Lettera 21 (Seconda Serie)

In questa lettera proponiamo la prima parte del Convegno “Dialoghi sulla sofferenze e la morte” che si è tenuto a Roma presso la Parrocchia dei SS. Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela il 29 ottobre 2011. Ma, prima di tutto, nell’esprimere tutta la nostra gratitudine a chi è intervenuto e con noi ha reso importante e significativo questa occasione, vogliamo rilanciare l’invito a partecipare alla nostra riflessione. Aspettiamo quindi i vostri pensieri e i vostri commenti sulle relazioni e in genere sul tema del nostro incontro. Potete spedirli agli indirizzi che trovate nell’ultima pagina, li pubblicheremo nella prossima lettera insieme al dibattito avvenuto nel corso del convegno. Ricordiamo a tutti, a questo proposito, che il dialogo e la partecipazione sono il mezzo ma anche il fine dell’impegno del nostro gruppo.

In questa prima lettera di relazione del convegno presenteremo gli interventi della mattina che abbiamo voluto dedicare alla sofferenza come opportunità per conoscere il nostro limite e sperimentare solidarietà e condivisione. Seguirà una seconda lettera che presenterà le relazioni del pomeriggio che hanno affrontato la sofferenza come conseguenza dell’ingiustizia contro cui siamo chiamati a lottare e tutto il dibattito.

Sommario della 21° lettera:

Prima parte del convegno “dialoghi sulla sofferenza e la morte”:

 

  1. Presentazione ed introduzione. di Gianfranco Solinas
  2. “L’apertura del cuore” Amare la vita, resistere e affidarsi nella
  3. sofferenza, essere per gli altri: la testimonianza di Dietrich Bonhoeffer. di Luigi Mochi Sismondi
  4. Una testimonianza di vita in chemioterapia.l’esperienza di Daniela e Nicola
  5. Cosa avviene durante la sofferenza? Opportunità e fragilità.di Lorenzo D’Amico
  6. Esperienze di assistenza ai malati terminali. di Franco Mozzetti

Presentazione e introduzione

di Gianfranco Solinas

”… il tema che vi proponiamo riguarda la sofferenza e la morte. La proposta di questo tema è maturata nella riflessione condivisa del nostro piccolo gruppo, che si incontra ogni due mesi e che è aperto a chi ha il desiderio di parteciparvi.

Abbiamo sentito il bisogno di sottrarre questo tema al silenzio, alla rimozione, alla paura che lo circonda. Ci poniamo spesso queste questioni quando siamo pressati da eventi che ci toccano da vicino; qualche volta poi alcune domande di senso irrompono improvvisamente nelle nostre giornate frenetiche. L’infanzia e la vita anziana sono i tempi in cui questi interrogativi affiorano più spontaneamente.

Da soli, comunque, la nostra ricerca solitamente balbetta, non va lontano, resta impigliata nel dolore di certi momenti, nella paura, negli stati di ansia.

Di solito cerchiamo di illuderci e di evitare di porci con la necessaria profondità questioni che avvertiamo come disturbanti. Eppure esse fanno parte della nostra esistenza: ci dobbiamo fare inevitabilmente i conti.

Per giunta rappresentano delle opportunità. Diciamo, per esempio, riferendoci a persone che hanno vissuto momenti difficili di malattia o che hanno sperimentato sulla loro pelle le conseguenze di gravi ingiustizie, che esse hanno una maturità speciale, che sanno comprendere e accompagnare altre persone in difficoltà, che hanno scoperto l’essenziale, spogliandosi della superficialità e dell’auto – illusione.

Allo stesso tempo la sofferenza e la morte sono spesso occasioni per fare esperienza tangibile di vicinanza fraterna, di condivisione, di legami forti, specie in momenti in cui si toccano duramente con mano la condizione di limite e l’illusorietà della corsa al successo e al potere.

Anche se il titolo di questo Convegno, in prima battuta, può aver spaventato un po’ ci invita a riflettere assieme su questi temi con coraggio, non facendoci bloccare dalle paure, quelle paure che tanto condizionano l’esistenza di tutti, in questo tempo di profondo e rapido cambiamento.

Nell’avviare i lavori, desideriamo innanzitutto segnalare a tutti alcuni pericoli che potremmo correre, cui abbiamo accennato quando abbiamo presentato il Convegno:

  • La tentazione di forzare il cammino di ricerca sul terreno della fede, di persone che sperimentano la sofferenza o che si approssimano al momento della morte. Gli stessi cristiani sono tentati di imporre, in questi momenti, il proprio credo religioso e le proprie sicurezze, mentre la testimonianza della propria fede va sempre portata, “in punta di piedi”;
  • La tentazione di espropriare gli ammalati, specie nella fase terminale della vita, della loro dignità e del loro fondamentale bisogno di conoscere la loro condizione, sopratutto in questo tempo in cui certe fasi dell’esistenza rischiano di essere totalmente affidate ai tecnici, al punto che i medici finiscono per essere gli unici detentori della nostra vita. Giocano in questo senso la fragilità e il disorientamento dei familiari e dei parenti; pesa anche l’esistenza di norme che impongono forme di accanimento terapeutico, essendo state varate in un clima di scontro tra schieramenti contrapposti. Questo ultimo aspetto potrà essere affrontato in altra occasione poiché abbiamo scelto di non proporlo nella ricerca di questo Convegno.

L’incontro si articola in due momenti, poiché abbiamo scelto di lasciarci interpellare anche da esperienze di sofferenza che sono il frutto di oppressione e di rapporti segnati dall’ingiustizia.

Questo approccio sollecita la maturazione di una coscienza politica di respiro planetario. Pone inoltre a tutti noi domande stringenti di cambiamento degli stili di vita e di consumo; spinge anche a ritessere relazioni di vicinanza che permettano una condivisione viva delle sofferenze subite dai malmenati e dagli oppressi e una riprogettazione nel basso di opportunità di convivenza e di organizzazione sociale liberanti per tutti.

Non è per niente facile separare nettamente i due ambiti dell’incontro. Comunque, prima porremo la nostra attenzione su esperienze, testimonianze, interrogativi che riguardano la sofferenza e la morte come opportunità per conoscere il nostro limite e per sperimentare solidarietà e condivisione, mentre, poi dedicheremo la nostra ricerca alla sofferenza come conseguenza dell’ingiustizia contro cui siamo chiamati a lottare.

 

L’apertura del cuore Amare la vita, resistere e affidarsi nella sofferenza, essere per gli altri: la testimonianza di Dietrich Bonhoeffer di Luigi Mochi Sismondi

“ …Credo che onoriamo meglio Dio se conosciamo, godiamo e amiamo la vita che egli ci ha dato in tutti i suoi valori e perciò anche avvertiamo acutamente e con franchezza il dolore per quei valori della vita che sono stati compromessi o perduti , piuttosto che restando insensibili ai valori della vita, in modo tale da poter essere insensibili anche nei confronti del dolore.”

Dietrich Bonhoeffer (carcere di Tegel Berlino 1944)

Metto questa frase di B. che poi ritroveremo tra le citazioni dalle sue lettere a preambolo di questo mio intervento di cui costituisce anche la sintesi e il senso. La tesi infatti di questa breve relazione è che la sofferenza e la morte non sono né una prova né una scuola di vita a cui il Signore vorrebbe crudelmente sottoporci per purificarci ma una parte costituente della vita stessa. Non è il caso di esaminare ora le spiegazioni che la filosofia o la religione danno di questo fatto, ci accontentiamo di accettarlo come dato incontrovertibile. La scelta di fronte al dolore di rinchiudersi in una apatia relativa, in una trincea di egoismo ed indifferenza porta alla rinuncia alla vita stessa. Solo chi ama profondamente la vita è in grado di vivere positivamente l’esperienza della sofferenza e della morte, esperienza comune ad ogni vivente.

In questo contesto si situa la testimonianza di B. che abbiamo scelto non come l’emblema del sofferente per la giustizia, è certo stato anche questo, né come esempio di serenità nel dolore, ma perché la testimonianza di B. è quella della evangelica accettazione del perdere la propria vita per amore contro la chiusura in se stessi per la voglia di tenersela stretta: è questa la scelta che determina la possibilità di crescere nella sofferenza. Questa possibilità non sta in una ricercata indifferenza verso la vita terrena magari giustificata dal desiderio di “eternità”, non nella stoica accettazione del dolore ma in questa apertura del cuore alla gioia e all’amore, in questa cosciente continua gratitudine per la vita che ci è stata data e quindi nella capacità di vivere per gli altri fino alla rinuncia a se stessi.

Bonhoeffer amava profondamente la vita: le gioie di una vita familiare serena anche se non priva di dolori come quella di tutti, l’amore per la musica, l’arte, la cultura e poi lo sport e la natura che viveva andando non appena possibile nelle campagne e nei boschi.

Amava la compagnia degli amici, il mangiare e il fare festa, e di un amore tenero e profondo i suoi studenti. Amava con un amore attento e pieno di passione Maria con cui si era fidanzato solo sei mesi prima di essere incarcerato e che lo seguirà per tutta la sua prigionia.

Anche nelle lettere dal carcere in un ambiente così ostile dimostra questo amore per la vita, innumerevoli sono le note di ringraziamento per le piccole gioie materiali che gli sono permesse (le sigarette, il padre per lui seccava le foglie di tabacco quando a Berlino questo era diventato impossibile da trovare, il regalo di un dolce, un libro, la visita di un parente o amico, fino alle campane orecchiate dalla finestra della cella).

Più è grande l’amore per la vita e più forte è la nostalgia per le gioie che non può avere. Scrive a Maria nell’estate del ’43 dopo quattro mesi di prigionia: “… penso intensamente a te, vorrei camminare con te per il bosco fino all’acqua, vorrei nuotare e poi sdraiarmi da qualche parte all’ombra e sentire quello che dici, sentire tante cose e non dire nulla. Come vedi, sono desideri molto terreni e tangibili quelli che ho, e di conseguenza è molto terreno e vivo il malumore per la mia attuale condizione e ad esso io per qualche tempo concedo il giusto spazio. Il sole mi ha sempre affascinato, spesso mi ha ricordato che l’uomo è tratto dalla terra e non è fatto di aria e di pensieri. …Trovo così codardo sorvolare su queste realtà. E così la pazienza, la gioia, la gratitudine, la calma e il perdono devono continuamente farsi strada attraverso ogni genere di ostacoli per poter veramente riconoscere, sperimentare e credere che, come è detto nel salmo, «Dio è sole e scudo», è questione di alti momenti di grazia, ma non saggezza di tutti i giorni.”

In un altra lettera Bonhoeffer stesso spiega “ …Credo che onoriamo meglio Dio se conosciamo, godiamo e amiamo la vita che egli ci ha dato in tutti i suoi valori e perciò anche avvertiamo acutamente e con franchezza il dolore per quei valori della vita che sono stati compromessi o perduti , piuttosto che restando insensibili ai valori della vita, in modo tale da poter essere insensibili anche nei confronti del dolore.” e ancora: “ Credo che dobbiamo amare Dio e avere fiducia in lui nella nostra vita e nel bene che ci dà, in una maniera tale che quando arriva il momento — ma veramente solo allora — andiamo a lui ugualmente con amore, fiducia e gioia. Ma per dirla chiaramente che un uomo nelle braccia di sua moglie debba avere nostalgia dell’aldilà, è a dir poco una mancanza di gusto e comunque non é la volontà di Dio. Dobbiamo amare e trovare Dio precisamente in ciò che egli ci dà. Dio non farà mancare, a chi lo trova e lo ringrazia nella propria felicità terrena, i momenti in cui gli sarà ricordato che tutte le cose terrene sono qualcosa di provvisorio.” in un’altra lettera afferma: ”… solo quando si ama a tal punto la vita e la terra, che sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si può credere alla resurrezione dei morti e ad un mondo nuovo; solo quando ci si riconosce sottomessi alla legge di Dio, si può finalmente parlare anche della grazia.”

Prima di dover affrontare egli stesso il carcere e la morte B. aveva incontrato la sofferenza del suo popolo, sofferenza e tragedia alla quale coscientemente decide di partecipare quando nel 1939 ritorna da una sicura sistemazione negli Stati Uniti. Non voglio qui affrontar e il tema della sua partecipazione alla lotta al nazismo e alla Chiesa Confessante tedesca né quello della decisione quanto mai sofferta di partecipare all’uccisione del tiranno, di fatto B. si trova in carcere con speranze sempre minori di uscirne. E’ qui che deve fare i conti col momento dell’impotenza di fronte al male, la stessa impotenza che sentiamo davanti ad una ingiustizia a cui non possiamo mettere rimedio o a una menomazione fisica o alla morte.

Il suo atteggiamento non è passivo, cerca di fare tutto per uscire dal male e per questo prega il Signore: “La cosa che qui trovo più dura, interiormente è alzarmi la mattina. Ogni mattina io prego molto semplicemente di riavere la libertà. C’è una falsa imperturbabilità, che non è per niente cristiana. Non dobbiamo affatto vergognarci, come cristiani, di un po’ di impazienza, di nostalgia, di protesta contro ciò che è innaturale, né di una grande esigenza di libertà, di felicità terrena e di possibilità di agire.” E cerca anche di fare quello che gli è possibile: “Penso che in primo luogo bisogna tentare ogni via per riuscire ancora a cambiare la situazione. Se tutto è stato tentato, e se tutto è stato inutile, allora è molto più facile sopportare. Certamente non tutto quello che accade è semplicemente «volontà di Dio ». Ma alla fine comunque nulla accade « senza che Dio lo voglia » attraverso ogni evento cioè, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio…”. Comunque vuole conservare la sua dignità e afferma: ” credo sia bene non parlare del proprio stato con estranei — per ché questo provoca un turbamento ancora maggiore, ma tenersi disponibili nella misura del possibile per le pene di altre persone. Soprattutto, non si deve mai cadere nell’autocommiserazione.”

Ma molte delle sofferenze non sono nelle nostre mani, l’affidare noi stessi e gli altri in mani più forti è la scelta di fede di B. : “Questa coscienza della nostra impotenza ha secondo me due facce: è inquietante, ma in qualche modo anche liberante. Finché noi cerchiamo di contribuire a determinare il destino di un’altra persona, non possiamo mai liberarci, alla fin fine, dell’interrogativo se ciò che facciamo serva davvero al bene maggiore dell’altro, se poi improvvisamente ci viene tolta ogni possibilità di dare il nostro contributo personale, al di là della paura per l’altro c’è però in qualche modo la consapevolezza che ora la sua vita è posta in mani migliori e più forti. Affidarci reciprocamente a queste mani è il grosso impegno delle settimane e forse dei mesi a venire…”

Raccontando dell’angoscia dei suoi compagni e sua dopo una notte di bombardamenti afferma: “Saprai già che le ultime notti sono state brutte, specialmente quella del 30 gennaio. La mattina i nostri sfollati a causa dei bombardamenti sono venuti da me a farsi consolare un poco. Ma credo di essere un cattivo consolatore. Posso prestare ascolto, ma non posso dire quasi niente. Forse però già l’atteggiamento con cui si domanda di determinate cose e non di altre serve ad indicare in qualche modo l’essenziale. Inoltre mi sembra più importante che si viva realmente una determinata tribolazione, piuttosto che sfumarla o mascherarla in qualche modo. Sono inesorabile solo contro certe false interpretazioni della tribolazione, perché pretendono di essere anche una consolazione, ma lo sono solo in modo assolutamente falso. Così lascio che la tribolazione resti non interpretata e credo che questo sia un primo passo responsabile, ma comunque solo un primo passo, al di là del quale vado molto raramente.”

A questo punto leggiamo una delle tre poesie che ho scelto per accompagnare il discorso, sono tutte e tre state scritte a Tegel nel luglio del ’44 prima che B. sapesse che l’attentato a Hitler era fallito,

  Chi sono?

Chi sono? Spesso mi dicono
che esco dalla mia cella
disteso, lieto e risoluto
come un signore dal suo castello.

Chi sono ? Spesso mi dicono
che parlo alle guardie
con libertà, affabilità e chiarezza
come spettasse a me di comandare.

Chi sono ? Anche mi dicono
che sopporto i giorni del dolore
imperturbabile, sorridente e fiero
come chi è avvezzo alla vittoria.

Sono io veramente ciò che gli altri dicono di me?
O sono soltanto quale io mi conosco?
Inquieto, pieno di nostalgia, malato come uccello in gabbia,
bramoso di aria come mi strangolassero alla gola,
affamato di colori, di fiori, di voci d’uccelli,
assetato di parole buone, di compagnia
tremante di collera davanti all’arbitrio e all’offesa più meschina,
agitato per l’attesa di grandi cose,
preoccupato e impotente per 1′ amico infinitamente lontano,
stanco e vuoto nel pregare, nel pensare, nel creare,
spossato e pronto a prendere congedo da ogni cosa?

Chi sono? Sono questo o sono quello?
Oggi sono uno, domani un altro?
Sono tutt’e due insieme? Davanti agli uomini un simulatore
e davanti a me uno spregevole vigliacco?

O ciò che in me c’è ancora somiglia all’esercito sconfitto

che si ritrae in disordine di fronte alla vittoria già conquistata?
Chi sono io? Questo porre domande da soli è ridicolo.
Chiunque io sia, tu mi conosci,

o Dio, io sono tuo!

 

Dall’affidamento a Dio nasce la consapevolezza che la liberazione viene da lui, siamo oramai alla fine di luglio, B. sa del fallimento dell’attentato e immaginando quale sarà la sua fine scrive:

“… non solo l’azione, ma anche la sofferenza è una via verso la libertà. La liberazione nella sofferenza consiste in questo, che all’uomo è possibile rinunciare totalmente a tenere la propria causa nelle proprie mani, e riporla in quelle di Dio. In questo senso la morte è il coronamento della libertà umana. Comprendere o meno la propria sofferenza come prosecuzione della propria azione, come compimento della libertà, questo determina se l’azione umana sia o non sia un affare di fede. Trovo tutto questo molto importante e molto consolante.”

Ma B. fa ancora un passo avanti, dall’affidamento liberatorio nelle mani di Dio alla partecipazione al dolore di Dio nel mondo: “Più tardi ho appreso, e continuo ad apprenderlo anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere-aldiquà della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa, un giusto o un ingiusto, un malato o un sano e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è fede, questa è μετάνοια e così si diventa uomini, si diventa cristiani. Perché dovremmo diventare spavaldi per i successi, o perdere la testa per gli insuccessi, quando nell’aldiquà della vita partecipiamo alla sofferenza di Dio? Tu capisci che cosa intendo dire, anche se lo dico così in poche parole. Sono riconoscente di aver avuto la possibilità di capire questo, e so che l’ho potuto capire solo percorrendo la strada che a suo tempo ho imboccato.”

La seconda poesia che leggiamo parla appunto del partecipare alla sofferenza di Dio per ricevere da lui salvezza:

Cristiani e pagani

Da Dio vanno gli uomini nel loro bisogno
implorano aiuto, chiedono felicità e pane,
d’essere liberati dalla malattia, dalla colpa e dalla morte.
Così fan tutti, cristiani e pagani.

Da Dio vanno gli uomini quando Lui ha bisogno,
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,
lo vedono consumato dal peccato dalla debolezza e dalla morte.

I cristiani stanno accanto a Dio nella sua sofferenza.

Dio va da tutti quando hanno bisogno,
sazia il corpo e l’anima con il Suo pane
e muore di morte di croce per cristiani e pagani
e perdona entrambi.

Ma la testimonianza di Bonhoeffer sulla sofferenza non può finire così, il tema che ora affrontiamo è quello che più gli è proprio, quello della responsabilità di fronte al mondo e del vivere per gli altri.

Per vivere per gli altri l’uomo, secondo B., anche quando si trova nella sofferenza deve cercare di superare il desiderio e la nostalgia per essere PRESENTE per gli altri allora può anche nei momenti bui essere di aiuto al prossimo: “…l’uomo deve essere sempre un tutto e non sottrarre nulla al presente. La sua nostalgia, che resta nascosta agli altri, è una nostalgia in qual che modo già sempre superata; e quanto più grande è il superamento che deve compiere, per essere totalmente presente, tanto più misterioso e affidabile egli diventa, nel fondo del suo essere, per il prossimo. I desideri cui ci attacchiamo troppo, facilmente ci tolgono qualcosa di quello che dobbiamo o possiamo essere. All’opposto, i desideri che riusciamo costantemente a superare per amore degli impegni che ci stanno di fronte, ci arricchiscono. L’assenza di desideri è povertà. Nell’ambiente in cui mi trovo ora ho che fare quasi soltanto con uomini che si attaccano ai loro desideri e che perciò non sono nulla per gli altri; non riescono a sentire più niente e sono incapaci di nutrire amore per il prossimo. Credo che anche qui si debba vivere come se non ci fossero desideri né futuro, ed essere totalmente quelli che siamo. E sorprendente come allora gli altri si rivolgano a noi, si lascino orientare e si lascino dire qualcosa.”

La necessità dell’agire, del ribellarsi alla sofferenza ingiusta, del compatire chi soffre per B. nasce dall’amore per l’altro che a sua volta nasce dalla sequela di Gesù: “Noi non siamo Cristo, ma se vogliamo essere cristiani, dobbiamo condividere la sua grandezza di cuore nell’azione responsabile, che accetta liberamente l’ora e si espone al pericolo, e nell’autentica compassione che nasce non dalla paura, ma dall’amore liberatore e redentore di Cristo per tutti coloro che soffrono.

I cristiani sono chiamati ad agire e a compatire non primariamente dalle esperienze che fanno sulla propria pelle, ma da quelle che fanno i fratelli, per amore dei quali Cristo ha sofferto”

Ma c’è un sentire l’altro parte di sé che appare più in una poesia che in tanti saggi allora leggiamo l’ultima delle poesie che volevamo presentare, si chiama “Voci notturne a Tegel”, la lascio alla vostra attenzione senza aggiungere nulla, è molto lunga la trovate trascritta per intero sui tavoli ora ne leggiamo solo le prime strofe e quella finale:

Voci notturne a Tegel

Disteso sul mio tavolaccio fisso la grigia parete.

Fuori una sera d’estate, che non mi conosce, cantando va per la campagna.

Lievi si spengono i flutti del giorno sulla spiaggia eterna.

Dormite un poco, corpo e anima stanchi, stanco capo, stanca mano!

Fuori popoli, case, spiriti, cuori, sono in fiamme.

Finché dopo la notte rosso sangue non spunti il tuo giorno

tu resta saldo!

Notte e silenzio.

Ascolto.

Solo i passi e i richiami delle guardie, il riso lontano, sommesso, di due amanti.

Odi null’altro, tu pigro dormiente?

Odo la mia anima tremare e agitarsi. Nient’altro?

Odo, odo,

come voci, come richiami, come grida per zattere di salvataggio,

muti pensieri notturni dei miei compagni di sventura che vegliano, che sognano.

Odo l’inquieto cigolio dei letti, odo catene.

Odo, come gli insonni si torcono e si stendono,

che anelano alla libertà e ad azioni di rabbia.

Quando il sonno li coglie sul far del giorno, mormorano nel sogno di figli, di mogli.

Odo felici sussurri di fanciulli adolescenti, che si ristorano di sogni da bambini.

Li odo aggrapparsi alle coperte per nascondersi all’incubo spaventoso.

Odo il sospiro e il debole respiro dei vecchi, che in silenzio si preparano al grande

viaggio.

Essi videro giustizia ed ingiustizia andare e venire, ora vogliono vedere l’incorruttibile,

l’eterno.

Notte e silenzio,

solo i passi e i richiami delle guardie.

Odi tu nella casa silente tremare, scoppiare, scricchiolare,

quando a centinaia attizzano la brace dei loro cuori?

Muto è il coro, teso il mio orecchio:

«Noi vecchi, noi giovani,

noi figli di tutte le lingue,

noi forti, noi deboli,

noi che dormiamo, noi che vegliamo,

noi poveri, noi ricchi,

eguali nell’infelicità,

noi buoni, noi cattivi,

comunque siamo stati,

noi uomini dalle molte cicatrici,

noi testimoni di coloro che son morti,

noi caparbi, noi scoraggiati,

noi innocenti e noi gravemente accusati,

noi duramente tormentati dalla lunga solitudine,

fratello, te noi cerchiamo, noi chiamiamo te!

Fratello, ci odi tu? ».

…….Disteso sul mio tavolaccio fisso la grigia parete.

Fuori una mattina d’estate che non è ancora mia

giubilando va per la campagna.

Fratelli, finché dopo la lunga notte non spunti il nostro giorno,

restiamo saldi!

Finiamo con un’ultima citazione che a noi è molto cara perché parla di quella visione dal basso che è un po’ il nostro programma: “Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti. Se in questi tempi l’amarezza e l’astio non ci hanno corroso il cuore; se dunque vediamo con occhi nuovi le grandi e le piccole cose, la felicità e l’infelicità, la forza e la debolezza; e se la nostra capacità di vedere la grandezza, l’umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera, più incorruttibile; se, anzi, la sofferenza personale è diventata una buona chiave, un principio fecondo nel rendere il mondo accessibile attraverso la contemplazione e l’azione: tutto questo è una fortuna personale. Tutto sta nel non far diventare questa prospettiva dal basso un prender partito per gli eterni insoddisfatti, ma nel rispondere alle esigenze della vita in tutte le sue dimensioni; e nell’accettarla nella prospettiva di una soddisfazione più alta, il cui fondamento sta veramente al di là del basso e dell’alto.”

Una testimonianza di vita in chemioterapia:

l’esperienza di Daniela e Nicola

Nicola:

Mi chiamo Nicola, ho 38 anni, come potete vedere portati benissimo! Qualche mese fa ricevemmo una telefonata per questo incontro mentre noi eravamo in vacanza e ci veniva richiesto di raccontare la nostra esperienza sulla malattia; eravamo in vacanza, in un tempo in cui si pensa poco, ma con Daniela ci siamo detti subito che era un’ottima occasione per fare il punto della nostra situazione.

La malattia e la sofferenza sono state la condizione della nostra vita, così come lo sono la salute ed il benessere mentale: questo non per sminuire la sofferenza, ma per dire che è una delle componenti della vita; spesso è una realtà che non accettiamo, o non vorremmo che capitasse a noi. Quando siamo in balia della nostra miseria, dei nostri limiti fisici o psicologici, scopriamo la nostra poca dimestichezza con le nostre debolezze e cadiamo a terra smarriti: questo è quello che è successo a noi. Viene improvvisamente un “intruso”, un ospite indesiderato, che è entrato senza chiedere permesso, la prima reazione è stato smarrimento totale, paura, angoscia; poi piano piano ti rendi conto che sei di fronte ad un bivio, una strada quella della disperazione dove o tu rimani lì bloccato, ammuffisci e la disperazione fa quello che vuole oppure fai quello che ha fatto Gesù nelle parabole, nei racconti mostrando sempre di capovolgere le situazioni che si presentavano. Questa storia ci ha permesso di fare un grosso cammino di fede. Anche per noi è stato necessario capovolgere la disperazione in opportunità, per conoscere te stesso, i tuoi limiti, per conoscerci come coppia. Il tumore, “l’intruso”, è arrivato nel picco più alto della nostra felicità di coppia: un anno e mezzo di matrimonio, una gravidanza … si è ribaltato tutto con grande rapidità. Se riesci a rallentare, mentre intorno tutto corre, rallenti, ti fermi, rifletti … la malattia ci ha offerto quest’opportunità, cominci a fare una scrematura tra quello che veramente conta nel tuo cammino. Non è che fino a quel momento le cose stupide non mi piacessero, mi facevamo comodo, mi divertivo un sacco, però il Nicola di 10 anni fa non è il Nicola di adesso. Sembra una bestemmia, ma è grazie a quella sofferenza che sono stato costretto a interrogarmi su ciò che veramente conta. Sperimenti ciò che sei realmente, la consistenza della coppia, quello che non hai mai conosciuto di te stesso e a volte quello che ti da fastidio di conoscere di te stesso; hai sempre creduto di non avere limiti ed ecco tutta la tua fragilità; proprio la presa di coscienza delle tue paure e angosce dischiude la tua vita. Tutto questo lo abbiamo messo nelle mani di Dio, rassegnandoci a lui ma non nel senso negativo del piegarsi o dello strisciare ma come atteggiamento religioso come un bambino appena dopo una caduta cerca il genitore, così noi ci siamo affidati alle mani del Signore. Alcuni amici mi dicevano: “Ma tu hai cercato Dio proprio quando stavi male?” – Si, è vero, e non me ne vergogno, ma da chi potevo andare? E’ stato così e meno male che è stato così; oggi ringrazio Dio per il bello e per il brutto, all’epoca non facevo nessuno dei due.

Questa nuova sensibilità: “la capacità di accettare il bello e il brutto”, ci ha dato una grande forza d’unione, è cresciuta molto la coppia. E’ vero la malattia ci ha impedito alcune cose, ma quello che ci ha permesso è di gran lungo molto di più e questo molto di più lo dobbiamo alla malattia; non la sofferenza di per sé , ma ciò che siamo diventati a causa della sofferenza, come coppia e come singoli.

La malattia non ci ha dato staticità, non ci ha fatto l’effetto delle sabbie mobili, ma ci ha creato un maremoto dentro che ci ha cambiato tutto. Ha acceso quella speranza che non è annebbiamento del cervello, non è la speranza che guarisci, ma coscienza che quello che stai facendo ha un valore positivo per te, per la coppia, per la gente che ti sta intorno.

Due piccoli esempi: sto leggendo un libro e questo è già un miracolo, si chiama “Spiritualità dal basso”: se prendi la malattia dall’alto, la malattia ti fa cadere, perdi l’equilibrio, se prendi la malattia dal basso, scendi dentro di te per fare un’ascesa, che dona un senso tutto nuovo al tuo quotidiano.

Sette anni fa passai un momento bruttissimo, mentre Daniela era in sala operatoria, io non avevo avuto a che fare con la fede fino a quel giorno, scendo nella cappella dell’ospedale incazzatissimo con Dio (Daniela mi strattona – devo dire arrabbiatissimo!). Ho sempre creduto che Dio fosse lassù in cielo, invece l’ho visto a quattro occhi e ho fatto una cosa che non è consigliata al catechismo, ho preso a calci il crocifisso che era su un piedistallo, l’ho gettato a terra, come quando colpisci una persona e gli ho detto: “Signore, aiutami, che stai facendo, ma non vedi quanto sono disperato? Sei mio Padre, aiutami”. Pensavo cha da quel momento mi avrebbe bandito da tutto il cristianesimo, invece è stato il momento in cui l’ho lasciato entrare; Lui sta facendo un percorso con me, a volte non lo capisco, ma continuo a fidarmi. Da quel momento non mi sono mai sentito abbandonato, continuo a discuterci, ad arrabbiarmi, ma da quel momento ho sentito di scendere nelle viscere di noi stessi per trovare il meglio, il reale di noi. E’ vero ciò che ho letto in questo libro: “ la potenza di Dio si manifesta tanto più in noi, quanto minore è la nostra forza”.

C’è un posto a Gaeta che si chiama la “montagna spaccata”, c’è una specie di balcone in alto da cui si può ammirare il mare, che io amo tantissimo, staresti lì per ore e ti basterebbe questo. Una volta ho fatto le scalette per scendere a livello del mare, sono scomodissime, tortuose, faceva freddo, ma quando arrivi giù si vedono dei colori del mare incredibili, senti le onde sulle rocce, e vedi vari mitili attaccati agli scogli….Questo è quello che è successo a noi, scendere in maniera scomoda, arrivare in basso e scoprire ricchezze incredibili e rendersi conto di avere Dio come compagno di questa scoperta e sentirlo come tua roccia.

Un ultimo esempio su le perle. Occorre scendere sott’acqua, scavare tra le rocce e trovare la perla solo nelle fessure, nelle ferite delle conchiglie. Dover passare attraverso tali fessure–ferite, fa male ma è straordinario ciò che si coglie quando si è dall’altra parte: si coglie la perla.

Daniela:

Io sarei la malata in questione, ma sinceramente non mi ci sento, ecco perché sorrido, ecco perché ringrazio Dio di farmi trovare qui in mezzo a voi, lo ringrazio per il gran dono dell’accettazione della malattia. Combatto con un tumore al polmone sinistro dal 2004, un tumore non operabile. Vivo, senza che lui sia il mio ostacolo primario. Grazie a percorsi di preghiera[1] o di confronti di coppie[2] che facciamo con Nicola, ci accorgiamo di poter affrontare e superare tali difficoltà. Non dimentichiamo ciò che di bello abbiamo vissuto prima, ma siamo segnati anche da tante belle persone che abbiamo incontrato e incontriamo in ospedale proprio a causa delle cure. A quelle persone che oggi non ci sono più devo la mia prima vera fase di maturità. Ci siamo sentiti sempre uniti da una speranza salvifica che ci ricongiungeva a qualcuno di più magistrale credenti e non, ma tutti con lo stesso progetto, CONTINUARE A VIVERE.

Non nascondo che la sofferenza c’è e ultimamente si fa presente anche nella mia voce attraverso un gorgoglio.

Io già frequentavo la comunità cristiana e quando si è manifestato il male mi sono chiesta: “perché a me? Forse per testimoniare la grazia di Dio?”

La preghiera è un fatto fondamentale, perché favorisce un collegamento con Dio, un Dio che non si limita ai consigli umani, ma interviene in te quando meno te lo aspetti. Qualche anno fa se ne è andata mia madre, per lo stesso problema, ed io sono l’unica della famiglia che non ho reagito piangendo: l’ho potuta accudire, vestire, profumare e fare questo pensando: “mamma è serena lassù e un giorno vi andrò anche io”.

La preghiera e gli spazi di solitudine che ci creiamo sono un modo per poter crescere, è un po’ un anticipo di quel tempo in cui non ci saranno costrizioni, ma ascolto, accoglienza. Se si ha Dio dentro nulla fa male, anche il pensiero della morte acquista una valenza positiva. Piango perché sono fragile, ma sono serena.

Nella sofferenza una delle prime sensazioni ti porta a voler rimanere da soli, io ho avuto un compagno di vita davvero eccezionale, come avete potuto sentire e con lui ho percorso situazioni e riflessioni. Quello che volevo dire è la necessità di trovare persone che ti facciano stare bene, capaci di vedere il positivo di ciò che attraversi; a volte ci sono persone anche molto care, ma che ci incutono negatività, che bisogna saper allontanare perché sottolineano solo la nostra condizione di malati.

Un grazie particolare a mio marito che se lo merita.

Cosa avviene durante la sofferenza? Opportunità e fragilità

di Lorenzo D’Amico

Da che nasce la sofferenza?

Pensiamo ad un bambino quando si trova nella pancia della madre;è l’unica realtà che conosce, che gli ha permesso di crescere, dove ha percepito la prima e fondamentale relazione … al momento del parto, tutto si capovolge, si sente alle strette, quasi schiacciato, è espulso contro la sua volontà…noi diciamo: “viene alla vita”.

Così, se io cerco solo conferme a ciò che penso, certi discorsi o verità li vivo come ferite, mi stanno togliendo una sicurezza; se invece sono aperto a quelle novità che mi aiutano a ripensare in profondità la vita, quelle stesse parole o situazioni non le vivo come sofferenza, ma come opportunità per trovare una direzione preziosa.

Un fatto accaduto ad Ostia molti anni fa: due ragazze facevano il bagno in una giornata estiva ma con il mare in tempesta, ad un certo punto si sono accorte di venire portare a largo da forti correnti, per fortuna rimaneva un ultimo appiglio: i piloni di un pontile; si sono strette ad un pilone ed ogni onda le sbatteva contro tali piloni, ma le cozze attaccate procuravano ferite, però non avevano alternative… Finalmente sono arrivati da riva due uomini su un pattino, uno di loro rimaneva a distanza, l’altro le raggiungeva e le portava sul pattino in salvo. In alcuni casi staccarsi da una convinzione o situazione, che ci sta causando forti dolori, diventa quasi impossibile, perché è l’unico ancoraggio alla vita, ma limitarsi a stringere “il pilone del pontile” ci impedisce di avvertire l’aiuto di chi vuole riportarci a riva.

Bisogna essere attenti al pericolo di colpevolizzare chi soffre.

Quando Abramo si sente dire (Genesi 12,1): “lascia la tua terra, il tuo parentado, va’ verso la terra che ti mostrerò”, è un brano posto dopo quello della torre di Babele, sembra una disfatta generale, è invece l’inizio di una promessa: “farò di te un grande popolo”.

Cosa avviene durante la sofferenza?

Quando parliamo della sofferenza, ci troviamo di fronte ad un’enorme varietà di situazioni e reazioni:

  • La sofferenza può risvegliare una capacità di reazione, cioè far emergere un potenziale (Wolfang Fasser, “Invisibile agli occhi”; Mheretù, “Sapienza di un pastore analfabeta”);
  • può renderci autonomi e aiutarci a tornare all’essenziale;
  • può aiutarci a cogliere e accettare la nostra debolezza o impotenza e quindi aiutarci ad accettare che abbiamo bisogno degli altri:
  • ma può far emergere sentimenti di colpa o vergogna;
  • possiamo trovarci intubati, con sondini da tutte le parti, le mani e i piedi legati, tracheostomizzati e quindi con l’impossibilità di comunicare, con sonde improvvise e a volte violente che entrano ed escono senza una parola di spiegazione … tocchiamo la devastazione; i medici si trovano tra due fuochi: da una parte leggi costrittive che non curano, ma procurano torture; dall’altra studi legali che si offrono di assistere gratuitamente i pazienti, che hanno dieci anni di tempo per rivalersi contro i possibili errori medici; la parcella di questi avvocati sarà una percentuale sul risarcimento finale …

Capiamo che toccare il tema della sofferenza, comporta una grande complessità.

Forse possiamo tentare di trovare alcuni punti da cui ripartire:

  • Ci sono momenti nella vita nei quali ci guardiamo indietro, ai tempi difficili, alle tempeste dell’esistenza e ci rendiamo conto che sono stati quei tempi duri a far emergere le cose più preziose; senza voler far poesia sulla pelle della gente, abbiamo bisogno di cogliere il valore della vita al di là delle sofferenze.
  • Dobbiamo riconoscere che ci sono sofferenze che diventano insostenibili perché vissute nel totale isolamento.
  • Il silenzio è spesso lo spazio per capire ciò che sta avvenendo nella nostra profondità o di chi ci è vicino.

Cosa è generato dalla sofferenza?

Possiamo constatare che nei poveri le malattie e le sofferenze sono accolte più facilmente come componenti della vita; nei ricchi sono spesso vissute come nemiche da combattere prontamente e da eliminare.

Noi cristiani non possiamo puntare su una pastorale che abbia al centro la malattia e la morte – un tempo si centrava la pastorale sul peccato – potrebbe rivelarsi un grave e odioso ricatto, ma non si può prescindere dal dolore o dal passaggio della morte. Comunque è necessario essere molto attenti a non rimandare le cose importanti al momento della morte.

Un grande teologo tedesco Carlo Rahner, ripeteva che è necessario sottomettersi alle questioni vitali, non a quelle scelte con prudenza, ma alle questioni scomode, stringenti, spesso terribilmente profane – Ripeteva: “ Chi vuol salvare deve osare!”-

Possiamo dire che: ogni uomo o donna che vive in profondità la propria vita sa e sente che attorno alla sofferenza si gioca qualcosa di decisivo.

Per proseguire questa ricerca ho scelto un ambito particolare, quello dei malati terminali, pensando che questa realtà che attraverseremo tutti, può aiutarci ad affrontare le cose essenziali già ora. Quando parliamo di cose essenziali, non si vuole intendere “spremitura di meningi”, ma ciò che di più prezioso la vita può offrire: ad esempio una reale apertura di cuore e di mente, una sana tenerezza, una grande forza capace di vedere e favorire segni efficaci di speranza …

Cosa dobbiamo vivere e cosa evitare accanto ad un malato terminale?

Un insufficiente trattamento del dolore e dell’angoscia può provocare una notevole sofferenza fisica, psicologica e spirituale. Tuttavia un trattamento eccessivo o un trattamento inadatto possono precipitare le persone in uno stato di incoscienza o di semicoscienza anche quando non è necessario per un efficace lenimento dei sintomi. Questo potrebbe privare le persone dell’opportunità di fare una buona morte: cioè?… mettere ordine per quanto è possibile alle proprie “cose”, fare pace, congedarsi dai parenti e amici.

Tra gli scogli da evitare accanto ad un malato terminale ricordiamo:

Il pericolo di comunicare la propria disperazione quando l’altro ha ancora bisogno di speranza per vivere;

Il pericolo opposto di aggrapparsi alla speranza quando l’altro ci fa capire di non averne più.

Chi sta partendo, adulto o bambino, sa quando è giunto il momento, spesso in maniera inconscia, molte volte sono le persone accanto che rifiutano questa comunicazione: “No, non è vero, devi mettercela tutta, forza, anche i medici dicono che dipende da te”; così, gettiamo l’altro nella solitudine più totale; con chi può parlare delle angosce che lo assalgono?

A volte sono i familiari che rifiutano l’idea della morte, la vedono come la peggiore bestemmia da evitare e certe scelte o schiavitù nascono da questo rifiuto della morte.

Alcune riflessioni sull’accompagnamento dei malati terminali

Proviamo anzitutto a fare alcune considerazioni generali, che possono aiutarci quando ci troviamo accanto ad un malato terminale:

  • Una persona che sente avvicinarsi la morte, sente il bisogno di andare al cuore di certi problemi e si trova fuori della pressione del tempo e proprio per questo a volte cambiano profondamente le priorità.
  • Chi ascolta un malato terminale svolge un compito essenziale e in alcuni casi è opportuno far seguire all’ascolto il silenzio condiviso; in altri casi è altrettanto importante che la persona malata riceva una “risposta”, una parola vera, perché in questi casi il silenzio non basta. Chi accompagna può cercare in alcuni casi di trasmettere una parola di benedizione o di perdono. Ogni uomo o donna può far questo senza delegare ai professionisti della morte: medici, preti o psicologi.
  • È fondamentale essere convinti che, quando non c’è più nulla da fare sul piano fisico, resta ancora molto da fare sul piano affettivo e psichico. Confermare qualcuno del proprio valore, al di là del corpo deteriorato, è rendergli possibile di percepirsi tutto intero nel proprio valore di essere umano, fino alla fine. Siamo chiamati ad accogliere la sofferenza di un altro, donando tutta la fiducia e la serenità a cui possiamo attingere dentro di noi. È doloroso constatare che solo una minoranza di persone dà importanza all’affetto in un ambiente ospedaliero dove tutto si basa sull’efficienza. Quando la nostra mano si posa su questo o quel punto del corpo di un malato grave per carezzare o per un lentissimo massaggio o per stringere la mano, trasmette un messaggio: per quanto il corpo va in disfacimento, nel profondo del proprio essere si avverte che una creatura nuova va emergendo.
  • E’ bene ricordare che nei luoghi sempre più spesso non familiari del morire, le cose familiari possono confortarci: ad esempio le foto di una persona cara…
  • L’ultima lotta che si combatte è contro l’orgoglio! Quando tutta la nostra fragilità appare incontrastata, quando siamo sull’orlo della disperazione, proprio in mezzo a tanta fragilità si apre uno squarcio inaudito di vita, proprio nella nostra debolezza avvertiamo la forza di ciò che veramente conta. Quando non si ha più nulla da nascondere perché la propria fragilità è sotto gli occhi di tutti, allora i nostri rapporti possono acquistare una grande forza.
  • Credo che chi ha accompagnato delle persone durante il coma, possa confermare che alcune volte le persone che stanno per partire, offrono ai loro cari il tempo di prepararsi alla separazione definitiva, altri aspettano una visita, oppure una riconciliazione non ancora avvenuta. Conviene tener presente che quasi sempre, anche durante il coma, chi sta per partire non risponde, ma continua a sentire; quindi occorre una grande vigilanza su ciò che si dice alla sua presenza.

Stiamo trattando alcune riflessioni sull’accompagnamento dei malati terminali.

Abbiamo affrontato alcune considerazioni generali, fermiamoci per un poco a riflettere: cosa può aiutare una persona che crede nella resurrezione?

Ancora una volta è necessario sottolineare: è al malato che si deve lasciar guidare la visita, è lui il maestro da ascoltare; è in lui che s’identifica il Cristo, non nel visitatore.

Gesù non guarisce in modo magico, ma sempre costruendo una relazione autentica con il malato o con colui che intercede per il malato, sicché l’uomo non è mai puramente passivo nelle narrazioni, ma opera in sinergia con Gesù, infatti, il primo sguardo di Gesù non fu diretto al peccato degli altri ma al loro dolore, per Lui il peccato rappresentava non da ultimo il rifiuto di partecipare al dolore altrui.

Per alcuni malati è utile il sacramento, o il segno della croce, o il canto sacro, o una preghiera conosciuta e per alcuni è di grande aiuto ascoltare il salmo amato.

Quello che è necessario è non ridursi ad usare un libro di preghiere come esclusivo mezzo di comunicazione con i malati.

In alcuni casi possiamo finalmente dire con Simeone: “Ora lascia che il tuo servo vada in pace secondo la Tua parola, perché i miei occhi han visto la tua salvezza …” – oppure con Gesù: “Padre, nelle tue mani consegno la mia vita”.

Sappiamo che c’è una grande differenza se siamo in una corsia d’ospedale o nel nostro letto, ma la solennità del momento ci costringe a superare certi pudori.

Certo abbiamo innalzato l’età media della vita, ci siamo aperti a nuove concezioni dell’aldilà, abbiamo riscoperto un Dio più vicino a noi, più tenero e accondiscendente, ma purtroppo abbiamo estromesso e nascosto la morte. La nostra società sembra vivere come se essa non ci fosse o fosse soltanto un incidente di percorso.

In alcuni casi verifichiamo che il passaggio della morte può avvenire in tutta la sua pace, quando percepiamo che le persone che ci hanno preceduto, ci sono accanto e ci aiutano a traghettare.

Una nota importante: non è la fede che consente di accogliere la morte, ma l’intensità della vita che si ha alle spalle, che facilita il nostro accogliere la morte.

Adesso cercheremo di riflettere su due termini che sembrano appartenere alla sfera della religione, ma che sono invece comuni ad ogni persona che vuole vivere la vita in tutta la sua pienezza.

I due termini sono Mistero e Spirituale:

Il termine “Spirituale”

E’ un termine complesso; la dimensione spirituale è più ampia di quella religiosa. Ascoltare musica, leggere o scrivere, ammirare un tramonto, meditare, cantare, amare ed essere amati, tutte queste differenti espressioni razionali ed emotive sono parte della vita spirituale.

Incontriamo molte persone che non hanno alcuna religione … nondimeno queste persone hanno una loro spiritualità e sta a noi portarla alla luce affinché possano esprimerla; sta a noi osare chiedere quello che può nutrire il loro spirito e dar loro pace.

La spiritualità è fare un passo in più verso ciò che è davvero essenziale.

Il termine “Mistero”

Insieme, colui che sta per partire e colui che invece resta (ma non sappiamo per quale dei due la prova sarà più dolorosa o più facile …) sono in presenza del Mistero (la radice muto)

L’altro essere umano è sacro perché riconosco che la sua essenza va oltre tutto ciò che posso capire e vedere.

“Mistero”, non significa che smettiamo di pensare, di agire o cercare di comprendere, significa che c’è qualcosa di talmente ricco di significato da non poterlo esaurire.

Negli ultimi istanti chi accompagna il morente non lo farà con il suo piccolo io, cioè con le sue piccole emozioni e reazioni, ma dovremo essergli accanto con quella parte di noi che è più intelligente, più colmo d’amore, cioè con quella parte di noi che ha più familiarità con l’ignoto, un “qualcosa” di molto silenzioso.

Un interrogativo rimane per molti al cuore di questi pensieri: la morte è il momento in cui le nostre esistenze finiscono nel nulla o la morte è il passaggio a qualcosa che non conosciamo e possiamo solo intravedere?

Per alcuni è come se il morente ci facesse dono di ciò che è al di là della “soglia”. E’ anche vero che potremmo far fatica a riprenderci, perché è come se avessimo messo piede nell’altro mondo, un mondo che è la profondità del nostro mondo.

Una nota mi pare necessaria: dobbiamo essere molto attenti a non approfittare dell’ imminenza della morte per forzare la coscienza di chi sta per partire, sarebbe gravissimo.

Forse è importante chiarire: nella mia vita la resurrezione è un fatto centrale che segna profondamente il mio modo di vivere; ma il vivere accanto a persone che non hanno questa stessa fede, mi spinge anche a cogliere ciò che di prezioso ogni essere vivente ha nel suo profondo, di aiutare a farlo emergere e saperne gioire.

 

Riflessioni finali

Ci trovammo con alcuni amici su un valico alpino, totalmente zuppi per la gran nebbia, e cercavamo di accendere un fuoco ma tutto era bagnato… all’inizio un grande fumo, ma poi finalmente un fuoco ci ha riscaldati, asciugati e riempiti di gioia; così è spesso nella vita.

Da queste riflessioni non nascono delle risposte, ma alcuni atteggiamenti:

  • E’ molto importante che lì dove è possibile i malati terminali siano privi di dolore, ma coscienti. Non lasciamo i medici come unici gestori delle nostre vite. La malattia, neanche quella che causerà la morte, è tutto, occorre uno sguardo globale sulla persona.
  • Per tutti noi fuori dalla pressione del tempo, può emergere il meglio della persona.
  • L’affetto che ci lega ad una persona, è l’occasione per andare oltre quello che ci fa paura o ci attira. Lo spazio tempo della morte, è per chi accetta di entrarvi e di guardarvi al di là delle lacerazioni, un’occasione indimenticabile d’intimità, di tenerezza e profondità. L’immagine del serpente che per cambiare pelle cerca due grossi sassi vicini in mezzo a cui passare, non è utilizzabile anche per chi passa attraverso la morte? Quella parte di corpo che rimane nelle nostre mani è la vecchia pelle, mentre il corpo rinnovato è di là?
  • Con le dovute cautele, è necessario accompagnare i nostri bambini presso i malati, perché la malattia e la morte non costringa loro e i loro cari a vuoti improvvisi e partecipino anche a queste fasi della vita che spesso si rivelano più preziose di molti anni.
  • Lì dove è possibile ha grande efficacia, dopo la morte, la rielaborazione comunitaria del lutto (non sto parlando del rito funebre) dopo aver attraversato situazioni difficili, è utile che parenti e amici si ritrovino comunicandosi ricchezze e interrogativi, perché solo una ricerca comune permette di percorrere sentieri particolarmente scabrosi.
  • La sfida dei tempi a venire è proprio quella di creare, in seno ad un mondo laico, che intende restare tale, un umanesimo aperto, dove il trascendente e il sacro abbiano un posto aperto nel cuore delle persone e la realtà interculturale dischiude nuovi orizzonti.
  • Per concludere, certamente chi ci aiuta in tutto questo sono gli spazi di silenzio e di approfondimento, che siamo capaci di crearci anche fuori dalle emergenze.

BIBLIOGRAFIA

  • Elisabeth Kùbler-Ross, La morte è di vitale importanza- Riflessioni sul passaggio dalla vita alla vita dopo la morte
  • Marie De Hennezel e Jean-Yves Leloup, Il passaggio luninoso – L’arte del bel morire
  • Livia Crozzoli Aite, Sarà così lasciare la vita?
  • Erika Schuchardt, Far fronte allo scacco. “Perché proprio io … ?” Il dolore come occasione per imparare a vivere . Da CONCILIUM 5 (1990) pp. 84-105
  • G. Lafont, Dio il tempo e l’essere
  • G. Brasò, Lettere ai monaci (pp. 185-192)

FILM

Departures

Esperienze di assistenza ai malati terminali di Franco Mozzetti

Prima di parlare dell’assistenza al malato terminale è forse necessario fare alcune considerazioni sulla malattia in genere e sulle sue implicazioni per meglio conoscere quali sono i sentimenti che si scatenano nell’animo del malato e con i quali dovrà misurarsi chi entra in contatto con lui..

Per tutti noi qualsiasi malattia costituisce l’insorgere di un limite, di un qualcosa che ci viene a mancare. Rappresenta un ostacolo al nostro desiderio di avere un corpo integro, senza lacune, senza “strappi”, senza mancanze.

Sono molte le patologie potenzialmente mortali ma tra queste, l’incertezza delle cause e le caratteristiche della malattia fanno del cancro l’evento più traumatico con il quale confrontarsi, il più temuto in assoluto, tanto che ci resta difficile persino nominarlo ed è normale sentire espressioni come :”…quel brutto male… il male incurabile… il male del secolo …”

Come poche altre malattie sin dal suo insorgere il cancro interferisce pesantemente sia sulla sfera fisica che su quella psicologica, spirituale, esistenziale e relazionale.

A livello fisico la malattia rende improvvisamente evidente la fragilità dell’uomo perché il dolore ne modifica, anche violentemente, l’immagine e rende difficili operazioni della vita quotidiana come l’alimentazione, il lavoro, il tempo libero, la libertà di movimento ed accentua la dipendenza da altri.

A livello psicologico si tende ad identificare il tumore con la morte sociale e personale e ci si confronta giornalmente con insicurezza, perdita di stabilità affettiva, limitazioni alla propria libertà di relazionarsi con gli altri e con il timore della sofferenza e dell’ignoto.

Strettamente legata alla dimensione emozionale è la dimensione spirituale che riguarda non solo il credo religioso ma il senso stesso che ognuno dà alla vita e all’esistenza La malattia mette in luce la limitatezza della nostra esistenza e determina molto spesso una crisi profonda delle proprie convinzioni sia religiose che esistenziali.

Le dimensioni emozionale e spirituale si intersecano con il livello relazionale che rispecchia il nostro bisogno di comunicare con gli altri.

La nostra appartenenza a sistemi microsociali come famiglia ed amicizie e macrosociali come lavoro, comunità politica, è anch’essa minacciata dalla diagnosi di cancro.

Il processo di malattia si pone quindi come un evento che interrompe in maniera brusca il percorso di vita del paziente sconvolgendo tutte le dimensioni sulle quali si basa la sua esistenza e lo spinge verso quello che possiamo chiamare dolore totale.

Le reazioni emotive di un ‘ammalato di cancro sono strettamente legate all’evolversi della malattia:

Sin dalla scoperta dei primi sintomi in sedi note per il rischio di neoplasie si determinano reazioni diverse a seconda delle diverse personalità.

Quando i sospetti diventano realtà il vero significato della malattia travolge la persona; la sequenza di reazioni emotive evolve in un succedersi di diversi momenti:

Si verifica una prima fase di shock : la malattia è vissuta in genere come una catastrofe. Compaiono in questo momento incredulità,angoscia,anestesia affettiva. il paziente reagisce spesso con meccanismi di negazione.

Ci sarà poi una fase di transizione nella quale la necessità di ulteriori accertamenti o di interventi medici e chirurgici suscitano, rabbia, disperazione, paura. In questa fase si possono verificare manifestazioni di proiezione della colpa su altri o regressioni a comportamenti infantili

Durante il corso dei trattamenti medici, lentamente, prende corpo la progressiva elaborazione ed accettazione per cercare di dare un senso a ciò che accade .

Va comunque ricordato che le reazioni emotive non si presentano con una sequenza preordinata ma si sovrappongono tra loro e si possono ripresentare, spesso con una successione diversa, anche quando il paziente sembra aver accettato la malattia o quando dovesse presentarsi una recidiva .

Così come le reazioni emotive anche i comportamenti conseguenti saranno diversi a seconda della storia, delle esperienze e della personalità dell’ammalato.

Se la malattia è intesa come punizione si avranno comportamenti di fatalismo e rassegnazione; se invece verrà concepita come minaccia alla vita avremo atteggiamenti di sfida, lotta e volontà di non mollare; se prevale il timore che la malattia ci possa allontanare dalle persone care, insorgeranno comportamenti di dipendenza e bisogno di rassicurazione.

Le fasi di recidiva e successiva progressione della malattia sono certamente ancor più traumatizzanti e sconvolgenti.

A questo punto comincia ad affacciarsi con prepotenza nel malato il timore che la guarigione non sia più possibile e che al massimo si può tenere sotto controllo la malattia .

La progressione poi mostra in forma tragica che non sono più possibili cure efficaci e che l’avvicinarsi della morte è una realtà concreta con cui confrontarsi si ripropone allora l’alternativa di shock, transizione, elaborazione.

L’assistenza allora diventa complessa perché la parola morte resta un tabù nella nostra società, ormai pervasa dalla illusione di eternità in questo indirettamente aiutata dalla moderna medicina tecnologica, che ha sostituito la medicina di relazione e ritiene la morte una sconfitta. La morte è la questione centrale della nostra vita eppure a mala pena pronunciamo la parola. Spesso impieghiamo tutta una serie di eufemismi al posto della parola ‘morte’. Le persone non muoiono, se ne vanno o finiscono, come fossero un qualsiasi prodotto di consumo.

Quando ci confrontiamo con la morte da vicino, cominciamo a vedere la nostra vita con occhi diversi. Apprezziamo in modo diverso ogni relazione. Siamo portati a dare diversi valori e priorità alle nostre azioni e ai nostri interessi, non ci attacchiamo più troppo strettamente alle cose che ritenevamo veramente importanti. E tutto questo ci aiuta a coltivare in noi la capacità di cedere, mediare, comprendere e incoraggia la nostra generosità. Certamente una riflessione sulla morte ci rende più disponibili gli uni con gli altri.

Un vecchio proverbio africano recita a tal proposito :

“sono i vivi che chiudono gli occhi dei morti e i morti che aprono gli occhi dei vivi”

Nei pensieri e nel parlare del malato e dei familiari emerge sempre con forza l’affermazione “non c’è più nulla da fare”; ma se non è possibile curare la malattia sarà sempre possibile, anzi è doveroso, prendersi cura della persona. Cambiando il concetto di “cura” in quello di “prendersi cura” e passando dal “far qualcosa per il malato” a “far qualcosa con il malato”, per garantirgli la migliore qualità di vita possibile e soddisfare in lui quel bisogno di speranza che, seppure riformulato nei contenuti e nei tempi, sarà, in qualsiasi momento,sempre presente

Insieme al malato anche la famiglia rimane coinvolta e sconvolta dall’intrecciarsi di sentimenti di paura, speranza rabbia e senso di abbandono.

Essa vede modificati i ritmi della vita quotidiana con notevole disagio per tutti, è costretta a rivedere le sue priorità, incontra difficoltà economiche, sperimenta direttamente la difficoltà che la società e spesso la parentela hanno nel confrontarsi con la sofferenza e quindi si ritrova sempre più isolata.

Anche la famiglia quindi necessita di attenzione e sostegno in quanto si ritrova nel duplice ruolo di soggetto curante ma anche di soggetto bisognoso di cure e per noi operatori sia il malato che la sua famiglia costituiscono un’unica unità sofferente alla quale fornire sostegno soprattutto con presenza ed ascolto.

I bisogni psicologici del paziente sono tanti: aver fiducia nella competenza del personale curante; certezza di non essere lasciato solo; essere considerato un soggetto capace e degno di ricevere informazioni regolari, comprensibili e credibili; di avere qualcuno che lo ascolti; bisogno di appartenenza, bisogno di amare e di essere amato ma anche di vedere accolto il suo desiderio di stima e di essere aiutato a riscoprire la sua identità e il suo vissuto relazionale

Sarebbe davvero bello poter suggerire una pratica pronta da applicare in ogni situazione. Mi piacerebbe poter elencare una serie di comportamenti da adottare accanto al letto della persona sofferente.

Temo però che qualsiasi suggerimento servirebbe solo ad allontanarci dalla persona che stiamo assistendo.

La morte di ognuno è completamente unica così come lo sono state la sua vita e le sue esperienze. Non esiste un solo modo. E’ possibile però fare una riflessione su quale atteggiamento assumere quando ci avviciniamo ad una persona che sta affrontando l’ultimo tratto della sua esistenza terrena.

Il primo approccio non sarà improntato sulla abbondanza di parole né tantomeno di consigli ma sarà incentrato sulla presenza silenziosa e sulla disponibilità all’ascolto attivo, libero da preconcetti e suggerimenti, per permettere al malato di esprimere liberamente i suoi pensieri, i dubbi, i bisogni e le paure.

La capacità di essere presenti la dimostreremo già dal primo incontro con il nostro sguardo e il nostro modo di parlare.

Lo sguardo può esprimere la nostra presenza empatica e la nostra disponibilità ma anche manifestare un nostro disagio.

San Girolamo nel 400 d-c scriveva :

“Il volto è lo specchio della mente, e gli occhi senza parlare confessano i segreti del cuore”

Se con il malato parliamo lentamente e amabilmente esprimiamo cura, conforto e disponibilità di tempo mentre se parliamo in modo brusco e affrettato, rischiamo di mostrare disagio, tensione, timore, o, ancora peggio, che stiamo pensando a cose più importanti da fare altrove

Ho parlato prima della necessità di una presenza empatica

Il termine empatia deriva dal greco empatheia e sta a significare: “mettersi nei panni dell’altro”, senza dimenticare di essere nei propri , cioè conservando la propria identità.

Meglio di tante parole o di definizioni scientifiche il concetto di empatia lo ritroviamo in questi versi di don Primo Mazzolari:

Nell’altro non si entra

come in una fortezza,

ma come si entra in un bosco

in una bella giornata di sole.

Bisogna che sia

un’entrata affettuosa

per chi entra

come per chi lascia entrare

da pari a pari,rispettosamente,

fraternamente.

Si entra in una persona

non per prenderne possesso

ma come ospite

con riguardo,con ammirazione

venerazione:

non per spossessarla,

ma per tenergli compagnia, per aiutarla

a meglio conoscersi,

per dargli consapevolezza

di forze ancora inesplorate,

per dargli una mano

a compiersi,

a essere se stessa..

Svolgo la mia attività in un hospice oncologico sia con i pazienti ricoverati in struttura che a domicilio. Contrariamente a quanto avveniva in ospedale non opero da solo ma in stretta collaborazione con l’equipe composta da medici, infermieri, psicologa, fisioterapista e assistente spirituale e poiché io non sono condizionato dal rispetto dei tempi che regolano l’attività degli altri componenti, mi è possibile offrire al malato e ai familiari una disponibilità che è difficilmente realizzabile dagli altri e quindi raccogliere da loro confidenze, desideri, dubbi che verranno poi condivisi con tutta l’equipe al fine di predisporre l’intervento più appropriato

L’Hospice viene erroneamente considerato come il luogo ove morire quando ormai non c’è più speranza di guarire è, invece, il luogo ove vivere sino all’ultimo con dignità perché il malato non è lasciato a vegetare in solitudine e la speranza sarà in lui sempre in qualche misura presente perché gli sarà consentito di controllare il dolore ma soprattutto sa che non verranno fatte cose contrarie alla sua volontà, che saranno soddisfatti sempre desideri ed aspettative, che verrà assistito ad affrontare il deperimento e la morte in modo dignitoso e che sarà sempre rispettato come persona.

Riveste quindi grande importanza il “modo di essere” che caratterizza il volontario e tutti coloro che si apprestano ad assistere il malato. Ho detto “essere volontario “ e non “fare il volontario” non per usare un termine diverso bensì per porre l’accento sul modo di vivere la relazione con il malato perché sarà il nostro modo di “essere volontari” ad orientare poi il nostro “modo di agire”.

Nel documento ufficiale per la VII Giornata Mondiale del Malato del 1998 è scritto “Non potrà mai essere terapeutica e quindi salutare una relazione nella quale una delle due parti del rapporto, proprio in virtù della sua debolezza, sia negata come soggetto”.

E’necessario allora che nella relazione instaurata non venga assunto soltanto il ruolo di chi aiuta ne quello di guida ma quello della persona amica che si pone a disposizione ed al servizio dell’ unità sofferente. Questo ovviamente non vale solo per gli operatori ma per chiunque, familiare o amico, si appresti ad assistere un malato.

L’aiuto non prevede sempre un rapporto tra pari perché nel prestare aiuto usiamo la nostra forza a favore di qualcuno che ne ha meno e potremmo provocare in lui la convinzione di essere in debito mentre una relazione impostata sul servizio dà origine ad uno scambio paritario e stabilisce con il malato un’alleanza basata, sul rispetto delle sue abitudini, dei suoi tempi, della sua volontà, dei suoi bisogni reali, rassicurandolo che non sarà mai lasciato solo, ma che ci sarà sempre al suo fianco una presenza discreta e continua fino alla fine.

Il porsi al servizio non mortifica la nostra dignità ma, nel pieno rispetto di quella del malato, assume un valore ancora più importante della gratuità della nostra azione.

I nostri interlocutori sono molto provati da un lungo vissuto di dolore e sofferenza. Sono pieni di insoddisfazioni e vedono tramontare la possibilità di realizzare tanti progetti fatti. A volte sono persone molto dure, con situazioni familiari complicate e conflittuali o che hanno vissuto per strada e ai margini della società, che non sopportano il loro senso di impotenza, che hanno perso ogni speranza. Ci sono altri che sono consumati dalla paura. Spesso si girano verso il muro e si rinchiudono in se stessi, senza mai più tornare indietro.

La malattia causa in loro, oltre al declino fisico, anche la sensazione di non essere più capaci di fare nulla ed allora scatta un atteggiamento negativo e rinunciatario. Si rifugiano nell’illusoria speranza di un recupero fisico, illusione spesso alimentata dalla congiura del silenzio sulla reale prognosi messa in atto dai familiari, e rinviano qualsiasi progetto ad un momento successivo.

Posti di fronte ad una qualsiasi sollecitazione esterna rispondono solitamente: “non sono più in grado di fare niente … ” non ho voglia di vedere nessuno …” “… ne parliamo quando mi sentirò meglio …”

Facendo leva su quanto emerge durante i primi incontri riusciamo in molti casi a far scattare la molla che consentirà a molti di loro di modificare questa situazione di abbandono e presunta incapacità e risvegliare ricordi di precedenti interessi, di hobbies, ed attitudini o far emergere curiosità ed interessi nuovi .

Molte di queste persone tornano ad interagire con il mondo esterno, si rendono protagoniste di incredibili riconciliazioni con le loro famiglie e ritrovano la serenità e l’accettazione che avevano perduto. Può essere un’esperienza straordinaria per chi ha la fortuna di condividerle con loro.

Ho ripetutamente posto l’accento sul bisogno del malato di mantenere la sua progettualità, l’autostima, la possibilità di relazionarsi. Questo é possibile anche per pazienti la cui aspettativa di vita è ormai ridotta a giorni o settimane .

Sono pazienti che attraverso le terapie diversionali si impegnano in qualche attività da svolgere insieme ai volontari ed altri pazienti e in momenti di socializzazione e di intrattenimento organizzati per loro e per i loro familiari.

L’attività, anche quando svolta in gruppo, è sempre personalizzata. Ha una propria caratteristica temporale e spaziale perché tiene conto degli interessi del singolo paziente, delle sue capacità motorie e della patologia e quindi è sempre molto flessibile nei contenuti e nei tempi per adattarsi all’evoluzione della situazione clinica.

Se il paziente non può materialmente realizzare un lavoro può comunque partecipare con gli altri alla sua progettazione, alla scelta dei tempi, della forma e dei colori.

Chi non può essere mobilizzato sarà messo in grado di fare qualcosa pur stando a letto.

E’ fondamentale nella relazione con il malato lasciare sempre a lui la conduzione del gioco e quindi essere pronti a seguirlo nella scelta di cosa, come e quando fare anche cercando di soddisfare le richieste più diverse

A tal proposito ricordo che alcuni anni addietro, per assecondare la richiesta di un paziente, ho costruito con lui , in una stanza dell’hospice , un numero imprecisato di aquiloni che lui sognava di far volteggiare nel cielo.

Qualche mese addietro Salvatore uno dei nostri pazienti, ormai quasi cieco, aveva espresso con l’assistente spirituale il desiderio di riascoltare i discorsi di alcuni politici del passato a lui cari è stato sufficiente passare alcune ore a cercare vecchi filmati su internet per estrapolarne le colonne sonore e proporle poi al suo ascolto. Questo gli ha permesso di trascorrere serenamente interi pomeriggi a rivivere la sua antica militanza politica.

Il gioco delle carte e della dama come gli altri giochi individuali sono momenti in cui il paziente riprende una abitudine che credeva perduta .

Personalizzare un oggetto di vetro o altro materiale in maniera creativa permette ai nostri pazienti di tornare ad esprimere, per mezzo di colori, forme e trasparenze, il proprio gusto e il proprio stato d’animo. Questo lo riscontriamo ad esempio nella preparazione di Origami , Fiori di carta, Oggetti vari ed ancora nelle decorazioni natalizie e pasquali

Così la pittura consente di tornare con la fantasia a rivivere luoghi e colori che sono impressi nei ricordi.

Lavorare con gli altri consente al malato di recuperare capacità relazionali e ne rinforza l’autostima attraverso la scoperta di motivazioni nuove. In occasione del Natale passato alcuni pazienti hanno lavorato all’allestimento del presepe da posizionare in uno dei salottini di “Villa Speranza” pur coscienti che qualcuno di loro non lo avrebbe visto in posizione.

Lo stesso accade per la Pasqua

Alcuni ripongono tutte le loro capacità di resistenza nella speranza di sopravvivere sino al verificarsi di un avvenimento per loro molto importante. In attesa di questo evento allora si impegnano nella preparazione di qualche oggetto con il quale dare testimonianza a familiari ed amici della loro partecipazione attiva.

Cristina, un’altra paziente ha celebrato le sue nozze nella cappellina di “Villa Speranza”ed insieme ad altre pazienti ha confezionato alcuni oggetti da usare per l’occasione; possiamo vedere anche come la partecipazione attiva all’evento spinga alcune pazienti ad abbandonare le vesti del malato per assumere quelle dell’ospite.

I nostri pazienti non lavorano solo per se ma spesso si impegnano in attività a favore degli altri ammalati: come tradizione da alcuni anni, alcuni pazienti hanno costruito, insieme ai volontari , piccole rappresentazioni della Natività per farne omaggio a tutti gli ospiti della struttura.

Periodicamente vengono organizzati intrattenimenti musicali e piccoli concerti per i malati ricoverati in hospice o assistiti a domicilio e per le loro famiglie.

Sono manifestazioni che oltre a stimolarne le capacità motorie inducono il malato a migliorare la cura della propria immagine e permettono ad alcuni di loro di tornare ad assumere il ruolo di protagonisti così come erano abituati in precedenza.

“Di sicuro l’amore si esprime in primo luogo nello stare con qualcuno, piuttosto che nel fare qualcosa per qualcuno. (…) Se le nostre azioni non nascono prima di tutto dal desiderio di stare con una persona, si riducono davvero solo ad assistenza sociale”.

Nota di servizio: anche questa lettera è stata spedita con il nostro indirizzario. Chi si trovi inserito senza desiderarlo ci scusi, basta una comunicazione e provvederemo a cancellare l’indirizzo. Chi invece viene a conoscenza di questa lettera e vuole riceverla ce lo faccia sapere. Come sempre sono gradite segnalazioni di indirizzi di persone interessate.

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  1. Gruppo Bibbia: ci si riunisce nelle case in piccoli gruppi per conoscere insieme questo testo a partire dalla vita quotidiana di ciascuno.
  2. Equipes Notre Dame: movimento di formazione per coppie