Lettera 14 (Seconda Serie)

In questa lettera iniziamo la raccolta di alcune riflessioni di persone appartenenti a fedi diverse, vi chiediamo di contribuire con le vostre conoscenze ed esperienze.

“Tutti i popoli della terra costituiscono una sola comunità umana…” (preambolo della dichiarazione conciliare “Nostra Aetate”)

“La Chiesa ha il dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa esamina qui innanzi tutto quello che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino.

Una sola comunità infatti costituiscono i vari popoli. Essi hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra.” (Nostra Aetate, 1)

“Questo Sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra cristiani ed ebrei la conoscenza e la stima… “(Nostra Aetate, 4)

Sommario della 14° lettera: Dialogo Ebrei-Cristiani

  1. Antica e Nuova Alleanza: alcune sollecitazioni al dialogo e breve ricostruzione storica di Francesco Cagnetti
  2. Pagine da Etty Hillesum
  3. Pagine dai Racconti dei Hassidim a cura di Martin Buber
  4. Verso l’Uno da M. Viterbi Ben Horin
  5. Diversi, e…di Maria Dominica Giuliani

Con questa lettera vi invitiamo poi al prossimo convegno del “La Tenda”:

Sabato 9 Gennaio 2009 dalle 9,00 alle 13,00

presso la Parrocchia dei Santi Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela, Via di Torrenova 162 (periferia est di Roma)

 

Il tema dell’incontro sarà:

E’ possibile una morale condivisa?

Ci aiuteremo in una ricerca comune avendo sempre come punto di partenza la realtà degli ultimi e degli emarginati.

Sarà con noi CARLO CASALONE S.J.

Responsabile della provincia italiana dei gesuiti e da anni impegnato nella ricerca e nel dialogo sulla bioetica.

“E’ possibile costruire insieme una Polis dove il vivere insieme sia più umano per tutti” (E. Bianchi , Per un’etica condivisa.)

Si arriva alla parrocchia dei SS. Simone e Giuda Taddeo:

in macchina: uscita 17 G.R.A. (seguire 1° deviazione a destra che porta a Via di Torrenova)

– in autobus: n° 20 dall’Anagnina (scendere angolo Via Tor Bella Monaca con Via di Torrenova Via Squinzano); n° 053 e 056 passano davanti alla Parrocchia

– Tel. Lorenzo D’Amico 06-2009085; e-mail: gruppolatenda@gmail.com

 

Antica e Nuova Alleanza: alcune sollecitazioni al dialogo e breve ricostruzione storica

di Francesco Cagnetti

Il riconoscimento da parte del Concilio Vaticano II che i doni e la vocazione di Dio agli Ebrei sono senza pentimento (Nostra Aetate, 4) e quindi hanno valore perenne, confermato da Giovanni Paolo II nel suo discorso alla comunità ebraica di Magonza (17 novembre 1980), rappresenta una svolta radicale nei rapporti tra cristiani ed ebrei.

Di questa svolta vanno sviluppate le implicite, rilevanti conseguenze in campo teologico.

Finora, tuttavia, non mi risulta che molto sia stato fatto.

Se si scorrono, ad esempio, gli indici di alcune tra le più importanti riviste teologiche cattoliche non si trova quasi alcuno studio che tratti questo argomento.

Fa riflettere questo silenzio, a oltre quarant’anni di distanza dalla conclusione del Concilio.

Solo il Centro Cardinale Bea per gli studi giudaici della Università Gregoriana presenta tra i suoi contributi qualche apporto di teologi cattolici ad una nuova interpretazione, alla luce del Vaticano II, del rapporto tra Antica e Nuova Alleanza.

È mia persuasione che se questo tema continuerà ad essere eluso, il dialogo tra cristiani ed ebrei potrà certo essere occasione di rapporti di stima reciproca e anche amichevoli, potrà migliorare la conoscenza reciproca e promuovere iniziative comuni a difesa dei diritti umani, ma non andrà più in là[1].

Un rapido colpo d’occhio su alcuni di questi contributi ci aiuterà a percepire l’importanza e la portata di questa svolta che ben può definirsi “epocale”.

Il 4 novembre 2004, nell’ambito della serie “La Chiesa cattolica e l’Ebraismo dal Vaticano II ad oggi”, offerta dal Centro Bea in collaborazione con il SIDIC di Roma e l’American Jewish Committee, il cardinale Carlo Maria Martini ha tenuto una conferenza in cui tra l’altro afferma:

“…vorrei sottolineare l’importanza che avrebbe, per la teologia della prassi cristiana, lo studio dei problemi che derivarono dall’interruzione del contributo che la teologia dei giudeo-cristiani stava dando alla primitiva comunità cristiana. Infatti, il primo grande scisma, quello fra ebrei e cristiani, privò la Chiesa dell’aiuto che le sarebbe venuto dalla tradizione ebraica.”

E cita tre conseguenze di questo mancato apporto:

“In primo luogo, la difficoltà (tuttora evidente) della prassi cristiana a focalizzare il corretto atteggiamento dei singoli e delle comunità nei confronti del potere tecnico, economico e politico di questo mondo. In secondo luogo, la difficoltà della prassi cristiana a trovare il giusto atteggiamento nei confronti del corpo, del sesso, della famiglia. Infine, la difficoltà della spiritualità cristiana a individuare il legame autentico tra la speranza escatologica messianica e le speranze e le aspettative degli individui e delle comunità, in relazione alla giustizia, ai diritti umani e così via.

 

Le discussioni senza fine sulle applicazioni pratiche e sugli atteggiamenti in questi settori (basti pensare alle leggi sulla fecondazione artificiale e sull’uso degli embrioni per la ricerca) hanno le loro radici in quella radice non guarita del primo scisma.

Possiamo allora comprendere perché, nella Lettera ai Romani, San Paolo affermava che la ricomposizione dell’unità fra la tradizione ebraica e quella cristiana sarà una ”risurrezione dai morti” (Rm, 11,15) ”

Martini aggiunge poi che occorre una conoscenza anche dell’Ebraismo post-biblico, intendendo con ciò

“…non solo conoscere i libri e le tradizioni che dopo la distruzione del Tempio hanno continuato a far vivere una speranza ebraica, ma anche allargare i propri orizzonti all’intera storia, alle consuetudini, ai talenti artistici, scientifici, letterari, musicali del popolo ebraico. Occorre, in sintesi, stimare e amare questo popolo”

È dello stesso giorno e all’interno della stessa serie la conferenza data dal teologo e vescovo Bruno Forte su “Israele e la Chiesa, i due esploratori della Terra promessa. Per una teologia cristiana dell’Ebraismo”.

Dopo aver ricordato che dal punto di vista storico

“…i modelli interpretativi con cui la comunità cristiana si è rapportata all’Antico Testamento sono andati dal dualismo di contrapposizione fra l’antico e il nuovo Israele, all’allegorismo di semplice sostituzione, all’uso strumentale delle testimonianze dell’antico Patto, alla ricerca di una effettiva complementarità”

Bruno Forte afferma che nel rapporto fra la Chiesa e Israele ciò che occorre salvaguardare

“…è il valore dell’antica Alleanza in se stessa e il permanente significato religioso d’Israele, postulato da Paolo in forza della fedeltà di Dio al Suo patto”

È pertanto

“…il cosiddetto modello della complementarità che qui si affaccia: l’Antico Testamento ha un valore strutturale, fatto proprio dallo stesso Gesù, ebreo ed “ebreo per sempre”…”

per cui

“Non è questione di una o due alleanze: l’economia del Patto è una sola e consiste precisamente nel disegno d’amore di Dio per il Suo popolo: in quello che Paolo chiamerà il mistero nascosto dai secoli (cf. Rm 16,25) ”

L’economia del Patto è una sola, ma

“..i tempi, le forme e il grado di realizzazione cambiano: l’alleanza con Noè non è quella con Abramo, e questa non è ancora quella del Sinai. L’alleanza del Golgota e della Pasqua di resurrezione non nega le altre, le porta a compimento”

E questo spiega perché

“…la permanenza d’Israele […]non è minaccia né impoverimento della Chiesa, ma ricchezza per essa…”

Fra gli apporti fecondi dell’Ebraismo, Bruno Forte si sofferma in particolare sul fatto che esso è “esperto di divini silenzi”:

“Se nella rivelazione Dio si manifesta nella Parola, al di là di questa Parola, autentica auto-comunicazione divina, sta e resta un divino Silenzio. La Parola esce dal Silenzio ed è nel Silenzio che essa viene a risuonare […] È precisamente questo gioco dialettico di Parola e Silenzio che è stato perduto nella tradizione teologica della modernità”

Aggiungo infine quanto mons. Forte ebbe ad affermare nell’Assemblea Ecumenica di Graz (giugno 1997):

“Secondo Paolo la vera e piena riconciliazione fra i due popoli appartiene al tempo della fine: Essa coinciderà con qualcosa di paragonabile a una «risurrezione dai morti» (Rom 11,15). Questo significa che nel tempo intermedio fra il primo e l’ultimo avvento del Signore Gesù ciò che è possibile e doveroso cercare è un camino verso la riconciliazione, più che una riconciliazione compiuta, riconoscendo che questa apparterrà al tempo che il Dio della promessa riserva per tutti noi”

Altra conferenza da segnalare nell’ambito della serie citata è quella del prof. Peter Huenermann, docente dell’Università Gregoriana.

Egli si chiede tra l’altro:

“…se la Chiesa e il popolo ebraico sono strettamente legati e se la Bibbia è riconosciuta come patrimonio comune della fede, nonostante le differenti tradizioni interpretative, non sorgono questioni che trascendono una correzione semplice di qualche proposizione finora trasmessa come ovvia?”

E precisa:

“Ora domandiamoci: non emerge un nuovo profilo dei loci theologici dalla nuova determinazione della relazione Chiesa-popolo ebraico?”

Se infatti nel Nuovo Testamento, e così pure nella Nostra Aetate, l’economia divina d’Israele viene caratterizzata come pre-storia del Cristianesimo, tuttavia

“… questa pre-storia non è semplicemente terminata, morta, pietrificata. Questa pre-storia è ancora efficiente. Per utilizzare un termine di Hans-Georg Gadamer, questa pre-storia ha una Wirkunggeschichte che è attuale ed efficace ancor oggi”

Ed è un mistero riservato a Dio e alla sua fedeltà all’alleanza

“come questa via della maggioranza degli ebrei sia un cammino verso la salvezza”

La Bibbia, di conseguenza,

“esiste in un modo duplice: esiste in una prospettiva neotestamentaria e esiste in una prospettiva che rifiuta l’evento cristologico affermando però la relazione d’Israele a Dio e l’idea che la fedeltà di Dio alla sua alleanza rimane la causa della redenzione d’Israele. In questo senso la Bibbia, l’Antico Testamento,interpretata nella prospettiva ebraica, deve essere accettata dal teologo cristiano come espressione di una speranza valida per il popolo prediletto”

Inoltre, attraverso la riscoperta della comunione con il popolo ebraico, anche l’autorità della Chiesa assume un profilo differente, infatti,

“…se la Chiesa cattolica è […]essenzialmente Chiesa degli ebrei e dei gentili e se i gentili sono essenzialmente innestati nella radice di Israele, ne risulta che questa Chiesa contiene in sé un opposto, un altro innegabile”

L’autorità della Chiesa è quindi una realtà relazionale in se stessa:

“La relazione a Israele come radice e come gruppo caratterizzato dalla porosis [indurimento] fanno di questa autorità un’autorità simultaneamente escatologica e definitiva perché testimone della salvezza destinata a ebrei e gentili”

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Analogamente a quanto si rileva in campo cattolico, anche nell’ambito dell’ebraismo contemporaneo poche sono ancora le voci che si pronunciano a favore di un ripensamento dei rapporti tra le due religioni.

Vari sono i motivi che spiegano questa carenza di interesse per il problema: prima di tutto il fatto che il rapporto tra Ebraismo e Cristianesimo è “asimmetrico”, nel senso che l’Ebraismo non ha bisogno del Cristianesimo per auto-comprendersi[2]; poi il ricordo delle passate umiliazioni e persecuzioni subite per opera della Cristianità, e infine il sospetto che il dialogo proposto dalla Chiesa non sia che un espediente per fare proselitismo.

Nondimeno, autorevoli personalità dell’Ebraismo, specie negli Stati Uniti, hanno dato contributi importanti alla determinazione di un nuovo rapporto tra le due religioni.

Tra tutti va citato in primo luogo per l’originalità e la rilevanza delle sue idee Irving Greenberg, rabbino ortodosso ma non tradizionalista, professore universitario di storia.

Nella sua opera For the Sake of Heaven and Earth: The New Encounter Between Judaism and Christianity , Philadelphia, Jewish Publication Society, 2004, Greenberg sostiene che Dio parla in modi diversi ai diversi popoli: è sua volontà che il mondo diventi perfetto, e ciò accadrà in virtù di un’alleanza tra Dio e l’umanità, che si esprime in diverse religioni.

Una tesi “pluralistica”, quindi, ma che secondo il suo autore non è relativistica, proprio perché è un pluralismo fondato sulla Parola di Dio.

Greenberg vuole che sia i Cristiani che gli Ebrei riconoscano che l’esperienza della verità delle rispettive tradizioni religiose non esaurisce le potenzialità divine di rivelazione e di alleanza.

Indipendentemente dal giudizio che possiamo dare sulla sostenibilità di questa tesi, resta il fatto che essa costituisce un passo in avanti nel dialogo tra Ebrei e Cristiani.

Egualmente positivo, ai fini del dialogo, è il riconoscimento da parte di Greenberg che Gesù non è, come sostengono comunemente gli Ebrei, un “falso” messia, ma piuttosto un messia “fallito” che nella sua breve vita non ha potuto inaugurare pienamente l’era messianica.

Ma già in un suo articolo del 1983, On the possibility of religiosous Pluralism from a Jewish Viewpoint (Immanuel 16, pp. 101-113), il teologo ebreo ortodosso David Hartman sosteneva che l’elezione del popolo ebraico rappresenta una specificazione della relazione di Dio all’uomo, ma non implica che ci possa essere solo un esclusivo mediatore del divino coinvolgimento nella storia[3]. Ed esprimeva la convinzione che il Buddismo, il Cristianesimo, l’Islam e l’Ebraismo sono forme spirituali distinte che testimoniano la complessità e la pienezza dell’Infinito.

Recentemente, un altro ricercatore ebreo, Michael S.Kogan, in un libro significativamente intitolato Opening the Covenant: A Jewish Theology of Christianity, Kindle Edition, 2007, sostiene che gli Ebrei devono considerare la tradizione cristologica che si è sviluppata intorno a Gesù come un’appropriazione autentica del mistero assoluto e incomprensibile della presenza di Dio, parallela all’appropriazione ebraica.

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Vorrei concludere questa rapida rassegna ribadendo che, al di là dell’accettazione o del rifiuto di queste nuove impostazioni del rapporto tra le due Alleanze, questa ristretta ma autorevole pattuglia di teologi cristiani ed ebrei sta creando i presupposti per un autentico dialogo , aprendo la strada ad un percorso che nessuna contingente battuta d’arresto potrà compromettere.

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Aggiungo a queste pagine una sommaria cronologia del dialogo tra Chiesa e Ebraismo, prima rifiutato, poi auspicato e promosso, ma non ancora pienamente condiviso da ambedue le parti.

1904: Pio X a Teodoro Herzl, che chiedeva l’appoggio vaticano per l’insediamento degli Ebrei in Palestina: “Gli Ebrei non hanno riconosciuto Nostro Signore, perciò non possiamo riconoscere il popolo ebraico”.

1926-28: Si costituisce a Roma l’Associazione Amici di Israele con il fine di diffondere una migliore comprensione dell’Ebraismo. Essa conta tra gli aderenti 19 cardinali, 279 vescovi e 3000 preti di tutte le parti del mondo. L’Associazione fu condannata dalla Chiesa con decreto del 1928[4].

1937: Pio XI, nell’Enciclica Mit Brennenden Sorge (Con ardente pena) denuncia implicitamente le persecuzioni contro “la razza ebrea”.

1938: In occasione della visita di Hitler a Roma, Pio XI si ritira a Castel Gandolfo e fa chiudere i Musei Vaticani.

1946: Si costituisce l’International Council of Christians and Jews.

1947: Nella Conferenza di Seelisberg dell’International Council si stabiliscono dieci punti base per le relazioni con gli Ebrei (alcuni furono ripresi nella Nostra Aetate). Fu questo, secondo Lea Sestieri, “il primo importante tentativo di conversione capace di dar vita a un nuovo atteggiamento”.

1961: Il Consiglio Ecumenico delle Chiese dichiara: “L’antisemitismo è un peccato contro Dio e contro l’uomo”.

1965: Dichiarazione conciliare Nostra Aetate.

(novembre): creazione del Servizio internazionale di documentazione giudeo-cristiana (SIDIC) per iniziativa di diversi vescovi ed esperti che avevano contribuito all’elaborazione di Nostra Aetate.

1970: Si costituisce a Roma il Comitato Internazionale di collegamento fra cattolici ed ebrei.

1974: La Commissione per le relazioni religiose della Chiesa cattolica con l’Ebraismo pubblica gli Orientamenti per l’applicazione della Dichiarazione Conciliare Nostra Aetate, n.4.

1980 (17 novembre): Giovanni Paolo II, nell’allocuzione ai rappresentanti della Comunità Ebraica di Germania, riuniti a Magonza, pronunzia la frase: “Il popolo ebraico dell’Antica Alleanza che non è mai stata revocata”.

Nello stesso anno iniziano nel monastero benedettino di Camaldoli i Colloqui annuali ebraico-cristiani.

1985 (maggio): La Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo pubblica il sussidio per una corretta presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica[5].

1986 (13 aprile): Visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma.

1993: La Santa Sede riconosce lo Stato di Israele.

2000: Visita in Israele di Giovanni Paolo II[6].

(10 settembre): il New York Times pubblica “Dabru Emet” (Direte la verità), un appello per il dialogo tra ebrei e cristiani, firmato da 172 rappresentanti dell’ebraismo negli U.S.A., in Canada, in Gran Bretagna e in Israele[7].

2002 (14 novembre): La Congregazione per l’educazione cattolica e la Commissione per i rapporti con l’Ebraismo decidono di collocare nell’ambito del Centro Cardinale Bea gli studi biblici e teologici finalizzati alla promozione del dialogo con gli Ebrei.

2004 (19 ottobre): Il Centro Cardinale Bea organizza una serie di conferenze su “La Chiesa cattolica e l’Ebraismo dal Vaticano II ad oggi”.

2005 (19 agosto): Discorso di Benedetto XVI alla Comunità ebraica di Colonia. Il papa dichiara tra l’altro che “va incoraggiato un dialogo sincero e fiducioso per poter giungere ad un’interpretazione condivisa di questioni storiche ancora discusse e, soprattutto, fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto tra ebraismo e cristianesimo”.

2005 (26 settembre): Convegno internazionale “Nostra Aetate” presso la Pontificia Università Gregoriana.

2008 (4 febbraio): Nota della Segreteria di Stato (Oremus et pro Iudaeis).

2009 (12 maggio): Benedetto XVI a Gerusalemme.

Hetty Hillesum: ebrea? Cristiana? Donna di fede!

Etty Hillesum, nata nel 1914 a Middelburg (Olanda) da una famiglia ebrea non praticante, morì ad Auschwitz nel novembre del 1943. Ad Auschwitz persero la vita anche i genitori ed il fratello.

Da Etty Hillesum “Diario 1941-1943” Adelphi Ed.

15 luglio 1942

“Quando prego, non prego mai per me stessa; prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo «Dio»”

12 luglio 1942

“Preghiera della domenica mattina. […] Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani –ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. […] L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. […]

Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento –invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia. Comincio ad essere un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio”

“24 luglio, venerdì mattina, le sette e mezzo.

[…] Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile”

“27 luglio 1942.

[…] Credo proprio di avere come un regolatore interno. Un malumore mi avverte ogni volta che ho preso la strada sbagliata.”

“29 settembre 1942. […] A ciascun giorno basta la sua pena. Si devono fare le cose che vanno fatte e per il resto non ci si deve lasciar contagiare dalle innumerevoli paure e preoccupazioni meschine, che sono altrettante mozioni di sfiducia nei confronti di Dio”

Da Etty Hillesum “Lettere 1942-1943” Adelphi Ed.

“Amsterdam, 28 settembre [1942]

[…] non sono i fatti che contano nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa”

“[Amsterdam], 4 novembre 1942

[…] Io credo che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circostanze peggiori. Spesso penso che dovremmo caricarci il nostro zaino sulle spalle e salire su un treno di deportati.”

“Amsterdam, dicembre 1942.

[…] Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione -, allora non siamo una generazione vitale. […] ma se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione -, allora non basterà.”

“Westerbork, dopo il 26 giugno 1943.

[…] La gente si smarrisce dietro ai mille piccoli dettagli che qui ti vengono quotidianamente addosso, e in questi dettagli si perde e annega. Così, non tiene più d’occhio le grandi linee, smarrisce la rotta e trova assurda la vita. Le poche cose grandi che contano devono essere tenute d’occhio, il resto si può tranquillamente lasciar cadere. E quelle poche cose grandi si trovano dappertutto, dobbiamo riscoprirle ogni volta in noi stessi per poterci rinnovare alla loro sorgente. E malgrado tutto si approda sempre alla stessa conclusione: la vita è pur buona, non sarà colpa di Dio se a volte tutto va così storto, ma la colpa è nostra.”

“Westerbork, [29 giugno 1943].

[…] Stamattina, mentre mi lavavo insieme con una collega, le ho detto dal profondo del cuore pressappoco così: «I domini dell’anima e dello spirito sono tanto vasti e infiniti che un po’ di disagio fisico e di dolore non ha troppa importanza, io non ho la sensazione di essere privata della mia libertà e non c’è nessuno che mi possa fare veramente del male.»”

“Westerbork, 18 agosto [1943].

[…] Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani. La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio. A volte, quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti al cielo, le lacrime mi scorrono sulla faccia, lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza. Anche di sera, quando sono coricata nel mio letto e riposo in te, mio Dio, lacrime di riconoscenza mi scorrono sulla faccia e questa è la mia preghiera.

Sono molto, molto stanca, già da diversi giorni, ma anche questo passerà, tutto avviene secondo un ritmo più profondo che si dovrebbe insegnare ad ascoltare, è la cosa più importante che si può imparare in questa vita.

Io non combatto contro di te, mio Dio, tutta la mia vita è un grande colloquio con te.”

Per comprendere la situazione del campo di Westerbork è utile leggere la lettera 44, pp. 128-144

Bibliografia

Etty Hillesum “Diario 1941-1943” Adelphi Ed.

Etty Hillesum “Lettere 1942-1943” Adelphi Ed.

Cristiana Dobner “Etty Hillesum . Pagine Mistiche” Ed. Ancora

Pagine dai racconti dei Hassidim a cura di Martin Buber

Una preghiera stolta

Alla fine del Giorno del Perdono, il Rabbi di Berditschew disse a uno dei suoi hassidim: « Io so per che cosa hai pregato in questo giorno. La vigilia hai pregato che Dio ti dia al principio dell’anno, tutti in una volta i mille rubli di cui hai bisogno durante l’anno e che tu guadagni nel corso dell’anno, così che le fatiche e le preoccupazioni degli affari non ti distolgano dallo studio e dalla preghiera. Ma la mattina hai pensato che se tu avessi mille rubli tutti in una volta inizieresti con essi un nuovo grande affare e allora sì che ti darebbe pensieri; così hai pregato di poter ricevere la metà del denaro due volte all’anno. E prima della preghiera finale anche questo ti sembrò pericoloso e preferisti un pagamento trimestrale per potere studiare e pregare indisturbato. Ma perché pensi che in cielo si abbia bisogno del tuo studio e della tua preghiera? Forse si ha proprio bisogno della tua fatica e dei tuoi grattacapi! »

Abramo e Lot

Il Rabbi di Berditschew arrivò un giorno a Lemberg e andò in casa di un uomo ricco e stimato. Introdotto presso il padrone di casa, lo pregò di dargli alloggio per un giorno, ma gli nascose nome e condizione. Il ricco l’apostrofò: « Non voglio qui viandanti. Va’ in una locanda! » « lo non sono un ospite da locanda », disse il Rabbi; « datemi un po’ di posto in una stanza e non v’importunerò per altro. » « Levati di tomo! » gridò quegli. « Se non sei un ospite da locanda, come dici, va all’angolo dal maestro di scuola, egli suole accogliere con onore e ospitare vagabondi come te! »

Rabbi Levi Isacco andò dal maestro e fu accolto e ospitato con onore. Ma per la strada qualcuno l’aveva riconosciuto, e subito per la città si diffuse la notizia che il santo Rabbi di Berditschew era arrivato e aveva preso alloggio nella casa del maestro. Aveva appena riposato un poco che già una folla era davanti alla porta e chiedeva di entrare; e quando la porta fu aperta, la gente accorse a sciami per ricevere la benedizione dello zaddik. Tra essa c’era anche l’uomo ricco; egli si fece strada fino al Rabbi e cominciò: « Il nostro signore e maestro mi voglia perdonare e degnare della sua visita la mia casa. Tutti gli zaddikim che sono venuti a Lemberg hanno abitato presso di me ».

Rabbi Levi Isacco si rivolse a quelli che gli stavano intorno e disse: « Sapete quale differenza c’è tra nostro padre Abramo, la pace sia con lui, e Lot? Perché si racconta con tanto compiacimento come Abramo servisse agli angeli burro, latte e un vitello tenero? Anche Lot ha cotto una focaccia e servito un pasto. E perché è considerato un merito che Abramo li accogliesse nella sua casa? Anche Lot li ha invitati e ospitati. Ma la cosa sta così. Per Lot è detto: ‘Gli angeli giunsero a Sodoma’. Per Abramo invece è detto: ‘Alzò gli occhi ed ecco che scorse tre uomini che stavano davanti a lui’. Lot vide figure d’angeli, Abramo poveri viandanti impolverati, bisognosi di riposo e di ristoro ».

Il frettoloso

Rabbi di Berditschew vide un uomo che si affrettava per la strada senza guardare né a destra né a sinistra. « Perché corri così? » gli chiese. « Vado dietro a ciò che mi dà da

vivere », rispose l’uomo. « E come sai », continuò il Rabbi, « che ciò che ti dà da vivere corre davanti a te e che tu debba dargli la caccia? Forse è alle tue spalle e tu devi soltanto fermarti per incontrarlo, ma tu fuggi davanti a esso. »

Il gioco della dama

Un giorno di Hanuccà Rabbi Nabum, figlio del Rabbi di Rizin, arrivò inaspettato alla Scuola e trovò gli scolari che giocavano a dama, come erano soliti in quei giorni. Quando videro entrare lo zaddik si confusero e smisero di giocare. Ma egli li saluto amichevolmente e chiese: « Conoscete le regole del gioco della dama? » E poiché quelli per vergogna non aprivano bocca, si rispose da sé: « Vi dirò le regole del gioco della dama. La prima è: non si possono fare due passi alla volta. La seconda: si può soltanto andare avanti e non si può tornare indietro.

E la terza: quando si è in cima si può andare dove si vuole» .

Come il bove

Un hassíd si lamentò col Rabbi di Ger: « Mi sono affaticato e affannato, eppure non mi accade come al maestro di un mestiere; dopo vent’anni di lavoro la sua opera rivela pure qualche buon segno: o riesce più bella di prima o più rapidamente di prima. Ma io non vedo niente. Come pregavo vent’anni fa, così prego oggi ».

Lo zaddik rispose: « Si insegna in nome di Elia: ‘L’uomo prenda su di sé la Torà come il bove il suo giogo e l’asino la sua soma’. Vedi come il bove esce dalla stalla e va sul campo e ara e viene ricondotto a casa, e così giorno per giorno, e nulla muta per lui, ma il campo arato dà il suo frutto ».

Vana ricerca

Rabbí Uanoch raccontava: « C’era una volta uno stolto che chiamavano il ‘golem’, tanto stolto era. La mattina alzandosi gli riusciva sempre difficile ritrovare i suoi abiti, così che la sera, pensandoci, aveva paura di andare a dormire. Finalmente una sera si fece coraggio, prese un foglietto e una matita e spogliandosi annotò dove posava ogni capo. La mattina tirò fuori allegramente il foglietto e lesse: ‘Il berretto’ eccolo, e se lo mise in testa, ‘i calzoni, eccoli erano lì, e se lì infilò, e così via fino a che ebbe indossato tutto. ‘Sì, ma io dove sono?’ si chiese allora ansiosamente. ‘Dove sono rimasto io?’ Invano cercò e cercò, ma non riuscì a trovarsi. Così avviene a noi », concludeva il Rabbi.

L’ateismo

«Tutte le qualità, anche quelle basse e malvagie, possono essere sollevate al servizio di Dio. Così, per esempio, l’orgoglio: quando viene innalzato, si trasforma in nobile coraggio nelle vie di Dio. Ma a che scopo sarà stato creato l’ateismo? Anch’esso ha il suo innalzamento: nell’atto di pietà. Poiché quando uno viene da te e ti chiede aiuto, allora tu non devi raccomandargli di avere fiducia e rivolgere la sua pena a Dio. Ma devi agire come se Dio non ci fosse, come se in tutto il mondo ci fosse uno solo che può aiutare quell’uomo: e quell’uno sei tu»

Tutti i racconti sono tratti da ‘I racconti dei Hassidim’ raccolta curata da Martin Buber

Verso l’Uno da Miriam Viterbi ben Horin

C’è poi un testo di Miriam Viterbi Ben Horin una donna ebrea. Nell’ultima guerra lei era bambina, il padre era insegnante universitario, gli hanno prima tolto la cattedra,

poi stavano per essere catturati e si sono salvati grazie all’aiuto di alcuni preti ad Assisi. Li hanno nascosti, nutriti, protetti e quando dopo l’ultima guerra c’è stata un’esplosione anche giustificata di odio da parte degli ebrei verso quei cristiani che hanno contribuito a questo eccidio, lei ha sentito il bisogno di raccontare, dicendo che non tutti erano stati così perché il suo non era un caso isolato, ma uno di una serie di episodi di aiuto da parte dei cristiani. Su questo ha scritto prima un articolo poi un libro. Questa pagina invece è tratta da una serie di incontri che loro hanno avuto a Camaldoli con Benedetto Calati, nell’ambito di dialoghi tra Cristiani e Ebrei su vari temi. Mi è sembrato interessante il capitolo “La notte del Getsemani”. Lei rimanendo ebrea cerca di rendere la realtà dell’ultima notte di Gesù sul Getsemani.

“Nella storia della passione il punto culminante, l’acme non è per me la crocifissione, ma proprio la notte del Getsemani. Ciò che accadrà dopo sul Golgota sarà la realizzazione “fisica”, il corollario del dramma di Gesù in tutta la sua evidenza, ma la vera prova, quella determinante, è questa terribile notte d’angoscia in cui non è il corpo, ma lo spirito a essere crocifisso. Nella notte del Getsemani Gesù è appeso a una croce invisibile in cui il piano umano e quello divino vengono a intersecarsi con le loro diverse realtà e con le loro contrastanti richieste, i chiodi che lo trafiggono sono i chiodi dell’assoluto abbandono. In questa lacerazione, nella solitudine più amara viene combattuta la lotta ultima tra lo spirito e la materia, fra l’”io” che non può accettare e che vuole ancora vivere, e il “Self “ che riconosce nella propria totalità la vita e la morte, o meglio la morte come parte della vita, il male come il bene, la separazione come l’unione, in nome di ciò che è al di là di ogni singola esperienza umana.[…] L’umiliazione del Figlio dell’uomo è qui nel Getsemani in quel volto rigato di sudore e di pianto con cui si rivolge ai discepoli, con cui si mostra loro in tutta la sua umana e drammatica autenticità di fronte alla morte che incombe. Non è più qui il Gesù carismatico il Gesù che compie i miracoli, il rabbi seguito, ascoltato e venerato. No è un Gesù che umilmente chiede ai suoi discepoli più vicini di vegliare, di pregare e, pur senza dirlo, di non lasciarlo solo. Un Gesù che proprio per questa sua angoscia, per questa sua paura senza veli sta forse inconsapevolmente insegnando ai discepoli una delle cose più essenziali della vita, e cioè che bisogna avere il coraggio di essere sempre se stessi, di mostrarsi così come si è, nella gloria come nella debolezza, anche a costo di umiliazioni. Sta insegnando nel modo più vivo e sconvolgente possibile cosa deve essere il rapporto fra uomo e uomo, la verità del rapporto, la comunione fra gli esseri umani, che è anche la via per la comunione con Dio.

Ma i discepoli hanno detto no a Gesù sofferente e in tal modo hanno detto no al suo insegnamento. E qui oltre all’angoscia della morte imminente, allo sgomento di fronte al silenzio del Padre, all’incomprensibile agghiacciante indifferenza mascherata dal sonno di coloro che gli sono più vicini, deve essersi aggiunta una nuova consapevolezza, un nuovo dolore e cioè non essere riuscito a fare i discepoli.

Nell’ora decisiva nessuno gli è più vicino. Ora essi dormono, poi fuggiranno.

“L’anima mia è triste fino alla morte restate qui e vegliate.” (Mc 14.34; Mt 26.38)Gesù deve aver sperimentato qui il pericolo della morte spirituale di fronte allo sgomento dell’ignoto, della solitudine estrema dell’imminenza del dolore fisico che accompagnerà la sua fine. E Gesù accetta.

È in questo momento che egli diviene nella pienezza del suo significato Figlio di Dio: un vero Figlio di Dio.

È in questo momento di sofferta accettazione che ha luogo la sua trasformazione ultima il suo compimento interiore che è risurrezione.

Giuda e Pietro appaiono a questo riguardo nel testo evangelico in estrema antitesi, l’uno perché lo consegna alla morte, l’altro perché cerca di dissuaderne il maestro.

Cosa è il vegliare? Essere pienamente vigili di fronte alla vita, ai fatti e alle richieste della vita, alle richieste dell’uomo e dell’Eterno.[…] Quando si vive in pienezza e vigilanza l’amore è già concluso.

Non credo si possa chiudere una riflessione sul Getsemani e sul dolore che ne emana senza porci di fronte all’immensità di dolore che pervade il mondo.”

Diversi e… di Maria Dominica Giuliani

Il mio incontro forte con l’ebraismo è avvenuto a metà degli anni ’80.

Prima, da bambina, c’era stata la familiarità con il card. Agostino Bea con la consapevolezza che i cammini sono aperti al dialogo ed all’incontro senza pregiudizi e c’erano stati i compagni di scuola di origine e religione ebraica, dalle elementari fino al liceo.

Ma è stato l’incontro con una persona che ha cambiato ed orientato il mio rapporto con il pensiero ebraico.

Quando l’ho conosciuta, Lea Sestieri aveva una settantina d’anni, prima donna ad aver frequentato il Collegio rabbinico di Lungotevere Cenci negli anni trenta.

Ho seguito alcune sue conferenze nell’ambito dell’Associazione dell’Amicizia Ebraico-Cristiana e nell’estate del 1985 abbiamo fatto un viaggio culturale in Israele, organizzato dalla stessa Associazione.

La sua figura austera ed il rigore di studiosa, addolciti dalla sensibilità attenta a cogliere le sfumature degli interlocutori, mi hanno colpito e si è creato un bel rapporto di comunicazione. Mi ha affascinato la sua capacità di rovesciare le situazioni ed i pensieri, smascherando luoghi comuni, per permettere allo spirito critico di trovare nuove strade.

Ecco allora che la discussione sull’assenza di D. nei campi di sterminio, con me che mi intestardivo, stupita dalle sue parole così dure, è stato un momento rivelatore, mi ha fatto capire che e quanto siamo diversi. È la concezione di D. che è diversa. È una teologia altra.

In quegli anni ho trovato anche altri segni di questa diversità: nella Lettera di un ebreo morto nel ghetto di Varsavia nel 1943 [in L. SESTIERI, Spiritualità ebraica, Studium, Roma, 1999, pp. 266-268], nel rapporto di Abramo con D. descritto da Thomas Mann nel suo romanzo Le storie di Giacobbe.

Quello che mi ha colpito è stato proprio il modo di rapportarsi a D. – che per me è colui che Gesù di Nazaret chiama Padre – mentre in questi testi, come nelle parole di Lea, è sempre l’altro con il quale stabilire alleanza, amicizia, se tutti e due sono d’accordo.

E il rapporto con l’amico è molto diverso dal rapporto con il padre. È una relazione libera, basata solo sulla fiducia. All’amico poi dico tutto, certe volte anche brutalmente…: posso fare lo stesso con D. !

Sono partita da ciò che ci unisce e arrivata a ciò che ci divide?

Ma la diversità non è divisione, allontanamento.

Nello stesso tempo, infatti, questa alterità ha aperto per me nuovi spazi.

Sono diventata consapevole che non si può leggere l’ebraismo a partire dal cristianesimo (come la fede in un Messia che deve ancora venire), non si può leggere il Primo Testamento a partire dal Secondo, sono azioni riduttive, che impoveriscono me per prima. Inoltre, il rapporto dell’ebreo con D., non si è cristallizzato a quello che era al tempo di Gesù di Nazareth, è proseguito negli ultimi duemila anni, producendo cultura, testimoni, martiri.

L’alterità del pensiero ebraico su D. soprattutto mi ha permesso di cominciare a rendermi conto del particolare rapporto con D. che ha avuto Gesù all’interno dell’ebraismo, la religione-cultura nella quale è cresciuto.

Della novità che duemila anni fa ha portato Gesù di Nazaret in questo rapporto, una novità dirompente anche oggi, che siamo ingabbiati in una cultura religiosa fatta di modi di dire, di luoghi comuni, di subalternità.

È stato l’inizio del mio cammino di cristiana adulta.

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  1. In La salvezza viene dagli Ebrei, a cura di A.Cagiati, Carucci ed., 1987, p.15, viene citata questa affermazione del card. Etchegaray: “Fino a quando la teologia non avrà risposto in modo chiaro e sereno al problema del riconoscimento da parte della Chiesa della vocazione permanente del popolo ebraico, il dialogo ebraico cristiano rimarrà superficiale ed amichevole, pieno di restrizioni mentali”.
  2. 2 Il rabbino Giuseppe Laras osserva che “a differenza del Cristianesimo nei riguardi dell’Ebraismo, l’Ebraismo non ha bisogno del Cristianesimo per capirsi, per auto-comprendersi […]in altre parole, se per il Cristianesimo incontrare Israele equivale a riscoprire le proprie radici, per sentirsi meglio definito, compreso e, se vogliamo, giustificato, lo stesso non varrebbe per l’Ebraismo nei confronti del Cristianesimo”(Conferenza data il 4/11/2004 alla Gregoriana nell’ambito della serie già citata)
  3. Vedi in proposito Maria Brutti, Attitudini dell’ebraismo nei confronti del dialogo interreligioso: il dibattito intorno alla linea di Soloveitchik,, relazione tenuta in occasione del Convegno Internazionale “Nostra Aetate Oggi” (Pontificia Università Gregoriana, 25-28/9/2005).
  4. Cf. Lea Sestieri, 50 anni di dialogo ebraico cristiano, Camaldoli, nov.1999, da cui riprendo gran parte di questa cronologia.
  5. Al III cap. il documento dichiara che Gesù era ebreo e lo è sempre rimasto; che il suo ministero è stato da lui volutamente limitato alle pecore perdute della casa d’Israele; ch’egli volle sottomettersi alla Legge; che è stato circonciso e presentato al Tempio, e che è stato formato alla sua osservanza; che il ritmo della sua vita era scandito dall’osservanza dei pellegrinaggi in occasione delle grandi feste; che egli ha spesso insegnato nelle sinagoghe e nel Tempio; che ha voluto realizzare l’atto supremo del dono di sé nell’ambito della festività pasquale; che i suoi rapporti con i farisei non furono mai totalmente né sempre polemiche, che ha condiviso con loro la fede nella resurrezione e le loro forme di pietà, nonché l’abitudine liturgica di rivolgersi a Dio come Padre, e il primato del comandamento dell’amore di Dio e del prossimo. Se Gesù si è mostrato severo con i farisei, è perché tra loro e lui c’è una maggiore vicinanza che con gli altri gruppi ebraici contemporanei.
  6. Il rabbino Michael Melchior commentò la visita con queste parole: “Quando il papa ha toccato il Muro occidentale, è stato come se una porta, chiusa per così tanti secoli, cominciasse ad aprirsi alla riconciliazione e alla pace tra Cristiani ed Ebrei”(Osservatore Romano, 2 marzo 2000.
  7. Il documento contiene otto brevi affermazioni su come ebrei e cristiani possano rapportarsi gli uni agli altri: 1) Ebrei e cristiani adorano lo stesso Dio; 2) ebrei e cristiani riconoscono l’autorità dello stesso libro, la Bibbia;3) i cristiani possono assecondare la rivendicazione ebrea dello Stato di Israele; 4) ebrei e cristiani accettano i principi morali della Torah; 5) il nazismo non fu un fenomeno cristiano; 6) troppe differenze inconciliabili tra ebrei e cristiani non saranno risolte fino a che Dio non salverà il mondo intero, come promesso nella Scrittura; 7) una nuova unità tra ebrei e cristiani non indebolirà la fede ebraica; 8) ebrei e cristiani devono collaborare agli ideali della giustizia e della pace.