Lettera 13 (Seconda Serie)

Cari amici,

Questa lettera è dedicata al tema della speranza. Nel mese di marzo il Gruppo de “La Tenda” ha avuto un incontro per parlare di questo tema, diamo una sintesi del dibattito che ne è seguito.

Come potrete vedere non sono contributi teologici o particolarmente innovativi, è un parlare tra amici ma alcune delle cose che qui riportiamo ci sono parsi particolarmente significative. Provo a sintetizzare delle linee guida:

Equilibrio tra memoria e speranza: Occorre equilibrio tra “memoria”, che è il cammino del passato, e “speranza” che è il cammino del futuro. La mancanza di speranza è mancanza di futuro; chi difende solo il passato soffre di sfiducia in se stesso; la preziosità della nostra vita si ha quando passato, presente e futuro si arricchiscono reciprocamente.

Perdere la speranza o perdere l’illusione?: Ci siamo trovati nel corso degli anni a perdere la speranza, ma poi ci siamo accorti che, a volte, era perdita di illusioni; ad esempio abbiamo imparato a capire che ciò che conta spesso non dobbiamo aspettarlo da chi gestisce il potere o l’autorità, ma cercarlo con chi non ha potere o autorità, abbiamo scoperto la speranza che nasce dal mettere in cattedra gli ultimi.

Speranza non è entusiasmo: “Chi vi potrà fare del male se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi. … adorate il Signore, Cristo nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.” (1 Pt 3, 13-14)

La speranza non è l’entusiasmo, ma un’altra cosa. Le parole di Pietro sono state dette in un momento di grande difficoltà.

Speranza e realismo: C’è dunque una situazione contraddittoria che noi dobbiamo accettare e vivere fino in fondo, non perdendo di vista da una parte una crescita che non cessa e che avviene anche indipendentemente da quanto possiamo prevedere o progettare e dall’altra una situazione di degrado che è sotto gli occhi di tutti.

Pensare in positivo con amore per gli altri: la speranza è strettamente legata al pensiero positivo. Non sempre si possono avere pensieri positivi, però penso che ci sia questo legame: se uno ha pensieri positivi vede il positivo che c’è nelle persone allora vede con speranza.

Darsi tempo: La speranza nasce dal tempo di guardare le cose con calma, senza darsi tempo la speranza non nasce, la speranza nasce se sei capace di vedere dietro le cose La speranza non è un’operazione senza sforzo, senza fatica, non è un naturale ottimismo senza pensieri, la speranza richiede applicazione e costanza.

Sperare con gli altri: La speranza la devo sempre ricercare, ma non devo dimenticare che quando penso di poter fare da sola, non ho speranza, invece quando capisco che non posso far da sola, allora per me la speranza c’è.

Seguono alcuni contributi esterni, tra cui abbiamo inserito una lettera del vescovo di Piazza Armerina in quanto reale segno di speranza in una situazione difficile, concludiamo su questo tema con poche frasi che dall’abisso del male ci riportano al “dovere della speranza” e all’impegno di migliorare il mondo.

Come ultimo argomento, questa volta di attualità, cominciamo a parlare di una situazione romana, quella di S. Leone a Boccea in cui si riassumono molti dei nodi della Chiesa attuale. Contiamo di dedicare a questo caso una riflessione più ampia nelle prossime lettere.

Sommario della 13° lettera

  1. Resoconto dell’incontro del Gruppo de La Tenda sulle ragioni della nostra speranza
  2. Contributi esterni
  3. La situazione di S. Leone a Boccea: quali i nodi per la Chiesa romana?

L’incontro: quali le ragioni della nostra speranza?

Lorenzo:

  1. Speranza e speranza

Quando parliamo di speranza, troviamo chi pensa alla lotteria di capodanno, chi pensa di poter emigrare, chi spera di fronte ad una malattia grave…

Così spesso usiamo le parole come se avessero dei confini netti e invece mentre utilizziamo un termine ecco sentire a necessità di affiancarlo con un altro, così a volte accanto a Speranza dobbiamo mettere “angoscia”: per un referto che aspettiamo, per un viaggio su un canotto verso una terra lontana… ma c’è una speranza frutto dell’orgoglio, che non sarà mai saziato (Anna Barra, la mamma di Nicolino, cita spesso una frase di Seneca: “Per ogni bambino che nasce è sufficiente un panno e del latte, per un uomo adulto non basta un regno”).

Quante volte ci accorgiamo che gli ostacoli che dobbiamo affrontare e che sembrano allontanare la nostra meta in effetti ci aiutano a trovare non ciò che cercavamo, ma ciò che scopriamo essenziale. A volte proprio lì dove sembra esserci un fallimento totale, ad esempio la disgregazione del nostro corpo, proprio lì c’è, a volte, una profondità mai prima raggiunta e forse in una semplicità sconcertante.

  1. Passato, presente e futuro

Occorre equilibrio tra “memoria”, che è il cammino del passato, e “speranza” che è il cammino del futuro. Passato, presente e futuro devono sapersi illuminare reciprocamente (ad Auschwitz, sotto gli occhi di tutti, si concretizzò in pochi mesi quello che era stato l’odio secolare dei cristiani verso gli ebrei; diluito nei secoli era passato quasi inosservato, ma concentrato in quei campi è apparso in tutto il suo orrore; però se questo passato rimarrà isolato andrà in cancrena, diventerà solo fonte di paura e di violenza; se invece, come è accaduto in Sud Africa, il ripercorrere quegli orrori è coscienza della grave fragilità della nostra esistenza e quindi perdono, allora saremo aperti ad un futuro di vita piena).

La mancanza di speranza è mancanza di futuro; chi difende solo il passato soffre di sfiducia in se stesso (questo è particolarmente evidente per chi vive per strada ed ha come unico sostegno la bottiglia di vino; è difficile cambiare una condizione di vita che pur riconosciamo tragica, in cui c’è solitudine, solitudine sempre maggiore… assenza di futuro). Alcuni padri durante il Concilio Vaticano II in assemblea piangono disperati “perché ci viene tolto il passato”; non si vuole negare il passato, invece non lo si vuole isolare; la preziosità della nostra vita si ha quando passato, presente e futuro si arricchiscono reciprocamente.

La nostra speranza è spesso simile a quella di Mosè, che vedrà la terra promessa solo da lontano, dall’alto di un monte.

  1. Speranza e illusioni. Speranza e amore

Ci siamo trovati nel corso degli anni a perdere la speranza, ma poi ci siamo accorti che, a volte, era perdita di illusioni; ad esempio abbiamo imparato a capire che ciò che conta spesso non dobbiamo aspettarlo da chi gestisce il potere o l’autorità, ma cercarlo con chi ha potere o autorità, abbiamo scoperto la di mettere in cattedra gli ultimi.

Una vera speranza non può non avere come compagno l’Amore; ricordiamo le parole di Francesco d’Assisi: “Non dire cosa di persona assente, che tu non possa ripetere in sua presenza con amore”, così non sperare cosa di persona assente che tu non possa sperare in sua presenza con amore; un amore capace di andare oltre la parentela, oltre il proprio popolo, non a prescindere, ma oltre; dobbiamo sperare con lo stesso sguardo d’amore di Dio.

Sentiamo ripetere: “Aspetta e spera”, oppure “chi di speranza vive, disperato muore”. La speranza a cui siamo chiamati è una speranza attiva e in molti casi a noi spetta di gettare le basi perché altri possano costruire, o costruire dove altri hanno gettato la basi, cioè sentirci profondamente uniti a uomini o donne di ogni epoca e parte del mondo.

Così spesso ci accorgiamo di non raggiungere il cuore della speranza, ma ciò che conta è spendere tutte le nostre forze in questa direzione.

  1. Cosa contribuisce a riaccendere la speranza?

E’ così spesso necessario saper prendere un po’ di distanza per mettere a fuoco una prospettiva efficace.

Dice Ghislain Lafont: “Per dire che il mondo va male, basta guardare la TV… per leggere una speranza, bisogna ascoltare una Rivelazione e credere”.

Mi sono trovato in questi ultimi cinque mesi accanto a Claudio, un uomo davvero disperato; per poter riaccendere in lui la speranza occorre saper cogliere le sue ragioni, solo così è possibile riattivare la sua speranza senza espropriarlo; durante questo tempo più volte ho pregato Pietro Frau, un amico caro, che hanno trovato morto congelato a S. Giovanni alcuni anni fa, solo lui poteva riaccendere le forze in Claudio ed in me; in tutto questo ho sentito la necessità di cercare oltre le mie logiche. Dice S. Paolo in Rm 12, 12: “Siate lieti nella speranza”; come poter riaccendere la speranza in chi è disperato? Aiutando a leggere il positivo della propria storia passata e presente, non lasciarsi scoraggiare dall’altalenarsi di speranza e disperazione (per Claudio è stato importante scrivere un diario, descrivendo il positivo delle persone che ha incontrato nella propria vita).

C’è una speranza delusa che porta amarezza e sterilità, sta a noi saper cogliere il positivo anche di gravi disfatte (v. Etty Illesum). Ci può capitare di vedere distrutti con l’ascia e la scure i vari lavori d’intaglio che hanno visto impegnata tutta la nostra vita, ma nessuno potrà togliere tutto il positivo emerso nel mio cuore e perciò anche nel cuore del mondo per ciò che è stato realizzato, certe ricchezze rimangono nel DNA dell’umanità.

Una vera speranza può nascere solo se è compagna della libertà interiore (Gesù ha operato miracoli, ma ha tentato di nasconderli, perché voleva lasciarci liberi di credere non per la forza della guarigione).

C’è una speranza che cresce nella perseveranza e c’è una speranza frutto della disponibilità alla nascita dello Spirito.

Una sana speranza non conta solo sulle proprie forze e a volte una stretta di mano o una carezza riaccende la speranza.

Una sana speranza non spezza una canna incrinata (Is 42, 34).

Luigi: Spostiamo la nostra attenzione dalle ragioni della nostra speranza ai contenuti della nostra speranza. Mi sono chiesto in questi giorni che cosa spero per me, per gli altri, per il mondo, che cosa non ho, non abbiamo. Le risposte che mi vengono immediatamente sono realizzazione, amore, pace, pieno sviluppo della personalità. Ma riappropriamoci della concretezza del senso della speranza. Mettiamo a fuoco una cosa importante: l’accettazione piena di ciò che viviamo. Quello che mi sento di sperare è di vivere le situazioni nella loro entità profonda, anche nei momenti più bui, per arrivare ad una compartecipazione con la gente, con il mondo.

Maria Dominica: Ho pensato alle ragioni della mia speranza. “Chi vi potrà fare del male se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi. Non vi sgomentate per paura di loro né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza perché nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. E’ meglio infatti se così vuole Dio soffrire operando il bene che facendo il male.” (1 Pt 3, 13-17)

La speranza non è l’entusiasmo, ma un’altra cosa. Le parole di Pietro sono state dette in un momento di grande difficoltà. La mia speranza nasce da qualcosa che dentro di me è una cosa certa e cioè che nessuno mi vuole male. C’è Uno in particolare che non mi vuole male. Per cui quello che io vivo avrà sicuramente un senso, anche se non lo trovo ora.

Gesù ha vissuto da laico contro tutta una realtà e in questo senso me lo trovo a fianco. In più ci sono stati nella mia vita tanti momenti in cui mi è stata data una nuova possibilità. Spesso me ne sono resa conto dopo, perché quando sei immersa in una situazione non te ne rendi conto. Questo fonda il mio senso di speranza.

E poi c’è il fatto che nella vita capitano delle cose assolutamente inaspettate nelle relazioni con gli altri. Anche su questo si fonda la mia speranza.

Francesco: Io ho tante idee ma non ben collegate insieme. Le dico come mi vengono in mente.

Voi avete presente che il Vangelo attribuisce a Gesù una parabola che è quella del granello di senape. E mi pare che questa parabola esprima bene il senso della speranza, nella crescita del piccolissimo seme che piano piano e inaspettatamente riesce a diventare albero.

Un mio conoscente mi ha raccontato questo fatto: “Sono stato chiamato al Vicariato perché ero da ragazzo ospite di un collegio dove venivano radunati orfani o ragazzi di strada e siccome c’è in corso un processo di beatificazione mi hanno chiamato come testimone, e mi hanno chiesto se fossi a conoscenza di qualche miracolo compiuto da questo padre e io risposi: adesso ve lo dico subito il miracolo è che centinaia di ragazzi che erano in mezzo la strada sono stati raccolti, ospitati, hanno imparato un mestiere e poi hanno trovato una sistemazione e un lavoro. Eccolo il miracolo.” Questo è il granello di senape.

Però gli evangelisti attribuiscono a Gesù anche un’altra parola: “Chi sa se quando tornerò sulla terra ci sarà ancora la fede?” Noi dobbiamo considerare le due cose, non solo una. Certo se ci guardiamo intorno e ascoltiamo le televisione ci rendiamo conto che ormai la disonestà è diventata un costume, e da questo saremmo portati a pensare che al suo ritorno Gesù non troverà la fede. Per uscire da questa contraddizione l’unica maniera possibile è affidarsi al mistero. Sapendo che comunque vadano le cose non dobbiamo scoraggiarci ma dobbiamo continuare a costruire questa tela di rapporti positivi, avendo davanti a noi anche il quadro complessivo del mondo perché i problemi sono oramai globali. Questo lo dobbiamo fare e io penso che per quanto riguarda il compimento, la realizzazione piena di questa speranza più di tanto non si può dire, io credo che è nella coscienza che, pur senza sapercelo spiegare, abbiamo della possibilità di avere fiducia, che dobbiamo trovare il senso del mistero escatologico. Più di tanto non si può dire e neanche immaginare. C’è dunque una situazione contraddittoria che noi dobbiamo accettare e vivere fino in fondo, non perdendo di vista nessuno dei due poli, da una parte una crescita che non cessa e che avviene anche indipendentemente da quanto possiamo prevedere o progettare e dall’altra una situazione di degrado che è sotto gli occhi di tutti.

 

Giuseppe: Parlando di speranza, vado per coppie di termini, proponendo per ciascuno un episodio:

dualità: speranza / abbandono

nel libro di Paolo De Benedetti, ”Ciò che tarda avverrà”, si parla di una storia legata alla distruzione del tempio a Gerusalemme: “Rabbi Jokanan secondo la leggenda, durante l’assedio del

tempio si fece portare fuori dai suoi discepoli in un bara perché gli Zeloti non consentivano l’uscita se non ai morti. Rabbi Jokanan era uno studioso senza un incarico ufficiale, non aveva la residenza nel tempio e non era il Patriarca; egli fu il solo tuttavia a scorgere chiaramente quello che si poteva conservare e quello che bisognava abbandonare per conservare tutto. Egli agì senza troppe discussioni di metodo e di procedura e tuttavia non si può scorgere nel suo agire nulla di arbitrario o di autoritario, egli seppe leggere, come si direbbe oggi, i segni dei tempi ma  in quei segni non vedeva soltanto la storia, bensì la misteriosa volontà di Dio. Ai cristiani non è accaduto di dover compiere un mutamento così radicale come quello toccato all’ebraismo per rimanere se stessi, ma non si può dire che non sarebbe stato o che non sia altrettanto necessario. Infatti il grande tempio della cristianità tradizionale è già profondamente intaccato dal fuoco, ma questo incendio è, su scala umana, straordinariamente lento,  ed è quasi inavvertibile il crollo se non si guarda indietro, e tutto ciò rende più che mai difficile che sorga un uomo come Rabbi Jokanan  che decida di portare  fuori dal tempio, da quel tempio ciò che deve essere salvato.”

dualità: speranza / pesantezza

Un’amica mi raccontava della sua stanchezza, stanchezza che non viene solo dalle giornate ma che si accumula giorno per giorno e non va via con il riposo. Dobbiamo distinguere tra la stanchezza, quella normale che viene dalla fatica di ogni giorno, e la pesantezza, più diversa e insidiosa della stanchezza.

dualità: speranza / preghiera

Un racconto yddish  narra di un giovane, al fresco di un bar, che guarda sprezzante la gente che prega al caldo davanti al Muro del Pianto. La sua attenzione è attirata da un vecchietto che prega da ore dondolandosi davanti al muro. Incuriosito, va da lui e gli chiede: ”scusi  lei sta qui da ore sotto il sole, ma cosa ha da chiedere così incessantemente?”; quello gli risponde “io sono vecchio ho tanti figli e nipoti  e quindi ho tanto da chiedere” . Affascinato da tanta costanza, il giovane oramai coinvolto domanda: “ma il Signore ti ascolta?” e il vecchietto lo guarda e dice “Hai presente  parlare con un muro?”

Chiara: quest’anno ho sentito forte il pericolo di perdere la speranza di fronte ad avvenimenti molto duri. All’inizio dell’anno scolastico un gruppo di ragazzi della mia scuola ha fatto un’aggressione in un centro commerciale. Hanno avuto gli arresti domiciliari. Uno di loro ha il papà in carcere: quando i carabinieri sono andati a prenderlo a casa, il figlio era presente, lo hanno portato via davanti a lui. Per questo ragazzo non riuscivo più a trovare una speranza, una possibilità di bene nella sua vita… Immaginavo per lui il carcere, una vita violenta…

Poi un giorno è passato in classe mia un ragazzo kosovaro per dirmi che stava scrivendo un tema di cui potevo immaginare il contenuto. L’anno scorso è morta l’insegnante di sostegno della sua classe così improvvisamente che lui non ha potuto chiederle scusa per gli insulti che le aveva diretto in un momento di rabbia. Quando aveva saputo della morte della professoressa, era stato malissimo, ne avevamo parlato. E ora aveva la possibilità di scrivere in un tema la richiesta di perdono ad una persona che aveva ferito. Ho letto il tema: parole delicate, che fanno trasparire una profondità particolare. E ho ritrovato la speranza: se un ragazzo dalla vita difficile, anche violenta, mantiene una tale profondità e delicatezza di sentimenti, è ancora possibile sperare che abbia una possibilità di bene nella sua vita.

Poi ci sono stati C., un uomo appena uscito dal carcere, e A., una ragazza di quattrordici anni che è rimasta incinta. Attorno a C. eravamo un gruppo di persone: ci siamo aiutati a vedere il positivo, a mantenere viva la speranza, anche durante i momenti in cui tutto sembrava perduto. E forse, pensavo, ha a che fare con questo il fatto che Gesù abbia costituito una comunità di persone e non singoli che operano individualmente.

Nella vicenda di A., invece, mi sono trovata sola, in un certo senso. Avevo delle persone con cui confrontarmi, che mi hanno anche aiutato concretamente, ma nelle azioni che ho dovuto fare ero sola… E l’aborto per una ragazzina di soli quattordici anni mi sembrava la negazione della vita: quale speranza per lei, già segnata da una morte così profonda? Ad annullare del tutto la speranza c’era il fatto che mi sentivo l’unica responsabile di come si svolgevano le cose (i genitori non hanno saputo niente). Se sei l’unica responsabile, con tutti i tuoi limiti, la possibilità di sbagliare, non vedi più speranza. Quando mi sono accorta di questo, ho ripreso in mano il Salmo 131, con cui ho passato l’ultima settimana prima dell’interruzione di gravidanza: “Signore, non si inorgoglisce il mio cuore, non vado in cerca di cose grandi superiori alle mie forze…”. Il salmo mi ha riportato alla mia reale dimensione di creatura: se uno ha tutto nelle sue mani, può gestire tutto, non ha bisogno di sperare, una creatura, invece, si rimette nelle mani dell’Altro, in cui può sperare. E il salmo, non a caso, termina con le parole: “Speri Israele nel Signore ora e sempre”.

Marco : Chiara sta affrontando la situazione di trovarsi soli a cercare di ad arrivare a qualche servizio.

L’impressione grossa è di trovarci davanti ai segni dei tempi, cioè negativa in qualche modo. La legge sull’interruzione è del ’75 e prevede che una minorenne possa fare questi passi senza dirlo nemmeno ai genitori. Ma ci dovrebbero essere i consultori territoriali come primo servizio territoriale nato sulla spinta delle donne tra la gente. E se fosse avvenuto in quel contesto quello che è accaduto ad A. adesso, probabilmente avrebbe trovato un diverso modo di affrontare tutta la situazione, un appoggio diverso, una mentalità diversa, una capacità di affrontare la situazione in senso di una maternità e di una paternità responsabile. In fondo l’obiettivo era proprio il contrasto all’aborto clandestino.

Oggi invece ci ritroviamo con questa grossa solitudine.

Quando diceva Chiara che si è sentita sola rispetto ad altre situazioni davanti ad un problema così grosso ho pensato alla solitudine degli operatori anche oggi.

Nel ‘75 c’era probabilmente la possibilità di fare dei gruppi dove si discuteva magari più a fondo queste cose, anche l’aspetto psicologico era affrontato in modo diverso. C’era una prospettiva diversa.

Le cose che bisogna fare in queste situazioni è aiutare la persona in sé, e cercare di rimettere in moto quel discorso collettivo; la prevenzione che sappiamo in altre nazioni è vissuta in modo diverso.

Riaprire magari un discorso sapendo che abbiamo da un lato le capacità, la pillola del giorno dopo, altri strumenti che tutti hanno, e dall’altro però, un blocco nel quale queste discussioni non si fanno più. Si parla di tutt’altro, in televisione, o anche tra di noi.

Dico questo anche perché ad Ostia stiamo vivendo questa situazione. Domani inaugureranno la Casa del Parto che diventa un fiore all’occhiello dell’amministrazione in cui le gravidanze a basso rischio possono prepararsi a partorire in modo più naturale. Però in quei locali doveva andarci il consultorio familiare che doveva essere trasferito per poter ristrutturare la sede dov’è adesso. Uno o due mesi fa si è deciso di non mandarci il consultorio temporaneamente, ma di fare questa cosa, noi l’abbiamo contrastata in modo notevole anche perché il consultorio allo stesso tempo è stato trasferito in un appartamento di 100 metri quadrati dove la privacy non era garantita.

Diceva una collega che a volte arriva la sera stanca e nauseata di dover fare le certificazioni per donne che non erano né alla prima nella seconda né alla terza interruzione, e qui c’è tutto un non detto di questa situazione che va spinta in modo diverso anche da noi e questa solitudine è vera ed è diffusa. Come cozza con la speranza?

Per il lavoro con che faccio, con le sollecitazioni che incontro, una ragazzina di 18 anni è rimasta incinta e la sua è una situazione esposta, la mamma è l’unica che lavora, ha cinque figli, il papà egiziano va e viene e lei invece, contrariamente alle aspettative di tanti, ha deciso di tenerlo.

Qui cosa scatta, appunto il vedere quando si parla di maternità responsabile, di situazioni comunque difficili se c’è comunque un legame vicino, un rapporto con qualcuno in quel caso grazie a Dio c’è la mamma e le sorelle, per cui quando telefonava Chiara pensavo a queste situazioni in cui uno comunque in altre situazioni può fare una scelta. È chiaro comunque che bisogna concentrarsi di più su chi ha meno opportunità, però è anche vero che una persona può decidere e sono bambini che vengono accolti nonostante le situazioni difficili che sono intorno.

Nel discorso più generale della speranza, fede speranza è carità credo che ci sia un legame tra le tre, perché prenderne una singolarmente ci devia. Se invece leghiamo la nostra speranza ad atti concreti che sono quelli della carità che riceviamo e possiamo sempre dare e non ci mancherà mai. I poveri ci saranno sempre, ma anche la nostra povertà ci sarà sempre. Un po’ più difficile è il fatto della fede; per questo però, pensandoci, ringrazio i miei genitori di essere nato in ambiente permeato di fede , di sentire la parola di Dio almeno una volta la settimana, di dire le preghiere al mattino e alla sera, questo per me è importante per guardare senza disperazione al quotidiano e al domani, e sento che per i miei figli è diverso perché l’ambiente non è più così, e sento anche che nemmeno si tornerà più ad una situazione di quel tipo, però le cose positive non vanno disperse, e trasmettere la fede è un compito nostro ma forse è più difficile dare speranza, ma in qualche modo sono collegate.

Rimane poi la speranza in qualche modo laica non legata alla fede, questa se riusciamo a far passare sui giornali che non c’è solo la violenza per il mondo ma anche tutti gli altri aspetti positivi che quotidianamente viviamo probabilmente riusciremmo a capire che ci sono state nella storia lotte di liberazione. Oggi per noi la lotta di liberazione quale è?

Io con altri di Ostia stiamo cercando di fare, e credo che ogni giorno c’è motivo di speranza, poi come ha detto Maria Dominica e meglio soffrire cercando di fare del bene che soffrire facendo il male.

Giovanna: Per me la speranza, come diceva Francesco, è strettamente legata al pensiero positivo. Non sempre si possono avere pensieri positivi, però penso che ci sia questo legame: se uno ha pensieri positivi vede positivo, vede con speranza.

Porto un esempio legato all’ambiente del mio lavoro. Noi nella scuola dell’infanzia facciamo dei colloqui individuali con le famiglie per fare dei profili dei bambini, e la collega mi dice confrontiamoci, e lei mi dice che per me sono tutti bravi. Ed io le rispondo che prima di vedere l’aspetto negativo dei bambini dobbiamo vederne l’aspetto positivo perché se noi vediamo che Nicolò alcune volte non riesce a stare seduto sbagliamo perché noi dobbiamo vedere cosa fare Nicolò anche perché se facciamo un profilo negativo e lo presentiamo ad un’insegnante della scuola elementare lei non può vedere altro e che l’aspetto negativo del bambino. Dobbiamo abituarci a vedere l’aspetto positivo e questo lo sperimentiamo anche con le famiglie che conoscono i loro bambini e se noi non gli diamo anche questa speranza, anche la mamma di Nicolò riconosce che è un bambino vivace però se anche noi rinforziamo questo pensiero negativo nel genitore si crea un motore di negatività e la speranza si perde. Invece l’esperienza di scuola mi ha insegnato in questi anni che aiutare i genitori a vedere positivo aiuta a risolvere i problemi, ad approcciarsi ai bambini in un modo diverso.

In pratica il motore della speranza è anche questo, anche se come diceva Chiara, alcune volte difficile, in questa società che percepisce molto il negativo abbiamo questo compito di dare la speranza e di vedere quel pochettino di positivo che può esserci nelle situazioni.

Noi stiamo portando avanti un progetto sulla natura, sui quattro elementi.

Se io dovessi avere una speranza, vorrei vedere un mondo pulito, un mondo verde, un mondo più tranquillo, un desiderio di un mondo diverso.

Abbiamo fatto questa piccola rappresentazione sugli elementi, sull’acqua, e dopo un mese è venuta una nonna dicendomi che la rappresentazione di Natale è stata bellissima anche per le cose che abbiamo detto, perché se noi riusciamo a trasmetterle ai bambini sono cose che aiutano, si parlava di natura, si parlava di acqua, abbiamo fatto un progetto, abbiamo fatto una raccolta per costruire dei pozzi.

In un mondo che visto alla televisione è tutto negativo, la gente ha bisogno di esperienze positive, ha bisogno della speranza che qualcosa si può fare. Forse sarò condizionata dal mio lavoro, per me la speranza sono i bambini, concretamente sperimento che loro hanno un germe positivo, sono recettivi al bene, ad aiutarsi.

Luigi: per completare il discorso dicevo che la speranza, per trovarla, bisogna darsi il tempo di trovarla e lo vedo sostanzialmente nella mia vita. La speranza nasce dal tempo di guardare le cose con calma, cosa che io non ho mai avuta ma che dovrei cercare di raggiungere.

Sia Lorenzo che Giuseppe hanno nominato Pietro Frau, è una persona che avevo dimenticato, per chi non lo conosce, Pietro Frau è stato un ragazzo che per un certo numero di anni ci è stato vicino al Borghetto Prenestino, che passava la vita per strada, come un selvaggio, ma un uomo, poi è morto a 45 anni. L’avevo dimenticato e questo non denota bene della nostra vita; certe volte dovremmo avere la capacità di fermare i momenti, i significati, i sensi che poi uno riscopre. Un invito a cercare i tempi opportuni perché senza darsi tempo la speranza non nasce, la speranza nasce se sei capace di vedere dietro le cose, vedendo dietro questa finestrella la realtà. La speranza non è un’operazione senza sforzo, senza fatica, non è un naturale ottimismo senza pensieri, la speranza richiede applicazione e costanza.

Marco G.: La speranza si alimenta dando speranza attraverso la carità attraverso gesti concreti. Penso al monologo di Giorgio Gaber nel quale lui sogna di essere su una barca e tende la mano ad una persona che sta affogando, ma il sogno si interrompe e lui non riesce a sapere come finisce. Poi sogna di essere lui in acqua che tende la mano. Ecco è importante sapere se noi siamo disponibili a tendere la mano all’altro o se siamo noi quelli che alla fine danno il remo in testa al bisognoso. Io sono venuto qui per prendere in prestito qualche mattone per costruire la mia speranza. Per tanto tempo sono andato avanti pensando che fosse sufficiente la fede e soprattutto la carità. La mia speranza è ancora in costruzione. Penso alla Resurrezione che in un certo senso è come se Gesù l’avesse nascosta bene e noi ci sentiamo frenati, la nostra barca è traballante, perché se credessimo fermamente nella resurrezione cambierebbero totalmente il livello delle nostre angosce che incontriamo nella vita che turbano la nostra speranza e in ultimo la tragedia della morte. Ecco la speranza è di andare oltre ed in questo abbiamo bisogno di un gioco di squadra per poterci arrivare. Tante volte sembra troppo facile farsi il lavaggio del cervello, andare in chiesa, leggere la Bibbia per poter stare tranquilli e vivere finalmente con la speranza, ma sono i drammi che ti riportano sempre al dubbio, allo sconforto. Ma dietro a tutto questo io capisco che bisogna abbandonarsi ed avere fiducia, e capisco che questo nutrimento di cui abbiamo bisogno viene dalla carità. Penso alle parole del cardinale Newman: se anche avessi speso la mia vita per dare speranza ad una persona sola, la mia vita avrebbe un senso grandissimo. Io questa cosa l’ho fatta mia e la sperimento nel fermarmi un momento per gli altri…

Patrizia: Sono molto confusa, devo elaborare, ma due cose mi hanno colpito. Quando tu hai detto di esperienze però dimenticate, succede molte volte, tendo a dimenticare i fatti , la ricchezza che ho ricevuto, perché uno non si siede a riflettere, diventa ciò che vive nella vita quotidiana. Manca la leggerezza, lo staccarsi un attimino. Quando Giuseppe parlava della pesantezza di una persona, non so se parlava di me, però ne abbiamo parlato anche noi, pesantezza legata al fatto di non staccare, mentre, se si guarda da una finestrella si potrebbe capire che avvengono anche tante cose positive, che però non riusciamo a vedere. La speranza me la devo sempre ricercare, poi anche in queste occasioni, per me preziose, non devo dimenticare che quando penso di poter fare da sola, non ho speranza, invece quando capisco che non posso far da sola ma chiedere aiuto, quindi rapportarmi agli altri, , allora per me la speranza c’è. Un’altra cosa, abbiamo tanta paura della morte, quindi io non ho la fede, è ancora più difficile lasciarsi andare a questo pensiero. E quindi lasciarsi andare, e nonostante questo trovare una speranza e vederla solo se ti rapporti e fai le cose con gli altri

Sono veramente piena di questa cose, non mi era mai capitato di assistere a queste riunioni e non mancherò perché mi sento grata delle esperienze e delle parole che avete detto, la speranza è anche questo, io sono anche sola, i vostri discorsi mi hanno fatto piacere e vi ringrazio moltissimo.

Mi avete aumentato la speranza.

Maurizio: In settimana ho avuto due momenti per riflettere sulla speranza. A casa Betania , un consulente familiare che gira nelle case famiglia,ha sintetizzato con un motto un nuovo modo di guardare la vita,oggi il pensiero dominante è: mi piace quindi ne ho diritto. Per esempio l’aborto è un classico: se la donna decide che gli piace, il figlio può vivere, oppure può morire. Non si chiede se è disposta ad accoglierlo, se magari altri sono disposti. Quello che la madre vuole, è la legge per il figlio. Non a caso la politica cerca quello che piace. Diversi giovani, o tutti, fanno psicologia non in base a una ricerca di mercato, per esempio, ma perché così gli va. Questo è la negazione della speranza. La speranza è qualcosa che si deve anche costruire, giustificare,coinvolgere, non un sentimento spontaneo o che nasce un giorno, come la voglia di un gelato. Problema che sta prendendo sempre più spazio nella nostra società. Per l’aborto c’è addirittura una legge che

stabilisce nel caso della vita chi può decidere, ed è solo la madre, ed è scandaloso .E’ un “mi va ,non mi va’” stabilito dalla legge. Altra cosa, il primo capitolo del Quolet: vanità, tutto è vanità. La speranza è vanità: il sole fa sempre lo stesso giro, io lavoro tutti i giorni la terra ed è sempre uguale, non so chi erano i miei avi, tutto resta immutabile nella vita.

 

Manca la disperazione cosmica, cosa accadrà? Il sole esploderà e ucciderà ogni vita sulla terra. La terra potrà solo sparire. E non c’è altra possibilità. Sono in trepidazione per la mia nipotina di tre mesi, per altri versi una gioia immensa , a che serve? Solo la fede, collegata a speranza e carità, solo la fede può animare la speranza e solo la speranza può animare la fede. Quando abbiamo un sentimento interiore che ci porta a vivere per la giustizia, il benessere, per il futuro, questo viene dalla fede, perché non c’è altra giustificazione alla speranza che non sia la fede e viceversa, che al di là delle nostre certezze il mondo possa andare avanti.

Francesco: Non è che il mondo sia molto migliorato . Abbiamo acquistato ma anche perduto capacità.

Patrizia: Dalle nostri parti il mondo è migliorato. Mia nonna non poteva fare nulla se prima non lo chiedeva a mio nonno, e la trattava molto male .

Se penso a quello che posso fare io adesso e anche la capacità limitata se vogliamo che ho di poter pensare alle cose, ai miei, c’è stato un grande miglioramento. Poi ci saranno stati anche dei

peggioramenti . Penso per noi, poi nel resto del mondo non sarà la stessa cosa. Abbiamo un paradiso qui. . Mio padre che ha 86 anni dice “cosa vuoi, noi abbiamo un paradiso qui.” Ed è così.

Francesco: I guaranì, quando tagliano un albero gli chiedono scusa. Noi siamo migliori? Per questo, per un verso siamo progrediti, per un altro meno. Questa condizione di benessere. Tante persone cercano un recupero di benessere per la propria vita.

Tina: Io trovo la speranza quando sono a tavola prima di dire la preghierina, con mia figlia, mio genero e i miei nipotini, Nicola dà la mano per dire padre nostro e questo mi riempie il cuore. I bambini sono il nostro futuro, no? Il domani è Nicola che dà la mano senza che nessuno glielo chiede, perché lo vede fare, è per me importante. Mi ha commosso tanto. Flash, Liliana, mia figlia, ha un tavolo come questo, il pomeriggio i bambini vanno a fare i compiti da diverso tempo. Uno di questi, più grande, aiutava un altro delle elementari a fare matematica: non è più mia figlia soltanto, ma si aiutano tra di loro. I giovani di oggi, sono stata a Lourdes e

Ho visto che sono una marea quelli che aiutano. Anche al pranzo di natale, con la comunità di S. Egidio, siamo andare per aiutare anziani, poveri, barboni, ma abbiamo dovuto sederci perché c’erano tanti giovani a servire. Ho dovuto fare la parte dell’assistita!

Parlando della speranza, io della morte non ho paura. Perché mi è mancata la mia bambina, la mia speranza è andarla a trovare.

Franco: Avete dato tantissimi spunti, è la vita al di là delle teorie. Non vorrei cominciare con un discorso di fede. Da bambino mi hanno educato alla fede, non ho mai capito perché questo Gesù dovesse essere Dio, il figlio di Dio, mancano le cerchiamo, reagiamo con forza per ottenerle se ce le tolgono. Una cosa che ci serve è il bene. Non so cos’è e non voglio definirlo, ma ci serve. E’ necessario a tutti, come l’aria: tanto più manca tanto più ci serve. Il bene, maturando, non riguarda me come individuo. Il mio bene non è il mio bene, ma quello di tutti. Credo che così sia molto laico, Dio non c’entra. La ricerca del bene personale mi ha portato di nuovo a incontrare Gesù. Significa che cercando il bene , rimanendo umili, nessuno come lui è capace di spiegarmi cos’è il bene e come lo si raggiunge, al punto che parlando di morte, è un semplice passaggio, non fa né caldo né freddo. Quello che Gesù mi dice è talmente importante che io posso rinunciare a tutto il resto. “ non di solo pane vivrà l’uomo, ma della parola di dio”. Questa è una cosa vera, si vive della parola di dio, non teorizzare, ma vivere con questa presenza, che mi fa fare cose che non avrei mai fatto. Due episodi. Tanti anni fa, mio suocero, ora morto, era ricoverato al Casilino. Nel letto al suo fianco c’era un altro ricoverato, immobile, che non poteva prendere il cibo. Io sono rimasto fermo, non ho mosso un dito per aiutarlo. Non gli davo neanche uno sguardo, se non con la coda dell’occhio. Durante la preparazione alla comunione di mio figlio due signore dicono che vanno al Casilino per fare volontariato. Ho capito che allora esisteva amore, amicizia, altruismo, e ho ripreso a pensare a Gesù. Da circa dieci anni faccio anche io volontariato lì. Giovedì sera in una stanza c’era una signora sofferente, quasi ripugnante. Il primo istinto era quello di scappare. Poi sono entrato, ma non si capivano le sue risposte. L’ho sollevata per sistemarsi meglio. Le ho preso la mano, l’ho accarezzata, e il suo sguardo era luce.

La speranza è vedere queste cose, il bene negli altri e anche nella sofferenza essere capaci di guardare gli altri.

Micaela: La speranza anch’io l’ho considerata sempre legata alle altre virtù teologali. La speranza era però l’ultima per interesse. Ho sempre sentito la carità come fondamento e cuore pulsante di tutto. Ma riflettendo sulla speranza ne ho imparato la bellezza. Prima di tutto mi sono chiesta: quale speranza? Speranza DI o speranza IN? Perché credo sia diversa la speranza che ha un oggetto, dalla speranza che si custodisce nell’anima come in uno scrigno. Quella che si avverte in giro oggi è legata a contingenze, spesso è molto concreta: è speranza DI. Mi sono fermata a pensare quale sia la mia speranza DI, ossia quale oggetto abbia la mia speranza. Se mi domando cosa spero

oggi, il primo pensiero che viene in mente è: che la mia famiglia viva in armonia. Ma non mi basta, la famiglia è solo una base di partenza, sento di sperare molto di più.

Io spero, fondamentalmente, di amare. Spero di arrivare a scovare in ogni persona intorno a me un po’ di amore. Quando doveva nascere Letizia, tutti mi dicevano: ah che bello! è femmina? …l’importante è che stia bene. Io dicevo: no, l’importante non è che stia bene, l’importante è che ci amiamo… Non si può pretendere la salute…si nasce, si cresce, se va bene si invecchia, e poi si muore. L’unica cosa che posso realisticamente sperare e, più ancora, devo pretendere, è l’amore. Perché l’amore dipende da me, ed è forse l’unica cosa che fa scoprire senso pure di fronte alla malattia e alla morte. Questa speranza mi aiuta a cercare negli altri la bellezza, mi rende più felice, mi permette di assaporare la vita. E mi permette di entrare in un contatto più profondo con gli altri, trovando una nuova fonte di speranza: ogni volta che le persone si confrontano su qualcosa che abbia valore, che abbia un senso, si vivifica la mia speranza di amare. Quante volte trovo e contemplo la bellezza racchiusa nell’altro! e imparo da ogni sguardo, da ogni movimento, ogni silenzio, ogni parola.

Ma questa speranza può indurre in errore: quando spero di amare, mi fondo sulla mia idea di amore, che è parziale e facilmente deformabile. Mi accorgo che non mi basta più la speranza DI. Questa mia speranza ha bisogno di un depositario, di qualcosa che non la lasci disperdere in modo stupido, superficiale o deviante. Mi occorre la speranza IN. Purtroppo io non so trovare speranza al di là di Dio e fuori di Dio. Ciò non vuol dire che non la trovi in tutte le persone che non credono: ho la fortuna di avere amici profondi, con una visione del mondo diversa dalla mia; io però (sarà deformazione religiosa!) tutto ciò che di bello trovo in loro, lo ritrovo in Dio. Penso ad un versetto nel De Profundis: io spero in Dio, l’anima mia spera nella sua parola. La mia speranza è IN Lui. Spero in Lui perché non mi sono mai sentita abbandonata, nonostante spesso mi senta sola. Ogni istante che apro la mia anima per accoglierlo, Lui questo istante lo inonda di senso…e così trova senso tutta la mia vita. La mia ricerca d’amore nei fratelli non è che una ricerca cosciente e rispettosa dei capolavori unici che vivono in ognuno. Cerco questa bellezza sapendo di trovarla, perché ho speranza nel segno che Dio lascia in ogni persona. Nella comunione con gli altri vivo la speranza. In questo ho ritrovato tutto quello che ho sentito da voi sulla comunità e la comunione. E vivo la speranza anche nella Comunione con Dio: ci sono momenti in cui Dio non si sente, l’amore per Dio rimane ma non viene avvertito. Allora cerco la bellezza di Dio dentro di me, e trovo che rimane sempre luminosa, salda, la speranza. In questo senso comprendo il secondo versetto del De profundis: “l’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora”. Sperare e attendere sono sinonimi. Ciò che spero è ciò che attendo con tutta l’anima, e sperando in Dio attendo Lui. Ecco perché Gesù dice “vegliate!”. La speranza vigile, secondo me, è sintonizzarsi su ciò che rivisita la nostra vita. Questa è la speranza che mi tiene in vita. Anche nella notte, anche nel silenzio vuoto. E lo so perché ho sperimentato l’alba dopo ogni notte che ho vissuto. Certo, ho avuto la fortuna di non provare le tragedie che colpiscono molte persone, però nella mia vita ho vissuto drammi considerevoli in relazione al mio vissuto; ma ho trovato sempre una risposta, illuminante proprio come l’alba dopo la notte…E quasi tutte le volte non dipendeva da me l’alba che sorgeva: dipendeva solo dalla mia capacità di guardarla, di affacciarmi alla finestra per vedere. E mi sono affacciata alla finestra della mia anima, solo perché ho sperato di trovare risposta in Lui.

Ora non so se importa più cosa io speri o in chi speri. So che, nonostante non sempre io ami la mia vita, persiste sempre la speranza, e sostiene ogni mio passo. Una speranza viva, mossa dalla fede e attratta invincibilmente dalla carità.

Giuseppe: C’era un amico che diceva: ci sono momenti nella vita, ed è questo, in cui bisogna sedersi sulla porta di casa, smettere di fare quello che si sta facendo e guardare alla vita che uno ha trascorso. Forse bisogna anche superare il dualismo fra chi aiuta dalla barca e chi sta affogando, perché per esperienza mi sono reso conto che nei momenti della mia vita in cui – penso ad uno in particolare – stavo affogando ho ricevuto e ho dato aiuto ad altri che stavano affogando come me, nel senso che sono riuscito ad aiutare e a ricevere, e nella stessa maniera in un’altra occasione ricevere da una persona che non poteva farlo.

 

Maria Dominica: La storia che leggiamo nel primo testamento della bibbia è la storia di un popolo che ha avuto il tempo di riflettere sulla sua storia… e quindi anche per questo è così ricca di spunti… E poi non avevo pensato al contrario della speranza come paura… C’è il salmo 40, quello che preferisco, in cui il salmista dice: “sacrificio e offerta non gradisci… olocausto e vittima per la colpa, allora io ho detto; ecco, io vengo”, cioè io seguo te proprio perché mi liberi da tutto questo. E poi dice ancora: “sul rotolo del libro di me è scritto che io faccia il tuo volere, e questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore. Ho annunziato la tua giustizia nella grande assemblea”. Ma non mi ricordavo che il salmo inizia proprio: “ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido”.

I contributi: quali le ragioni della nostra speranza?

Piccola Sorella Rosetta: Credo che fermarci a riflettere su ciò che rappresenta per noi oggi un cammino di SPERANZA sia particolarmente significativo e occasione di offrirci reciprocamente motivi di fiducia.

Il 1° motivo di speranza lo ritrovo chiaramente in Gesù di Nazaret che dopo aver condotto una vita di relazione, semplice e quotidiana  per 30 anni, dà ragione della sua speranza ( a quanti glielo chiedono) e la fonda sull’unità col PADRE. Il suo rapporto di intimità é tale che nelle situazioni di rifiuto e di conflitto e contraddizione rimane fiducioso sapendo che é nel Padre che troverà compimento la storia di ogni creatura e dell’umanità tutta. Nell’ abbraccio del Figlio al Padre mediante lo Spirito  ci potremmo ritrovare pure noi quando entriamo nella sua logica di gratuità di dono abbandonando tutte le pretese e le arroganze che la nostra autonomia reclama e avanza;

Un altro motivo di speranza me lo ritrovo frequentemente e molto vivo quando guardo la vita di Fr. Charles. L’ irruzione di Dio nella sua vita sveglia in Fr. C. la sete di un’esistenza che abbia senso.

“Tu  hai pietà di tutti, perché tu puoi tutto, tu chiudi gli occhi di fronte ai peccati degli uomini perché si pentano” Dice il libro della Saggezza. DIO é paziente. Attende il momento favorevole.

Per Fr. C. questo Gesù incontrato, contemplato, ricercato, nelle lunghe ore di meditazione a Nazaret, gli verrà incontro nel modo più concreto e meno romantico a Beni Abbes ed all’Oggar attraverso i piccoli e gli esclusi coloro che non hanno posto nella società. Egli lo incontra in coloro che non  condividono né il suo universo religioso né la sua cultura.  Dedicherà loro il suo tempo e le sue energie incarnandosi il più possibile nel farsi prossimo e raggiungere quell’ultimo posto che è sempre occupato dal suo “Amatissimo Fratello e Signore Gesù”. Animato dal fuoco del Vangelo tace nel rispetto infinito dell’altro scoprendo che è attraverso la propria vita che egli è chiamato a gridare il Vangelo.

Chi mai avrebbe intravisto un tale cammino di fede? L’altro ieri,  quando sono andata a salutare, là dove ho lavorato,  un’amica volontaria presente a 3 anni nel Centro per persone non vedenti mi diceva con particolare gioia; “Lo sai che F. mi ha chiesto se ogni settimana gli leggo e commento la Parola di Dio della domenica!  Mi sembra un sogno!    F. è un uomo di 75 anni che si è sempre dichiarato agnostico.

Vivere la speranza per me oggi vuol dire credere che c’è nella creazione come nell’essere umano e nella stria, un tale germe di bene da provocarmi a cercarlo o riconoscerlo e valorizzarlo o

dargli lo spazio che reclama coinvolgendomi nell’opera che procede verso la compiutezza. Oggi a volte Dio sembra non abbia posto nella società: è un po’ la tappa del sabato santo. Se sappiamo pazientare e restare attivi nel silenzio che si fa ascolto,  prossimità, intercessione possiamo giungere al mattino di Pasqua per cantare insieme l’Alleluia del Cristo Risorto.

SPERARE E’ CONTINUARE A PREGARE ANCHE NELLA DISPERAZIONE.

Michele Pennisi: piccole iniziative per educare le persone: Per essere concreto vorrei citare alcuni piccoli segni che si stanno realizzando nella nostra diocesi di Piazza Armerina. A Gela è sorta la Casa del volontariato, nata dalla collaborazione tra un centro di servizi per il volontariato e i gruppi giovanili ecclesiali. Si è realizzata una sinergia tra istituzioni civili ed ecclesiali, per un progetto educativo che serva a costruire una città solidale. La prima sperimentazione è stata una manifestazione denominata «10 mila passi per Gela» in cui migliaia di ragazzi hanno messo una firma con l’impegno a contrastare la mafia e l’illegalità. Una seconda iniziativa è la costituzione di una cooperativa sociale in collaborazione con le ACLI che ha avuto assegnato un terreno confiscato alla mafia e che fa lavora re anche alcuni ex carcerati. Una terza iniziativa è il «Polo di eccellenza Luigi e Mario Sturzo» in collaborazione con il Rinnovamento nello Spirito che, in un fondo donato alla diocesi dai fratelli Luigi e Mario Sturzo, attraverso una fondazione diocesana si occupa del reinserimento sociale dei carcerati at traverso la riscoperta della fede, il lavoro, la cultura e la fa miglia.

A Pietraperzia la Comunità Frontiera, animata dal padre francescano conventuale Giuseppe De Stefano, ha realizzato un centro giovanile e sta progettando una città dei ragazzi che interesserà anche il comune di Barrafranca.

A Gela e a Niscemi alcuni ragazzi difficili o ex baby mafiosi vengono seguiti nel progetto «Cieli e Terra nuova» promosso dalla Caritas con attività di catechesi, di recupero scolastico e di formazione professionale. Nel carcere di Enna nel reparto dell’alta sicurezza un gruppo di detenuti sta compiendo un cammino di fede animato da una comunità neocatecumenale.

Per sconfiggere questa barriera invisibile contro cui si infrangono i discorsi ufficiali, le denunzie morali, le prese di posizione istituzionali, è necessario un lavoro lungo, lento, capillare, volto a educare più che a reprimere, a far capire, più che a promettere o minacciare, ad aprire prospettive nuove più che a dissertare su misure straordinarie. Per battere le mafie bisogna educare la gente, e per educare la gente bisogna essere convincenti. In famiglia, a scuola, in parrocchia, dev’essere possibile accompagnare le parole con l’indicazione di esempi efficaci; bisogna poter additare uomini e donne rappresentanti di una classe dirigente che non si ripiega su se stessa e sui propri interessi, lasciando il popolo al proprio destino, ma condivide davvero i problemi di tutti. Solo così il bene comune cesserà di essere un’elegante astrazione, buona per abbellire discorsi di circostanza, e diventerà un valore condiviso anche dalla gente comune. E la criminalità organizzata quel giorno avrà davvero perduto la sua triste battaglia.

In questo momento storico, in cui vari imprenditori hanno avuto il coraggio di denunziare «il pizzo» e in cui vari appartenenti alla mafia sono stati catturati o uccisi, è necessaria una collaborazione fra i vari settori della società civile (imprenditori piccoli e grandi, sindacalisti, insegnanti, giornalisti), la Chiesa in tutte le sue articolazioni e le pubbliche istituzioni (magistratura, forze dell’ordine, amministratori locali, politici), ognuno nelle sue specifiche competenze senza confusioni di ruoli, per contrastare il fenomeno mafioso nella fondata speranza che la mafia può essere, se non definitivamente debellata, almeno significativamente ridimensionata e comunque isolata dal punto di vista morale e civile. Verso questa direzione ci sono alcuni semi che bisogna far germogliare con la collaborazione di tutti.

Taormina, 4 aprile 2008.

MICHELE PENNISI, vescovo di Piazza Armerina

All’inizio dell’avventura che sta vi vendo il vescovo Pennisi c’è la mancata celebrazione nella chiesa madre di Gela del funerale di un capo della mafia. Seguono voci di protesta contro il vescovo che così ha stabilito, accettando un’indicazione del Comitato per l’ordine pubblico. In riferimento a quel fatto, come alla denuncia del pizzo da parte di imprenditori e all’arresto di latitanti, il vescovo pubblica sul settimanale della diocesi l’appello: «Mafiosi, convertitevi!».

Tre mesi più tardi un presunto capo della mafia locale rivendica cittadinanza nella Chiesa scrivendo in una lettera aperta che «nella vita si può anche sbagliare», ma «Dio c’è per tutti, anche per i mafiosi ». Il vescovo dice che «sì, c’è misericordia per tutti, ma dev’esserci anche penitenza, espiazione della pena, riparazione del danno arrecato». E riafferma «l’incompatibilità dell’appartenenza alla mafia e alla Chiesa>’.

E forse la prima volta — a 25 anni dall’omelia di Sagunto del card. Pappalardo e a 15 anni dal grido del papa dalla Valle dei Templi di Agrigento — che la fatica di staccare la Chiesa dalla mafia si segnala in maniera tanto significativa nel vissuto ordinario di una comunità locale, e il merito è di un vescovo che non ha grilli per la testa, ma non ha neanche paura e applica alla situazione in cui (vive le indicazioni venute da Roma e quelle elaborate dall’episcopato siciliano. Nel dicembre2007 quando il clan Emmanuello progetta un grandioso funerale nella chiesa madre del paese: vorrebbero l’ingresso solenne del feretro in città accolto sul sagrato da una quantità di corone di(fiori, la bara alzata sulle braccia dei congiunti per il rito mafioso dell’esaltazione. Le autorità — seguendo un protocollo ormai consolidato — proibiscono quella celebrazione. La famiglia si appella al vescovo perché non «sottometta la Chiesa allo stato», ma il vescovo rispetta la decisione presa in sede civile e incarica un padre francescano di celebrare il funerale nella chiesa del cimitero.

Il vescovo Pennisi, 61 anni, viene dal clero della vicina Caltagirone e ha fatto gli studi a Roma, alunno del Capranica.

Il boss del funerale è il gelese Daniele Emmanuello, latitante da 11 anni, ucciso il 3 dicembre dalla Polizia nelle campagne di Villarosa (Enna) durante un tentativo di fuga dal casolare dove si nascondeva.

Il boss che rivendica cittadinanza nella Chiesa è Carmelo Barbieri, detto «u prufissuri», anch’egli di Gela.

Chiudiamo ricordando quel che Andrea Trebeschi scrisse poco prima di essere portato a Dachau, e di morirvi, 65 anni fa:

«Se il mondo fosse monopolio dei pessimisti sarebbe da tempo sommerso da un nuovo diluvio; e se oggi la tragedia sembra inghiottirci, si deve alla malvagità di alcuni, ma soprattutto all’indifferenza della maggioranza. Il “credo” di troppa gente non ebbe, fin qui, che due articoli: “non vi è nulla da fare”, “tutto ciò che si fa non serve a nulla”. Quel che importa è che ognuno, secondo le proprie possibilità e facoltà, contribuisca di persona alle molte iniziative di bene, spirituale, intellettuale e morale. Un mondo nuovo si elabora. Che sia migliore o ancor peggio, dipende da noi».

La situazione di S. Leone a Boccea: quali nodi per la Chiesa romana?

S. Leone è una rettoria, affidata ai Padri Concezionisti, di cui P. Giovanni Cazzaniga è il rettore.

In questa chiesa è cresciuto un gruppo di laici che dal post-Concilio si è ritrovato settimanalmente con don Raffaele Buono per una lenta ma continua lettura biblica sempre più responsabile; la Parola e l’eucaristia domenicale li hanno posti di fronte ai poveri ed alla povertà personale e mondiale e gradualmente sono nati vari rami da questo albero:

  • La colazione del sabato mattina per i più poveri, fatta di accoglienza e rispetto; il Centro ascolto; la distribuzione di viveri e di vestiti;
  • La nascita di La.Va. (Lavoro Vagabondo), una Associazione di volontariato capace di dare lavoro a chi, rimasto senza, aveva perduto ogni dignità; servizio docce; assistenza legale;
  • Il giornalino di strada “Il Barbone Vagabondo”, per raccontare e conoscere la realtà di chi vive in strada;
  • Il Gruppo di solidarietà internazionale; campi di lavoro estivi; animazione interculturale nelle scuole del quartiere.

Di fronte a questa situazione P. Giovanni, con decorrenza luglio 2009, ha deciso di chiudere queste attività, per “poter aprire ai lontani”…?!

Il vescovo di settore, interpellato varie volte dalla comunità, ha fatto intendere che, per Diritto Canonico, non può intervenire nelle decisioni di una congregazione.

La complessità che ci presenta tale situazione è davvero enorme, accenniamo appena:

  • Quale centralità hanno i poveri in una comunità cristiana?
  • Quale relazione esiste tra Vangelo e Diritto Canonico?
  • Che ne è del Vescovo di Roma?
  • Quale funzione ha il vescovo di settore rispetto ad una comunità gestita dai religiosi?
  • Quale reale corresponsabilità abbiamo noi laici?

– Si può fare un’analisi sul tema: “Appartenenza ecclesiale e corresponsabilità pastorale” e ancora su: “L’eucaristia domenicale e la testimonianza della carità” a prescindere da quanto effettivamente accade nella chiesa locale?

Abbiamo solo accennato alla complessità della vicenda di S. Leone, intanto vi chiediamo di contribuire ad approfondire questi interrogativi, guardando le realtà nelle quali viviamo. Vi torneremo sopra.

Aspettiamo un tuo contributo.

(Se vuoi, puoi approfondire leggendo: Giovanni Crisostomo Liturgia delle ore, Ufficio delle letture Ventunesima settimana del Tempo ordinario – Sabato)

Nota di servizio: anche questa lettera è stata spedita con il nuovo indirizzario abbiamo provveduto a correggere errori a fare qualche cancellazione e qualche inserimento, ma chi si trovi inserito senza desiderarlo ci scusi, basta una comunicazione e provvederemo a cancellare l’indirizzo. Chi invece viene a conoscenza di questa lettera e vuole riceverla ce lo faccia sapere. Come sempre sono gradite segnalazioni di indirizzi di persone interessate.

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