Libia, esposte ai trattamenti che sappiamo. I trafficanti non hanno perso niente, hanno dovuto solo cambiare rotta, perché sapevano che Lampedusa non era più praticabile. Però nuove rotte significano viaggi più pericolosi, maggiore guadagno per i trafficanti, maggiore rischio per chi tenta di mettere in salvo la propria vita.

Quando pubblicamente il ministro dell’interno, responsabile del controllo su questa situazione, ha detto che i respingimenti mirano a colpire i trafficanti di esseri umani con lo scopo di salvare vite umane, nessun giornalista presente ha avuto il coraggio di chiedere: “ci spieghi come ha salvato vite umane”.

Respingimento significa soltanto negare un diritto che si afferma a parole.

Accogliere non è carità, non è buonismo. È restituire dignità alle persone e riconoscerne i diritti di fatto.

Queste persone sono una ricchezza.

Prima di tutto in quanto persone, portatrici di un bagaglio culturale: quando si condivide con loro si ha l’opportunità di comprendere e riconoscere la ricchezza che rappresentano. Non quella che ci vogliono vendere come ricchezza perché rientra nel sistema produttivo italiano.

Sicuramente i loro figli sono più numerosi dei nostri, quindi questi pagheranno le nostre pensioni. Ma non è quella la ricchezza. Non diamo all’economia un valore superiore a quello della persona. Poi ci sono tante realtà in cui i rifugiati si rimettono in piedi, stabiliscono relazioni e contribuiscono anche alla nostra ricchezza economica. Chiudo con un esempio concreto: qui a Roma, sette o otto rifugiati stanno riciclando la plastica. In un mese – hanno iniziato ad agosto –

hanno recuperato 300 kg di plastica, producendo oggetti come borse, segnalibri, bicchieri: la bottiglia di plastica che noi buttiamo via diventa un bicchiere. I 300 kg in un mese hanno un ricavo, ad oggi, di 11.888 euro. Quindi, possiamo riconoscere reali esempi positivi in ciò che viene comunemente vissuta come invasione (si parla tanto di ondate bibliche, di emergenze, ma da quanti anni assistiamo quotidianamente al fenomeno degli sbarchi? Si può parlare ancora di emergenza?).

Abbiamo esasperato Lampedusa con quale finalità? Si richiedeva l’intervento europeo, ma quando l’Europa ha comunicato la quota di fondi che ci destinava, nessuno ha replicato.

Quello che appare una minaccia per noi, alla fine si rivela invece fruttuoso, quando ci si mette in condizione di restituire dignità e diritti all’altro. In questo modo migliora la qualità della vita di tutti.

Quindi l’invito è ad uscire di qui con la coscienza irrequieta, per chiederci come abbiamo deciso di vivere.

Ricordiamoci di quanto sia difficoltoso muoversi all’interno dell’Unione Europea, di quanti rischi si corrano e di quante persone non arrivano a destinazione.

Chiediamoci: è vero che la persona è importante per noi, perché ha la nostra stessa umanità?

Viviamo con questa domanda.

Quali priorità ci diamo? In ogni banale decisione quotidiana che operiamo esiste una parte di responsabilità sociale. Se per fabbricare un cellulare occorre manodopera minorile ridotta in stato di semischiavitù e ogni Italiano ne possiede in media due, in questo molto probabilmente c’è la mia parte di responsabilità. Ma bisogna essere consapevoli che, per chi non ha diritti, rimettersi in piedi è possibile col contributo di tutti.

Rifiutando la non accoglienza, rifiutando le decisioni che vengono operate alle nostre spalle, ma che dipendono da noi.

Interventi dei partecipanti e risposte dei relatori

 

3.1 Interventi della mattina sul tema: La sofferenza come opportunità per conoscere il nostro limite e sperimentare solidarietà e condivisione

 

Bruno Domenichelli: Innanzi tutto sento il bisogno di ringraziare per il loro intervento Daniela e Nicola che con il loro intervento così partecipato ci hanno spiegato che Dio non è tra le nuvole ma è qui vicino a noi, dentro di noi, questo è il regalo più bello che ci potessero fare. voglio segnalarvi un articolo apparso su una rivista di cardiologia il cui titolo è “La sofferenza non necessaria” cioè quella evitabile con l’aiuto del prossimo.

“…Scopo di questo articolo è quello di sensibilizzare al problema della “sofferenza non necessaria”; di quel diffuso malessere esistenziale che trova il suo potenziale correttivo nella valorizzazione collettiva del concetto di “ecologia della mente”. Proprio perché “evitabile”, la sofferenza psicoemotiva assume una specifica valenza etica e coinvolge tutti coloro, medici, sociologi, autorità sanitarie che, in qualche modo, spezzando l’isolamento dell’individuo, possono agire per rendere più tollerabile la fatica di vivere.

Un’analoga battaglia contro il “dolore non necessario” specialmente negli stati terminali oncologici, è stata combattuta in Italia negli ultimi anni e, anche se solo recentemente, è stata coronata all’emanazione di leggi che facilitano la prescrizione di farmaci oppiacei contro il dolore e potenziano l’attività dei centri per la terapia del dolore.

Confortati dal buon esito delle campagne di sensibilizzazione contro il “dolore non necessario”, abbiamo voluto dare il nostro contributo affinché la “sofferenza non necessaria” non corra anch’essa il rischio di continuare ad essere ignorata per l’indifferenza di una società sensibile solo ai richiami

della produttività. La sensibilizzazione di operatori e popolazione non può essere quindi facilmente codificabile ed è impossibile elaborare programmi standardizzabili di intervento.

Sembra comunque giustificabile dare l’avvio all’istituzione di una rete di presidi e di iniziative atte a fornire al cittadino la possibilità di un conforto anche professionalmente qualificato.

Per alcuni l’infelicità costituisce l’espressione di una predisposizione alla sofferenza mentale, un’incapacità congenita di vivere felici, spesso scatenata da “futili” e superabili motivi. Altri sono

travolti da eventi esistenziali realmente sconvolgenti, ai quali, per disposizione caratteriale o più spesso per solitudine, non riescono a reagire. Per tutti, sarà meno difficile uscire dalla sofferenza mentale grazie ad un adeguato supporto psicologico che indichi la strada per elaborare tolleranza, comprensione del prossimo, disponibilità al compromesso ed autostima e soprattutto per calarsi in una filosofia dell’accettazione della sofferenza, sia nella dimensione di un credo religioso, che come espressione di un’orgogliosa sfida laica. “La virtù stoica e quella cristiana, pure agli antipodi, confluiscono nel recupero della libertà umana”.

Ogni cura, comunque, “lungi dall’essere soltanto abolizione della sofferenza, deve essere un lento apprendimento a vivere con le proprie ferite, con le proprie debolezze e fragilità, spesso con la propria solitudine”. Per emergere dall’angoscia della solitudine alcuni confidano in una “pastorale della salute”, convinti della “forza terapeutica di una sana spiritualità e attenta alla salute della persona nella sua interezza”.

Nell’approccio multidisciplinare alla sofferenza e alla malattia “stanno ricevendo sempre più attenzione le variabili spirituali che si riferiscono alla ricerca di significato, di speranza, di amore e di connessione al trascendente. Una speranza legata alla funzione umanizzante propria dell’esperienza della sofferenza”.

Comunque sarà stato possibile penetrare all’interno della “sofferenza non necessaria”: attraverso le vie della solidarietà umana, della professionalità del medico o dell’approccio religioso o spirituale, sarà certamente meno frequente per il cardiologo vedere cardiopatici morire “di” solitudine.

Vorrei concludere con una riflessione sul significato della malattia, specie di certe malattie apparentemente gravissime ma che poi possono risolversi, malattie quindi che possono avere una funzione speciale per farci capire il significato della vita, per riuscire a ridimensionare le cose della vita per capire le cose necessarie, “vere” della vita. Questo è l’extra tempo che la malattia ci dà, è il privilegio che spesso la sofferenza ci dà per continuare a vivere e per capire perché viviamo.

Chiara Flamini: mi è tornato in mente ascoltando Mozzetti che si parla spesso di malato e familiari. Penso che sia importante cominciare a pensare al malato e al mondo che gli gira intorno, si pensa a volte solo a malato e familiari, non sempre i familiari sono le persone più vicine. Penso che bisogna allargare lo sguardo, penso alle coppie di fatto o omosessuali e ancor di più alla funzione che svolgono gli amici che spesso hanno una relazione più stretta di molti familiari.

Il nostro modo di capire la vita dipende dal fatto se la nostra visione della vita comprende o no la morte, c’è una comprensione della vita che deriva dalla coscienza della possibilità della morte e una diversa se la morte viene negata. La malattia e la morte vengono sempre più considerate come un incidente, qualcosa che non deve succedere, ma è come la nascita, è un trauma, ma meno male che abbiamo vissuto questo trauma che è stato il modo di entrare nella vita.

Paolo Tocci: la prima esperienza della morte, l’elemento più drammatico della mia vita è stata la morte di mia madre, giovane 54 anni. Io il giorno prima che morisse le avevo detto: “Quando mamma morirai io farò la preghiera di S. Agostino: non Ti chiedo perché me l’hai tolta, ti ringrazio perché me l’hai data.” da allora il tema della morte mi accompagna. Vedo che la parola morte è esorcizzata, io invece la voglio sottolineare e mi voglio mettere nell’istante della morte e togliere alla morte “il suo pungiglione”. La morte è il momento in cui la persona si bagna profondamente nella vita, vi si immerge completamente, il momento si può paragonare a quello della nascita. La morte non come fine ma come strettoia, come per la nascita attraverso uno stretto passaggio entriamo nella vita così attraverso la morte entriamo in una nuova dimensione. Noi lo sappiamo e dobbiamo annunciarlo, senza distinzione di religione. Sarà un momento al cospetto di Uno che se ti sei realizzato nell’amore spontaneamente abbraccerai, se la tua realizzazione è stata nell’odio e nell’egoismo spontaneamente ti allontanerai. La morte è l’abbraccio di qualcuno che ti aspetta da sempre, non è una disgrazia è una strettoia a cui noi attraverso il dolore e la sofferenza già siamo abituati a vivere, la morte infatti è già dentro di noi in tutte le fasi che lasciamo, che non muoiono ma si trasformano, come il bambino che diventa uomo.

Alberto La Porta: Ho perso da due anni è mezzo mia moglie che ho seguito per sei anni, siamo cresciuti insieme nella sofferenza. Ora ho scoperto l’assenza-presenza, nel senso che ti accorgi che qualcuno, che hai amato e che ti ha amato non finisce di starti vicino ma ti spinge e ti accoglie. Voglio proporre una scoperta che ho fatto, ho riscoperto Theilard de Chardin e mi è capitato di leggere un libretto sulla sofferenza in cui si parla della spiritualità nel senso dell’accettazione della vita e della sofferenza permettetemi di citare questo testo:

“O Signore mi era dolce, in seno allo sforzo, sentire che, sviluppandomi, aumentavo la tua presa di possesso su di me. E mi era anche dolce, sotto la spinta interiore della Vita, o nel gioco favorevole degli eventi, abbandonarmi alla tua Provvidenza. Fa’ che, dopo avere scoperto la gioia di utilizzare ogni forma di crescita per farTi, o per lasciarti crescere in me, io acceda senza sgomento all’ultima fase della comunione in cui ti possederò diminuendo in Te.

Dopo avere scoperto in Te Colui che è un «più me stesso», fa’ che io sappia pure riconoscerTi, venuta la mia ora, sotto le apparenze di ogni potenza estranea o nemica che sembrerà volermi distruggere o soppiantare. Quando, sul mio corpo (e ben maggiormente sul mio spirito!) comincerà ad incidere il logorìo dell’età; quando su di me piomberà dall’esterno, o nascerà in me, dall’interno, il male che fa diminuire o che rapisce; nell’istante doloroso in cui, tutt’ad un tratto, mi accorgerò di essere malato o d’invecchiare; e soprattutto in quel momento ultimo in cui mi sentirò sfuggire a me stesso, assolutamente passivo tra le mani di quelle forze ignote; in tutte quelle ore cupe, concedimi, o Signore, di capire che sei Te (purché la mia fede sia abbastanza grande) Colui che apre un varco doloroso nelle mie fibre per penetrare sin nel cuore della mia sostanza e rapirmi in Te.”

Credo che questi pensieri ci debbano accompagnare non solo nella vecchiaia e nella morte ma anche nelle tante morti che nel corso della vita affrontiamo, i tanti passaggi e cambiamenti a cui ridare una dimensione spirituale.

Antonella Soressi: io quando parlo della sofferenza non posso non pensare a Gesù e alla sua sofferenza, e questa visione non è solo per i cristiani, c’è un aspetto di Gesù che è vicino ad ogni essere umano, nel momento che sa di stare per essere catturato è come se fosse preso alla sprovvista. Avrebbe potuto vivere a lungo ma la sofferenza e la morte in croce sono la testimonianza dell’amore più grande. “Non c’è un amore più grande che dare la vita per coloro che si ama”. Il capovolgimento è la resurrezione che porta alla pienezza della vita attraverso la sofferenza e la morte. I primi cristiani chiamavano la morte “dies natalis” e così è ancora nella chiesa ortodossa. Nell’esperienza del linfoma e della chemioterapia ho avuto una maggiore sensibilità alle cose più importanti, sapendo che sei con un tempo limitato, forse, e allora quel tempo lo devi far fruttare.

 

Franca Travaglino: io avrei molto da dire per esperienza personale e perché vivo da 42 anni con chi soffre. Mi voglio riallacciare al discorso della sofferenza non necessaria, una sofferenza che non è fisica ma morale, dello spirito che forse è più grave di quella fisica. In una lettera che Meheretu ha dettato, e lui aveva una grande esperienza di sofferenza fisica che lo faceva urlare e poi sorridere, dice: “ il problema dell’umanità non sono la malattia e la sofferenza, la malattia anche quando non può guarire è sempre sopportabile, ma la mancanza di amore non è una cosa sopportabile, è quello il vero problema dell’uomo”. Se noi ci riflettiamo è così, anche la sofferenza fisica diventa insopportabile quando ci viene meno quell’aiuto, quella solidarietà di cui abbiamo bisogno. Non dobbiamo sottovalutare forme di sofferenza non fisica che richiederebbero maggiore attenzione. Sono stata malata di cancro, tra le varie conseguenze ci potrebbe essere il terrore della sofferenza, ha me è successo qualcosa di contrario, io invece con la malattia mi sono liberata del terrore della sofferenza, è come se non avessi più paura neanche della morte. Anche perché l’età mi avvicina e bene o male devo farci i conti e accettarla. ancora una cosa, per me la malattia, un linfoma, era come se non esistesse, forse perché sentivo più la vita e una forza che forse non era neanche la mia.

Paola Domenichelli: io ho conosciuto l’equipe di Villa Speranza durante la malattia di mia madre che è stata assistita da loro a domicilio e devo dire che sono veramente commossa nell’attestare con grande gratitudine quello che sanno fare i medici, i volontari e gli infermieri di Villa Speranza.

Non credo che avrei affrontato la morte di mia madre con la serenità che ho avuta, mi hanno accompagnato mano nella mano a dare a mia madre una morte serena. Io non ho mai negata la morte a mia madre, l’ho veramente accompagnata, coccolata. carezzata e questo è stato possibile anche grazie a queste persone che si sono presi cura di noi.

 

3.2 Interventi del pomeriggio sul tema: La sofferenza come conseguenza dell’ingiustizia contro cui siamo chiamati a lottare.

Antonella Soressi Sarebbe utile avere una tabella con due liste delle spese: in una i soldi per le “missioni di pace”, nell’altra quelli per gli “aiuti allo sviluppo”.

Una domanda: da che nasce l’indebolimento dei sindacati? Dalla concorrenza dei mercati internazionali oppure da quella politica che dirotta le forze dei poveri contro i più poveri?

Paola Aversa Ho la fortuna di lavorare in un centro Caritas con i rifugiati: fortuna perché è molto più ciò che si riceve che ciò che si dà.

Mi colpisce molto il discorso della complicità nel silenzio, complicità lì dove non riusciamo a creare spazi vitali per far valere i diritti di queste persone. Un altro punto importante è la solidarietà: lì dove prendiamo coscienza dei loro diritti, dove e come possiamo concretizzare il rispetto di tali diritti? Questa urgenza nasce dalla relazione, relazione con il più debole, relazione tra un tu e un io, che diventa inevitabilmente un noi. La relazione vera ti permette di cogliere le reali urgenze di bisogni immediati e di diritti fondamentali di giustizia e di equità e noi cristiani abbiamo una responsabilità particolare per un amore vero.

All’inizio del mio servizio ero preoccupata dell’efficienza: dare una risposta immediata ad un bisogno. Con il tempo ho capito che la cosa più importante è la relazione. Questa centralità della relazione non nega l’importanza del timbro per la mensa. Non è sempre possibile rispondere ad un bisogno, anche quando è primario, ma non deve mai mancare la relazione vera, un’attenzione profonda all’altro: “io sono qui per te”. L’altro è un essere insostituibile. Per noi cristiani non basta il binomio giustizia-equità, è fondamentale la carità, il dono di sé per accogliere il dono dell’altro.

Come fare rete per essere forza propulsiva lì dove si prendono le decisioni?

Marco Noli L’Italia è uno dei pochi paesi che non ha una legge contro la tortura. Come fare per impedire che la tortura, la violenza vengano utilizzate nei centri di detenzione ed espulsione o nelle piazze? Il primo messaggio che vorremmo fare passare è: non acquietarsi. Non acquietarci di fronte ad una sofferenza gratuita.

La legge Turco-Napolitano è quella che ha aperto i nuovi campi di concentramento in Italia. C’è una convergenza che coinvolge diverse forze politiche nelle decisioni prese sulla gestione della migrazione. Credo che non dobbiamo tanto cercare alleanze con questo o quel partito, ma essere capaci di condividere le lotte necessarie che in ogni quartiere sono già in piedi. La condivisione con coloro che soffrono è la strada da percorrere. Quando, come sindacati, si entra in una logica di condivisione del potere, si perde la capacità di comprendere le reali ragioni delle sofferenze proprie e altrui.

Chiara Flamini Un segno di speranza… In una classe delle medie un ragazzo reagisce ad una provocazione pesante dando un pugno in faccia all’altro. Nel pomeriggio la mamma del ragazzo che ha reagito viene a scuola e ci racconta di aver detto al figlio: “Questo non è un comportamento da uomo”. Quel ragazzo è figlio di un egiziano e un’ucraina. Ogni giorno ho l’occasione di gioire di questi segni di speranza, che ci vengono dati da persone provenienti da altre parti del mondo: sono segni di un cambiamento portato da fuori che cambierà in meglio il Paese.

Vorrei chiedere a Giorgio che si toccasse il tema degli “stili di vita”. Vanno bene l’inquietudine, l’azione, una coscienza politica e delle scelte, ma non possiamo dimenticare un’attenzione allo stile di vita, ai reali bisogni discriminandoli dai bisogni indotti. A volte l’impossibilità di soddisfare un

bisogno (come per esempio un guasto alla lavatrice che rimane inattiva per una settimana) ci fa riscoprire la ricchezza di ciò che abbiamo e nello stesso tempo l’importanza delle relazioni e della solidarietà. Dobbiamo aiutarci a vivere uno stile di vita più sobrio.

Luigi Mochi Sismondi Mi pare che il denominatore comune di ciò che ci siamo detti oggi sia il passaggio dal sentimento alla responsabilità. Le situazioni di sofferenza personale o collettiva possono essere vissute in due modi: possono schiacciarci sotto il segno dell’impotenza o di cecità voluta, oppure possono dischiudere la strada della nostra responsabilità personale e condivisa.

Giovanni La Manna Vale la pena di credere e di impegnarci, pur sapendo che classe politica abbiamo. E’ partita la campagna per un referendum popolare che chiede di rivedere la legge sulla cittadinanza con due proposte concrete:

  1. Diritto alla cittadinanza italiana dopo 5 anni dalla nascita;
  2. Diritto al voto, nelle elezioni amministrative, dopo 5 anni di permanenza in Italia con regolare contratto di lavoro.

Negli uffici del Municipio, al Centro Astalli, in Caritas, UGL, CGIL… si può firmare la richiesta del referendum, dando una risposta concreta alle nostre aspettative. E’ importante muoversi aderendo alle iniziative che qualcun altro, con grande competenza e responsabilità, ha avviato.

Non dobbiamo pensarci onnipotenti, capaci di rispondere a tutte le aspettative, ma dobbiamo essere capaci di amare realmente, cioè restituire dignità, dare solidarietà. Quando penso al miracolo della moltiplicazione dei pani penso che Gesù abbia chiesto alle cinque mila persone presenti di condividere quello che avevano. Chi ci insegna la condivisione, guarda caso, sono coloro che hanno di meno. A Santo Domingo ci sono quartieri di baracche… L’unico piatto a disposizione è per l’ospite di passaggio. La vera giustizia è condividere ciò che abbiamo.

Grazie per avermi accolto.

Lorenzo D’Amico Rimango sempre meravigliato quando sento parlare Giorgio per questa sua capacità di chiarezza e profondità.

Non immaginavo la cifra di quasi un miliardo di persone che abitano nelle periferie delle grandi città. Mentre ascoltavo, mi chiedevo: perché di fronte a tali discorsi, ad un certo punto, calano dei sipari di difesa? Perché il quadro che abbiamo davanti è per ognuno di noi troppo grande e allora si chiude, a volte si smette di ascoltare. Cosa aiuta a superare la nostra impotenza? Sì, è vero, innanzitutto è necessario cercare un’informazione non edulcorata, saper andare oltre quelle informazioni che falsano la realtà, come è successo per esempio riguardo al mondo arabo, descritto per anni come un mondo violento e capace di violenza, mentre le grandi rivolte popolari in Egitto, Tunisia e Libia ce lo hanno mostrato in tutta la sua grande ricchezza. In questo senso sarebbe utile conoscere l’esperienza di suor Lucia a Napoli. Il grave problema dell’umanità è il grande potenziale positivo non utilizzato: il cogliere i segni di speranza ci permette di mettere a fuoco ciò a cui posso contribuire in maniera efficace e, quanto più si concretizza il nostro impegno, tanto più cresce il potenziale che c’è in noi.

Franca Travaglino: In questo quadro di disuguaglianza e di sofferenza, cosa posso fare io? Rimettere al centro l’importanza della relazione. Su questo voglio portare due esempi.

  1. L’anno passato partecipai ad un convegno internazionale con la presenza di molti giovani soprattutto etiopi, eritrei, nigeriani… Si chiese loro: “Che cosa ti ha fatto soffrire maggiormente da quando sei in Italia?” Apprezzavano l’accoglienza, la sistemazione raggiunta, ma lamentavano la distanza emotiva, relazionale. “Abbiamo sempre sentito da parte di chi ci accoglieva un ‘voi’ e un ‘noi’, ci mancavano e ci mancano luoghi d’incontro in cui condividere.
  2. Guidavo una scuola ad Asmara (Eritrea) per bambini poveri. Venne una donna con due figli di 2 e 3 anni, ma noi accoglievamo bambini solo dai 5 anni in su. Le spiegavo che per noi non era possibile accogliere i suoi figli e le diedi l’indirizzo di una struttura che rispondeva alle sue esigenze. La donna mi disse che li aveva portati da noi perché avessero almeno un pasto al giorno e

che era già stata nell’altra struttura: “Qui ci avete accolto, ci avete fatti sedere, ascoltati, lì da oltre il cancello ci hanno risposto che non c’era posto”.

La relazione ha il pregio di far cadere i muri che ci separano.

Alberto La Porta: Vorrei comunicarvi dei segni di speranza che ci vengono dai giovani: una coppia di nipoti ci ha scritto comunicandoci che quello che avrebbero dovuto spendere per le bomboniere del loro matrimonio lo avevano devoluto ad un’associazione del sud del mondo. Accade sempre più spesso nei funerali che si chieda di non spendere soldi per i fiori, ma di utilizzare quei soldi per questa o quell’associazione. Pio Parisi diceva: “Contro la povertà e l’ingiustizia, cambia il tuo stile di vita”. Così è la sobrietà… Tutte scelte personali che devono diventare scelte generali, politiche. Dobbiamo passare da un’inquietudine personale ad una coscienza politica, appunto insieme agli altri.

E’ stata ricordata da Giorgio “l’invidia sociale”, che realmente viene utilizzata dalla stampa e da molti politici, per mettere i poveri contro i poveri. Non è vero che per stare meglio occorre contrapporsi ai più deboli, escludendoli, ma occorre una concretezza politica. A questo proposito mi vengono in mente i capponi portati da Renzo dall’Azzecca-garbugli. I capponi si beccavano tra loro mentre Renzo li scuoteva, facendo con le braccia ciò che voleva. Sempre di più ci fanno credere che i nostri problemi politici nascono dagli immigrati. Dobbiamo operare una politica capace di includere e non di escludere.

Spesso i cristiani si sono preoccupati di scovare il male, il malvagio, che pure è presente, ma ciò che è fondamentale è saper vedere i germogli di speranza, di bene, sostenerli, dare ad essi una dimensione politica.

Ricordiamoci dei giovani che crescono, soprattutto al sud, senza esperienze e speranze di lavoro. Questa credo sia una delle povertà più gravi.

Giorgio Marcello: I dati degli ultimi 4-5 anni rivelano che, rispetto alla disoccupazione, i giovani sono esposti alla perdita del lavoro in misura doppia rispetto al resto della popolazione. Le forme di protezione sociale messe in atto tendono a tutelare i padri piuttosto che i figli: se uno lavora, c’è nel caso della crisi l’ammortizzatore sociale che è la cassa integrazione. Per i giovani non ci sono paracadute, c’è invece una sovraesposizione alla precarietà. In questo ambito mi sembra di poter dire, in base a piccole esperienze che faccio con gli studenti impegnati sul territorio, che sta crescendo una generazione di giovani capace di fare i conti con la precarietà e disponibile a coltivare energie e strategie di fronteggiamento. E’ un’impressione: non posso far riferimento a dati precisi. I giovani stanno metabolizzando che la loro condizione di vita e di lavoro non sarà come quella dei padri e dal dopo guerra questo è la prima volta che accade. Quindi, nel dover fare i conti con questo scenario nuovo, i giovani mi sembrano più pronti dei loro padri, e questo è un segno di speranza non irrilevante.

Il risentimento, l’invidia sociale, su cui Revelli ci invita a riflettere, non è quello dei poveri, ma quello di persone che stanno vivendo un “malessere da perdita”. Questo riflesso condizionato verso gli ultimi di una catena sociale è di chi avverte uno stridore tra aspettativa di vita, di consumo, di benessere e la realtà concreta: è l’effetto della “cittadinanza bloccata”, di cui l’autore parla. Si tratta di un sentimento collettivo che comporta il rischio di uno sgretolamento del tessuto sociale e, di fronte a questo pericolo, occorre battere il sentiero dell’impegno educativo, formativo, perché cresca la coscienza delle dinamiche che ci attraversano. Già Durkheim sosteneva che lì dove si perdono di vista i punti di riferimento, la cosa più efficace è l’impegno educativo. Occorre rifare da capo il discorso sul senso della vita, dei valori, su cosa significa stare al mondo, con pazienza, sapendo che l’impegno educativo è pura semina in pura perdita, non dà risultati immediati, ma è la fatica a cui siamo chiamati.

A proposito degli “stili di vita”, non ho da aggiungere altro a ciò che è stato detto, se non che la povertà è un caso sempre più serio, perché alla politica la povertà non interessa, la povertà non crea consenso, non aiuta a costruire carriere accademiche. Ma la povertà non è un’eventualità: è uno scenario verso cui tutti stiamo andando: siamo destinati a diventare poveri. Questo linguaggio produce uno stridore così forte dentro di noi, che ci fa paura.

Quale politico si sentirebbe di affrontare la platea dei suoi eventuali elettori dicendo: “Guardate , stiamo diventando tutti poveri: la realtà è questa”.

Di fronte a questa crisi generale, stiamo supplicando i cinesi perché ci sostengano ancora un po’. Ci sono spostamenti di ricchezze, rapidi, improvvisi ed è un fenomeno che non si può arrestare. P. Pio direbbe: “Fermare una tale realtà, è come pensare di arrestare un’alluvione con l’idrante”. Si tratta, invece, di prendere coscienza e prendere coscienza delle enormi possibilità per noi, che sono chiuse dentro questo tornante che stiamo attraversando. Per dirla con un linguaggio omiletico, si tratta di evangelizzare la povertà, con mezzi poveri. Si tratta non di fare un discorso sulla povertà, ma di aiutarsi a riconoscere le enormi potenzialità che sono racchiuse all’interno di questo scenario di impoverimento: possibilità di ritessere relazioni dotate di senso. Dice il salmo: “L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono”. Ora, se ci accorgiamo che stiamo impoverendo, possiamo cogliere una possibilità in questo, non una sciagura: una possibilità per una vita migliore. Allora davvero ci sarà una rivoluzione.

Alcune parole su ciò che suor Lucia ed altri stanno portando avanti al rione Sanità a Napoli, perché ciò che sta accadendo può essere letto realmente come un segno di speranza. La Sanità è uno dei quartieri più difficili, in una città difficile come Napoli. E’ una di quelle periferie occidentali che si stanno rapidamente favelizzando. E’ un luogo in cui l’economia è legata strettamente a quella illegale. Le istituzioni esprimono una presenza sempre più rarefatta. In questo luogo sta avvenendo un fatto inaspettato, qui si incontrano pezzi di città che erano stati finora estranei ed ostili. Suor Lucia ed un gruppo di volontari svolgono in questo quartiere molti servizi, tra cui l’accompagnamento allo studio di varie decine di ragazzi immigrati o di seconda generazione, pochissimi napoletani autoctoni, una scuola di italiano per adulti, in particolare per donne che vivono in situazioni difficili. Molti dei volontari presenti vengono da una zona “bene” di Napoli: i Colli Aminei, dall’altra parte di Napoli. Come è avvenuto questo? Nei primi anni della presenza di suor Lucia, ha lavorato con lei un trentacinquenne, Stefano, il quale, vedendo il tentativo di radicamento di suor Lucia, si è trasferito dai Colli Aminei al Rione Sanità. Stefano lavorava in banca e in questo radicamento con i poveri, ha scoperto una possibilità nuova di vita, ha cambiato totalmente vita. A gennaio di quest’anno, Stefano è improvvisamente morto d’infarto. Aveva compiuto da poco quaranta anni. Questo fatto tragico ha fatto sì che i suoi fratelli e amici scoprissero la vita di Stefano, per loro nascosta, misteriosa, strana. I racconti di suor Lucia, dei ragazzi e delle famiglie del rione Sanità hanno dischiuso a loro la vita di questa persona. Dopo la morte di Stefano amici e fratelli hanno iniziato ad avvicinarsi al quartiere, a lavorare come volontari… così è avvenuto l’incontro tra due pezzi così lontani di città. In un mondo come il nostro, in cui sembra che non ci sia più nulla da fare, in cui tutto sembra sbriciolarsi, dobbiamo saper cogliere i segni di speranza, anche allenarci a coglierli, imparando strategie di comunicazione e di connessione. La chiamata di questo nostro tempo è quella di cogliere, nella crisi in atto, quelli che potrebbero essere i segni di una gestazione: siamo dentro le doglie di un travaglio che, sicuramente, genererà possibilità di vita nuove. Il nostro sguardo è troppo pigro, troppo poco allenato ad intravedere le novità che, comunque, si stanno preparando anche quando noi dormiamo, anzi soprattutto quando noi dormiamo, come direbbe una nostra carissima amica, monaca di clausura.

Franca Travaglino Sara, mio marito ed io, in Etiopia ed Eritrea, da 42 anni stiamo investendo sulla povertà. I poveri e i piccoli insegnano ed hanno delle potenzialità, delle risorse inaspettate. Occorre saper ricercare insieme ai poveri quali sono i reali bisogni e le possibili soluzioni ai problemi. Proprio questo cammino comunitario ha portato alla luce ricchezze inaspettate, con persone ritenute scarti umani, perché malate di lebbra, AIDS, TBC: persone che rappresentavano un male sociale, un pericolo sono divenute una risorsa. Investendo con i poveri, tramite la fraternità, abbiamo ottenuto ricchezze impensate. Dopo il fallimento dell’uguaglianza e della libertà, dobbiamo vivere la fraternità. La condizione attuale di un paese impoverito come l’Italia può rivelarsi una risorsa preziosa per tornare alla dignità di una vera vita, di una sana eticità.

Gianfranco Solinas Questa è stata una giornata in cui ci siamo fatti scuola reciprocamente, abbiamo ascoltato lucide analisi e la testimonianza di una povertà che libera e ci aiuta ad essere

insieme liberi. La situazione di congiuntura che stiamo vivendo mostra come la precarietà è una condizione permanente e il limite che tocchiamo ci toglie deliri di onnipotenza e, tramite la fraternità, ci offre l’opportunità di una vera liberazione.

Ghislain Lafont, questo straordinario monaco ed amico, ci ha telefonato stamattina per esprimere la sua vicinanza a questo nostro incontro.

Gesti quotidiani di vicinanza preparano l’alba nuova che desideriamo e fanno crescere questa speranza di un mondo nuovo.

Contributi dei lettori

Con piacere pubblichiamo i contributi di qualcuno dei nostri amici:

Francesca Tiralongo: La mia esperienza nella sofferenza della malattia (da dieci anni) mi ha resa più disponibile verso gli altri. E’ difficile e pesante, ma la fede mi aiuta tanto. Non sono stata abbandonata da nessuno, le amicizie sono rimaste tutte, ma sai però che cosa ho capito? Non mi lamento mai della mia situazione , quindi non affliggo nessuno. Devo dire che a parte la fede, la serenità viene anche dalla famiglia, siamo molto uniti e di questo ringrazio Dio.

Suor Chiara Patrizia:

Io non so Chi Tu sia,

non conosco il Tuo nome,

eppure so che Tu hai lasciato

un sigillo dentro di me.

Lo vedo

nell’attesa che dà respiro alla vita

e nel desiderio che sospinge

oltre ogni cosa.

Lo sento

nel mio corpo che si insemina nella Terra

dove l’unguento profumato

che Tu hai lasciato

invita al riposo.

Non so chi Tu sia,

ma so che Tu ci sei

e in questo sapere del cuore

è certezza di vita.

Enza Fracassi(insegnante nel carcere di Rebibbia) : “…Dopo aver ricevuto la vostra lettera ho letto l’intervento su Bonhoeffer e le poesie che erano riportate ai detenuti, alla fine della lettura in molti mi hanno chiesto la fotocopia delle poesie.”

Nota di servizio: anche questa lettera è stata spedita al nostro indirizzario. Chi si trovi inserito senza desiderarlo ci scusi, basta una comunicazione e provvederemo a cancellare l’indirizzo. Chi invece viene a conoscenza di questa lettera e vuole riceverla ce lo faccia sapere. Come sempre sono gradite segnalazioni di indirizzi di persone interessate.

Come sapete non prevediamo un abbonamento per ricevere questa nostra lettera in modo da non limitarne la diffusione, le spese di stampa e di spedizione infatti sono contenute. Ogni partecipazione a queste spese sarà comunque gradita, il nostro Conto Corrente Postale è il 45238177 intestato a Francesco Battista

 

  1. La storia e le parole di Meheretu Salomon sono state pubblicate in un libretto “Sapienza di un pastore analfabeta” a cura dell’Hanseanians’ Eritrean-Ethiopian Welfare Organization. ( H.E.W.O.) e a loro, anche nostro tramite, si possono richiedere informazioni
  2. 1. Sradicare la povertà estrema e la fame; 2. Garantire a tutti l’istruzione primaria; 3. Promuovere il superamento delle disuguaglianze di genere e l’empowerment (autonomia) delle donne; 4. Ridurre la mortalità infantile; 5. Migliorare la salute delle madri; 6. Combattere l’Aids, la malaria e altre malattie; 7. Garantire la sostenibilità ambientale; 8. Promuovere un partenariato mondiale per lo sviluppo.
  3. Tali indicatori sono messi a disposizione da 27 organizzazioni internazionali (come l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la FAO, l’UNESCO, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la BM, il FMI, l’UNICEF, l’OECD, ecc.) e dai governi dei singoli stati. Poi vengono raccolti, elaborati (non senza problemi) e costantemente aggiornati da un gruppo di ricercatori cha fanno capo al dipartimento affari economici e sociali delle nazioni unite.
  4. In M. Castelli, P. Parisi, F. Rossi De Gasperis, P. Stancari, Dal profondo, Cens, Milano, 1995.
  5. G. Trotta, Relazione al Circolo Dossetti di Milano il 23 marzo 2001, consultabile sul sito www.circolodossetti.it
  6. Pio Parisi, in “Dal profondo”, cit.
  7. Ibidem
  8. Ibidem